Archivio del Tag ‘Matteo Renzi’
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Banche, truffa e ipocrisia. E i morti della strage per la crisi?
Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.Si vuole far passare il massacro di persone che non hanno retto al disastro economico e alla precarizzazione delle loro vite e di quelle dei loro cari come una serie di casi individuali. Invece la strage per suicidio economico è un evento collettivo, è il prodotto di una politica frutto di precise scelte e responsabilità, che ne dovrebbero sopportare tutto il peso criminale. In secondo luogo è ipocrita far credere che il povero pensionato sia stato travolto da una scheggia impazzita del sistema. No, è tutto il sistema che è impazzito come la città folle di cui abbiamo scritto all’inizio. Pochi giorni fa il ministro Poletti ha spiegato che sarebbe ora di farla finita con gli orari di lavoro e che sarebbe giusto retribuire i dipendenti a prestazione. Il suo ragionamento, applicato a chi lavora per un istituto di credito, vorrebbe dire che un impiegato per mangiare dovrebbe vendere più obbligazioni insicure che può. E in realtà il sistema sta proprio andando in quella direzione.In questi anni i dipendenti degli istituti di credito son stati sottoposti alla cura della competitività estrema. Molti son stati licenziati e sostituiti con giovani precari e sottopagati. Il Jobs Act ha oliato tutto il nuovo meccanismo. Nelle retribuzione si riduce sempre più la paga fissa, quella che con 16 mensilità faceva del bancario il dipendente più invidiato, mentre si estende quella a cottimo. Cioè prendi i soldi se la tua banca fa tanti contratti speculativi e tu contribuisci con la tua opera al suo successo. Consiglio di leggere cosa scrive un lavoratore bancario, anonimo perché a dire la verità si rischia il posto, sul sito di “clashcityworkers”. I dipendenti delle banche sono soldati della guerra per il profitto e guai a loro se perdono un affare, se un risparmiatore viene preso dai dubbi e rinuncia ad investire i suoi soldi. E anche sui risparmiatori la pressione non è certo piccola.Avete visto le ultime pubblicità delle banche? Su “Radio24” addirittura sono i soldi che parlano e protestano con il loro proprietario perché li tiene congelati in un cassetto, versione neoliberale della parabola dei talenti. Cosa volete che faccia, il pensionato, quando un sorridente impiegato gli sottopone un contratto di 50 pagine in più copie scritte in piccolo piccolo. Si pensa che dica come nei film americani: fermi tutti, voglio il mio avvocato? No, il sistema funziona sulla sottomissione di dipendenti e risparmiatori. E il sistema bancario impone ai dipendenti di vendere prodotti a rischio ai risparmiatori e ai risparmiatori di acquistarli. Le banche sono diventate parte del casinò globale della finanza speculativa, son già passati oltre vent’anni da quando il presidente Clinton cancellò la legge Glass Steagal che separava le banche d’affari dai normali istituti di credito. Oggi i risparmi dei cittadini servono alle banche per partecipare alla speculazione finanziaria globale e quindi i risparmiatori son sempre più destinati a finire come il parco buoi della Borsa.Se va bene a tutti, forse va bene anche a loro, se va male, va male solo a loro. Il sistema funziona così. In Europa 4000 miliardi di euro di danaro pubblico son stati spesi per salvare le banche, che hanno ricominciato a speculare su derivati e porcherie varie come e più di prima. Ora un legge bancaria europea, testata come altre iniquità con i memorandum imposti alla Grecia, impone che i salvataggi delle banche avvengano anche con i soldi dei risparmiatori che di quelle banche si sono fidati. Gli unici che non debbono mai pagare nulla sono i banchieri, ai quali anzi deve essere garantita la possibilità di tornare agli affari come e più di prima. Così i poveri risparmiatori, come i primi cassaintegrati di Pomigliano, finiscono in una società programmaticamente definita “bad company”. Cioè un cattiva compagnia senza futuro dove finiscono i poveri ed i perdenti. Mentre i vincenti, cioè i banchieri e i loro protetti e protettori, van tutti nella nuova società per ricominciare ad attrarre risparmio. Con gli stessi scopi di prima.Immaginatevi se sui contratti di investimento fosse stampato in caratteri giganti: Nuoce gravemente alla salute dei tuoi soldi. Immaginatevi se i dipendenti delle banche non ricevessero più bonus o premi di risultato, ma solo il vecchio salario fisso e soprattutto immaginativi se non rischiassero più il posto per insufficiente vendita di contratti. Immaginatevi poi il controllo o addirittura la proprietà pubblici sul sistema bancario e la separazione degli istituti che giocano al casinò finanziario da quelli ove si mettono i risparmi di una vita e si ricevono i prestiti per la casa. Immaginate insomma un sistema con limiti, controlli divieti veri. Non sentireste subito urlare che si attenta alla libertà dei mercati, che si limita la corsa alla prosperità e si colpisce l’Europa, che si vuole tornare allo statalismo o peggio ancora al socialismo? Così, dopo il pianto per l’ultima, il sistema riprende a macinare vittime come e più di prima, al massimo concedendosi le riflessioni sofferte di qualche banchiere temporaneamente riluttante. Ps: non ho voluto parlare delle famiglie Boschi e Renzi, non perché non pensi grave il loro conflitto d’interessi, ma perché considero anche questo un prodotto (scadente) del sistema impazzito.(Giorgio Cremaschi, “Decreto salvabanche e suicidi economici, quanta ipocrisia!”, da “Micromega” del 14 dicembre 2015).Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.
