Archivio del Tag ‘Matteo Renzi’
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Marino piange, ma dov’era quando il Pd smontava l’Italia?
Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).La Marino-story tiene banco sui giornali e nei talk-show dove si parla di scontrini e Mafia Capitale, congiure del silenzio, il gelo del premier-padrone e la freddezza del Vaticano. La finanza locale perde i pezzi, sotto la scure della legge di stabilità, ma il sindaco-contro pensava comunque di “cambiare Roma” anche senza soldi, il denaro che lo Stato – in avanzo primario per ordine di Bruxelles – rifiuta di trasferire per i servizi, perché il welfare deve dimagrire, la spesa pubblica si deve tagliare, i buchi nelle strade possono diventare crateri senza che nessuno protesti davvero, nessuno indichi la radice del male, la fonte originaria del problema. Anche a questo può servire la Marino-story, condita con sushi e sashimi, traditori e lealisti, rinnegati e irriducibili. Uno come Marco Travaglio, ben lungi dall’avventurarsi in analisi storico-politiche, si limita a una constatazione notarile: il Pd ha impedito a Marino di dimettersi dopo lo scandalo Mafia Capitale e ora l’ha messo in croce per l’inezia di quattro scontrini al ristorante. Dov’è la coerenza? Conclusione: in questa farsa, dove nessuno esce a testa alta, al Nazzareno tocca la parte peggiore.Ma questi sono solo gli spiccioli. Dal 2011, l’anno di Monti, sono fallite centinaia di migliaia di imprese, mille al giorno solo nel 2012 secondo Unioncamere. Pil in picchiata e record storico di senza lavoro, disoccupazione giovanile mai vista prima nella storia della repubblica. Non è stato un incidente, riassume l’economista Nino Galloni: fu la Germania, in cambio della rinuncia al marco e dell’adesione all’euro, a pretendere dalla Francia (dal cui consenso dipendeva la riunificazione tedesca) che la concorrenza industriale del sistema-Italia venisse sabotata e liquidata. Così l’Italia è stata puntualmente declassata e deindustrializzata, con la complicità di Confindustria (meno lavoro, quindi compressione dei salari, fino all’attuale Jobs Act) e il supporto decisivo del centrosinistra privatizzatore (Prodi, Andreatta, D’Alema, Amato). E’ stato proprio il centrosinistra, sindacati compresi, a convincere il paese ad affrontare “sacrifici”, secondo lo schema della “svalutazione interna”, non potendosi più svalutare la moneta. Ignazio Marino, l’aspirante salvatore della capitale, è stato una delle tante comparse del film. Ora parla di tradimento, pensando al suo piccolo scranno in Campidoglio, senza accorgersi che i traditi sono gli italiani, a cui un’intera classe politica – oggi guidata dal Pd – ha semplicemente portato via il paese, svenduto pezzo su pezzo, secondo il piano prestabilito all’estero, molto lontano da Roma.Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).
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Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019
In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».Lo conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche comprimendo il potere di spesa mediante, appunto, il taglio deliberato dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva: «Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.Per quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in crescita negli anni della crisi, con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la “disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente, ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica, ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
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Dominus del potere sub-europeo, Renzi manovra per durare
Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».Da qui, scrive Gianni sul “Manifesto”, la centralità della cosiddetta riforma fiscale, «definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”». I proprietari di 75.000 case di lusso e palazzi ne trarranno ampi benefici, almeno 2.800 euro in media a testa. «Non importa se a farne le spese sarà la sanità o altri istituti dello stato sociale, un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere». Per questo, continua Gianni, «la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana». Il vecchio leader di Arcore, almeno, «ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata all’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche». Invece, «Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo».Il boss di Confindustria sembra confortato anche dai propositi del leader: intervenire d’autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, «usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire». E qui, per Alfonso Gianni, «si scende negli inferi del diabolico». Il taglio dell’Ires? «Verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità».Renzi vuole durare, insiste Gianni. «Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci». Le “controriforme” costituzionali, istituzionali ed elettorali in atto potranno essere smantellate, forse, solo a colpi di referendum. Ma intanto il governo Renzi si fa cinghia di trasmissione del super-potere di Bruxelles, «espresso dagli organi ademocratici della Ue», e in Italia diventa «strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista», provando a cooptare «strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva, cioè il conflitto».Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».
