Archivio del Tag ‘atmosfera’
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Green Deal, maxi-raggiro: raddoppia la razzia della Terra
Ogni anno l’uomo estrae dal suolo e dal sottosuolo terrestre 50 miliardi di tonnellate di materiali da costruzione, combustibili fossili, minerali e metalli. Per intenderci, una massa pari a quella di 140.000 Empire State Building. A questo gigantesco prelievo di risorse naturali è correlato un devastante impatto ambientale. Tutti abbiamo in mente le immagini delle petroliere in avaria che riversano in mare migliaia di tonnellate di greggio. Non tutti sanno, invece, che uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi decenni è stato causato da una miniera di rame (il disastro di Ok Tedi) o che una delle principali cause degli incendi boschivi in Amazzonia e in Africa è proprio l’attività estrattiva. Per allentare la pressione antropica (umana) sull’ecosistema terrestre un gruppo agguerrito di scienziati, comunicatori, attivisti e politici è riuscito gradualmente a imporre a un’ampia fetta dell’opinione pubblica occidentale una nuova prospettiva di sviluppo, incentrata apparentemente su un consumo più razionale delle risorse naturali. Invece di estrarre miliardi di tonnellate l’anno di carbone, petrolio e gas naturale dovremo imparare a sfruttare l’energia del Sole e del vento, risorse rinnovabili il cui sfruttamento non danneggia l’ecosistema. Tutto giusto, no? No, tutto sbagliato.Pannelli solari, pale eoliche, batterie e auto elettriche sono dispositivi tecnologici fatti di cemento, plastica, acciaio, titanio, rame, argento, cobalto, litio e decine di altri minerali. Un commentary uscito su “Nature Geoscience” pochi anni fa stima che, solo per convertire un settimo della produzione di energia primaria mondiale (25.000 TWh), potrebbe essere necessario triplicare la produzione di calcestruzzo (da poco più di 10 miliardi di tonnellate l’anno a quasi 35), quintuplicare quella di acciaio (da poco meno di due miliardi di tonnellate a poco più di 10) e moltiplicare di varie volte quella di vetro, alluminio e rame. E stiamo parlando di convertire alle energie rinnovabili neanche il 15% del fabbisogno energetico mondiale. Non solo, va considerato anche un aspetto tecnico: il “filone d’oro” esiste solo nei fumetti. Per fare un esempio, in un giacimento di rame, mediamente il rame è presente con una concentrazione di circa lo 0,6%. Questo vuol dire che per estrarre una tonnellata di metallo bisogna sbriciolare più di 150 tonnellate di roccia. Le grandi miniere d’oro sudafricane macinano 5/6.000 tonnellate di roccia al giorno per estrarre meno di 20 tonnellate di metallo prezioso l’anno. Ma non basta.Come si produce l’alluminio? Beh, con un procedimento che consuma moltissima energia: per produrre una tonnellata di alluminio, infatti, sono necessari circa 30.000 kwh (tra energia termica ed elettrica). E anche la siderurgia è un’attività energivora: la produzione di una tonnellata di acciaio richiede tra gli 800 e i 5.000 kwh equivalenti. Quindi, solo per produrre l’acciaio necessario a costruire pannelli e turbine eoliche sufficienti a generare 25.000 Twh l’anno di energia rinnovabile, potremmo avere bisogno di 7.000/40.000 Twh l’anno di energia fossile in più. E non è finita qui. Di circa una decina di materiali alla base della “rivoluzione verde”, infatti, le riserve conosciute basterebbero a coprire solo pochi di anni di consumo in uno scenario 100% rinnovabili. L’Unione Europea, per esempio, prevede che, per centrare gli ambiziosi target del Green Deal, avrà bisogno di molte più terre rare di quante ne vengano estratte attualmente in tutto il mondo. È bene sottolineare che queste stime non sono le maldicenze di un mercante di dubbi pagato da Big Oil. L’Onu, la Commissione Europea, la Banca Mondiale hanno prodotto ampi rapporti in cui arrivano a conclusioni analoghe: serviranno moltissime risorse naturali in più. Gli studi che approfondiscono l’argomento d’altro canto sono numerosi, e pubblicati sulle riviste scientifiche più autorevoli del mondo: “Pnas”, “Science”, “Nature”.Eppure, nonostante il vasto panorama di riviste divulgative che seguono da vicino la “rivoluzione verde”, da “Le Scienze” alle tante testate digitali, curiosamente in lingua