Archivio del Tag ‘dollaro’
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Pelanda: il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue
Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.Non sarà facile, perché ciò implica un’inversione imbarazzante dei leader della maggioranza dai loro linguaggi che disprezzano i “numerini” e antagonizzano l’Ue. Ma il Quirinale sembra aiutarli, guidando Conte e Tria nel negoziato con la Commissione, ad arrendersi senza perdere la faccia. Bene che vada, comunque, la politica economica risultante comporterà stagnazione. Pertanto l’inversione della tendenza recessiva nel 2019 dipende dalla ripresa della domanda globale, cioè dell’export. La tregua nella guerra dei dazi concordata tra America e Cina sabato sera fa tornare un certo ottimismo che, se produttiva di un accordo pur nel confronto geopolitico duraturo tra le due potenze, stimolerà nuovamente gli investimenti. Altrettanto importante per l’industria italiana è l’accordo tra America e Germania, di cui è fornitrice, per evitare dazi sull’export europeo. Trump vuole un trattato di libero scambio simmetrico e bilaterale con l’Ue che, però, mette in grave difficoltà il modello protezionista europeo. Questo è un motivo in più di riconvergenza rapida dell’Italia con l’Ue allo scopo di contribuire a un compromesso con l’America, interesse vitale per Roma e Berlino, ma che Parigi non vuole.(Carlo Pelanda, “Così il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue”, da “Il Sussidiario” del 2 dicembre 2018. Politico ed economista, Pelanda è specializzato in studi strategici e scenari internazionali ed economici. Insegna scienze politiche e relazioni internazionali alla University of Georgia di Athens, ed è co-direttore di Globis (Centro per gli studi globali) presso la medesima università. In Italia è editorialista de “Il Foglio”, “Libero”, “La Verità”, “L’Arena” e “Il Sussidiario”. Fa parte della Fondazione Italia-Usa. In campo politico, si legge nel suo profilo su Wikipedia, Pelanda è portatore dell’ideologia liberista, «ma con la consapevolezza che la libertà è conseguenza di un investimento di qualificazione della società e va organizzata entro istituzioni che la difendano». In generale, propugna l’idea di “nuovo progresso” basato sulla fiducia che tecnologia e conoscenza siano i risolutori più potenti dei problemi della condizione umana. Fin dal 2007, con il saggio “La grande alleanza”, ha avvertito che è ormai in via di esaurimento il sistema di governo mondiale centrato sul predominio degli Stati Uniti, sul dollaro e sui criteri occidentali nelle istituzioni internazionali. Pelanda propone «un nuovo soggetto di governance globale che non sia il G-20, o analogo tavolo di potenze troppo diluito, ma un’alleanza tra le democrazie fondata sulla convergenza euroamericana»).Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.
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L’euro, fake news monetaria: usciamone, senza farci male
Settimanali e quotidiani hanno iniziato una campagna terroristica per descrivere come e qualmente questo paese sprofonderebbe nel più nero degli abissi se dovesse uscire dall’euro, unico scudo della nostra malandata economia. Si tratta di una delle operazioni più in malafede che si siano mai viste che si basa su serie di fake news. Ragioniamo cominciando dal principio. In primo luogo un fatto incontrovertibile: l’euro è un esperimento fallito, sic et sempliciter. Quando si decise di realizzare la moneta unica, si indicarono questi obbiettivi: 1. dare un forte impulso alla convergenza delle economie nazionali dell’Unione avvicinandole fra loro; 2. fare della moneta la premessa di una rapida unione politica del continente; 3. disporre di una moneta fortissima che rappresentasse una alternativa al dollaro negli scambi internazionali; 4. consentire ai paesi più indebitati di risparmiare sugli interessi, potendo giovarsi di una moneta forte e stabile. Ebbene: nessuno dei primi tre obiettivi è stato minimamente raggiunto, anzi, le economie nazionali sono sempre più divergenti e nell’Unione politica non crede più nessuno, salvo le giaculatorie di rito che promettono il contrario.Quanto alla rivalità con il dollaro, ci sarebbe voluta una classe politica di ben altro coraggio e, di fatto, l’euro è diventato piuttosto un puntello dell’egemonia della moneta americana. Unica cosa parzialmente vera, e solo per i primi dieci anni, è stato l’abbassamento dei tassi sul debito: purtroppo i paesi debitori (Italia e Grecia in testa) non hanno approfittato della cosa per far scendere il proprio debito, ma come un incitamento ad aumentare spese e indebitamento, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. In compenso i costi sono stati assai maggiori dei rari benefici (come il risparmio sul cambio monetario intraeuropeo): una decadenza della capacità decisionale dei governi nazionali con il trasferimento della sovranità monetaria da una tecnostruttura totalmente sganciata dalle procedure democratiche, la crescente invadenza della tecnocrazia europea sensibile alle sollecitazioni della rete lobbistica, l’impoverimento delle economie più deboli (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo) private della manovra sul cambio, conseguente organizzazione disegualitaria e gerarchica dell’Unione a dominante tedesca e via di questo passo.Dunque esperimento fallito da superare, anche se il fondamentalismo finanziario delle classi dirigenti mondiali impedisce di prendere atto del fallimento. E questo spiega in buona parte l’insorgenza populista che sta travolgendo l’Europa. Dunque pensare al superamento dell’euro è cosa di buon senso. Detto questo, c’è modo e modo di farlo, e ci sono due problemi. In primo luogo chiediamoci: superare l’euro per fare cosa? Non è detto che l’unica alternativa sia il ritorno allo “statu quo ante” delle singole monete nazionali non coordinate fra loro: potrebbe esserci il ritorno alle singole monete ma nel quadro di un nuovo Sme debitamente ripensato, oppure la suddivisione dell’euro in due o tre monete –come proponeva una decina di anni fa Zingales – per gruppi più omogenei di paesi (gruppo nordico, gruppo mediterraneo e magari gruppo dell’Est), oppure ancora forme di doppia circolazione monetaria, magari mantenendo l’euro come unità di conto di monete locali in rapporto riaggiustato annualmente. Insomma le soluzioni possono essere diverse, tutte da discutere valutando i possibili vantaggi e svantaggi.In secondo luogo si pone il problema di come giungere al nuovo ordinamento. Sono da escludere colpi di mano unilaterali, che sarebbero molto pericolosi: questo è il modo migliore di farsi male. Da un ordine monetario non si esce come da una festa da ballo, salutando tutti ed uscendo ciascuno per proprio conto. Il sagace ideatore della moneta fece molto male a non ipotizzare nel trattato istitutivo un possibile recesso nel caso il loro esperimento non avesse funzionato, ma adesso sarebbe molto meglio iniziare a discuterne prima che il tetto ci caschi in testa. Aspettare ancora potrebbe essere altrettanto pericoloso che decidere in modo unilaterale, perché se si arrivasse al punto di non ritorno si potrebbe scatenare un “si salvi chi può” che sarebbe la soluzione peggiore di tutte.(Aldo Giannuli, “Se usciamo dall’euro: tra realtà e terrorismo informativo”, dal blog di Giannuli del 4 novembre 2018).Settimanali e quotidiani hanno iniziato una campagna terroristica per descrivere come e qualmente questo paese sprofonderebbe nel più nero degli abissi se dovesse uscire dall’euro, unico scudo della nostra malandata economia. Si tratta di una delle operazioni più in malafede che si siano mai viste che si basa su serie di fake news. Ragioniamo cominciando dal principio. In primo luogo un fatto incontrovertibile: l’euro è un esperimento fallito, sic et sempliciter. Quando si decise di realizzare la moneta unica, si indicarono questi obbiettivi: 1. dare un forte impulso alla convergenza delle economie nazionali dell’Unione avvicinandole fra loro; 2. fare della moneta la premessa di una rapida unione politica del continente; 3. disporre di una moneta fortissima che rappresentasse una alternativa al dollaro negli scambi internazionali; 4. consentire ai paesi più indebitati di risparmiare sugli interessi, potendo giovarsi di una moneta forte e stabile. Ebbene: nessuno dei primi tre obiettivi è stato minimamente raggiunto, anzi, le economie nazionali sono sempre più divergenti e nell’Unione politica non crede più nessuno, salvo le giaculatorie di rito che promettono il contrario.