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Record, giovani senza lavoro: accetteranno salari da schiavi
Mai così alto il tasso di disoccupazione giovanile: nell’ultima rilevazione Istat di giugno è al 44,2%, in aumento dell’1,9% rispetto al mese precedente. E’ il livello più alto dal primo anno di stima, il 1977, e la rilevazione esclude i giovani “inattivi”, che non cercano lavoro. «L’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo governo», scrive Guglielmo Forges Davanzati. «La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti». Inoltre, la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. Scaduto il periodo di decontribuzione, molti contratti verranno ri-trasformati a tempo determinato.L’aumento della disoccupazione giovanile, scrive Davanzati su “Keynes Blog”, è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010 la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di “labour hoarding”, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare. La relativa tenuta dell’occupazione di lavoratori adulti? Dipende anche «da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare». In più, l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità.«Le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle», scrive Davanzati. «Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori, che sono alla base dell’azione sindacale». Così, ha buon gioco il governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: «La proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia». Un recente studio del Fmi mostra che la riduzione della “union density” nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai paesi industrializzati negli ultimi decenni. «La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza: riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile».Le imprese italiane, nella gran parte dei casi sono poco propense a innovare, continua Davanzati, anche perché, essendo di piccole dimensioni, non possono sfruttare economie di scala e in più sono fortemente dipendenti dal settore bancario: in una fase come questa, di restrizione del credito, gli investimenti si riducono, abbattendo il tasso di crescita. Poi c’è l’invecchiamento della popolazione, che frena la crescita della produttività. «In generale, economie nelle quali il bacino degli occupati è formato prevalentemente da individui giovani sono economie con elevato tasso di crescita: ciò a ragione dell’obsolescenza intellettuale che riguarda lavoratori con età più elevata, della maggiore propensione al consumo dei giovani (e dunque della più alta domanda interna), della maggiore “creatività” (e dunque, della maggiore propensione a innovare)». Gli annunciati tagli alla sanità? «Non potranno che esercitare ulteriori effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, dal momento che incideranno negativamente sul potenziale produttivo della forza-lavoro».Quindi i salari: quelli percepiti dai lavoratori italiani sono al di sotto della media europea, nonostante il numero di ore lavorate superiore alla media Ue. «Laddove i salari sono maggiori, è maggiore la produttività del lavoro». L’aumento dei salari, combinato con minore flessibilità in uscita, «incentiva le imprese a introdurre innovazioni per non perdere quote di mercato». E l’aumento dei salari «incentiva l’aumento degli investimenti netti, con un duplice effetto di segno positivo, dal lato della domanda (essendo gli investimenti una componente della domanda) e dal lato dell’offerta, dal momento che l’ammodernamento degli impianti è una fondamentale pre-condizione per l’aumento della produttività del lavoro». La precarizzazione del lavoro è un freno alla crescita della produttività, sia perché incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (e dunque non innovando), sia perché, «accrescendo la concorrenza fra lavoratori, rende necessario un maggior impegno del management in attività di controllo e sorveglianza, per loro natura improduttive, disincentivando l’impegno per la produzione di innovazioni».I governi che si sono succeduti negli ultimi anni, continua Davanzati, hanno provato a contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile con misure inadeguate, come l’alternanza scuola-lavoro, che «risponde all’esigenza di dequalificare la forza-lavoro, assecondando la domanda di lavoro poco qualificato espressa dalla gran parte delle nostre imprese», specie nei settori “maturi”, agroalimentare e “made in Italy”. Poi, le incentivazioni offerte alle imprese che assumono giovani: «Non è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione giovanile», annota Davanzati, dal momento che «le imprese assumono se le loro aspettative in ordine alla realizzazione di profitti sono ottimistiche», ovvero «quando ci si aspetta un aumento della domanda», e non certo in piena crisi. Altra leva, la promozione dell’auto-imprenditorialità: «In questo caso, è possibile riscontrare un duplice problema: la difficoltà di accesso a finanziamenti per l’avvio dell’impresa (pure a fronte di incentivi pubblici nella fase iniziale) e verosimilmente i bassi profitti che una nuova impresa può aspettarsi di ottenere in una fase di intensa e prolungata recessione».Per l’analista, si tratta di provvedimenti «la cui ratio risiede, in ultima analisi, nel dequalificare la forza-lavoro e renderla disponibile a bassi salari». Affinché ciò si renda pienamente possibile, «è necessario ridurre ulteriormente il potere contrattuale del sindacato». La riduzione del potere contrattuale del sindacato si è tradotta, nei paesi Ocse, in un significativo aumento dei redditi percepiti dal 10% delle famiglie con più alto reddito. «L’Italia è ovviamente all’interno di questa dinamica, ma con una propria specificità, ovvero il fatto che, rispetto alla media europea, il numero di iscritti al sindacato è ancora relativamente elevato. Letto in questa chiave, il fondamentale compito del governo Renzi consiste nell’impedire qualunque forma di conflittualità sociale e di resistenza organizzata, incentivando i giovani disoccupati all’autoimprenditorialità», escludendo il sindacato. Tutto questo serve a redistribuire del reddito a vantaggio dei più ricchi, percettori di rendite finanziarie e di redditi da capitale (fenomeno già intensamente in atto in altri paesi). «Un processo di redistribuzione della ricchezza che sembra prioritario rispetto all’obiettivo della crescita e che si rende possibile per l’accresciuto potere politico delle nuove classi agiate».Mai così alto il tasso di disoccupazione giovanile: nell’ultima rilevazione Istat di giugno è al 44,2%, in aumento dell’1,9% rispetto al mese precedente. E’ il livello più alto dal primo anno di stima, il 1977, e la rilevazione esclude i giovani “inattivi”, che non cercano lavoro. «L’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo governo», scrive Guglielmo Forges Davanzati. «La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti». Inoltre, la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. Scaduto il periodo di decontribuzione, molti contratti verranno ri-trasformati a tempo determinato.