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Ex avvocato, ora lavapiatti. E chiudono 50 aziende al giorno
Renzi ha appena ieri fatto una dichiarazione delle sue, una di quelle trovate geniali che lo caratterizzano (come quella famosa, secondo cui l’Italia è più ricca perché sono aumentati i risparmi dei depositi in banca, trascurando il non lieve particolare che sono aumentati i depositi, sì, ma di coloro che guadagnano cifre sopra al milione di reddito, e in questi “depositi a risparmio” devono essere considerati anche i depositi effettuati dai multimilionari). La notiziona è che ci sono 415.000 posti di lavoro in più; un’impresa epica, perché è pari alla metà di quel milione di posti di lavoro che promise Berlusconi, e per cui costui fu criticato e preso in giro da tutti. Pensate un po’ che meraviglia. Berlusconi promise un milione di posti di lavoro, senza mantenere la promessa. Renzi, senza aver fatto analoghe promesse, ha realizzato la metà del risultato, senza particolare sforzo.Che ci siano 415.000 lavoratori in più è senz’altro vero. Infatti, considerato che dai dati forniti da “Il Sole 24 Ore”, e di quelli che ci danno le varie categorie professionali, risulta che il reddito medio delle categorie dei professionisti (avvocati, notai, ingegneri, geometri, consulenti del lavoro e commercialisti, psicologi) è diminuito del 50% dal 2008 ad oggi.Nel 2012 sono 9.000 i professionisti che si sono cancellati dall’albo ed erano 6.000 i cassaintegrati dipendenti di studi professionali; nel 2013 e 2014 sono aumentati ancora, e nel 2015 i dati non sono definitivi ma, solo nella categoria professionale degli avvocati, a giugno 2015 se ne erano cancellati 4.000 (quindi presumibilmente ad oggi saranno circa il doppio). Va ancora peggio il settore imprenditoriale; nel Veneto si registrano migliaia di chiusure all’anno, in tutta Italia falliscono circa 50 imprese al giorno, quindi a fine anno saranno circa 30.000 le aziende che avranno chiuso i battenti.In altre parole. Si, è vero che ci sono 415.000 posti di lavoro in più. Ma perchè, tra imprese fallite e professionisti che hanno chiuso l’attività, molti si sono ridotti a fare gli impiegati nei call center, o a diventare rappresentanti di prodotti con pagamento a percentuale, o perchè hanno stipulato contratti di lavoro determinato per 15/20 giorni. Considerando che nel numero dei nuovi occupati ci sono anche i contratti a tempo, voglio fare un esempio personale: mi sono cancellato dall’albo degli avvocati nel 2014, quindi rientro in quei 9.000 professionisti in meno; in compenso quest’estate ho lavorato 15 giorni come lavapiatti nel ristorante di una mia amica, che mi ha fatto un regolare contratto di assunzione. Quindi risulto tra i 415.000 nuovi posti di lavoro del 2015, per quei quindici di lavoro nel ristorante. E se fossi stato assunto per due volte in due posti diversi risulterei ben due volte nella statistica.A me questa cosa non sembra proprio corretta e mi piacerebbe essere tirato fuori dal numero dei nuovi contratti di lavoro. Idem per quel mio amico che, invece, è stato assunto per 15 giorni come guardia privata presso un’abitazione. E un altro ha fatto ben due giorni di lavoro come falegname ad una festa di paese per montare il palco, anche lui con regolare contratto di due giorni. Un altro mio collega, anche lui cancellato dall’albo degli avvocati, prenderà invece la somma di 50 euro al giorno per fare il Babbo Natale in un centro commerciale, anche lui con regolare contratto di lavoro. Invece un mio compagno dei tempi dell’università, detto Black and Decker, che non si è mai laureato, fa il gigolò e guadagna molto di più di quanto guadagnavo io ai tempi d’oro della mia professione. Ah, ma mentre scrivo rifletto che purtroppo lui non fa statistica, perché il suo è tutto guadagno in nero.Ecco… mettiamola così: il calcolo esatto io non so farlo, però direi che da una sommaria statistica in mio possesso i posti di lavoro non sono proprio 415.000 ma al massimo 414.996.Al di là di questo piccolo aggiustamento alla statistica, che certamente non inficia il dato positivo delineato da Renzi, il quadro è comunque positivo (è infatti sempre Renzi che ha detto: «Ma non preoccupiamoci troppo dei dati… 0.8, 0.7, 0.6, non è tanto quello che conta… l’importante è che il segnale positivo c’è»). Direi che saremo però vicini ai tempi di una ripresa definitiva, appena gli evasori totali, come il mio amico Black and Decker, verranno scovati e consegnati finalmente alla giustizia. Qualche giorno fa, uscendo di casa, sono andato prima in lavanderia e poi a comprare una bombola di gas; la lavanderia aveva chiuso, e il consorzio agrario pure (pare con un fallimento di qualche milione di euro); andando a lavorare ad Ancona, quest’anno, come tutti gli anni mi sono recato nella pizzeria dove andavo a mangiare di solito: chiusa. Idem per il negozio di kebab che era l’altro mio luogo preferito: chiuso anche lui. Ieri Stefania è uscita di casa e ha trovato il cartello “chiuso” sul bar storico del paese in cui vive; un bar aperto da decenni. State sereni. L’Italia riparte e avanti tutta!!!(Paolo Franceschetti, “I nuovi posti di lavoro non sono 415.000 ma 414.996”, dal blog di Franceschetti del 12 dicembre 2015).Renzi ha appena ieri fatto una dichiarazione delle sue, una di quelle trovate geniali che lo caratterizzano (come quella famosa, secondo cui l’Italia è più ricca perché sono aumentati i risparmi dei depositi in banca, trascurando il non lieve particolare che sono aumentati i depositi, sì, ma di coloro che guadagnano cifre sopra al milione di reddito, e in questi “depositi a risparmio” devono essere considerati anche i depositi effettuati dai multimilionari). La notiziona è che ci sono 415.000 posti di lavoro in più; un’impresa epica, perché è pari alla metà di quel milione di posti di lavoro che promise Berlusconi, e per cui costui fu criticato e preso in giro da tutti. Pensate un po’ che meraviglia. Berlusconi promise un milione di posti di lavoro, senza mantenere la promessa. Renzi, senza aver fatto analoghe promesse, ha realizzato la metà del risultato, senza particolare sforzo.