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Galloni ai gialloverdi: come assumere 1 milione di giovani
Incombe una nuova crisi finanziaria, si aggraverà l’emergenza migranti, la Germania inizierà a sfilarsi dall’euro e l’Italia sarà nei guai senza più il “quantitative easing” garantito dalla Bce. Queste, per l’economista Nino Galloni, sono le vere mine sulla strada del governo gialloverde: senza una moneta parallela, fiscale, non sarà possibile andare lontano. La questione Tav in valle di Susa e le nomine Rai? Vengono enfatizzate e dipinte dagli avversari del governo quali prove dei contrasti interni e dei problemi della nuova maggioranza. In realtà, per Galloni, si tratta di tempeste in bicchieri d’acqua e, semmai, di sintonia futura. Certo, tutto può sempre accadere, persino tra qualche mese salti tutto, di fronte alle difficoltà proprie della legge finanziaria. Tuttavia la previsione che Galloni affida a “Scenari Economici” è diversa. «L’attuale cambiamento è importante ed irreversibile, sebbene varie questioni adesso in ballo rilancino la prospettiva di un’alleanza strategica tra Pd e Forza Italia», cosa che, beninteso, «rafforzerebbe quella fra gialli e verdi». Ma, se il governo supererà le tante “tempeste nel bicchiere” e anche la primavera 2019, dovrà affrontare le quattro grandi sfide che accompagneranno l’Europa. La prima? Sarà «la crisi finanziaria globale che seguirà l’allineamento della Bce sulle posizioni più restrittive della Fed e l’aumento dei tassi d’interesse che, col rafforzamento insensato del dollaro, costringeranno Trump ad insistere coi dazi».La crescita del Pil Usa, spiega Galloni, è stata tutta dovuta all’acquisto di merci Usa prima dell’introduzione dei dazi stessi. A questo si aggiungerà «l’aggravarsi e l’estendersi del problema immigrazione dall’Africa occidentale», un disastro che diventerà catastrofico, a medio termine, «se non si interverrà efficacemente sulle carestie locali, di origine climatica». Terzo guaio in arrivo: «Nella seconda parte del 2019 la Germania potrebbe cominciare a sfilarsi dall’euro per guardare di più verso Est». Attenzione: «Senza Qe e con un possibile declassamento del rating – sostiene Galloni – l’Italia si troverebbe in serie difficoltà, a meno di non introdurre valute parallele, minibonds o certificati di credito fiscale». Una strettoia serissima: «La possibilità che sia la Bce a fornire denaro allo Stato contro i titoli che le banche ordinarie non potessero più assorbire – spiega l’economista – è legata al commissariamento del paese», addirittura. Quarta calamità in arrivo, lo squilibrio tra domanda e offerta, nel mercato del lavoro: «Il sistema sta domandando sempre meno lavoro nei comparti redditizi, mentre in quelli dove l’occupazione dovrà crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), i costi – cioè il lavoro necessario – sono superiori al fatturato; quindi, alle condizioni del mercato non sono gestibili».Ecco la grande sfida che abbiamo di fronte, secondo Galloni, vicepresidente del Movimento Rooseelt: si tratta di «coniugare reddito di cittadinanza, riduzione delle tasse, maggiore libertà di azione per le piccole imprese, sicurezza e riqualificazione (ma non ridimensionamento!) dei compiti dello Stato». Finora, spiega, queste cose sono state rappresentate come alternative tra loro; adesso, invece, «bisogna trovare energie e risorse per realizzare qualcosa di nuovo e di assolutamente necessario». Le energie? Loro: i giovani disoccupati, laureati e diplomati. E le risorse? Basterà «l’emissione di un 2-3% di Pil di moneta sovrana non a debito a sola circolazione nazionale, non convertibile». Esempio: «Con l’equivalente di 25 miliardi di euro (pari all’1,5% del Pil) si potrebbe assumere un milione di giovani a 1.500 euro al mese per un anno». Obiettivo necessario, che «getterebbe nuova luce sul tema del reddito di cittadinanza e riqualificherebbe l’equilibrio di bilancio in rapporto alla riduzione della pressione fiscale». La moneta non a debito, infatti, «ha segno algebrico opposto a quello della spesa: e così il cambiamento sarebbe fattibile e possibile».Incombe una nuova crisi finanziaria, si aggraverà l’emergenza migranti, la Germania inizierà a sfilarsi dall’euro e l’Italia sarà nei guai senza più il “quantitative easing” garantito dalla Bce. Queste, per l’economista Nino Galloni, sono le vere mine sulla strada del governo gialloverde: senza una moneta parallela, fiscale, non sarà possibile andare lontano. La questione Tav in valle di Susa e le nomine Rai? Vengono enfatizzate e dipinte dagli avversari del governo quali prove dei contrasti interni e dei problemi della nuova maggioranza. In realtà, per Galloni, si tratta di tempeste in bicchieri d’acqua e, semmai, di sintonia futura. Certo, tutto può sempre accadere, persino tra qualche mese salti tutto, di fronte alle difficoltà proprie della legge finanziaria. Tuttavia la previsione che Galloni affida a “Scenari Economici” è diversa. «L’attuale cambiamento è importante ed irreversibile, sebbene varie questioni adesso in ballo rilancino la prospettiva di un’alleanza strategica tra Pd e Forza Italia», cosa che, beninteso, «rafforzerebbe quella fra gialli e verdi». Ma, se il governo supererà le tante “tempeste nel bicchiere” e anche la primavera 2019, dovrà affrontare le quattro grandi sfide che accompagneranno l’Europa. La prima? Sarà «la crisi finanziaria globale che seguirà l’allineamento della Bce sulle posizioni più restrittive della Fed e l’aumento dei tassi d’interesse che, col rafforzamento insensato del dollaro, costringeranno Trump ad insistere coi dazi».