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In regalo anche Poste Italiane, 600 milioni l’anno di profitti
È partita lunedì scorso la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata attraverso la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo Renzi è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi di euro (dati Banca d’Italia, fine luglio 2015) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, pari a 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016. Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.Fatta questa premessa, occorre aggiungere come anche il prezzo di vendita del 40% di Poste Italiane sia stato ipotizzato al massimo ribasso, prefigurando, ancora una volta, la svendita di un patrimonio collettivo. Infatti, mentre Banca Imi, filiale di Intesa Sanpaolo, attribuiva, non più tardi di una settimana fa, un valore a Poste Italiane compreso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e mentre Goldman Sachs parlava di una cifra compresa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai blocchi di partenza della vendita delle azioni la società risulta valorizzata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi. A questo, vanno aggiunti tutti i fattori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che mentre si decide di privatizzare un servizio pubblico universale, consegnandolo di fatto alle leggi del mercato, se ne rafforza al contempo, per rendere più appetibile l’offerta, il carattere monopolistico nel campo dei servizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna certezza rispetto al domani: parliamo dell’accordo vigente con Cassa Depositi e Prestiti per la gestione del risparmio postale (1,6 miliardi di commissione), così come dei crediti vantati da Poste nei confronti della pubblica amministrazione (2,8 miliardi). Senza contare come la società abbia in pancia strumenti di finanza derivata, il cui “fair value”, al 30 giugno 2015, risulta negativo per 976 milioni di euro.Ma aldilà di queste considerazioni economicistiche, è a tutti evidente come, con il collocamento in Borsa del 40% di Poste Italiane muti definitivamente la natura di un servizio, la cui universalità era sinora garantita dal suo contesto di garanzia pubblica, che permetteva, attraverso i ricavi realizzati dagli uffici postali delle grandi aree densamente urbanizzate, di poter mantenere l’apertura di uffici, spesso con funzioni di presidio sociale territoriale, in tutto il territorio italiano, a partire dai piccoli paesi. E’ evidente come la privatizzazione in atto inciderà soprattutto su questo dato: per i dividendi in Borsa diverrà assolutamente necessario il taglio dei rami economicamente secchi, ovvero la drastica riduzione degli sportelli nelle aree poco popolate. E, infatti, il piano industriale già prevede – ma sarà solo l’assaggio – la diversificazione dei modelli di recapito, che da ottobre 2015 rimarrà quotidiano per nove città definite ad “alta densità postale”, mentre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni.Quasi tautologico sottolineare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una drastica riduzione – si parla nel tempo di 12-15.000 posti in meno – oltre al sovraccarico di ritmi per quelli che avranno la fortuna di essere sfuggiti alla mannaia. Di fatto, con la privatizzazione di Poste Italiane si cerca di rendere espliciti processi che già con la precedente trasformazione in SpA erano rimasti sotto traccia: un’attenzione sempre più residuale al servizio di recapito postale (anche per motivi legati all’innovazione tecnologica) e un accento sempre più marcato sul ruolo finanziario di Poste Italiane, che, oggi, grazie alla capillarità dei suoi presidi territoriali (13.000 sportelli), costruiti negli anni con i soldi della collettività, può tranquillamente lanciarsi in Borsa sfruttando la fidelizzazione dei cittadini accumulata in decenni di ruolo pubblico, per metterla a valore in prodotti assicurativi, finanziari e in sempre più spregiudicate speculazioni di mercato. Stupisce, ma fino a un certo punto, la totale condiscendenza dei principali sindacati ad un percorso che non avrà che ricadute negative sia sul fronte del lavoro che su quello dei servizi per i cittadini. Non vale la foglia di fico dell’azionariato popolare, che in realtà rende la truffa ancor più compiuta: con le azioni per i dipendenti e gli utenti si fa un ulteriore favore ai grandi investitori, che potranno controllare la società senza neppure fare lo sforzo di mettere soldi per acquistarla.(Marco Bersani, “La Posta in gioco”, da “Megachip” del 16 ottobre 2015).È partita lunedì scorso la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata attraverso la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo Renzi è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi di euro (dati Banca d’Italia, fine luglio 2015) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, pari a 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016. Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.
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Addio senatori, così Renzi li ha spogliati di ogni dignità
Pensi ai sentori, non quelli di adesso, ma di sempre. A ritroso. Come figura, come maschera, come archetipo. C’era quello all’italiana tronfio e grasso o allampanato e severo da prima repubblica, con le cravatte marroni e il suo codazzo di clienti, buono per una raccomandazione e un posto alle poste. C’era il Bossi secessionista che quasi per beffa si ritrova per la prima volta in Parlamento nella Camera nobile, giusto il tempo di guadagnarsi il soprannome di Senatùr e poi migrare a Montecitorio, dove la politica ha più sale. C’era Andreotti a cui l’«amico» Cossiga fece il più perfido dei regali, un seggio da senatore a vita, come a certificare l’eclissi di un potere. E fu allora che il Divo Giulio cominciò a logorarsi. C’era il Pci di Berlinguer che nel 1981 pubblicò a pagina sette de L’Unità un documento di riforma costituzionale per abolire il Senato e rimpiazzarlo con il Cnel. C’era Bendetto Croce, senatore del Regno, che da antifascista restò in Senato, convinto a ragione che il fascismo fosse solo una parentesi. C’era ancora prima il Senato dello Statuto Albertino, con i senatori scelti direttamente dal re, con il vantaggio di non dover improvvisare un generico «in base alle scelte degli elettori» come nel compromesso partorito dal Pd. C’era in una Roma lontana Cicerone che sbraitava contro Catilina e