italiana non esiste un singolo approfondimento su questo aspetto, così enorme e così contraddittorio. La percezione, piuttosto diffusa a dire il vero, è che chi fa divulgazione scientifica da un po’ di tempo si sia arrogato il diritto di scegliere cosa divulgare e cosa no. Abbia deciso di fare politica invece che informazione, insomma. Non si spiega, altrimenti, come sia possibile scagliarsi quasi quotidianamente contro il paradigma della crescita e, nello stesso tempo, appoggiare una “rivoluzione verde” che immagina di raddoppiare – quantomeno – il prelievo di risorse naturali in pochi decenni. Oppure come sia possibile che, mentre ci si indigna per i disastri ambientali in Amazzonia o in Australia, si progetti di scavare fosse profonde 170 km per cercare i metalli necessari a soddisfare il fabbisogno dell’industria eolica e solare (una prospettiva che per il momento, tra l’altro, è fantascienza pura, dato che si parla di operare a temperature e pressioni ingestibili con la tecnologia attuale).La miniera d’oro di TauTona, in Sud Africa, è la miniera a cielo aperto più profonda del mondo e arriva a 3,9 km di profondità. Immaginatela 40 volte più grande. Su “Econopoly” ci eravamo già occupati di questo aspetto e lo avevamo fatto ben prima che la pandemia di Covid-19 mettesse in luce che la scienza non è affatto monolitica come la dipingono alcuni media (sul clima impazzito ascoltate gli scienziati: ok, ma quali?). In definitiva, dietro a quella che chiamiamo “rivoluzione verde” si nasconde in realtà un programma per accrescere rapidamente e drasticamente il prelievo di risorse naturali. Con tutto quello che consegue per la salute degli ecosistemi e anche degli esseri umani: per estrarre miliardi tonnellate di ghiaia, argilla, ferro, bauxite e rame in più, distruggeremo altre foreste incontaminate, inquineremo ulteriormente aria e acqua, spingeremo verso l’estinzione decine di migliaia di specie animali. Quindi, in buona sostanza, uno scenario molto diverso da quello che viene venduto all’opinione pubblica.Non si tratta di una distopia, di un futuro lontano avvolto nelle nebbie del probabilmente e del forse: la Commissione Europea ha appena annunciato un programma di finanziamenti per l’industria mineraria europea e il prezzo del rame vola (+40% da marzo a oggi), trainato proprio dalla domanda legata alle auto elettriche cinesi e al Green Deal europeo. Ci siamo già dentro, stiamo già devastando centinaia di ecosistemi alla ricerca di litio e cobalto per le batterie o terre rare per i magneti delle turbine eoliche. Sospinti dall’emotività, alimentiamo una bolla epocale. Ci sono altre soluzioni? La temperatura continua ad aumentare, non possiamo fare finta di niente. Certo che ci sono altre soluzioni. E di nuovo, ci si scontra con il muro di gomma della divulgazione: l’opinione pubblica è stata convinta che non ci siano altre strade ma in realtà non è così. Prendiamo un caso esemplare: la Cattura Diretta in Atmosfera (Dac). La cattura diretta è una tecnologia dall’apparenza pionieristica, ma in realtà molto semplice, che permette di separare l’anidride carbonica dall’aria. Niente di fantascientifico, esistono decine di impianti pilota perfettamente funzionanti in tutto il mondo.Genericamente questa tecnologia viene ridicolizzata in quanto molto costosa: i risultati certificati a livello scientifico si attestano su un costo minimo di 94 dollari per ogni tonnellata di anidride carbonica catturata dall’atmosfera. Oggettivamente, un costo non indifferente dato che ne emettiamo quasi 37 miliardi di tonnellate l’anno. Chiunque faccia notare che stiamo parlando dei dati relativi a un impianto pilota, molto piccolo, e che in un impianto di grandi dimensioni i costi potrebbero essere già ora molto più bassi, viene accusato di pensiero magico, nonostante il potenziale delle economie di scala sia noto e facilmente misurabile. Oltretutto, si pretende che la cattura diretta competa con le rinnovabili senza beneficiare di incentivi pubblici, mentre le rinnovabili vengono generosamente sussidiate. Beh, la cosa curiosa è che le stime attuali sui costi della “rivoluzione verde” si aggirano intorno ai 5.000/6.000 miliardi l’anno, mentre catturare l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera a 