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Dignità o velleità: moneta di Stato per le riforme gialloverdi
Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).E’ a tali principi che devono essere rivolte, pertanto, la pubblica attenzione, la critica scientifica, la denuncia sociale ed etica, e l’azione politica riformatrice. Primo principio: la funzione, che è politica e sovrana, quindi pubblica, di creare la moneta, cioè il capitale finanziario, è esercitata da soggetti privati, come pure quella di collocarla e di stabilire rating, tassi etc., e ciò viene fatto secondo la loro privata convenienza di profitto, senza responsabilità verso l’interesse generale. Secondo principio: i capitali, le merci e le imprese si spostano più o meno liberamente intorno al mondo, perlopiù senza barriere daziarie o di contingentamento; questo pone i lavoratori dei paesi occidentali in concorrenza con quelli di paesi che applicano condizioni di sfruttamento radicale dei lavoratori anche in fatto di previdenza e di antiinfortunistica; contemporaneamente, l’immigrazione di massa li pone altresì in concorrenza con una mano d’opera pronta a svendersi nel loro stesso paese.Terza caratteristica: i paesi dell’area del dollaro e in ogni caso l’Italia sono sottoposti a un modello economico finanziarizzato, basato a) sulla rincorsa dell’attivo primario del bilancio pubblico, che si scarica sui contribuenti, sui servizi pubblici, sugli investimenti; b) sulla rincorsa dell’attivo della bilancia commerciale (sulla competizione nelle esportazioni), e insieme sulla difesa di un alto rapporto di cambio; e le due cose si scaricano sui salari, imponendone la riduzione per mantenere la competitività in ambito internazionale, con conseguente depressione della domanda interna; inoltre, realizzare avanzi primari significa che lo Stato toglie dall’economia più denaro di quanto ne immette, ossia che abbassa il livello di liquidità, quindi di solvibilità. Con queste premesse, è ovvio che non si possano fare i provvedimenti fiscali e gli investimenti necessari e utili, nel medio termine, per la crescita, perché i vincoli di bilancio e il rating (condizioni di finanziabilità dei governi, fissate sul brevissimo termine) non lo permettono.Ovvio è altresì che il capitale finanziario e gli imprenditori validi si dirigano verso imprese e paesi in cui la loro rimunerazione è maggiore perché sono i più efficienti nella produzione, oppure perché consentono uno sfruttamento più radicale dei lavoratori e la libera esternalizzazione sulla società e sull’ambiente delle componenti nocive del processo produttivo (infortuni, inquinamento…); sicché, se per legge lo Stato, in nome della dignità e della stabilità del lavoro, introduce vincoli o tutele che rendano meno interessante per il capitale investire in quelle industrie e in quel paese, il capitale defluirà da quelle Industrie da quel paese lasciando disoccupazione. Perciò se si vuole tutelare effettivamente sia la dignità del lavoro che i livelli occupazionali, che l’ambiente, è indispensabile cambiare i tre suddetti principi, incominciando con il recupero da parte degli Stati della sovranità monetaria per assicurare loro il rifornimento di moneta (la capacità di pagare sempre il proprio debito e di finanziare il proprio bilancio facendo gli investimenti necessari alla crescita e di pagare il debito pubblico), sottraendoli al ricatto monetario dei banchieri speculatori privati internazionali e ai golpe mediante spread.Bisognerà inoltre creare barriere protezionistiche contro la concorrenza sleale in modo che i lavoratori del proprio paese non si trovano esposti alla concorrenza di lavoratori sottoposti a condizioni schiavistiche in paesi in cui il capitale riesce a scaricare completamente sulla popolazione generale e sull’ambiente le proprie esternalità. In terzo luogo, bisognerà cambiare il modello generale dell’economia sopra descritto, mirato sui surplus commerciali, anche perché la rincorsa di tale surplus è in se stessa illogica dato che la somma dei saldi delle bilance commerciali è ovviamente zero. Come primo passo per recuperare la sovranità monetaria, e ridare liquidità al sistema. Qualora non si arrivi direttamente alla fine dell’Eurosistema o a una sua radicale e benefica riforma, suggerisco al governo l’introduzione di un mezzo monetario nazionale interno, una sorta di seconda moneta – ma non denominata come moneta – emesso magari da una rete di banche appositamente costituite, che lo creano prestandolo (come avviene con le normali banche di credito) ma lo accreditano non su un conto proprio, bensì su un conto dello Stato, e poi lo prendono a prestito dallo Stato a modico interesse per prestarlo ai clienti applicando un interesse maggiore.Quella sopra da me delineata è una campagna innanzitutto culturale, di informazione e comunicazione generale – e nella capacità di comunicazione abbiamo due eccellenze: una in Salvini e un’altra, in generale, nelle Stelle. In secondo luogo, deve diventare una campagna europea e possibilmente non solo europea, e a questo fine ben si presta l’iniziativa salviniana della Lega delle Leghe. Se non si riesce a informare-comunicare all’opinione pubblica e a internazionalizzare questa campagna, i suddetti progetti economici verranno soffocati e resi velleitari dalle stesse dimensioni della dottrina economica mainstream – e Mattarella, con Tria, traghetterà l’Italia attraverso una brevissima stagione “populista” per consegnarci nelle mani di Macron-Rothschild, di Soros e della Merkel o di chi per lei.(Marco Della Luna, “Dignità e velleità, come salvare le riforme politico-fiscali del governo”, dal blog di Della Luna del 6 luglio 2018).Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).
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Auto elettrica Eni-Enel, l’Italia potrebbe stupire il mondo
Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.Il governo del gigante asiatico ha stanziato 50 miliardi di dollari d’incentivi per gli “electric vehicles” per i prossimi due anni: Pechino sarà il maggior mercato di veicoli “Ev” del pianeta entro 12 anni, con una richiesta da far impallidire il resto del mondo. «La Volkswagen l’ha capito da un pezzo e ha sborsato subito un anticipo di 10 miliardi per arrivare per prima in Cina (poi la gente si chiede perché la Germania vince)». Per i prossimi sette anni, prosegue Barnard, aziende come Volkswagen, Bmw, Ford e Toyota hanno investito un totale di 165 miliardi di dollari nei veicoli elettrici, «non solo perché gli idrocarburi stanno distruggendo il clima e saranno man mano banditi, ma anche (più cinicamente) perché la tecnologia ha già oggi superato i due ostacoli maggiori allo sviluppo degli “Ev”, che erano l’autonomia (oggi siamo oltre i 500 km con una carica) e i tempi per le ricariche (le batterie Toshiba ricaricano un’auto in 6 minuti)». E poi, appunto, c’è l’immensa torta del mercato cinese. Per questo, oggi, le stime della maggiori “consultancies” internazionali danno il mercato globale degli “Ev” in crescita a ritmi pazzeschi: si parla dell’8.600% (ottomilaseicento per cento) nei prossimi 22 anni. E qui, scrive Barnard rivolgendosi a Di Maio, l’Italia potrebbe avere un’idea dirompente che la proietterebbe ai primi posti al mondo nella Disruption, la rivoluzione del lavoro indotta dalle nuove tecnologie, rilanciando economia e occupazione.Basterebbe che Eni ed Enel, cioè Big Oil e Big Utility in Italia, si lanciassero in una joint-venture «ben oltre il solito mercato delle stazioni di ricarica per “Ev”». Secondo Barnard potrebbero unire le loro imponenti forze (tecnologie avanzate, risorse e know-how) per sbarcare sul mercato dei produttori di veicoli elettrici, «in diretta competizione coi leader mondiali come Volkswagen, Bmw o Tesla, per anche superarli e divenire protagonisti di quello che è destinato a essere il più ricco mercato globale dei trasporti su terra». Ragiona Barnard: Eni ed Enel sono “sorelle”, insieme al ministero del Tesoro, e quindi – nel giro di neppure vent’anni – le ricadute sarebbero immense, per lo Stato e per l’economia, per il lavoro e per l’ambiente. «Un picco verso l’alto di Pil fra meno di vent’anni non è futurismo», assicura Barnard. Al contrario, sarebbe «l’occupazione e la società dei nostri figli alle elementari o alle medie adesso, ma anche di molti di noi, e con ricadute essenziali sui pensionati per ovvi motivi». Eni ed Enel potrebbero cioè attuare la Disruption del settore auto, senza più Sergio Marchionne e John Elkann. Basterebbe allineare l’Italia alle maggiori potenze economiche, dove i giganti petroliferi si stanno “gemellando” con i giganti delle utilities, mettendo in campo un’arma in più: la capacità competitiva del binomio Eni-Enel.Mentre il fenomeno si concentra sulla distribuzione del nuovo “carburante” elettrico, scrive Barnard, citando joint-ventures «tutte dedicate alle stazioni di ricarica degli “Ev”», non risulta che nessuno dei colossi mondiali abbia ancora pensato di «usare il proprio strapotere economico e tecnologico per entrare nel mercato dei veicoli, non solo rifornirli». E c’è un buon motivo, spiega Barnard: nella quasi totalità dei casi studiati – Usa e Gran Bretagna, Svezia, Giappone, Germania, Francia, Cina – i giganti esteri di petrolio e utilities risiedono in paesi con industrie automobilistiche già in prima linea negli “Ev”. Non l’Italia, però: «La sparpagliata anglo-olandese-italiana Fiat Chrysler Automobiles ha annunciato, con l’evidente riluttanza di Marchionne ben espressa alla “Reuters” nel gennaio 2018, un misero investimento di 9 miliardi di dollari negli “Ev”, che è quasi un decimo di quello della Volkswagen». Ecco il perché della proposta per l’Italia avanzata da Barnard: un marchio automobilistico Eni+Enel+Ev (col Tesoro).«Si tratta di saper vedere avanti, cioè di avere la cosiddetta “vision”», sottolinea il giornalista: «Sono certo che almeno all’Eni esiste una conoscenza approfondita dei mercati cosiddetti South Asia, China and Southeast Asia, e dell’esplosivo potenziale d’acquisto che stanno sviluppando, tale da umiliare tutto l’Occidente fra una manciata d’anni». Quindi, un’impresa come quella delineata non nascerebbe certo senza un mercato, anzi: e domani, quando «le vendite internazionali di “Ev” saranno a 9 zeri e straripanti», è facile prevedere quale indotto di lavoro l’industria automobilistica Eni+Enel+Ev creerebbe in un paese come l’Italia, che – ricorda Barnard – è ancora la prima nazione al mondo «per densità di piccole medie imprese». Praterie sconfinate di occupazione: dall’impiego negli stabilimenti alla costruzione delle infrastrutture sul territorio per le colonne di ricarica. Barnard insiste sul potenziale rivoluzionario della Disruption in atto: Artificial Intelligence e Machine Learning stanno cambiando volto al lavoro sul pianeta, facendo sparire mestieri e creandone di nuovi. Una delle applicazioni più studiate, e su cui sono stati investiti enormi capitali, sono le auto “driverless”: «E’ solo una questione di quando arriveranno, non “se”».E quindi, insiste Barnard, «un’Italia con due colossi tecnologici nazionali, Eni+Enel, già lanciati nel settore automobilistico e dei trasporti con gli “Ev”, diverrebbe anche leader delle “driverless”, con gli sbocchi economici e d’occupazione che si possono immaginare». Cosa stiamo aspettando, se è vero che – per la prima volta nella storia – i giganti del petrolio e quelli delle utilities marciano insieme, mentre l’industria dell’auto sta investendo centinaia di miliardi nei veicoli elettrici? «Non vedo perché il nostro gigante del petrolio, Eni, e il nostro gigante utility, Enel, non possano unire le loro grandi tecnologie per non solo competere nel settore rifornimenti, ma proprio per ridare all’Italia un marchio dell’auto del futuro, per la felicità del Tesoro a Roma, del Pil e dell’occupazione». Scrive Barnard, rivolto a Di Maio: «Ministro, il lavoro per gli italiani non si crea con decreti a mo’ di cerotti occupazionali appiccicati di qua e di là in quello che è un bagno di sangue di disoccupazione a due cifre. Il vero lavoro duraturo, a vita e remunerato bene – aggiunge Barnard – si crea solo con una “vision” di grande respiro». Per una volta, conclude il giornalista, l’Italia potrebbe tornare a stupire tutti, se solo lo volesse.Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.