un Senato di ottimati cieco e oligarchico. Nel nome della libertà accoltellarono Cesare e si beccarono il più furbo Ottaviano. Augusto fece dei senatori una vanagloriosa casta plaudente.Nessuna simpatia per i senatori. Solo che nessuno immaginava come sarebbero finiti al tempo di Renzi. Niente gloria, nessun funerale, neppure un mezzo discorso d’addio, a pensarci bene neppure un suicidio orgoglioso alla Seneca. Nulla. Peggio. La fine dei senatori è una mediocre metamorfosi. Renzi con un abracadabra li ha trasformati in consiglieri regionali.Renzi li ha spogliati di ogni dignità, perlomeno quel poco che restava. Il Senato, il Palazzo, resta lì, ma come qualcosa di inutile, ristretto, periferico, una sorta di Parlamento minore, come un dopo lavoro rispetto agli affari regionali. Non si sa ancora come verranno eletti, forse scelti dai partiti e con la coperta democratica dei poveri elettori. Senatori ancora di più ingaglioffati nel gioco delle clientele, buoni a dirottare finanziamenti pubblici sul territorio e alle prese con le note spese. La cattiveria vera forse è proprio questa: aver salvato le Regioni per spogliare il Senato. Quelle Regioni simbolo di spreco a cui i riformatori concedono il titolo onorifico di Senatori.Non è più tempo di senatori. Sta tramontando perfino la parola. Questo è un tempo dove resistono solo leggende, gente come Pirlo o Totti. Non sono un gruppo storico, sono eccezioni. I senatori erano la bandiera e i vecchi di una squadra, di uno spogliatoio, di una nazionale. Ora sono solo carne da rottamare e utili solo come portaborse di giovani rampanti. Forse però è davvero qui il paradosso italiano. In questo paese di vecchi scompare un simbolo. Non c’è più il senex, l’anziano che incarna la saggezza, la tradizione, la memoria, quello che tramanda, che fa da testimone e che ricorda. Non serve più in una terra dove tutto è presente, dove il futuro è senza orizzonte e il passato si ferma all’altroieri. Non serve perché questo non è un Paese per senatori. Non lo è perché quelli che per età dovevano esserlo hanno bruciato sogni e utopie in piazza, lasciandosi alle spalle solo cenere e macerie. Non lo è perché hanno tradito e si sono traditi. Non lo è perché hanno urlato «la fantasia al potere», per poi buttare la fantasia e tenersi il potere. Non lo è perché si sono mangiati il futuro di chi veniva dopo. Addio senatori. Quello che avete davanti è l’ultimo tratto. I tempi, dicono, si chiuderanno nel 2020. È questo il futuro prossimo. È come in Guerre Stellari, come in quel Senato galattico e suicida. «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi».Pensi ai sentori, non quelli di adesso, ma di sempre. A ritroso. Come figura, come maschera, come archetipo. C’era quello all’italiana tronfio e grasso o allampanato e severo da prima repubblica, con le cravatte marroni e il suo codazzo di clienti, buono per una raccomandazione e un posto alle poste. C’era il Bossi secessionista che quasi per beffa si ritrova per la prima volta in Parlamento nella Camera nobile, giusto il tempo di guadagnarsi il soprannome di Senatùr e poi migrare a Montecitorio, dove la politica ha più sale. C’era Andreotti a cui l’«amico» Cossiga fece il più perfido dei regali, un seggio da senatore a vita, come a certificare l’eclissi di un potere. E fu allora che il Divo Giulio cominciò a logorarsi. C’era il Pci di Berlinguer che nel 1981 pubblicò a pagina sette de L’Unità un documento di riforma costituzionale per abolire il Senato e rimpiazzarlo con il Cnel. C’era Bendetto Croce, senatore del Regno, che da antifascista restò in Senato, convinto a ragione che il fascismo fosse solo una parentesi. C’era ancora prima il Senato dello Statuto Albertino, con i senatori scelti direttamente dal re, con il vantaggio di non dover improvvisare un generico «in base alle scelte degli elettori» come nel compromesso partorito dal Pd. C’era in una Roma lontana Cicerone che sbraitava contro Catilina e un Senato di ottimati cieco e oligarchico. Nel nome della libertà accoltellarono Cesare e si beccarono il più furbo Ottaviano. Augusto fece dei senatori una vanagloriosa casta plaudente.
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Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».
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Torna la lotta di classe, contro il regime che taglia il lavoro
La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.Questo giornale, da quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno rafforzato il controllo, è diventato l’organo ufficiale di propaganda del nuovo regime padronale. Così qualche giorno fa il quotidiano milanese ha lanciato il modello sociale aziendalistico, che non è certo una novità nella storia del capitalismo imprenditoriale. Una volta non solo il salario, ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la pensione, la scuola dei figli, le vacanze, persino i funerali erano aziendali. Una volta non solo la Fiat, ma tanti padri padroni affermavano così il loro dominio sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno avevano costruito un sistema per cui si era dipendenti aziendali dalla nascita alla tomba. Ora la distruzione dello stato sociale, la disoccupazione e la precarietà, il Jobs Act e la cancellazione del contratto nazionale creano le condizioni per il ritorno a questo aziendalismo medioevale.La svolta da noi l’ha operata Sergio Marchionne, quando nell’estate del 2010 impose ai lavoratori di Pomigliano l’aut aut: o uscire dal contratto nazionale o uscire per sempre dalla fabbrica. Solo la Fiom ed i sindacati di base respinsero il ricatto, che alla fine però ebbe successo. L’allora segretario del Pd Bersani dichiarò che il modello Pomigliano si sarebbe potuto accettare se fosse rimasto una eccezione, ma naturalmente divenne la regola. Allora, Cgil, Cisl e Uil cercarono di ritrovare spazio con lo scambio praticato da trenta anni: l’arretramento dei lavoratori per il riconoscimento del proprio ruolo. Il 10 gennaio 2013 i sindacati confederali e la Confindustria sottoscrissero con grande enfasi una intesa che avrebbe dovuto rilanciare le relazioni industriali. I sindacati accettavano di generalizzare il modello Marchionne in ogni azienda, in cambio della promessa del rinnovo dei contratti nazionali. Oggi quell’accordo registra un totale fallimento e chi lo ha sottoscritto viene descritto come irragionevole da Squinzi. Chi si fa pecora il lupo se lo mangia, dice un proverbio siciliano.La distruzione