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Salva-banche, risparmiatori traditi e rovinati: oltre 2 miliardi
Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.Il fulmine è caduto dalla Banca Etruria alla Banca Marche, dalla Cassa di Risparmio di Chieti alla Cassa di Risparmio di Ferrara. «Dai posti insomma in cui ci si fida», dove l’impiegato di banca «si trasforma in una specie di consulente finanziario». Per la prima volta, in Italia, spiega “Repubblica”, quattro banche (Carife, CariChieti, Banca Etruria e Banca Marche) sono state “risolte” con un meccanismo che anticipa in parte il bail-in (salvataggio interno) che entrerà in vigore dal 1° gennaio prossimo e in parte ricorre al vecchio bail-out (salvataggio esterno), già andato in scena durante la crisi finanziaria, ma questa volta senza prevedere l’iniezione diretta di soldi pubblici nel capitale delle banche in difficoltà. Il primo aspetto è quello che coinvolge direttamente i risparmiatori. Nel decreto di salvataggio si prevede che le azioni e le obbligazioni subordinate delle “vecchie” banche siano interamente svalutate: «Sono diventati pezzi di carta. E rappresentano quindi una perdita al 100% per chi le ha sottoscritte». Moody’s parla di 2 miliardi di euro di azioni azzerate, più 788 milioni di euro in “obbligazioni subordinate”. «Sono strumenti che, in caso di difficoltà dell’emittente, prevedono il rimborso del capitale solo “in subordine” rispetto ad altri titoli, cioè le obbligazioni “senior”, che hanno un grado di protezione maggiore».Il problema che emerge dalle testimonianze raccolte, scrive sempre “Repubblica”, è che ben pochi dei sottoscrittori di queste obbligazioni erano a conoscenza del rischio al quale andavano incontro. Dopo che azioni e obbligazioni hanno assorbito le perdite, i crediti in sofferenza (cioè morosi) delle vecchie banche sono stati svalutati: da 8,5 miliardi, il loro valore è stato abbattuto a 1,5 miliardi (il 17% circa del valore originario, un dato di gran lunga inferiore al valore medio di copertura delle “sofferenze” in Italia). Sono poi stati trasferiti in una bad bank, una “banca cattiva” che non ha la licenza per l’attività tradizionale: è una scatola per le “sofferenze”, per venderle a operatori specializzati, sperando di recuperare i denari in gioco. Gli altri attivi delle vecchie banche, cioè le parti “buone”, sono finiti in quattro nuove entità, dotate di un capitale necessario per operare, in vista della loro cessione. Le risorse necessarie a queste operazioni, circa 3,6 miliardi, sono arrivate dal sistema bancario attraverso un Fondo di risoluzione, al quale torneranno i proventi della vendita dei crediti in sofferenza e delle banche risanate.Per questo, continua “Repubblica”, alcuni parlano ancora di bail-out, salvataggio da fuori, ma senza soldi diretti dei contribuenti (come era invece accaduto in alcuni paesi, durante la crisi, quando gli Stati avevano messo direttamente capitali nelle banche in crisi). La Commissione Ue ha accertato comunque che ci sono aiuti di Stato, ma in una misura tale da non generare una distorsione del mercato e quindi ha dato il via libera all’operazione. Per di più, su una parte di quei fondi (1,65 miliardi di finanziamento delle maggiori banche), c’è una garanzia della Cdp che scatterà se il Fondo di risoluzione non sarà capiente per rimborsare quella linea di credito, alla scadenza tra un anno e mezzo. «La morale della vicenda è tirata da un report di Moody’s: è la prima volta che gli obbligazionisti subordinati subiscono un azzeramento del loro capitale, in queste proporzioni, per l’Italia». Visto che molti investitori erano piccoli e privati, ciò potrà accrescere la consapevolezza della rischiosità dei meccanismi di risoluzione per gli obbligazionisti, irrigidendo ulteriormente la vendita di bond attraverso la rete di filiali a vantaggio dei depositi, maggiormente garantiti.«Una lezione amara, che in molti sperimentano sulla pelle. Senza considerare, poi, che dal 2016 il meccanismo del “salvataggio interno” si dispiegherà in tutta la sua forma, colpendo potenzialmente anche altri soggetti interessati alla banca». Se domani una banca in difficoltà non avrà un piano di risanamento ritenuto consono dall’autorità, la ristrutturazione peserà fino all’8% delle passività su, nell’ordine: azionisti, obbligazionisti “junior” (meno garantiti, i subordinati già chiamati a pagare con le quattro banche in questione), obbligazionisti “senior” e correntisti oltre i 100.000 euro. Se ancora ciò non fosse sufficiente, interverrà il Fondo unico di risoluzione per un ammontare fino al 5% della banca in crisi. Cosa significa questo? Uno studio recentemente commissionato dal Parlamento Europeo ha simulato cosa sarebbe accaduto se le regole del bail-in fossero state valide durante la crisi finanziaria tra il 2007 e il 2014. «Su un campione di 72 banche salvate, che hanno totalizzato perdite per 313 miliardi, 153 miliardi sarebbero stati assorbiti con i fondi propri e il coinvolgimento dei creditori. Nei fatti, il bail-out andato in scena ha spalmato su tutti i cittadini, attraverso l’intervento dello Stato che usa i soldi dell’erario, il costo degli errori di manager e stakeholder».Il reportage di “Repubblica” è un viaggio nel dolore e nella rabbia: «Siamo le vittime di quel decreto», racconta Roberta Gaini, 50 anni, toscana, impiegata in una ditta chimica: «Non riesco più a dormire da giorni. Mi hanno preso i soldi che mi aveva lasciato mio padre, ho perso 62.000 euro in obbligazioni subordinate, 20.000 li ha persi mia madre e diecimila mia sorella. Come la chiamiamo se non una truffa?». Rabbia, sconforto e sospetti per migliaia di risparmiatori delle quattro banche “salvate” dal governo con un conto che pagano – e salato – loro. Silvia Trovò abita a Voghiera, in provincia di Ferrara, ha un’azienda agricola che produce frutta e seminativi: «Dal venerdì alla domenica del 22 novembre per noi è cambiato tutto, abbiamo perso 26.000 euro in obbligazioni subordinate e azioni della CariFerrara. Erano i soldi che mio padre, anche lui agricoltore, ci aveva lasciato: non può capire il dispiacere e la rabbia». Storie strazianti, come quella di Francesca, da Civitavecchia: «Mio padre, correntista Banca Etruria da 40 anni, invalido al 100% e cardiopatico cronico, aveva affidato i suoi risparmi di una vita da operaio (40.000 euro) all’istituto di credito succitato, in virtù di un rapporto di estrema fiducia».Nessuno, racconta Francesca, l’aveva avvisato dei rischi che correva con le obbligazioni subordinate: «Lui era tranquillo, si fidava ciecamente del dipendente che gliele aveva proposte, pur avendo un profilo di rischio basso (secondo la Mifid). In un momento lui si è visto azzerare i suoi risparmi, che gli servono per curarsi». E aggiunge: «Sono una dei tanti disperati, una vittima della macelleria socio-umana di questo governo, della gestione dissennata dei dirigenti di Banca Etruria. E non so come comunicarlo a mio padre, perché potrebbe verificarsi un serio attentato alla sua fragile salute, oltre al danno finanziario subito». E tutto grazie a quel decreto, «emanato in un pomeriggio domenicale di novembre, in sordina, artatamente pianificato», che ha ridotto sul lastrico centomila o forse duecentomila risparmiatori italiani.Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.
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Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti
Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.Le guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi. Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al 110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani laureati vanno a fare le polpette ai McDonald’s, naturalmente nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la bancarella del padre ai mercatini. Poletti sta semplicemente cercando di adeguare le aspettative scolastiche alla realtà del mercato del lavoro. Nel quale serve soprattutto una piccola istruzione di base adatta alla nostra società mediatica e consumista. Solo ad una élite rigidamente selezionata, quasi sempre su basi censitarie, sarà consentito di lavorare esercitando le competenze apprese in lunghi studi. Per la maggioranza dei giovani studiare troppo è tempo buttato. Come aveva lamentato Berlusconi, non può essere che anche l’operaio voglia il figlio dottore.Le controriforme della scuola di Gelmini e Renzi hanno cominciato ad adeguare, con i tagli, il sistema formativo al mercato del lavoro fondato su precariato e disoccupazione di massa. Meglio studiare meno e prepararsi ai lavoretti precari che verranno offerti, piuttosto che accumulare rabbia per una laurea non riconosciuta da nessuno. Anche sull’orario di lavoro Poletti ha in fondo detto la verità. La globalizzazione finanziaria, l’euro, le politiche di austerità hanno progressivamente distrutto le secolari conquiste del mondo del lavoro. Che per avere un orario definito per la propria prestazione e ridotto a dimensioni umane e legato ad una retribuzione dignitosa, ha speso 150 anni di lotte e miriadi di vittime. Oggi tutto è in discussione e non perché il lavoro non abbia più bisogno delle tutele conquistate, ma perché il capitale ha trovato la forza di distruggerle. Consiglierei a Poletti, che non pare persona particolarmente colta, la lettura di Furore di John Steinbeck. È la storia di una famiglia che, durante la crisi degli anni 30 negli Usa, è costretta a migrare e a trovare lavoro a cottimo. E arrivano in una azienda ove si raccolgono le cassette di arance a cinque centesimi l’una, senza orario di lavoro e se non va bene via.Il New Deal keynesiano di Roosevelt si rivolse anche contro quel sistema di sfruttamento, che oggi non a caso viene invece riproposto nell’Europa in cui, con l’austerità, trionfa il liberismo e si distruggono lo stato sociale e i diritti del lavoro. Luttwak e Poletti sono dei reazionari, la loro visione del mondo fa venire i brividi e fa tornare indietro di secoli, ma non hanno inventato nulla. Ciò che dicono corrisponde a ciò che si fa realmente nelle nostre società malate. Quindi più che per le loro parole conviene mostrare scandalo per la realtà che cinicamente descrivono e difendono. E soprattutto conviene, quella realtà, provare a cambiarla.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti”, da “Micromega” del 30 novembre 2015).Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.