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Savona: ho subito un grave torto, così si distrugge l’Europa
Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del paese sulla base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro e non a quelle che professo e che ho ripetuto nel mio comunicato, criticato dalla maggior parte dei media senza neanche illustrarne i contenuti. Insieme alla solidarietà espressa da chi mi conosce e non distorce il mio pensiero, una particolare consolazione mi è venuta da Jean Paul Fitoussi sul “Mattino” di Napoli e da Wolfgang Münchau sul “Financial Times”. Il primo, con cui ho da decenni civili discussioni sul tema, afferma correttamente che non avrei mai messo in discussione l’euro, ma avrei chiesto all’Unione Europea di dare risposte alle esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-membri; aggiungo che ciò si sarebbe dovuto svolgere secondo la strategia di negoziazione suggerita dalla teoria dei giochi che raccomanda di non rivelare i limiti dell’azione, perché altrimenti si è già sconfitti, un concetto da me ripetutamente espresso pubblicamente. Nell’epoca dei like o don’t like anche la presidenza della Repubblica segue questa moda.Più incisivo e vicino al mio pensiero è il commento di Münchau. Nel suo commento egli analizza come deve essere l’euro per non subire la dominanza mondiale del dollaro e della geopolitica degli Stati Uniti, affermando che la moneta europea è stata mal costruita per colpa della miopia dei tedeschi. La Germania impedisce che l’euro divenga come il dollaro «una parte essenziale della politica estera». Purtroppo, egli aggiunge, il dollaro ha perso questa caratteristica, l’euro non è in condizione di rimpiazzarlo o, quanto meno, svolgere un ruolo parallelo, e di conseguenza siamo nel caos delle relazioni economiche internazionali; queste volgono verso il protezionismo nazionalistico, non certo foriero di stabilità politica, sociale ed economica. È il tema che con Paolo Panerai ho toccato nel pamphlet recentemente pubblicato su Carli e il Trattato di Maastricht, dove emerge la lucida grandezza di Paolo Baffi.L’Italia registra fenomeni di povertà, minore reddito e maggiori disuguaglianze. Il 28 e 29 giugno si terrà un incontro importante tra capi di Stato a Bruxelles: chi rappresenterà le istanze del popolo italiano? Non potrà andarci Mattarella, né può farlo Cottarelli. Se non avesse avuto veti inaccettabili, perché infondati, il governo Conte avrebbe potuto contare sul sostegno di Macron, così incanalando le reazioni scomposte che provengono dall’interno di tutti indistintamente i paesi-membri europei verso decisioni che aiutino l’Italia a uscire dalla china verso cui è stata spinta. Münchau giustamente afferma che teme «non vi sia un sostegno politico nel Nord Europa» e quindi non ci resta che patire gli effetti del protezionismo e dell’instabilità sociale. Si tratta di decidere se gli europeisti sono quelli che stanno creando le condizioni per la fine dell’Ue o chi, come me, ne chiede la riforma per salvare gli obiettivi che si era prefissi.Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del paese sulla base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro e non a quelle che professo e che ho ripetuto nel mio comunicato, criticato dalla maggior parte dei media senza neanche illustrarne i contenuti. Insieme alla solidarietà espressa da chi mi conosce e non distorce il mio pensiero, una particolare consolazione mi è venuta da Jean Paul Fitoussi sul “Mattino” di Napoli e da Wolfgang Münchau sul “Financial Times”. Il primo, con cui ho da decenni civili discussioni sul tema, afferma correttamente che non avrei mai messo in discussione l’euro, ma avrei chiesto all’Unione Europea di dare risposte alle esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-membri; aggiungo che ciò si sarebbe dovuto svolgere secondo la strategia di negoziazione suggerita dalla teoria dei giochi che raccomanda di non rivelare i limiti dell’azione, perché altrimenti si è già sconfitti, un concetto da me ripetutamente espresso pubblicamente. Nell’epoca dei like o don’t like anche la presidenza della Repubblica segue questa moda.