del contratto nazionale non è solo un interesse del grande padronato italiano, è un obiettivo di fondo delle cosiddette riforme del lavoro volute dalla finanza internazionale, in Europa dalla Troika. Nel nuovo memorandum imposto alla Grecia la soppressione della contrattazione collettiva è uno dei punti cardine. La sempre da ricordare lettera di Draghi e Trichet al governo italiano, nell’agosto 2011 chiedeva sulla contrattazione le stesse cose che oggi pretendono Squinzi, Renzi e il “Corriere della Sera”. Abbattere i salari e i diritti e alzare i profitti, questa è la lotta di classe dall’alto che da tempo viene condotta contro il lavoro e che ogni sistema di potere pratica come può. La vera novità oggi sono i segnali di ripresa della lotta di classe dal basso, le ribellioni che cominciano a sorgere nel mondo del lavoro. Alla Chrysler gli operai hanno respinto in massa il contratto accettato dai loro sindacati e si preparano a scioperare. In Germania i macchinisti hanno tenuto bloccato per una settimana il trasporto ferroviario del paese. Lo stesso hanno fatto i conducenti della metropolitana di Londra. I dipendenti di Air France sono stati sui mass media, e hanno riscosso simpatia in tutto il mondo, per il brutto quarto d’ora che hanno fatto passare ai manager che li vogliono licenziare.Anche da noi ci sono simili segnali. Da tempo i lavoratori della logistica, in gran parte immigrati, organizzati dal Sicobas, fanno scioperi durissimi che spesso producono risultati. Ma ora anche il lavoro più tradizionale ha ricominciato a farsi sentire. Secondo il garante degli scioperi, le agitazioni nella scuola sono più che raddoppiate e così quelle in altri settori dei servizi. Solo pochi giorni fa i trasporti a Roma sono stati bloccati da uno sciopero che ha visto una partecipazione altissima, ben superiore alle forze della Usb che sola lo aveva proclamato. Dopo anni di rassegnazione, nel mondo del lavoro c’è chi comincia ad alzare la testa e quando lo fa esprime subito tutta la rabbia accumulata per le ingiustizie subite. È per questo che si vuole colpire il diritto stesso a scioperare. Non ci sono ancora in campo mobilitazioni sociali della portata di quelle dei decenni passati. Ma i segnali di lotta di classe dal basso sono già allarmanti per chi vuole continuare a condurla indisturbato dall’alto.La reazione contro la ripresa degli scioperi è in tutti gli Stati europei. La magistratura tedesca ha fermato lo sciopero nella Lufthansa. Il governo spagnolo ha varato leggi anti-manifestazioni. Il governo Cameron sta varando una legge sul diritto di sciopero così restrittiva, che un parlamentare che pure la sostiene l’ha comparata a quelle di un regime fascista. In Italia il solito “Corriere della Sera” ha sponsorizzato la proposta di limitazione dello sciopero di alcuni parlamentari renziani, che ricalca quella britannica. L’austerità impone il taglio dei salari e la distruzione dei diritti, l’attacco al diritto di sciopero deve prevenire la ribellione dei lavoratori, mentre i sindacati vanno ridotti all’impotenza e additati al disprezzo dell’opinione pubblica. Tutto si tiene e tutto si fa nel nome di una ripresa che, così come viene promessa, non ci sarà mai.La linea trentennale di Cgil, Cisl e Uil esce distrutta da questa nuova fase dei conflitti sociali. Il modello concertativo è diventato oramai pura gestione dell’impotenza e i proclami televisivi a cui non segue nulla non lo rafforzano di certo. L’alternativa alla resa è una sola, ci vuole un modello sindacale che faccia propria la lezione delle mobilitazioni radicali del lavoro e che, così come fa il sistema delle imprese, sostenga e promuova la lotta di classe. Il fallimento di Cgil, Cisl e Uil apre la via ad un nuovo sindacalismo conflittuale a cui sempre più si rivolgeranno i lavoratori che si ribellano. E un giorno la Confindustria rimpiangerà l’arroganza attuale.(Giorgio Cremaschi, “Il ritorno alla lotta di classe”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2015).La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.
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Rcs-Mondadori, nasce un regime. E nessuno dice niente
«La più potente, poderosa e importante battaglia politica per garantire la libera informazione in Italia e la possibilità di aumentare la diffusione della cultura nel nostro paese si è appena conclusa, nella più totale indifferenza da parte di ogni soggetto politico presente in Parlamento», inclusi «movimenti e associazioni al di fuori del Parlamento». A parlare è Sergio Di Cori Modigliani, e la “battaglia” è quella per contrastare l’affermazione del super-monopolio editoriale italiano, la fusione tra Mondadori e Rcs Rizzoli. «La battaglia non ha avuto oppositori», scrive Modigliani sul suo blog. E «chi avrebbe dovuto interpretare il ruolo dell’antagonista», in primis il M5S, è finito tra «coloro che scelgono di non voler combattere le battaglie che contano». Secondo il blogger, «c’è stata, e c’è tuttora, una persona soltanto che ha detto no. Un’unica azienda. Un unico marchio. Un unico individuo. Si chiama Roberto Calasso. La sua è un’azienda editoriale. Il suo marchio è Adelphi». Raffinato intellettuale, scrittore e editore, Calasso si è battuto in solitudine contro l’instaurazione di un regime che controllerà tutti i contenuti editoriali italiani.La Mondadori ha ufficialmente acquistato la Rizzoli Libri per 125,7 milioni di euro, nonostante l’offerta della Mondadori fosse stata di 138 milioni e la Rizzoli avesse accettato. Grazie a questo accordo, scrive Di Cori Modigliani, la “Mondazzoli” da oggi controlla il 40,4% del mercato. «Se a questo si assommano gli interessi incrociati societari dello stesso gruppo in altri settori mediatici (radio, televisioni private in chiaro, satellitari e pay, video-giochi, smartphone applications, quotidiani cartacei, settimanali, mensili, periodici) la Mondazzoli raggiunge il controllo complessivo di circa l’84% dell’intera produzione nazionale operativa sul territorio della Repubblica Italiana. Al massimo entro pochi mesi, temo, le piccole realtà operative in Italia verranno spazzate via senza pietà. Si tratta del più grande monopolio nel campo della cultura e in quel segmento editoriale, mai esistito in una nazione occidentale da quando Gutenberg ha inventato la stampa».Tutto è nato nel febbraio del 2015, otto mesi fa. La Rizzoli Libri (presidente Paolo Mieli, esponente di punta del centro-sinistra) in seguito al disastroso bilancio del 2014 aveva deciso di vendere. «Non ha neppure fatto in tempo a comunicare la decisione che si è presentata come unico acquirente la Mondadori, chiedendo un diritto in esclusiva facendo una offerta». Esteso al massimo il giorno della scadenza definitiva, oltre la quale veniva annullata la possibilità dell’accordo: il 30 settembre. «Presumo che il motivo che giustificava gli otto mesi di tempo era la preoccupazione che l’Authority responsabile di controllare ogni azione societaria, nel nome dell’anti-trust, avrebbe potuto mettere i bastoni tra le ruote. Bastava una interrogazione parlamentare, un gruppo politico italiano che avesse preteso un dibattito in aula, denunciando “la violazione di ogni regolamentazione atta ad impedire che nel mercato libero prevalgano i cartelli consociativi a danno della competizione e che si costituiscano e si costruiscano dei monopoli unici”».