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Made in Italy e Qatar: facciamo affari con chi finanzia l’Isis
«Non facciamo affari con paesi che finanziano l’Isis», così il premier Matteo Renzi ha liquidato l’argomento ad esplicita domanda, nel corso dell’intervista rilasciata a SkyTg24 mercoledì sera. Storiella, questa, che andrà ad aggiungersi alla collezione di bugie sesquipedali alle quali il premier ci ha abituato. Se è vero, infatti, che è da qualche tempo ormai riconosciuto a livello internazionale il ruolo principale dell’emirato del Qatar nel finanziamento del Daesh (Isis), non si vede all’orizzonte nessun provvedimento nei confronti del Qatar da parte dello Stato italiano. Le attività economiche dei qatarioti nel nostro paese sono diverse e seppure non raggiungano ancora la mole di investimenti già toccata in Francia, la dimensione degli affari tra Italia e Qatar, pubblica o privata che sia, sta diventando altrettanto importante. Sebbene non abbiano ancora comprato una squadra di calcio, come è capitato al Paris Saint-Germain, il fondo sovrano qatariota, la Qatar Holding Llc, ha buoni rapporti con imprenditori italiani e addirittura con il Fondo Strategico Italiano Spa (Fsi), società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, cioè direttamente dallo ministero del Tesoro.La società, che fu fondata dall’ex ministro Giulio Tremonti nel 2011, venne ideata sul modello francese per difendere le aziende italiane che grazie alla crisi rischiavano spesso di venir acquistate da società straniere, come è accaduto alla Parmalat. Tuttavia sembra che finito il governo Berlusconi, lo scopo sia stato tutt’altro. L’Fsi nel 2013, nei mesi successivi ad una visita in Qatar dell’allora premier Mario Monti, ha costituito una joint venture con il fondo sovrano qatariota dando vita ad una società dedicata, si legge nel comunicato, squisitamente al made In Italy, denominata Iq Made in Italy Venture. La società, forte dei milioni del fondo sovrano è entrata (tanto per trarre un esempio delle sue attività) in società con un colosso della carne italiana, Cremonini, rilevando il 28,4% della Inalca, gruppo dell’imprenditore bolognese, che si occupa della distribuzione delle sue carni all’estero.Al di fuori degli affari con il ministero del Tesoro, il fondo sovrano qatariota ha rilevato all’inizio dell’anno per intero, passando dal 40% precedente al 100% attuale, la struttura di Porta Nuova a Milano, il complesso di grattacieli e palazzi, che era controllata dalla Hines srg (insieme ad altre società come Unicredit) dell’imprenditore Manfredi Catella. Siamo dunque all’ennesima fregatura di Renzi, a meno che non si voglia avere l’ardire di negare i coinvolgimenti dell’emirato nel finanziamento di gruppi radicali islamici, compresi i gruppi afferenti all’Isis. Non solo con il Qatar ci facciamo bellamente affari, ma consentiamo agli emiri di papparsi i nostri prodotti made In Italy, comprese le aziende dell’alta moda come Valentino, acquistata dagli Al-Thani nel 2012. Ma il Qatar ha compiuto negli anni una politica molto accorta, dove ha saputo da un lato proporsi come interlocutore di pace, lo ha fatto in Afghanistan, e lo ha fatto in Libano. E dall’altro ha cavalcato le primavere arabe, che se non erano piaciute ai sauditi, che hanno perso, a causa di queste ultime, alcune roccaforti come l’Egitto di Mubarak, hanno consentito ai qatarioti di fomentare più di tutti, i ribelli in Libia.Ma stranamente non se ne parla mai, né ne parlano i soliti analisti ed opinionisti che affollano le trasmissioni di approfondimento che si accalcano negli ultimi giorni. I soldi del Qatar fanno comodo a molti paesi europei, in primis la Francia. Sebbene ora sul campo degli imputati ci sta andando l’Arabia Saudita, chi è ben informato sa che i sauditi formalmente non hanno finanziato direttamente l’Is, ma semmai il fronte di al-Nusra. Ma è anche bene sapere come abbiamo spiegato anche sulle colonne di questa testata che il fronte di ribelli armato e definito a torto come moderato e l’Isis sono praticamente la stessa cosa. Se al-Nusra nasce da una cellula di Al-Qaida, l’Isis nasce dalla stesa radice dei movimenti wahabiti, ma questa è un altra storia. Ciò che importa è sapere che l’Italia non solo fa affari con il Qatar, ma vende armi ai sauditi tramite Finmeccanica, come ampiamente evidenziato in questi giorni e in tono polemico dagli esponenti del Cinque Stelle, così come il nostro vende la sua compagnia aerea di bandiera agli emirati arabi, altro Stato accusato di avere più di buoni rapporti con certe frange islamiste.Ma Renzi oltre a queste incongruenze non perde occasione di fare la solita propaganda di bassa lega. La totale assenza di dialogo con il Vaticano viene spacciata come un successo. Secondo il premier, infatti, al Papa non si poteva chiedere di rinviare il Giubileo, ma questa è implicitamente un’ammissione di debolezza. Di fatto Papa Francesco ha imposto un Giubileo non programmato in una città come Roma, che vive uno dei peggiori momenti della sua storia, non tanto per una questione di sicurezza, ma a livello amministrativo, sociale e politico. Nessuno vuole vietare alla Chiesa cattolica di compiere la propria missione, ma rimandare un evento così importante come il Giubileo e aspettare un momento politico più stabile dell’amministrazione della capitale, sarebbe stato saggio. E che il presidente del consiglio non abbia neanche provato a costruire un dialogo con il Vaticano sulla questione del Giubileo è abbastanza grave. Anche la promessa di aumentare la spesa pubblica per l’apparato di sicurezza in barba alla spending review, appare buttata lì per imbonire l’opinione pubblica.L’emergenza immigrazione ha messo a dura prova la capacità dello Stato italiano in generale di garantire sicurezza e giustizia ai propri cittadini. E sappiamo bene come il traffico di migranti serva a molte società vicine ai partiti per fare affari. Motivo per il quale, viste le condizioni della Polizia di Stato, piuttosto che rassicurarsi delle parole del premier, bisogna ringraziare qualcuno lassù che il nostro paese conti davvero così poco in questo periodo storico da risultare poco credibile, a nostro avviso, che