94 dollari la tonnellata (ripetiamolo: un costo irragionevolmente gonfiato immaginando un impiego su larga scala) costerebbe “solo” 3.000 miliardi l’anno! È veramente difficile capire come si possa definire la cattura diretta costosa, appoggiando contemporaneamente una soluzione che costa il doppio.Da non dimenticare, poi, come sottolinea proprio “Nature”, che la cattura diretta ha un vantaggio fondamentale rispetto a tutte le altre soluzioni: minimizza l’incertezza, aggredisce il nocciolo del problema. Da una parte parliamo di ridurre l’aumento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera attraverso complessi meccanismi culturali e sociali, dall’altra di toglierla direttamente con una tecnologia. Ancora più curioso è il caso della riforestazione e dell’agricoltura rigenerativa (da non confondere con l’agricoltura biologica o biodinamica: parliamo di agricoltura intensiva con rese superiori a quella chimica tradizionale), due opzioni perfettamente ecosostenibili che ci permetterebbero di tamponare rapidamente il problema del cambiamento climatico, con un dispendio di risorse limitato e ricadute socioeconomiche allettanti. Eppure, le iniziative in questa direzione sono continuamente sotto il fuoco degli scienziati, dei divulgatori e degli attivisti green. Un paradosso. L’accusa è spiazzante: l’adozione di queste soluzioni potrebbe rallentare la transizione verso le energie rinnovabili.Ma l’obiettivo finale di questo gigantesco sforzo è mettere al sicuro il pianeta dall’incertezza climatica oppure far fare un mucchio di soldi alla lobby delle energie rinnovabili? Oramai è diventato molto difficile capirlo. Elon Musk è indubbiamente un imprenditore brillante, un genio del nostro tempo, ma non per questo ci dobbiamo sentire obbligati a versargli 1.000/2.000 miliardi di dollari l’anno, generosamente irrorati da fondi pubblici che togliamo alla sanità o all’educazione, solo per fare due esempi. Sarebbe bello poter chiosare, come d’altronde va molto di moda in questi tempi, dicendo che è sempre più importante studiare, informarsi, approfondire, perché ne va del nostro futuro. Ma se a monte c’è un filtro che seleziona quali informazioni devono arrivare ai media e quali no, questo diventa solo l’ennesimo esercizio di stile altezzoso e inconcludente. «Va notato che l’Ipcc nel suo quinto rapporto, coerentemente con tutte le precedenti relazioni di valutazione, non affronta esplicitamente la questione delle implicazioni materiali degli scenari di sviluppo climatico» (World Bank).(Enrico Mariutti, “La grande eresia: la rivoluzione verde è un’enorme fake news?”, dal “Sole 24 Ore” dell’11 novembre 2020; l’articolo è pubblicato nel supplemento “Econopolis”. Ricercatore e analista in ambito economico ed energetico, nonché autore de “La decarbonizzazione felice”, Mariutti è il “founder” della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Isag, Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie).Ogni anno l’uomo estrae dal suolo e dal sottosuolo terrestre 50 miliardi di tonnellate di materiali da costruzione, combustibili fossili, minerali e metalli. Per intenderci, una massa pari a quella di 140.000 Empire State Building. A questo gigantesco prelievo di risorse naturali è correlato un devastante impatto ambientale. Tutti abbiamo in mente le immagini delle petroliere in avaria che riversano in mare migliaia di tonnellate di greggio. Non tutti sanno, invece, che uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi decenni è stato causato da una miniera di rame (il disastro di Ok Tedi) o che una delle principali cause degli incendi boschivi in Amazzonia e in Africa è proprio l’attività estrattiva. Per allentare la pressione antropica (umana) sull’ecosistema terrestre un gruppo agguerrito di scienziati, comunicatori, attivisti e politici è riuscito gradualmente a imporre a un’ampia fetta dell’opinione pubblica occidentale una nuova prospettiva di sviluppo, incentrata apparentemente su un consumo più razionale delle risorse naturali. Invece di estrarre miliardi di tonnellate l’anno di carbone, petrolio e gas naturale dovremo imparare a sfruttare l’energia del Sole e del vento, risorse rinnovabili il cui sfruttamento non danneggia l’ecosistema. Tutto giusto, no? No, tutto sbagliato.