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Michael Hudson: soldi, lo sporco affare dietro al caso Skripal
Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.Bisognerebbe capire quale beneficio dia alla Russia uccidere un’ex spia del governo britannico, restituita all’Occidente in uno scambio di spie e che, a quanto si dice, voleva tornare in Russia. Ovviamente non ce n’è alcuno. Le sanzioni sono pertanto indipendenti da questo evento. La legge occidentale peraltro si basa sulla presunzione di innocenza e sulla certezza delle prove. Non dovrebbe essere dato alcun giudizio senza l’ausilio delle prove. Altrimenti ci si basa su dicerie. Il secondo principio della legge occidentale è che ambo le parti possano presentare la propria versione. Nell’affare Skripal la Russia non può farlo, non essendole stati dati campioni del veleno che potrebbero scagionarla. Non è stato nemmeno concesso loro di vedere Skripal, sebbene sia un cittadino russo, o sua figlia, che ora è sveglia e in via di guarigione. Gli inglesi neanche permetteranno ai suoi parenti di venire in Gran Bretagna. La reazione è così sproporzionata che è ovvio non ci sia una relazione logica. Questo è un doppio standard bello e buono. Penso dunque che invece di una rappresaglia ci sia una strategia predeterminata antirussa, ed un tentativo di isolarne l’economia.La domanda è: perché sta succedendo? E quali sono igli obiettivi ultimi? In un primo momento, pensavo fosse la vendetta per il fallito tentativo americano di usare Isis ed Al-Qaeda come legione straniera per sostituire Assad. O forse è una scusa per appropriarsi del suo petrolio? O la frustrazione per la scelta della Crimea di unirsi alla Russia? Quel che è certo è che sembra ci sia una guerra fredda economica che si sta intensificando. Il risultato è che Russia, Cina e Iran si stanno avvicinando. Quel che abbiamo è dunque una minaccia di isolare la Russia se non fa certe cose. E quindi per risolvere l’affare Skripal bisogna chiedersi: quali sono queste cose che Stati Uniti e Gran Bretagna vogliono? Beh, una è che la Russia spinga la Corea del Nord a smantellare il proprio programma nucleare, cosa che, come è normale che sia, avverrà solo se l’esercito Usa lascerà la penisola. Un altro obiettivo di Washington è che Mosca se ne vada dalla Siria. Trump ha dichiarato la settimana scorsa di volersi ritirare dalla Siria. La domanda però è: se l’America se ne va, cosa farà Mosca? Queste sanzioni sono un segnale: avete visto cosa possiamo fare per ferirvi, vi lasceremo stare se ve ne andrete dalla Siria. Un altro obiettivo è forse quello di far desistere la Russia dall’aiutare l’Ucraina orientale.Gli Stati Uniti, quando vogliono isolare un paese, di solito lo accusano di guerra chimica. Basti pensare a quando Bush disse che l’Iraq aveva armi chimiche di distruzione di massa. Sappiamo che era una bugia. Oppure ad Obama quando disse che Russia ed Assad stavano usando armi chimiche in Siria. Penso dunque che quando dicono che la Russia o Assad o l’Iraq stanno usando armi, questo sia un modo per generare paura, di modo che l’esercito possa venir dispiegato. Trump ha ripetuto ciò che ha detto quando era candidato alla presidenza. Vuole che i paesi europei paghino di più i costi militari della Nato. Lo va dicendo da più di un anno. E penso che sia questa il vero nocciolo dell’affaire Skripal. Usando una cosa abietta come le armi chimiche, si vuole creare un’isteria anti-russa che consenta ai governi Nato di raccogliere molto più budget militare di quanto non facciano ora dagli Stati Uniti. Costringerà tutti i loro paesi a pagare il 2% del proprio Pil al complesso militar-industriale americano. Quindi, in sostanza, l’affare Skripal è stato messo in piedi per spaventare le popolazioni e consentire alla Nato di aumentare le spese militari nell’industria della difesa Usa.Le popolazioni diranno: aspettate un attimo, i bilanci europei non possono monetizzare un deficit di bilancio; se raccogliamo più spese militari per la Nato allora dovremmo ridurre le nostre spese in welfare. Il caso Skripal è dunque una scusa per cercare di addolcire il popolo europeo, di spaventarlo dicendo “sì, è meglio che paghiamo per le pistole, possiamo fare a meno delle cose importanti”. È la stessa situazione in cui erano gli Stati Uniti negli anni ’60, ai tempi della guerra del Vietnam. Queste accuse credo servano anche per comminare sanzioni che interrompano il commercio occidentale con Russia e Cina, impedendo a compagnie assicurative come la Lloyd’s di assicurare spedizioni e trasporti. Le banche direbbero che non daranno più questi servizi a Russia. E la sanzione parallela sarebbe quella di bloccare le banche statunitensi. Dal ’91, anno in cui l’Unione Sovietica è stata sciolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente è stato di circa 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa un quarto di trilione di dollari in un decennio e mezzo trilione di dollari in 20 anni. Il deflusso è continuato fino a poco tempo fa al ritmo di 25 miliardi all’anno. Proprio nelle ultime due settimane avete letto sui giornali il chiasso sulle banche lettoni, “veicoli per il riciclaggio di denaro russo”… come se l’Occidente fosse veramente sorpreso. È il motivo esatto per cui le banche lettoni sono state istituite!Già prima della caduta dell’Unione Sovietica, nell’88 ed ’89, Grigory Luchansky, che lavorava per l’Università della Lettonia a Riga, fu il vettore che diede vita al Nordex come modo per il Kgb e l’esercito russo di spostare i propri soldi fuori del paese. Miliardi di dollari all’anno hanno attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività principale è stata quella di ricevere i depositi russi, per poi trasferirli in Occidente nelle banche britanniche o nelle corporations del Delaware. Sono stato per un certo periodo direttore di ricerca e professore di economia per la facoltà di legge di Riga – circa sei o sette anni fa – per cui ho avuto regolarmente a che fare col governo lettone, col primo ministro e coi regolatori delle banche. Tutti mi hanno spiegato che il precipuo scopo delle banche lettoni era quello di incoraggiare i deflussi di capitali della Russia verso l’Occidente. Dal punto di vista americano, questo era un modo per prosciugare il nemico. L’idea era quella di spingere la privatizzazione neoliberista su servizi pubblici, risorse naturali e proprietà immobiliari russi. Si diceva: «Prima di tutto, privatizzate beni pubblici come Norilsk Nickel e compagnie petrolifere come Khodorkovsky. Ora che le avete in mano, l’unico modo per guadagnare denaro, dato che non ci sono soldi rimasti in Russia, è venderli all’Occidente».E così, in pratica, hanno svenduto queste aziende accumulando enormi capitali, tramite falsa fatturazione delle esportazioni, spostando il denaro principalmente nelle banche britanniche. È per questo che si vedono i cleptocrati russi acquistare proprietà molto cospicue a Londra e rilanciare sul prezzo del patrimonio immobiliare londinese. Ora tutto questo ha tremendamente prosciugato la Russia, che ora minaccia di confiscare i beni dei cleptocrati. Questi ultimi adesso sono spaventati e stanno riportando i propri soldi in patria, lontano dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, dalle corporation del Delaware, dalle Isole Cayman o da dovunque li abbiano messi. Questo mentre ci sono sanzioni contro quelle banche americane che prestano soldi alla Russia. Si assiste dunque a questo immenso afflusso di dollari e sterline verso Mosca, che ora li sta usando per costruire le proprie riserve di oro. Nel tentativo di far male alla Russia, minacciandone gli oligarchi, in realtà si sta fermando l’esodo di capitali, e ciò sta avvenendo come conseguenza delle privatizzazioni.(Michael Hudson, dichiarazioni rilasciate a Michael Palmieri per l’intervista “Il retroscena economico dietro all’avvelenamento di Skripal”, pubblicata da “Counterpunch” il 6 aprile 2018 e tradotta da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Eminente economista, professore emerito all’università del Missouri-Kansas City, il professor Hudson è stato analista finanziario e consulente finanziario a Wall Street. Tuttora presidente dell’Istituto per lo Studio delle Tendenze Economiche di Lungo Termine, nel 2012 ha partecipato al primo summit italiano sulla Mmt, Modern Money Theory, promosso a Rimini da Paolo Barnard).Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.
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Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico
Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.«Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.«Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
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Perché la Corea unita fa più paura dell’atomica di Kim
L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.Non dimentichiamo che i due paesi tecnicamente sono ancora in guerra, l’eredità più duratura della guerra fredda: negli anni Cinquanta su questo fronte morirono più di un milione e mezzo di soldati e oltre un milione di civili. Poi ci sono Pechino e Mosca che attendono di cogliere la loro occasione per tenere sotto pressione gli Stati Uniti nella penisola asiatica più bollente. Anche sotto sanzioni, alla Corea del Nord non è mancato il supporto della Cina e della Russia, come dimostra la vicenda delle forniture petrolifere di Pechino nonostante l’embargo deciso all’Onu. Ancora più interessante è la vicenda della zona economica speciale di Rason, meno conosciuta di quella di Kaesong, ma forse ancora più strategica. A Rason, nella punta nordorientale della Corea del Nord, nella regione di Gwanbuk, il paese di Kim Jong-Un incontra i suoi vicini, i giganti Cina e Russia. Questa è una regione alla legislazione economica speciale, il primo esperimento capitalistico nella storia nordcoreana. Creata sul modello cinese, ha il compito di attrarre gli investimenti dei superpotenze confinanti. Le aziende cinesi e russe hanno investito in questa zona franca in cui è consentito l’uso della valuta straniera.Dal punto di vista geografico, Rason impedisce alle fiorenti regioni nordorientali della Cina l’accesso diretto al mare: l’uso del porto di Rajin permette quindi a Pechino di trasportare il carbone nell’area di Shanghai, con risparmio di tempo e risorse. Inoltre a Rason Russia e Corea del Nord hanno mantenuto ottime relazioni per molti anni. La RasonConTrans, filiale della Russian Railways, è controllata al 30% dal porto di Rason e impiega circa 300 nordcoreani e 110 russi. Ecco alcuno motivi economici e strategici perché la stretta di mano tra Kim Yo Jong, la sorella del numero uno nordcoreano con il presidente sudcoreano Moon inquieta gli Stati Uniti e apre una corsa tra Cina e Russia nella penisola coreana. I cinesi, alleati storici di Pyongyang, e i russi non potendo sfidare la superiorità militare degli americani e il predominio del dollaro come moneta di scambio e di riserva mondiale, hanno utilizzato la Corea del Nord per infastidire gli Usa e i loro alleati coreani e giapponesi. Così, tra un passato di guerre sanguinose, un presente da incubo e nuove speranze nate alla diplomazia olimpica, aspettiamo gli eventi, aggrappati alle notizie dal 38° parallelo, in mano agli umori del giovane Dottor Stranamore nordcoreano.(Alberto Negri, “La Corea unita fa più paura della bomba atomica di Kim Jong Un”, da “Tiscali Notizie” del 12 febbraio 2018).L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.