«Se qualcuno, alla Camera dei Deputati avesse fatto questo – continua Di Cori Modigliani – in qualche modo l’opinione pubblica si sarebbe allertata, se ne sarebbe parlato, ci sarebbero state discussioni, posizioni diverse, dibattiti, polemiche, e i diversi soggetti in campo sarebbero diventati pubblici, scoprendo ciascuno le proprie carte». Invece, tutti si sono attenuti al basso profilo: «L’intera stampa finanziata e sostenuta dal centro-destra ha eseguito l’ordine in maniera compatta: è un affare fondamentale per Silvio Berlusconi, è stato detto con una certa chiarezza, e meno se ne parla meglio è». Idem la stampa finanziata e sostenuta dal centro-sinistra: «E’ un affare fondamentale per Paolo Mieli e Carlo De Benedetti, è stato detto con altrettanta chiarezza, e meno se ne parla meglio è». Grillini e Sel? «Neppure una parola al riguardo, mai. Vien da chiedersi che cosa ci stiano a fare in Parlamento. O meglio, a non fare».Sarebbe bastato poco, insiste il blogger, perchè l’accordo «viola ogni legge antitrust», e l’authority che ne regola il funzionamento è un organismo che sembra «seguire le tendenze», ed è «notoriamente soggetto agli umori delle piazze, reali o virtuali». E’ possibile che interverrà l’Unione Europea nel 2016, «quando l’intera documentazione sarà stata rubricata, archiviata, formalizzata, e il commissario di Bruxelles la denuncerà. Nel frattempo Mondadori e Rizzoli, insieme, avranno la possibilità di pagare i loro debiti. O meglio, saremo noi a pagarli, come al solito, grazie alla malleveria dei due grandi partiti che andranno in soccorso della Mondazzoli con la consueta didascalia “difendiamo l’Italia che lavora” infilandola dentro la prossima legge di stabilità». Due maxi-aziende «entrambe decotte, senza un progetto industriale, senza un visione culturale, senza mercato», che «hanno accumulato debiti su debiti seguitando a pubblicare una caterva di libri (che nessuno legge) scritti per lo più da professionisti della cupola mediatica, per lo più con copertura politica, in un giro vizioso perverso che ha strozzato e sta strozzando ogni forma di libertà d’espressione. Da noi, funziona così».Unica contestazione, forte fin dall’inizio, quella di Roberto Calasso. «Gli autori, gli scrittori, romanzieri, narratori, saggisti che siano, tenuti fuori dal mercato perché pensanti e produttori di contenuti non monetizzabili non si lamentino. Sono, ahinoi, in ottima compagnia». Quanti conoscono Calasso? «Nel campo editoriale italiano, e non solo, è (giustamente) considerato il più poderoso e colto intellettuale-imprenditore ancora attivo», scrive Di Cori Modigliani. Nel mondo culturale è «addirittura un mito». E in otto mesi di battaglia solitaria, lui che – in teoria – avrebbe potuto avere a disposizione ogni tipo di platea mediatica, non ha rimediato «neppure una intervistina, un invito a un talk show, la possibilità di spiegare agli italiani che cosa stava accadendo». Calasso è un imprenditore-editore che «da solo ha scelto di andare verso la frontiera». Nel 2006, quando la Rizzoli manovrava per mangiarsi (come ha fatto) gli altri editori, da Fabbri a Bompiani, da Archinto a Marsilio, si è rivolta alla Adelphi con molto realismo, spiegando che non sarebbe stata in grado di sopravvivere se non all’interno di un solido gruppo antagonista della Mondadori.«Forse Calasso conosceva i propri polli e sapeva già dove la cosiddetta sinistra intendesse andare a parare», scrive il blogger, e così accettò ponendo due condizioni: primo, accettava cedendo però soltanto il 45% delle sue azioni, di cui avrebbe mantenuto la maggioranza; secondo, chiese una clausola che gli consentiva un diritto di scelta nel caso, un giorno, la Rizzoli decidesse di vendere (o svendere, come in questo caso) la sezione libri a un soggetto terzo, pretendendo la libertà di essere in disaccordo e quindi chiamandosi fuori, ritornando a essere totalmente indipendente senza pagare alcuna penale. Glielo concessero. E così, a febbraio del 2015, quando la Mondadori avanza l’offerta e Paolo Mieli dice sì, arriva il secco no di Calasso. Lì nascono problemi seri, continua Modigliani, perchè il catalogo della Adelphi è talmente ricco e polposo che gli investitori internazionali cominciano a manifestare perplessità. Si rimanda di mese in mese, ma non riescono a convincerlo. «E intanto la massa debitoria di Rizzoli e Mondadori aumenta a dismisura. E così, il 30 settembre la trattativa salta per “mancanza di ottemperanza nel rispetto dei tempi prestabiliti, come da legge, e come la normativa Consob prevede”. Ma siamo in Italia, paese dove le regole sono diverse a seconda del peso politico dei contraenti».La Reuters e “Milano Finanza” descrivono l’accordo «come se si trattasse di due aziende che vendono sapone in polvere o tondelli di ferro, senza minimanente far riferimento all’impatto devastante che la nascita della Mondazzoli avrà sulla vita culturale italiana: l’appiattirà, la cancellerà, spingendola al ribasso verso una marketizzazione priva di valori contenutistici». Chiunque covasse residue speranze in Renzi, vedendolo come rottamatore e riformatore, se le scordi, chiosa Di Cori Modigliani. E può cambiare idea anche «chiunque pensasse che in Italia esiste una solida opposizione politica (M5S, Sel e affini) agli accordi feudali di consociativismo medioevale tra la destra e la sinistra». Morale: «Pagheremo tra un anno la pesante penale europea e passerà tutto in cavalleria». Per il blogger, «si tratta della fine annunciata della libertà intellettuale in Italia, e il messaggio politico è molto chiaro, netto, distinto: decidiamo noi che cosa farvi leggere, come, e dove». Non stupiamoci se chiudono le librerie, se i piccoli editori seri falliscono, se l’Italia «segna il più avvilente e triste record dal 1946 a oggi: è il paese in tutto l’Occidente in cui si legge di meno, e nei primi sei mesi del 2015 gli indici di lettura denunciano un crollo verticale», conclude Sergio Di Cori Modigliani. «Siamo ormai considerati un paese di analfabeti funzionali». E dunque, «lunga vita a Roberto Calasso».