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Oxford: il virus non viaggia, era qui e qualcosa l’ha attivato
Altro che Cina: il coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo un po’ in tutto il mondo per chissà quanti anni, prima di riattivarsi grazie a nuove condizioni ambientali favorevoli. È la tesi di Tom Jefferson, medico al Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), con sede al Dipartimento di Scienze della salute delle cure primarie di Nuffield, presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito. Jefferson – secondo quanto riporta il quotidiano inglese “The Telegraph” – sostiene che ci siano prove sempre più consistenti che il virus fosse già altrove, ben prima che emergesse a Wuhan. Una teoria, scrive Biagio Simonetta sul “Sole 24 Ore”, che farebbe traballare tutto ciò che sappiamo fino ad oggi, su questa pandemia. «La tesi si rafforza grazie alla scoperta di alcuni virologi spagnoli, che la scorsa settimana hanno annunciato di aver trovato tracce del coronavirus in campioni di acque reflue raccolti nel marzo 2019, circa dieci mesi prima che Wuhan diventasse il focolaio del mondo». Anche in Italia, ricorda sempre il “Sole”, alcune tracce del virus sono state rinvenute nei campioni di acque reflue di Milano e Torino risalenti a metà dicembre 2019. E in Brasile una analisi analoga riporta a novembre.Tom Jefferson ritiene che molti virus siano inattivi in tutto il mondo, e a un certo punto emergano quando le condizioni diventano favorevoli. Un meccanismo che potrebbe anche voler dire che i virus riattivati possano svanire rapidamente dopo un picco. «Dov’è oggi il virus Sars 1? È appena scomparso», ha detto il medico inglese al “Telegraph”, aggiungendo: «Dobbiamo porci queste domande. Dobbiamo iniziare a ricercare l’ecologia del virus, capire come ha avuto origine, come è mutato. Penso che il virus fosse già qui, e “qui” significa ovunque. Potremmo essere davanti a un virus dormiente che è stato attivato dalle condizioni ambientali». Per sostenere la sua teoria, Jefferson – che è anche professore alla Newcastle University – ricorda che a inizio febbraio c’è stato un caso di coronavirus alle Isole Falkland: «Com’è arrivato laggiù? Chi lo ha portato?». E poi ancora: «Una nave da crociera è andata dalla Georgia del Sud a Buenos Aires, i passeggeri sono stati sottoposti a screening e poi, l’ottavo giorno, quando hanno iniziato a navigare verso il Mare di Weddell, è emerso il primo caso di infezione. Dov’era il virus? Nel cibo preparato che era stato scongelato e attivato?».L’esperto ricorda che stranezze come questa si erano già verificate con l’influenza spagnola: nel 1918, circa il 30% della popolazione delle Samoa (isole dell’oceano Pacifico meridionale) morì di spagnola, «senza aver avuto alcuna comunicazione con il mondo esterno». La spiegazione di quanto accaduto allora potrebbe essere la segente: «Questi virus non vengono né vanno da nessuna parte», afferma Jefferson: «Sono sempre qui e qualcosa li accende, forse la densità umana o le condizioni ambientali. E questo è ciò che dovremmo cercare». Lo stesso dottor Jefferson ritiene che il virus possa essere trasmesso attraverso il sistema fognario o servizi igienici condivisi, non solo attraverso goccioline