vi possa essere una reale minaccia terroristica alle città italiane. Infine il premier ha dato merito all’intelligence italiana nell’aver dato una mano importante nell’individuazione di Jihadi John, cosa tutta da verificare, ammesso che uccidere uno che fa il boia sia così importante nella lotta all’islamismo e non invece il solito gossip di guerra buono per twitter e i telegiornali.Dunque soltanto in una cosa ci sentiamo di concordare con il leader del Pd: è inutile farsi prendere dall’isteria, l’Italia ha saputo già superare gravi minacce terroristiche, senza fare ricorso ad ulteriori restrizioni delle libertà personali, soprattutto in un’epoca nella quale siamo spiati da internet e tecnologie varie molto più di 30-40 anni fa, e spesso basterebbe un bambino un po’ pratico per conoscere vita morte e miracoli di una persona soltanto dal profilo Facebook. Ma è anche vero che dell’Italia del 2015 c’è poco da fidarsi, il disagio e il caos in cui vivono le nostre città da alcuni anni la dice lunga sulle possibilità di tenuta dello Stato italiano in caso di grave emergenza e destabilizzazione. Per il resto Renzi e Pd bocciati e menzogneri, come sempre.(Mirco Coppola, “Allarme terrorismo, le nuove menzogne di Renzi”, da “Opinione Pubblica” del 19 novembre 2015).«Non facciamo affari con paesi che finanziano l’Isis», così il premier Matteo Renzi ha liquidato l’argomento ad esplicita domanda, nel corso dell’intervista rilasciata a SkyTg24 mercoledì sera. Storiella, questa, che andrà ad aggiungersi alla collezione di bugie sesquipedali alle quali il premier ci ha abituato. Se è vero, infatti, che è da qualche tempo ormai riconosciuto a livello internazionale il ruolo principale dell’emirato del Qatar nel finanziamento del Daesh (Isis), non si vede all’orizzonte nessun provvedimento nei confronti del Qatar da parte dello Stato italiano. Le attività economiche dei qatarioti nel nostro paese sono diverse e seppure non raggiungano ancora la mole di investimenti già toccata in Francia, la dimensione degli affari tra Italia e Qatar, pubblica o privata che sia, sta diventando altrettanto importante. Sebbene non abbiano ancora comprato una squadra di calcio, come è capitato al Paris Saint-Germain, il fondo sovrano qatariota, la Qatar Holding Llc, ha buoni rapporti con imprenditori italiani e addirittura con il Fondo Strategico Italiano Spa (Fsi), società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, cioè direttamente dallo ministero del Tesoro.
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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Giovanilismo e donnismo, l’imbroglio della post-sinistra
Sottoscrivo in toto questo articolo di Andrea Bajani pubblicato sul “Manifesto”, “Il giovane Gallino e il vecchio Renzi”. Scrive testualmente Bajani in un passo all’inizio del suo articolo: «Con Luciano Gallino, a cui oggi Torino darà l’ultimo saluto, se ne va via la dimostrazione più evidente di quanto la retorica della gioventù sia farlocca e demagogica. L’anagrafe non è garante di nulla, se non di una, peraltro solo statistica, salute migliore. L’essere giovani non è una patente di intelligenza». Parole non sagge, di più, se non fosse per il fatto che Bajani omette o dimentica di dire che a costruire questi falsi miti è stata in primis proprio la sinistra. Al “giovanilismo” dobbiamo infatti affiancare il “donnismo”. L’essere donna, ancor più che l’essere giovani, costituisce da tempo per la sinistra una sorta di valore aggiunto. Se poi si è giovani (e magari pure di bell’aspetto) e donne nello stesso tempo, allora si è fatto veramente bingo e la strada per essere elette da qualche parte è sicuramente in discesa, quote rosa o non quote rosa.Quante volte abbiamo sentito ripetere dai leader della sinistra (anche della destra, per la verità) nei comizi, nelle pubbliche assemblee e soprattutto in televisione lo slogan “Siamo dalla parte dei giovani, delle donne, dei lavoratori e dei pensionati”? Passi per i lavoratori (con questo termine ci si riferisce agli operai, agli impiegati, ai precari e ai lavoratori salariati in generale, non ai top manager) e per i pensionati (anche in questo caso nel linguaggio comune si intendono quelli a reddito basso o medio basso, non i cosiddetti “pensionati d’oro”); in tal senso l’utilizzo dei termini “lavoratori e pensionati” fa riferimento, anche dal punto di vista linguistico e concettuale, ad una logica di classe o comunque di difesa dei ceti sociali meno abbienti. Ma parlare di “giovani e donne” non ha veramente senso, dal momento che è evidente a tutti/e che ci sono giovani e donne ricchi/e e privilegiati/e o comunque benestanti (indipendentemente dall’appartenenza sessuale) e giovani e donne che non lo sono affatto.Che senso ha quindi dire di stare dalla parte dei “giovani e delle donne”, come se fossero degli ordini professionali o dei gruppi (classi) sociali o addirittura delle categorie filosofiche? E allora perché non anche “uomini”? Per la semplice ragione che non avrebbe nessun senso. Tanto varrebbe allora dire che si sta dalla parte dell’umanità intera. La qual cosa, politicamente parlando (ma non solo),sarebbe priva di ogni fondamento e di ogni senso, direi anche decisamente ridicola. E’ vero che ormai, nell’era della morte della Politica con la P maiuscola e del trionfo della “politica spettacolo” (al servizio del Mercato), le vecchie categorie politiche sono state gettate nella spazzatura. Però è vero anche che la Politica, da che mondo è mondo, è parziale per definizione. Non si può infatti stare dalla parte di tutti e di tutte. E’ oggettivamente impossibile perché la Politica è scelta. Politica significa dire dei sì e dire dei no, significa schierarsi da una parte piuttosto che da un’altra, anche e soprattutto se si ha a cuore il cosiddetto “interesse generale”.La difesa dell’“interesse generale” di roussoviana memoria non può infatti che passare attraverso il concetto di parzialità, perché è solo attraverso la dialettica (delle parti in conflitto) che si può addivenire ad una sintesi o ad un equilibrio più avanzato, come si soleva dire una volta in gergo politico (proprio quella che non c’è più oggi dal momento che il Mercato e il Capitale