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Italia in declino da 25 anni, privatizzati 170.000 miliardi
E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglosassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1.201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco.Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio – alla lettera l’esempio thatcheriano.Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse, nel periodo che va dal 1981 al 1986, il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire, tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv (2.753 miliardi); 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni (12.704 miliardi); 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta (13.462 miliardi); 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre (18.000 miliardi); 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma (40.000 miliardi); 1998 Bnl + altre tranche (25.000 miliardi); 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale (47.100 miliardi); 2000 Dismissione Iri (19.000 miliardi).Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica, il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 – 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perché ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire, pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti.Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive, e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei.Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1.266 miliardi dell’anno precedente ai 1.199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1.225 miliardi) per poi scendere ancora a 1.208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001, dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina, che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti, soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.(Giuseppe Maneggio, “Il declino nazionale? Tutto è cominciato negli anni ‘90”, da “Il Primato Nazionale” del 18 marzo 2015).E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.
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Barnard: siamo in crisi perché l’antica élite si è ripresa tutto
Ogni aspetto che regola la nostra vita nell’Unione Europea è deciso dalla Commissione, non eletta da nessuno. La Commissione Europea decide anche sulle Costituzioni: una sentenza della Corte Europea di Giustizia decreta che le leggi europee hanno priorità anche sulle Costituzioni dei singoli paesi. Oggi, per statuto, parlamentari e ministri italiani in Europa sono tenuti a fare gli interessi dell’Europa in Italia, non gli interessi dell’Italia in Europa. Non rappresentano l’Italia in Europa: rappresentano l’Europa in Italia. Questa struttura sovranazionale, creata dall’élite politico-economica messa all’angolo dalla Rivoluzione Francese e poi nel ‘900 dall’affermazione della democrazia, ha ripreso il potere e ha creato l’euro per togliere la sovranità agli Stati. Lo sapevano dal 1943: l’euro serve a togliere agli Stati la loro ragione di esistere, fino a distruggerli. Cito una frase, pronunciata da uno dei grandi burocrati europei, uno degli uomini del vero potere, Jacques Attali. Era consulente di Mitterrand insieme a un insigne economista, Alain Parguez, poi ravvedutosi. Parguez lo ferma in un corridoio della Commissione Europea e gli dice: «Sapete cosa state facendo? State distruggendo l’Europa. Cos’avete in mente?». E Attali risponde, letteralmente: «Non è colpa nostra se la plebaglia europea pensa che l’unione monetaria sia stata fatta per la loro felicità».Questa è la mentalità di coloro che ci considerato «degli outsider rompicoglioni», «una massa ignorante» da mettere ai margini. E hanno vinto, su di noi. Questo progetto di Unione Europea messo nelle mani di burocrati dell’estrema destra finanziaria, completamente svincolato dal controllo dei cittadini, prende piede formalmente in Italia negli anni ‘90, quando improvvisamente crolla la Prima Repubblica. Crolla un sistema di partiti: arriva Tangentopoli e spazza via una classe politica che la finanza internazionale (specie americana) considerava incontrollabile, non dedita a sufficienza al mantra delle privatizzazioni e dei tappeti rossi stesi davanti alla grande finanza speculativa. In Italia c’erano ancora leggi che impedivano grandemente l’esportazione dei capitali (il famoso “capital flight”, che è un fenomeno devastante, che distrugge interi paesi nell’arco di un attimo). L’Italia era un paese con partiti corrotti, ladri, bugiardi e mafiosi. Ma non erano nella Serie A. Erano nella Serie C, non facevano il gioco che contava. E con il crollo dell’Unione Sovietica, scrive un importante economista come Marcello De Cecco, questi partiti perdono ulteriormente il loro valore, per gli Stati Uniti: non servivano più a niente. E chi serviva veramente, in quel momento, alla grande finanza internazionale? Chi poteva essere il grande interlocutore per gli anni ‘90 e Duemila, per la grande finanza speculativa internazionale? Il candidato ovvio: il partito comunista.Era dagli anni ‘60 che il Pci faceva riunioni a Bellagio, sul Lago di Como, con la Fondazione Rockefeller: Sergio Segre, Amendola e soprattutto Giorgio Napolitano, che è stato il grande accoglitore del grande capitale finanziario internazionale dentro il Pci, in Italia, garantendo tappeti rossi stesi davanti a loro. Era dagli anni ‘60 che il Pci, mentre in piazza faceva la retorica dei lavoratori, della sinistra, sotto sotto dialogava. Al Mulino, a Bologna, facevano le riunioni con la Fondazione Agnelli. Veniva Brzezinski, a parlare col Pci: si stavano già mettendo d’accordo negli anni ‘60. E quindi, a maggior ragione, negli anni ‘90 questo partito diventa l’interlocutore privilegiato. Gli americani lo dicono molto chiaro, in un rapporto del Council on Foreign Relations, che incarna la politica estera statunitense: è un partito che ci è utile, scrivono, perché è l’unico in Italia a essere strutturato come una grande azienda, sa come fare business. E infatti lo facevano, il business: facevano chiudere le fabbriche in Italia e assicuravano i soldi per la Fiat in Russia, eccetera. Tangentopoli distrugge la Dc e il Psi ma risparmia il Pci (poi Pds, Ds e Pd). Ne chiesi conto a Gherardo Colombo, giudice di Mani Pulite (io sono di Bologna, città dove si pagavano mazzette per qualsiasi servizio), e Colombo rispose: gli imprenditori denunciavano solo la Dc e il Psi.Di fatto, dopo il ‘92-93 crolla questa classe politica, in Europa si sta consolidando l’Unione Europea, e in Italia arrivano i cosiddetti governi tecnici: Ciampi, poi il grande periodo del centrosinistra fino al 2000. In Italia, questa pianificazione orrenda che ha distrutto Stati, leggi e cittadini è stata portata su un vassoio d’argento unicamente dal centrosinistra. I nomi sono quelli di Andreatta, Prodi, Visco, Bassanini, Draghi, Amato, D’Alema. Le privatizzazioni selvagge dell’Italia avvengono tutte sotto i governi di centrosinistra, che stabiliscono il record europeo delle privatizzazioni, dal 1997 al 2000. Record europeo: riusciamo a battere addirittura l’Inghilterra del partito laburista di destra di Toby Blair. Oggi come allora, pubblicamente il centrosinistra fa la retorica del mondo del lavoro e della solidarietà sociale: tutte balle, questa gente è veramente bieca. L’Italia in quel periodo comincia a vendere i suoi beni pubblici, fa delle scelte sempre condizionate dal fantasma dell’inflazione. Scelte importanti: decide di internazionalizzare il proprio debito. Anziché fare quello che avrebbe dovuto fare una vera coalizione di centrosinistra, cioè trovare le risorse nazionali per gestire il proprio