espulse parlando, tossendo e starnutendo. E per questo, insieme al collega Carl Henegehan (direttore del Cebm) chiede un’indagine approfondita, simile a quella condotta da John Snow nel 1854, che dimostrò come il colera si stesse diffondendo a Londra da un pozzo infetto a Soho. Per i due medici inglesi, insomma – conclude il “Sole” – si deve cambiare l’approccio di ricerca sul coronavirus, perché la teoria della trasmissione respiratoria non sarebbe del tutto convincente: «I focolai devono essere investigati correttamente. Bisogna fare ciò che John Snow ha fatto con il colera. Mettere in discussione tutto, e iniziare a costruire ipotesi che si adattano ai fatti. Non viceversa».Guardando all’Italia, e basandosi sempre sulle conclusioni di Jefferson, i meteorologi de “IlMeteo.it” puntano l’indice contro l’inquinamento atmosferico. «La correlazione tra virus e pessima qualità dell’aria – scrivono – è emerso, in particolare, da uno studio curato da ricercatori italiani e da medici della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima): le polveri sottili avrebbero esercitato un cosiddetto “boost”, ovvero un’accelerazione nel contagio dell’infezione». Conferma Leonardo Setti, ricercatore dell’Università di Bologna: «Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura Padana hanno prodotto un’accelerazione alla diffusione del Covid-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai». Altri virus potrebbero dunque essere dormienti, in attesa di essere “attivati” magari dall’inquinamento? E se davvero la diffusione del coronavirus non dipendesse direttamente dalla respirazione? «Se questo fosse confermato, le varie misure di restrizione e di protezione che stiamo ancora adottando (lockdown, mascherine, distanziamento sociale, guanti, sanificazioni) potrebbero risultare inutili». In compenso, chiosano gli specialisti de “IlMeteo.it”, «sempre col beneficio del dubbio», ci sarebbe anche una bella notizia: «Il virus potrebbe andarsene via da solo, così come è arrivato».Altro che Cina: il coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo un po’ in tutto il mondo per chissà quanti anni, prima di riattivarsi grazie a nuove condizioni ambientali favorevoli. È la tesi di Tom Jefferson, medico al Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), con sede al Dipartimento di Scienze della salute delle cure primarie di Nuffield, presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito. Jefferson – secondo quanto riporta il quotidiano inglese “The Telegraph” – sostiene che ci siano prove sempre più consistenti che il virus fosse già altrove, ben prima che emergesse a Wuhan. Una teoria, scrive Biagio Simonetta sul “Sole 24 Ore“, che farebbe traballare tutto ciò che sappiamo fino ad oggi, su questa pandemia. «La tesi si rafforza grazie alla scoperta di alcuni virologi spagnoli, che la scorsa settimana hanno annunciato di aver trovato tracce del coronavirus in campioni di acque reflue raccolti nel marzo 2019, circa dieci mesi prima che Wuhan diventasse il focolaio del mondo». Anche in Italia, ricorda sempre il “Sole”, alcune tracce del virus sono state rinvenute nei campioni di acque reflue di Milano e Torino risalenti a metà dicembre 2019. E in Brasile una analisi analoga riporta a novembre.