sono egemoni e occupano tutto lo spazio politico, da destra a sinistra). Chi lo nega è in malafede oppure è meglio che non si occupi di politica. Ergo, parlare di “giovani” e di “donne” è assolutamente privo di significato. Ha quindi perfettamente ragione Bajani che però (non dimentichiamo che l’articolo è stato pubblicato sul “Manifesto”, in seconda posizione, forse, e dico forse, solo alla “Repubblica” in fatto di femminismo…) si limita ad affrontare il primo aspetto e non indaga il secondo. Va anche detto che l’articolo voleva essere il ricordo di un intellettuale vero come Luciano Gallino (ci uniamo sinceramente al cordoglio) e non era il momento per aprire una riflessione di questo genere (solo l’autore è in grado di sapere se in altre circostanze l’avrebbe aperta, ma questo non ci riguarda).Ma in realtà c’è una “logica” nel “giovani” e soprattutto nel “donne” e non anche “uomini” (oltre all’evidente aporia cui facevo cenno sopra). Nell’immaginario comune infatti, costruito in decenni di sistematico e quotidiano bombardamento psico-mediatico, donna è diventato sinonimo di vittima, di oppressa, di discriminata. Gli uomini, secondo la ricostruzione femminista della storia, eletta ormai a Verità Universale, sono comunque dei privilegiati in virtù della loro appartenenza sessuale. Come è stato scritto più volte e da più parti (non faccio i nomi perché non voglio fargli pubblicità più di quanta già non ne abbiano), “i maschi, indipendentemente dalla loro condizione sociale, sperimentano fin dalla primissima età, i vantaggi e i privilegi che gli derivano dall’essere maschi in una società dominata dalla cultura maschilista e patriarcale”.Questo viene concepito e proposto come un vero e proprio postulato che, come tale, è stato accettato e sposato più o meno da tutti. Se quindi il famoso “largo ai giovani” trova la sua giustificazione in una sorta di archetipo da sempre storicamente radicato nella mente di tutti (chi è che potrebbe dire o anche concepire “chiudiamo gli spazi ai giovani”; non avrebbe neanche senso, oltretutto…), il “largo alle donne” trova la sua giustificazione nella lettura femminista, eretta a Verità Universale e penetrata ormai nell’immaginario comune, in base alla quale le donne sono comunque dei soggetti in una posizione di svantaggio rispetto agli uomini, indipendentemente dalla loro condizione e/o collocazione sociale. Il che è evidentemente assurdo e anche un po’ demenziale e grottesco, per quanto mi riguarda, oltre che profondamente sessista e interclassista. Ma tant’è. A mio parere, anche e soprattutto questi fenomeni sono significativi dell’impoverimento politico, ideale e culturale complessivo dei nostri tempi. L’attuale “sinistra” non solo non è estranea a tale processo di impoverimento ma ci sta dentro fin sopra i capelli. E anche questo è un fatto evidente, per lo meno per chi scrive.(Fabrizio Marchi, “Giovanilismo e donnismo, le nuove bandiere della postmodernità capitalista”, da “L’Interferenza” del 12 novembre 2015).Sottoscrivo in toto questo articolo di Andrea Bajani pubblicato sul “Manifesto”, “Il giovane Gallino e il vecchio Renzi”. Scrive testualmente Bajani in un passo all’inizio del suo articolo: «Con Luciano Gallino, a cui oggi Torino darà l’ultimo saluto, se ne va via la dimostrazione più evidente di quanto la retorica della gioventù sia farlocca e demagogica. L’anagrafe non è garante di nulla, se non di una, peraltro solo statistica, salute migliore. L’essere giovani non è una patente di intelligenza». Parole non sagge, di più, se non fosse per il fatto che Bajani omette o dimentica di dire che a costruire questi falsi miti è stata in primis proprio la sinistra. Al “giovanilismo” dobbiamo infatti affiancare il “donnismo”. L’essere donna, ancor più che l’essere giovani, costituisce da tempo per la sinistra una sorta di valore aggiunto. Se poi si è giovani (e magari pure di bell’aspetto) e donne nello stesso tempo, allora si è fatto veramente bingo e la strada per essere elette da qualche parte è sicuramente in discesa, quote rosa o non quote rosa.
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L’Italia obbedisce, con Renzi e il Re Travicello al Quirinale
Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.Poi ha ceduto anche quella che le rimaneva, cioè anche quella monetaria, legislativa e di bilancio, ad istituzioni dominate da capitali stranieri. Con le riforme della legge elettorale e della Costituzione attuate dal governo Renzi, viene molto ridotto il contenuto del potere di scelta politica da parte del popolo, perché i poteri dello Stato vengono in gran parte riuniti nelle mani del primo ministro e il Parlamento diviene un Parlamento di nominati diretto dal medesimo grazie a un ampio premio di maggioranza, che gli consente persino di trasformare la Costituzione. Quindi adesso è il primo ministro, ovviamente non eletto dal popolo, che assicura l’obbedienza dell’Italia agli interessi stranieri dominanti e alle loro direttive europee e bancarie. Un leone in casa, un cagnolino all’estero. Renzi in effetti ruggisce in Italia ma poi, nel vertici europei, se ne sta tranquillo fuori dalla porta chiusa, con la ciotola vuota, ad aspettare per le decisioni e le direttive: un vero Amministratore Capo della colonia Italia.A seguito del suddetto spostamento di funzioni e di poteri, il presidente della Repubblica, che ora viene praticamente nominato dal primo ministro, può svolgere semplicemente il ruolo notarile, di rappresentanza e supporto moralmente legittimante, a favore del primo ministro stesso. Anche il primo ministro britannico ha vasti poteri, è quasi un dittatore temporaneo sul Parlamento e sul suo partito, però non nomina e non controlla il capo dello Stato, ovviamente, dato che questi è il re o la regina. Lo stesso Mussolini, a differenza di Hitler, era sottoposto al re, il quale in effetti, al momento opportuno, lo fece arrestare. Il primo ministro che esce dalle riforme dell’attuale governo non ha questo limite. E così, finito il regno di re Giorgio, inizia la dinastia dei re Travicelli.(Marco Della Luna, “Re Travicello”, dal blog di Della Luna dell’11 novembre 2015).Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.