debito (perfettamente gestibile), l’Italia di Prodi e D’Alema internazionalizza il debito, mettendolo nelle mani delle grandi fondazioni economiche estere. Così, grazie a questa bella gente, negli anni ‘90 l’Italia è l’unico paese europeo a consegnarsi totalmente nelle mani della finanza internazionale.Marcello De Cecco (Normale di Pisa, La Sapienza) è considerato il più autorevole economista italiano, in assoluto. Scrive: il permanere di un debito pubblico internazionalizzato costituisce una zavorra permanente per l’economia italiana. Non le permette di correre, e le impedisce di seguire una politica in contrasto con le opinioni dei mercati finanziari internzionali, dai quali può discostarsi solo per pochi mesi. Cioè: se si sgarra per pochi mesi, si è finiti. E aggiunge, citando la caduta del governo Berlusconi nel ‘94: è la prova lampante del fatto che una maggioranza parlamentare che si metta in contrasto con i mercati internazionali si decompone, e il governo cade. Aprite gli occhi: Berlusconi ha avuto guai continui – non per via del fatto che è un pessimo politico, ma perché ha disobbedito a questa gente. Mentre gli altri, quelli che dovrebbero fare i nostri interessi, ci stanno rovinando: la nostra sinistra, quelli di “Repubblica”, Scalfari e De Benedetti (a cui D’Alema ha regalato miliardi, come la rete telefonica delle Ferrovie dello Stato venduta a De Benedetti per niente, e che De Bedenetti ha rivenduto facendo profitti di oltre il 300%). Questa sinistra sta rovinando gli operai, i lavoratori, i cassintegrati, i precari, i giovani che non trovano lavoro.Questo centrosinistra che, internazionalizzando il debito, ha consegnato l’Italia nelle mani della finanza internazionale, che cosa ci ha fatto perdere? Sapete qual è la cifra finale (dati del 2011) che l’Italia ha perduto, per la crisi finanziaria del 2007-2008 causata da questa gente? E ci siamo dentro fino al collo, nelle privatizzazioni e nella svendita del bene pubblico, a beneficio delle grandi banche d’investimento grazie a Prodi e D’Alema. Abbiamo perso 457 miliardi di euro: ricchezza sparita dall’Italia in soli tre anni. Una cifra che vale 33 finanziarie. Il conflitto d’interessi di Berlusconi sono 6 miliardi di euro, la casta di Beppe Grillo sono 4 miliardi di euro, tutte le mafie italiane messe assieme contano per 90-100 miliardi di euro. Questi signori ce ne hanno portati via 457. Questo paese non ha più alcuna possibilità di riscattarsi in nessun modo: con l’arrivo dell’euro, siamo veramente rovinati. In una situazione di questo genere, uno Stato avrebbe una sola possibilità di scampo, che è quello che fanno gli Stati Uniti: spendere a deficit. Stampare denaro, continuare a indebitarsi, svalutare la propria moneta – cioè, tutto quello che si può fare quando uno Stato ha una moneta propria (come il dollaro e la sterlina, com’erano il marco in Germania e la lira in Italia). Noi una moneta propria non l’abbiamo più, abbiamo l’euro.Di chi è l’euro? Di nessuno, nemmeno delle banche. La sua emissione viene decisa dai 16 governatori delle banche centrali dell’Eurozona, la Bce formalmente prende la decisione e le banche centrali nazionali stampano questa moneta. Sapete, quando viene stampato, a chi va in mano l’euro? Al ministero del Tesoro? No: va alle banche private, e da queste ai mercati dei capitali. Il ministro del Tesoro deve costruire un ospedale, aprire una strada, pagare gli stipendi agli insegnanti? Va a bussare ai mercati dei capitali privati e dice: per favore, mi date degli euro? Vi rendete conto di cosa sta succedendo? Uno Stato (teoricamente sovrano, ma non più sovrano) per comprare un cancellino di una lavagna di scuola deve andare al mercato dei capitali privati a prendere in prestito gli euro. I mercati dicono: certo che te li prestiamo, gli euro, ma i tassi di interesse li decidiamo noi. Sapete cosa vuol dire, questo? Sapete cos’è la variazione percentuale di un punto sui tassi d’interesse su miliardi di euro? L’Italia è ridotta come il cittadino strangolato dalla banca a cui ricorre per un prestito, se deve comprarsi l’auto. Ecco perché siamo costretti a tagliare le spese pubbliche. Al contrario di uno Stato a moneta sovrana (Usa, Inghilterra, Giappone) oggi l’Italia ha un debito che è veramente un debito – prima non lo era: era un fantasma, era inventato che fosse un problema, perché lo Stato era indebitato solo con se stesso, non doveva soldi a nessuno.Il debito dello Stato era la ricchezza dei cittadini. Oggi, con l’euro, è cambiato tutto. Oggi siamo veramente indebitati, dobbiamo veramente fare i tagli ai servizi pubblici e dobbiamo veramente tassare per tirar su dei soldi, perché dobbiamo bussare alla porta dei capitali privati per spendere ogni singolo euro destinato alla nazione. A questo pensava l’economista francese François Perroux nel 1943, quando disse: togliendogli la moneta, si toglie agli Stati la ragione di esistere e li si distrugge. Questo ci hanno fatto, e chi ha portato in Italia questa roba su un tappeto rosso è Romano Prodi, con tutta la sua cricca di delinquenti. E’ un disastro: non possiamo neanche più dire che è sbagliato tagliare i fondi alla sanità o alla scuola. I soldi dove andiamo a prenderli? Prima sì, si poteva dire: è sbagliato fare quei tagli, è una scelta politica, ideologica. Oggi non più: ci hanno tolto la funzione primaria dello Stato, e hanno vinto definitivamente. Prima ci impedivano di fare la piena occupazione, il welfare e il benessere per tutti, terrorizzandoci con dei fantasmi ideologici per impedire allo Stato di spendere. Adesso ce lo hanno impedito con uno strumento che è addirittura irreversibile. Adesso, anche un primo ministro si svegliasse una mattina e dicesse “io sono uno Stato sovrano e posso spendere a deficit e creare la piena occupazione”, non può più farlo neanche se vuole, perché non ha più la moneta per farlo.Vuol dire posti di lavoro perduti, aziende chiuse, ricchezza evaporata, povertà. La disoccupazione galoppa, i fallimenti delle aziende sono aumentati del 40% nel solo 2009. Il 30% degli italiani è costretto al prestito, il 38% è in difficoltà economiche, il 76% è costretto alla flessibilità. Il lavoro a chiamata è aumentato del 75%. Un milione e 650.000 italiani sono senza coperture di alcun tipo, se licenziati: non percepiscono nulla. Il 50% delle pensioni italiane sono sotto i mille euro: non ci vivi, non ce la fai. Un italiano su cinque rimanda le visite specialistiche, l’11% degli italiani non si riscalda, l’11% non ha soldi per le spese mediche ordinarie. Il 31% degli italiani non può permettersi di spendere 750 euro per un’emergenza in famiglia. E la grande finanza internazionale ci ha rubato 457 miliardi di euro in tre anni. Qui dobbiamo spalancare la mente. Che cosa succederà? Da qui in avanti, succederà esattamente quello che era pianificato dagli anni ‘30: il ritorno al potere assoluto dell’élite finanziaria, con la marginalizzazione delle leggi e dei cittadini. In particolare, pianificavano che in Europa si creassero delle sacche di povertà talmente ampie da poter poi fare del blocco industriale franco-tedesco una grande potenza dell’export, in competizione con gli Stati Uniti, con la Cina e con l’India.Mantenendo un euro estremamente sopravvalutato, hanno introdotto tutte queste misure di precarizzazione del lavoro e di erosione dei diritti. Stiamo privatizzando a man bassa, stiamo alienando beni pubblici per due lire al capitale privato. Con un euro molto forte, l’Europa non è competitiva sui mercati: ne soffrono le aziende, che devono tagliare il costo del lavoro. Significa che lo Stato deve sborsare cassa integrazione e sborsare un sacco di soldi che non si può più permettere, con