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Il generale Mini: Covid, guerra civile nel New World Order
Le guerre del futuro saranno collocate in un Nuovo Ordine Mondiale, anche se le guerre sono sostanzialmente sempre le stesse dal 500 avanti Cristo, da quando Sun Tzu delineò “L’arte della guerra” e fino allo scoppio della bomba nucleare. L’approccio ai conflitti del futuro, però, sarà molto diverso e nebuloso per i decisori pubblici: saremo tutti soldati di queste nuove guerre, ma bisogna stabilire con quali mezzi. La guerra globale si combatterà sia per un Ordine Mondiale che per il profitto. Inoltre, si scontreranno attori statali e non. Questi due gruppi possono agire anche contemporaneamente, sovrapponendosi o confondendosi. Esistono false guerre scatenate al solo scopo di accedere alle risorse, che si concretizzano attraverso il terrorismo e la guerra civile (come in Libia, Siria e Iraq). In questi casi ci si rende conto che, senza interessi interni ed esterni, gli scontri non si sarebbero mai verificati. Ci sono anche delle false guerre giustificate da motivi umanitari: ma cosa c’è di umanitario in una guerra che provoca 300.000 morti? E’ sempre esistita una guerra per le risorse, in senso generale, ma oggi non la si fa solo per accaparrarsi quelle tradizionali.La guerra è volta anche ad appropriarsi dei beni comuni: i cosiddetti “global commons” come gli oceani, i fondali sottomarini, l’Artide, l’Antartide, l’atmosfera, lo spazio esterno, il cyberspazio. Tutto è circondato da una grande ipocrisia, che colloca qualsiasi episodio in una sorta di zona grigia, dove tutto si confonde. Ci sono guerre ambigue, in cui non si sa chi è il vincitore, e guerre ibride dove convergono anche una serie di fattori tradizionali. Il potere militare è aumentato a dismisura, con crescenti investimenti economici, che in questo periodo di pandemia sono bloccati. Il Deep State? E’ quella parte dell’establishment che cerca di conservare l’equilibrio precedente e la gerarchia, in un contesto in cui tutti gli Stati sono in profonda competizione tra loro. Una possibile guerra sarà quella combattuta dalla “generazione zero”, cioè quella dei giovani nati tra il 2002 e il 2022: toccherà a loro avviare o evitare il conflitto nucleare. Al momento non ci sono le condizioni, perché chi possiede l’ordigno può attivarlo, ma certamente non sarà in grado di resistere alle reazioni che si verificheranno.Le guerre, oggi, sono diffuse e vengono considerate piccole, da chi le vede dall’esterno, mentre sono immense per chi è costretto a viverle in prima persona. Ma, tra un decennio, il campo di battaglia cambierà. Tra il 2030 e il 2050 ci saranno guerre nel cyberspazio, con super-soldati e piattaforme a controllo autonomo, guidate dall’intelligenza artificiale. In quel contesto, saranno impiegati nei combattimenti meno uomini; ma questo, paradossalmente, comporterà anche meno riguardi verso la vita umana. Per questo nuovo tipo di guerra, non a caso, è in corso la realizzazione di progetti di sopravvivenza. Penso anche al Super-Robot ed effetto sciame, che si basa sulle tre leggi della robotica di Isaac Asimov, coniate intorno agli anni ’50: la prima è quella di non recare danno agli umani; la seconda è che il robot deve obbedire agli ordini impartiti dall’uomo; la terza è che il robot deve pensare alla propria sopravvivenza, purché non sia in contrasto con le altre due leggi precedenti. Nel suo “Discorso sulla servitù volontaria, Étienne de La Boétie dice: «Il padrone usa, per distruggerci, i mezzi che noi stessi gli forniamo».Nella guerra globale emergono due concetti importanti, che possono essere accumunati all’attuale periodo del Covid-19: il primo è che questo virus può essere considerato come un livellatore sociale, che incide sulla sovrappopolazione del pianeta; il secondo è che può paragonarsi a una guerra di distruzione di massa, in cui le cose sembrano apparentemente più chiare, ma allontanano dalla comprensione della realtà. I morti ci saranno, ma le conseguenza economiche e sociali saranno ancora peggiori. Pandemia e guerra? Quella del Covid-19 è un’epidemia davvero strana, che non si sa da dove arrivi e che è risultata imprevedibile, sebbene fosse stata ipotizzata anche dall’intelligence statunitense. Più propriamente, potrebbe trattarsi di una guerra civile: e lo si può notare dai comportamenti della società, dove