«La più potente, poderosa e importante battaglia politica per garantire la libera informazione in Italia e la possibilità di aumentare la diffusione della cultura nel nostro paese si è appena conclusa, nella più totale indifferenza da parte di ogni soggetto politico presente in Parlamento», inclusi «movimenti e associazioni al di fuori del Parlamento». A parlare è Sergio Di Cori Modigliani, e la “battaglia” è quella per contrastare l’affermazione del super-monopolio editoriale italiano, la fusione tra Mondadori e Rcs Rizzoli. «La battaglia non ha avuto oppositori», scrive Modigliani sul suo blog. E «chi avrebbe dovuto interpretare il ruolo dell’antagonista», in primis il M5S, è finito tra «coloro che scelgono di non voler combattere le battaglie che contano». Secondo il blogger, «c’è stata, e c’è tuttora, una persona soltanto che ha detto no. Un’unica azienda. Un unico marchio. Un unico individuo. Si chiama Roberto Calasso. La sua è un’azienda editoriale. Il suo marchio è Adelphi». Raffinato intellettuale, scrittore e editore, Calasso si è battuto in solitudine contro l’instaurazione di un regime che controllerà tutti i contenuti editoriali italiani.
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Addio al Marziano imbranato, ora a Roma tornano i politici
Il Marziano non è sopravvissuto: questa la notizia, mischiando l’ultimo Ridley Scott con l’eterno Ennio Flaiano. Ma le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma non sono solo l’esito scontato di un crescendo rossiniano di equivoci, inadeguatezze, errori e ciclopiche gaffes. Sono forse la pietra tombale sull’illusione che, fallita la classe politica, possa salvarci la Società civile. Perché di lì veniva il Marziano: e se ne parlo al passato, ci sarà un perché. Dal mondo delle professioni e delle competenze, tanto magnificato. Se non fosse che la politica ha pure lei le sue professionalità e le sue competenze, non necessariamente coincidenti con le altre. Invece, della mitica società civile Marino aveva la mentalità, le frequentazioni nazionali o internazionali, gli usi e costumi relativamente sofisticati, rispetto ai fagioli con le cotiche che passa il convento, e anche i vizi mediocri, rispetto alle crapule del berlusconismo d’antan. Tutta roba alla quale uno deve fare il tagliando, ormai, se proprio decide di entrare in quella fossa dei serpenti che è la politica italiana in genere, e quella capitolina in particolare.E non bastano le buone intenzioni, che nessuno discute, e la sostanziale estraneità dell’uomo alla suburra degli affaroni e affaracci romani: ci vuole anche il senso delle opportunità, per non parlare del senso del ridicolo. Che si trattasse davvero di un marziano, invece, l’avevamo capito da tempo. Sindaco dal giugno 2013, dopo aver prevalso su quel Marchini, erede di una dinastia di costruttori rossi, che ora si candida alla sua successione, aveva esordito con la storia della Panda rossa parcheggiata alla evvivailparroco, e relative multe. E tutti noi, commentatori benpensanti, a difenderlo, adducendo che uno così era troppo manifestamente naif per poterlo considerare un mascalzone. Mascalzone no, in effetti, ma un po’ fesso sì: e giudichi il lettore cos’è peggio. Passino le vacanze e/o gli impegni internazionali, fra i quali non sempre si vedeva la differenza. Passino il degrado, le buche, i bambini caduti nella metropolitana: con lui che, se non era dall’altra parte del pianeta, arrivava subito e ci metteva la faccia – cosa che Renzi, per dire, si è sempre ben guardato dal fare – così beccandosi, Marino dico, anche le contumelie che sarebbero toccate a ben altri.Dopo il suo predecessore Alemanno, che festeggia se non l’accusano di associazione mafiosa, passi pure questa fissa di indossare la fascia da sindaco ovunque: anche a Filadelfia, dove si autoinvita a proprie spese, dice lui, in occasione del viaggio del Papa. Passi persino – in un’escalation da comica finale, sullo sfondo del definitivo inabissamento dell’immagine della Capitale sui giornali di tutto il mondo – farsi sbugiardare dal Pontefice in persona: una cosa che resterà nella storia dei rapporti Stato-Chiesa, appena un gradino sotto lo Schiaffo di Anagni. Ma ci si può dimettere, alla fine, per una storia di scontrini, una peculiarità italiana dalla quale il M5S avrebbe dovuto averci definitivamente vaccinato? Ci si può far smentire, oltre che da una lunga sequenza di preti e di organizzazioni benefiche, anche dall’ambasciatore del Vietnam, e per cene con la moglie e con la madre, neppure con l’amante, che tutto sommato sarebbe stato più dignitoso? A proposito: speriamo che il prossimo sindaco di Roma sia un politico, abbia l’amante e un metro di pelo sullo stomaco, ma che almeno sappia fare il suo mestiere.(Mauro Barberis, “Il Marziano se ne va, che tornino i politici”, da “Micromega” del 09 ottobre 2015).Il Marziano non è sopravvissuto: questa la notizia, mischiando l’ultimo Ridley Scott con l’eterno Ennio Flaiano. Ma le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma non sono solo l’esito scontato di un crescendo rossiniano di equivoci, inadeguatezze, errori e ciclopiche gaffes. Sono forse la pietra tombale sull’illusione che, fallita la classe politica, possa salvarci la Società civile. Perché di lì veniva il Marziano: e se ne parlo al passato, ci sarà un perché. Dal mondo delle professioni e delle competenze, tanto magnificato. Se non fosse che la politica ha pure lei le sue professionalità e le sue competenze, non necessariamente coincidenti con le altre. Invece, della mitica società civile Marino aveva la mentalità, le frequentazioni nazionali o internazionali, gli usi e costumi relativamente sofisticati, rispetto ai fagioli con le cotiche che passa il convento, e anche i vizi mediocri, rispetto alle crapule del berlusconismo d’antan. Tutta roba alla quale uno deve fare il tagliando, ormai, se proprio decide di entrare in quella fossa dei serpenti che è la politica italiana in genere, e quella capitolina in particolare.