l’euro. Questo mette in crisi gli Stati, e la crisi degli Stati crea ancora più incertezza economica, ancora più deflazione e disoccupazione. Il costo del lavoro cala ancora di più: oggi è normale accettare un posto di lavoro al supermercato per 700 euro, coi turni spezzati. In Germania è lo stesso: nel 2009 i lavoratori hanno registrato la più alta produttività europea coi più bassi stipendi. Quindi in Europa si sta creando questa situazione dove c’è un impoverimento drastico, una disoccupazione che sta schizzando alle stelle: stiamo a 23 milioni di disoccupati. Incertezza, povertà crescente, sacche di lavoro sottopagato per competere con la Cina, con l’India e con gli Stati Uniti sul mercato delle esportazioni. E qui il vero potere fa la prima, grande tornata di profitti: diventerà competitivo esportare dall’Europa pagando una miseria il lavoratore europeo.La deflazione e l’incertezza finanziaria fanno sì che i mercati perdano di valore, e se perdono di valore gli Stati sono costretti ai tagli. Devono alienare i beni pubblici, e quindi al primo che arriva a comprare vendono a due lire una Telecom, l’acqua, il sistema sanitario o le ferrovie, cosa che succede dagli anni ‘90 e che succederà ancora di più. Loro comprano a due lire, e quindi fanno la seconda tornata di profitti. Poi l’euro crollerà: crolleranno i tassi di interesse, e gli speculatori internazionali faranno profitti immensi, con i “credit default swaps” e le altre scommesse che si fanno sui crolli delle monete. E alla fine di tutto questo, quando l’Europa sarà un buco nero di economia, ridotta quasi a un territorio da Secondo Mondo balcanico, il vero potere farà la quarta tornata di profitti: le scommesse, coi derivati, sul crollo del mercato europeo. Che è quello che hanno fatto in Grecia: hanno scommesso sul crollo della Grecia, che loro stessi stavano causando. Questo è il futuro che si prospetta, per noi, grazie a questa pianificazione di 70 anni. Guardate che il Fondo Monetario Internazionale (che è uno degli attori principali di questo piano scellerato) ha capito di aver troppo calcato la mano, arrivando a pubblicare un rapporto che prevede per l’Europa lo spettro della disoccupazione di massa. Dobbiamo correre ai ripari, dice il Fmi, che chiede agli Stati di cominciare a spendere a deficit e aumentare la spesa pubblica (ma non lo possiamo più fare, non abbiamo più la moneta).Se il Fondo Monetario arriva a questo, vuol dire che la situazione è più che drammatica. Ci sono uomini – ne cito uno, Carlo De Benedetti – che fin dagli anni ‘90, in combutta coi politici del centrosinistra, avevano già capito perfettamente che cosa stava succedendo, e come fare queste quattro tornate di profitti. Cosa ha fatto? Si è tolto dall’Olivetti, che aveva una competizione sui mercati che non poteva reggere, e si è messo nell’industria dei servizi. E così hanno fatto tanti industriali, anche Benetton: ha lasciato le magliette ai competitor cinesi e indiani e si è buttato nell’acquisizione di questi servizi essenziali. Perché lo fanno? Ok, stanno creando questo buco nero, in Europa. Ci stanno distruggendo completamente. Ma quando saremo tutti più poveri, come faremo a fargli fare dei profitti? La risposta è questa, e loro la conoscono da tanto tempo: in termini tecnico-economici si chiama “captive demand”. Che cosa fanno? Ti impoveriscono, ti precarizzano e guadagnano sulle esportazioni, intanto però si comprano i servizi essenziali per la cittadinanza: la sanità, l’acqua, la luce, i trasporti – tutto, anche l’anagrafe e i servizi funerari. Tutto già previsto dai negoziati internazionali, verrà venduto tutto. Il Pd è il partito italiano più avanzato nella privatizzazione della sanità: ci lavora nelle lobby europee.Quando avranno acquisito questi servizi essenziali, e noi saremo tutti più poveri, loro faranno profitti spaventosi: perché senza l’acqua non possiamo vivere, non possiamo stare senza i treni o senza la sanità. Siamo prigionieri: “captive demand” vuol dire “richiesta prigioniera”, il cittadino diventa prigioniero di una richiesta che deve soddisfare. Per cui starà senza mangiare, rinuncerà alle vacanze e non comprerà più le lenti a contatto, ma l’acqua la pagherà, il gas lo pagherà, la nonna la seppellerirà, l’operazione al fegato la dovrà fare. Chi è l’uomo più ricco del mondo? Non più Bill Gates, ma Carlos Slim: è un messicano, e ha nelle sue mani tutte le telecomunicazioni del Messico. Ha fatto quello che ha fatto De Benedetti, che ha fatto Benetton in Italia. Si è comprato un servizio essenziale: i messicani devono telefonare, non possono non farlo. Saranno dei poveracci, il Messico è un paese di poveri. Ma lui è l’uomo più ricco del mondo, guardacaso. Questo ci stanno facendo, questo ci aspetta.Sbalordisce l’ampiezza di questo disegno criminale, che è il più grande crimine della storia occidentale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. Perché non solo hanno distrutto gli Stati, le leggi e i cittadini , ma hanno anche tenuto milioni di persone in condizioni di povertà, di bisogno, di indigenza. E oggi tengono i nostri ragazzi precari, le donne che non possono fare figli perché non possono mantenerli, le coppie che non si sposano perché non possono comprare casa. Tuttto questa sofferenza, che è stata immensa per milioni di persone in tutte le nazioni cosiddette ricche, è stato deciso a tavolino. E’ veramente il più grande crimine. E quello che ci aspetta è proprio la conclusione degna di questo crimine immenso, che hanno commesso. Non esito a dire che, di fronte a una pianificazione di questo tipo, occorrerebbe una nuova Norimberga. Bisognerebbe portare questi personaggi (molti sono ancora vivi) a un processo internazionale per crimini contro l’umanità.(Paolo Barnard, estratto della conferenza “Il più grande crimine”, video caricato su YouTube nel 2011. I dati citati, relativi al 2009, disegnano un quadro che poi si è aggravato in modo ulteriormente drammatico, con il governo Monti. Già nel 2010 Barnard aveva pubblicato online il suo saggio “Il più grande crimine”, che ricostruisce la riconquista del potere da parte dell’élite, a spese della democrazia, con un piano concepito a partire dagli anni ‘20 del ‘900, giunto a compimento in Europa con la creazione dell’Unione Europea e dell’Eurozona).Ogni aspetto che regola la nostra vita nell’Unione Europea è deciso dalla Commissione, non eletta da nessuno. La Commissione Europea decide anche sulle Costituzioni: una sentenza della Corte Europea di Giustizia decreta che le leggi europee hanno priorità anche sulle Costituzioni dei singoli paesi. Oggi, per statuto, parlamentari e ministri italiani in Europa sono tenuti a fare gli interessi dell’Europa in Italia, non gli interessi dell’Italia in Europa. Non rappresentano l’Italia in Europa: rappresentano l’Europa in Italia. Questa struttura sovranazionale, creata dall’élite politico-economica messa all’angolo dalla Rivoluzione Francese e poi nel ‘900 dall’affermazione della democrazia, ha ripreso il potere e ha creato l’euro per togliere la sovranità agli Stati. Lo sapevano dal 1943: l’euro serve a togliere agli Stati la loro ragione di esistere, fino a distruggerli. Cito una frase, pronunciata da uno dei grandi burocrati europei, uno degli uomini del vero potere, Jacques Attali. Era consulente di Mitterrand insieme a un insigne economista, Alain Parguez, poi ravvedutosi. Parguez lo ferma in un corridoio della Commissione Europea e gli dice: «Sapete cosa state facendo? State distruggendo l’Europa. Cos’avete in mente?». E Attali risponde, letteralmente: «Non è colpa nostra se la plebaglia europea pensa che l’unione monetaria sia stata fatta per la loro felicità».