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Prima dell’acqua potabile, Messina avrà il plastico del Ponte
Berlusconi ci aveva provato con la Protezione Civile di Bertolaso, il suo ras delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi per il business del ventunesimo secolo: un Italia da trasformare interamente in un lucroso enorme luna park per turisti. Varie ed eventuali implicazioni criminali di quel tentativo a parte, dal punto di vista politico-economico anche Matteo Renzi sembra pensare ad un progetto del genere, almeno fin da quando ha sostituito Lupi alle Infrastrutture (ex Lavori Pubblici) con il suo fedelissimo Delrio. Non sorprende quindi che abbia appena conferito alla Protezione Civile poteri straordinari, dopo aver affondato Marino consegnando il Giubileo al renziano Team Expo, del quale ogni giorno i media embedded tessono le lodi con toni agiografici. Anche il Vaticano sembra partecipare attivamente al programma. Millenario fiuto per gli affari. E l’odore dei soldi inasprisce la guerra fra bande. Oltretevere come nel Pd. Per il riutilizzo dell’area Expo sono già in arrivo almeno duecento milioni di euro.Non ci sarebbe stato bisogno in realtà di nessun Vatileaks per sapere che la Chiesa Cattolica è una delle multinazionali più avide e corrotte del pianeta. E la gestione delle attrazioni e dei flussi turistici è sempre stata una delle sue specialità. Renzi è un animatore turistico, e fare dell’Italia il suo villaggio probabilmente è proprio il compito che gli è stato assegnato. Perché il progetto in realtà non è soltanto berlusconiano. Questa è anche l’idea che le classi dirigenti d’Europa e del resto del mondo hanno dell’Italia: un resort di loro proprietà dove venire ad ammirare panorami, monumenti, e culi, al dolce canto dei tenorini di Sanremo.Quindi il premier che gli serve in Italia è un curatore, un commissario, come Monti, ma con un’immagine mediatica più accattivante. Un commissario cazzaro. E gli serve una Costituzione truccata come una Volkswagen apposta per mantenere il Commizzaro al suo posto il più possibile.Secondo gli ultimi sondaggi, in un eventuale ballottaggio il Movimento 5 Stelle batterebbe il Pd. L’Italicum sarà quindi modificato in modo che assegni la maggioranza assoluta dei seggi al perdente. Poi il Team Expo sostituirà Camera e Senato con due padiglioni. Alla maggioranza del resto degli italiani resteranno i ruoli di cameriere stagionale, sguattero precario, guida turistica abusiva. Pizzaiolo. Cubista. Sfondo da selfie. Agli intellettuali, quello di posteggiatori. Meno i turisti capiranno l’italiano, più apprezzeranno i loro stornelli. Messina avrà il plastico del ponte prima dell’acqua potabile. Mentre il Commizzaro s’impegnerà a dimostrare ai Casamonica d’essere un giostraio più abile di loro.(Alessandra Daniele, “Il Comizzaro”, da “Carmilla online” dell’8 novembre 2015).Berlusconi ci aveva provato con la Protezione Civile di Bertolaso, il suo ras delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi per il business del ventunesimo secolo: un Italia da trasformare interamente in un lucroso enorme luna park per turisti. Varie ed eventuali implicazioni criminali di quel tentativo a parte, dal punto di vista politico-economico anche Matteo Renzi sembra pensare ad un progetto del genere, almeno fin da quando ha sostituito Lupi alle Infrastrutture (ex Lavori Pubblici) con il suo fedelissimo Delrio. Non sorprende quindi che abbia appena conferito alla Protezione Civile poteri straordinari, dopo aver affondato Marino consegnando il Giubileo al renziano Team Expo, del quale ogni giorno i media embedded tessono le lodi con toni agiografici. Anche il Vaticano sembra partecipare attivamente al programma. Millenario fiuto per gli affari. E l’odore dei soldi inasprisce la guerra fra bande. Oltretevere come nel Pd. Per il riutilizzo dell’area Expo sono già in arrivo almeno duecento milioni di euro.
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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo
Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.
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Ci vogliono in guerra, l’Isis è solo manovalanza (di fiducia)
E adesso siamo davvero in guerra. «Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre», dice Giulietto Chiesa, secondo cui d’ora in avanti ogni disagio sociale sarà rubricato come problema di ordine pubblico: «La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector». Lo sanno bene i politici che balbettano di fronte alla strage di Parigi, che espone al ridicolo l’intero dispositivo francese della sicurezza: a dieci mesi dalla mattanza di “Charlie Hebdo”, non meno di 70-80 professionisti armati, alloggiati, organizzati e coordinati nella capitale transalpina hanno potuto mettere a segno 7 attacchi simultanei in pieno centro. «Vuol dire che è meglio che quelli della Suretè si diano al giardinaggio», scrive Aldo Giannuli. Possibile che gli uomini di Hollande si siano fatti sorprendere così? Peraltro, se si pensa che siamo a 14 anni dall’attentato alle Twin Towers, dopo tre guerre (Afghanistan, Iraq e Libia) e un mare di soldi spesi, «qui la disfatta non è solo dei francesi, ma di tutta l’intelligence occidentale». Puzza di bruciato? Se ne accorge persino il mainstream: Paolo Pagliaro, nella trasmissione “Otto e mezzo” condotta da Lilli Gruber su “La7”, ricorda che l’Isis è stato finanziato da Turchia e Arabia Saudita, ed equipaggiato dagli Usa. Il vicepresidente Joe Biden riconobbe, tempo fa, che le armi inviate ai “ribelli” anti-Assad erano “finite” tutte alle milizie jihadiste del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, l’uomo fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain.«La Russia, con il suo intervento in Siria, ha cambiato il quadro politico mondiale», osserva Giulietto Chiesa su “Megachip”. «Il piano di ridisegnare la mappa medio-orientale è fallito. Daesh è, di fatto, sconfitta là dov’è nata. Dunque i suoi manovratori spostano l’offensiva in Europa». Obiettivo chiarissimo: terrorizzare il vechio continente e costringerlo sotto l’ombrello americano. «A mettere a posto la Russia penserà Washington. Del resto l’Airbus abbattuto nel Sinai, in termini di sangue russo innocente, è equivalso al massacro parigino. E non ce ne eravamo accolti». Merkel e Hollande, i due leader che «stavano cambiando rotta per uscire dal cappio americano», sono avvertiti. E mentre i Renzi di tutta Europa non osano affrontare le telecamere non sapendo cosa dire, ci si domanda inevitabilmente chi siano i manovratori del potente e vastissimo gruppo di fuoco che ha potuto fare quello che voleva, nel pieno centro di Parigi. «L’Isis è creatura di una Spectre composta da pezzi di Occidente e petromonarchie del Golfo», annota Chiesa. «Qualcuno la guida, ed è molto potente, carico di denaro e di armi. Il fanatismo è la sua facciata. Ma non spiega la sua “intelligence”». Una traccia l’ha fornita un anno fa Gioele Magaldi col suo libro “Massoni”, edito da Chiarelettere: una delle 36 Ur-Lodges, vertice massonico del potere mondiale, avrebbe un debole per le stragi e la strategia della tensione. Si chiama “Hathor Pentalpha” e, secondo Magaldi, annovera tra i suoi leader il capo del centrodestra francese, Nicolas Sarkozy. Obiettivo strategico: annullare la democrazia, anche a colpi di attentati, per riconsegnare il potere all’élite più reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica.Sorta nel 1980 quando George Bush fu sconfitto da Reagan nella corsa alla Casa Bianca, la “loggia del sangue e della vendetta” avrebbe promosso l’apocalisse dell’11 Settembre, punto di partenza della “guerra infinita” che da allora sta destabilizzando il pianeta. Oltre ai Bush, dal vecchio George Herbert al figlio George Walker fino al fratello, Jeb Bush, tra gli alfieri della “Hathor” figurerebbero anche Tony Blair, l’uomo da cui nacque l’invenzione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, nonché un leader autoritario come il turco Ergogan, appena rieletto con un plebiscito da una Turchia abbondantemente terrorizzata con un’ondata di paurosi attentati molto simili a quello di Parigi. Nel nome “Hathor”, spiega Magaldi, c’è il richiamo diretto all’Isis: Hathor è l’altro nome della dea Iside, molto popolare nel milieu massonico, compreso quello dei “controiniziati” che userebbero a scopo di potere – e con sanguinario cinismo – la propria conoscenza esoterica, fatta anche di precisi riferimenti simbolici. Sempre su “Megachip”, Roberto Quaglia ricorda la passione di Christine Lagarde (Fmi) per la numerologia, e osserva che la strage parigina è avvenuta un venerdì 13, nell’11esimo mese dell’anno e nell’11esimo “arrondissement” di Parigi.La maggior parte delle vittime, quelle del teatro Bataclan, erano spettatori di un concerto di heavy metal, sul palco c’erano gli “Eagles of Death Metal”. «Due settimane prima, a Bucarest (nota una volta come “la piccola Parigi”), in una strage su scala minore oltre 50 ragazzi perivano nel rogo sviluppatosi durante un concerto heavy metal, evento che ha rapidamente portato alla caduta del governo rumeno e l’instaurazione di un governo “tecnico” più eurocratico che mai», aggiunge Quaglia. Frequentare concerti heavy metal sta iniziando a farsi pericoloso? «Ciò detto, buona Terza Guerra Mondiale a tutti». Secondo Quaglia, all’Isis «non bastava venire bombardata dalla Russia con bombe vere», tenendo conto che quelle sganciate dagli Usa erano, di fatto, rifornimenti. «L’Isis vuole che anche la Francia ora si faccia avanti per bombardarli e, possibilmente, che invii anche truppe di terra per combatterli meglio. Cosa c’è di strano? Ha già annunciato simili attentati pure a Roma, Londra e Washington». Evidente la strategia: coinvolgere l’Europa nell’opzione-guerra, quella su cui scommettono dal 2001, ininterrottamente, le “menti” dell’11 Settembre, capaci di “inventarsi” come nemico pubblico prima l’ex uomo Cia in Afghanistan, Osama Bin Laden, e ora il bieco “califfo”, capo di un’orda di tagliatori di teste, completamente indisturbati fino all’entrata in azione, in Siria, dei bombardieri di Putin.Non era già Bin Laden, continua Quaglia, a sperare che – 14 anni fa – l’Afghanistan venisse bombardato e l’Iraq invaso? «Dopotutto fu proprio questo che egli ottenne». La solite malelingue sostengono che Isis è stato creato dagli Stati Uniti? E pazienza «se fra le malelingue c’è il generale francese Vincent Desportes, cosa volete che ne sappia uno come lui?». E le foto di Al-Baghdadi con McCain? «A chi non capita, dopotutto, di trovarsi per sbaglio assieme a personaggi sgradevoli che passavano di lì per caso?», scrive Quaglia, con sarcasmo: «Potrebbe accadere ad ognuno di noi». Alla vigilia dell’attentato di Parigi il capo della Cia si sarebbe incontrato col responsabile dei servizi segreti francesi? «Probabilmente questa gente va insieme a bersi una birra più spesso di quanto pensiamo – e cosa c’è di male?». Come spesso accade in questi casi, aggiunge Quaglia, le informazioni della strage su Wikipedia sono apparse a velocità da record: «Pare che alcuni fatti (una dichiarazione di Hollande) siano stati riportati addirittura prima che accadessero. Ma a questi piccoli miracoli siamo ormai abituati: i più smaliziati ricorderanno la Bbc annunciare l’11 settembre 2001 il crollo del Wtc7 con 20 minuti di anticipo rispetto al fatto».E siamo anche abituati ad altre puntuali “coincidenze”: tutte le volte che i terroristi colpiscono, qualche esercitazione antiterrorismo è sempre in corso. Accadde a New York l’11 Settembre, a Londra il 7 luglio 2005. Stavolta, a Parigi, la polizia era accorsa in forze alla Gare de Lyon per un allarme bomba. «E sempre per un “allarme bomba” lo stesso giorno è stato fatto sgomberare anche l’albergo dove si trovava la squadra nazionale tedesca di calcio, in città per l’incontro serale con la Francia. Dite che è poco?». Quel giorno, infine, era in corso «anche un’esercitazione completa proprio per il caso di un multi-attacco, che coinvolgeva polizia e pompieri, esattamente come in tutti i casi più eclatanti di terrorismo che ci hanno propinato». Secondo Quaglia, è impossibile non leggere una precisa regia dietro tutti questi eventi. Tanto più vero oggi, dopo la recente decisione del governo Hollande di apporre il segreto di Stato alle indagini sulla strage di “Charlie Hebdo”: i magistrati avevano scoperto che le armi provenivano da una strana triangolazione tra Slovacchia, Belgio e servizi segreti francesi. Realtà occulta, spaventosa e “inaccettabile”, come quella disegnata da Gioele Magaldi? «E’ previsto che ve ne rendiate conto a puntate, così da non farci troppo caso», conclude Quaglia. «Avete mai sentito la ricetta di come vanno bollite le rane così che non saltino fuori dalla pentola?».E adesso siamo davvero in guerra. «Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre», dice Giulietto Chiesa, secondo cui d’ora in avanti ogni disagio sociale sarà rubricato come problema di ordine pubblico: «La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector». Lo sanno bene i politici che balbettano di fronte alla strage di Parigi, che espone al ridicolo l’intero dispositivo francese della sicurezza: a dieci mesi dalla mattanza di “Charlie Hebdo”, non meno di 70-80 professionisti armati, alloggiati, organizzati e coordinati nella capitale transalpina hanno potuto mettere a segno 7 attacchi simultanei in pieno centro. «Vuol dire che è meglio che quelli della Suretè si diano al giardinaggio», scrive Aldo Giannuli. Possibile che gli uomini di Hollande si siano fatti sorprendere così? Peraltro, se si pensa che siamo a 14 anni dall’attentato alle Twin Towers, dopo tre guerre (Afghanistan, Iraq e Libia) e un mare di soldi spesi, «qui la disfatta non è solo dei francesi, ma di tutta l’intelligence occidentale». Puzza di bruciato? Se ne accorge persino il mainstream: Paolo Pagliaro, nella trasmissione “Otto e mezzo” condotta da Lilli Gruber su “La7”, ricorda che l’Isis è stato finanziato da Turchia e Arabia Saudita, ed equipaggiato dagli Usa. Il vicepresidente Joe Biden riconobbe, tempo fa, che le armi inviate ai “ribelli” anti-Assad erano “finite” tutte alle milizie jihadiste del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, l’uomo fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain.
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Crisi senza fine? La previde vent’anni fa il “profeta” Craxi
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”. Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione? «La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali». Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo? «I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci? «D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». E’ storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.