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La Santa Corruzione nel Paese delle Meraviglie
Nel Paese delle Meraviglie, anche l’ottimismo può sfociare nel patologico, non solo il pessimismo. Il pessimismo diventa depressione, l’ottimismo magari si trasforma nell’euforia tossica del credulone che si esalta nel cibarsi delle spoglie del “mostro” di turno sbattuto in prima pagina, ma ignora che di pagine ce ne sono tante altre. Solo che quelle non gli vengono mostrate. Meglio ancora se il mostro è un personaggio importante, mettiamo il sindaco della capitale d’Italia. In tal modo un sistema marcio riesce nel duplice intento di ristrutturare la propria vacillante impalcatura, e di fare ciò col pieno consenso dei cittadini benché se ne ribaltino le scelte espresse alle urne. Sarebbe anche imbarazzante non porsi neanche un dubbio nel momento in cui all’improvviso tutti i centri di potere locali e nazionali, ivi compreso il partito aspirante (unico?) della nazione, col cappellaio matto in prima fila (indovina chi è), decidono all’unanimità che l’affaire-scontrini è storiella talmente inusitata da reclamare la testa dell’orrendo peccatore. Come se le “cene istituzionali” o presunte tali fossero abitudine esclusiva dell’eresiarca inquilino del Campidoglio.Saremo noi oltremodo scettici, ma una vicenda dai contorni così farseschi non può non farci sospettare che quello senza “amici degli amici” alla lunga fosse proprio l’antieroe condominiale in questione, piuttosto che i suoi inquisitori. I quali probabilmente continueranno a gozzovigliare sulle macerie dell’Urbe, magari con un palazzinaro o un uomo d’apparato in grado di garantire quella pax intrallazzista che con ogni evidenza lo sventurato non aveva la stoffa per garantire. Tutti tranne i pentastellati: loro lo fanno gratis, ça va sans dire. Anche se il loro democratico impegno per sbarazzarsi del turista per caso deve averli distratti da una vicenda come l’acquisizione di RCS da parte di Mondadori che la democrazia – almeno quella delle idee – la mette a repentaglio sul serio (dopotutto a distrarsi su questo sono state tutte le forze politiche e le testate, fra i pochissimi ad informarne i cittadini il rooseveltiano Sergio Di Cori Modigliani tramite il suo blog).Questo a prescindere dall’opinione che si ha in merito alle politiche, alle appartenenze, e a tutte quelle altre valutazioni che possono essere positive, negative, molto negative, ma rientrano comunque nel campo dell’opinabile. A meno che non si arrivi a credere che per ridurre una città come Roma nello stato impietoso in cui si trova siano sufficienti due miseri anni: in tal caso l’opinabile diventa tutto il reale, come in Alice nel Paese delle Meraviglie, con la differenza che dalla tana del Bianconiglio non se ne esce più.(Gianluca Lorefice, “La Santa Corruzione nel Paese delle Meraviglie”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 ottobre 2015).Nel Paese delle Meraviglie, anche l’ottimismo può sfociare nel patologico, non solo il pessimismo. Il pessimismo diventa depressione, l’ottimismo magari si trasforma nell’euforia tossica del credulone che si esalta nel cibarsi delle spoglie del “mostro” di turno sbattuto in prima pagina, ma ignora che di pagine ce ne sono tante altre. Solo che quelle non gli vengono mostrate. Meglio ancora se il mostro è un personaggio importante, mettiamo il sindaco della capitale d’Italia. In tal modo un sistema marcio riesce nel duplice intento di ristrutturare la propria vacillante impalcatura, e di fare ciò col pieno consenso dei cittadini benché se ne ribaltino le scelte espresse alle urne. Sarebbe anche imbarazzante non porsi neanche un dubbio nel momento in cui all’improvviso tutti i centri di potere locali e nazionali, ivi compreso il partito aspirante (unico?) della nazione, col cappellaio matto in prima fila (indovina chi è), decidono all’unanimità che l’affaire-scontrini è storiella talmente inusitata da reclamare la testa dell’orrendo peccatore. Come se le “cene istituzionali” o presunte tali fossero abitudine esclusiva dell’eresiarca inquilino del Campidoglio.