le persone sono viste come potenziali untori e quindi da abbattere. In condizioni di emergenza, tra l’altro, all’interno degli ospedali sembra che si sia dovuto decidere chi salvare e chi no.Si dovrà considerare e paragonare quello che viene chiesto ai virologi e quello che si vuole sapere dall’intelligence. Ovvero, le informazioni che servono per legittimare le scelte politiche, aspetto importante per comprendere quanto sta accadendo. Di sicuro è che attualmente la cura al virus non è stata ancora trovata. Le guerre biologiche mettono a nudo le vulnerabilità dell’intero sistema sociale perché, quando si ammalano gli anziani, si registra l’inadeguatezza dell’organizzazione. Quando qualcuno parla di eutanasia praticata alle persone anziane, questa non è altro che la conseguenza della cattiva organizzazione dei sistemi sanitari, che sono strutturati in base a logiche privatistiche, in funzione degli utili e non dei bisogni della collettività. Alla Conferenza di Yalta – con Roosevelt, Churchill e Stalin – si disegnarono i destini del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Oggi, il Nuovo Ordine Mondiale è nelle mani di Trump, Putin e Xi Jinping, con tarature differenti rispetto agli statisti del 1945, ma che certamente definiranno l’ordine che impatterà sul futuro dell’umanità, con esiti totalmente imprevedibili.(Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate l’11 maggio 2020 in video-conferenza al “Master in Intelligence” dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri; testo riassunto da “Kong News” e ripreso da “Mitt Dolcino”. Generale di corpo d’armata, Mini è stato capo di Stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa, e dal gennaio 2001 ha guidato il comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo, nell’ambito della missione Kfor. Analista geopolitico, saggista ed esperto di strategia militare, scrive per “Limes”, “Repubblica”, “L’Espresso” e “Il Fatto Quotidiano”).Le guerre del futuro saranno collocate in un Nuovo Ordine Mondiale, anche se le guerre sono sostanzialmente sempre le stesse dal 500 avanti Cristo, da quando Sun Tzu delineò “L’arte della guerra” e fino allo scoppio della bomba nucleare. L’approccio ai conflitti del futuro, però, sarà molto diverso e nebuloso per i decisori pubblici: saremo tutti soldati di queste nuove guerre, ma bisogna stabilire con quali mezzi. La guerra globale si combatterà sia per un Ordine Mondiale che per il profitto. Inoltre, si scontreranno attori statali e non. Questi due gruppi possono agire anche contemporaneamente, sovrapponendosi o confondendosi. Esistono false guerre scatenate al solo scopo di accedere alle risorse, che si concretizzano attraverso il terrorismo e la guerra civile (come in Libia, Siria e Iraq). In questi casi ci si rende conto che, senza interessi interni ed esterni, gli scontri non si sarebbero mai verificati. Ci sono anche delle false guerre giustificate da motivi umanitari: ma cosa c’è di umanitario in una guerra che provoca 300.000 morti? E’ sempre esistita una guerra per le risorse, in senso generale, ma oggi non la si fa solo per accaparrarsi quelle tradizionali.
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Dopo le Sardine, le Zucchine: se il potere si tinge di verde
Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.I Verdi furono negli anni Settanta la risposta alla crisi energetica, al modello di sviluppo industrialista e all’inquinamento. Ci furono esperienze importanti intorno ai Grünen, sorti dal ’68, superando le ideologie storiciste. Da noi un verde che merita di essere ricordato fu Alex Langer, morto prematuramente; interessanti furono i movimenti comunitari verdi, come quello toscano con Giannozzo Pucci. Nell’ambientalismo diventato giardino pubblico della sinistra radicale e nell’ecologismo che è invece la ruota di scorta e la copertura verde del capitalismo global-progressista (magari in funzione antiTrump), la parola Natura scompare: natura evoca madre natura, il diritto naturale, l’ordine naturale, la gravidanza, la vita secondo natura. Meglio usare un’espressione neutra, paradossalmente asettica, plastificata, come Ambiente, che può funzionare in tutti i campi e in tutti i sensi. Così l’ecologia diventa un ramo fiorito dell’ideologia e la parola ambiente indica tutto, persino l’ambiente di lavoro, le fabbriche e ambienti in cui di natura non c’è neanche l’ombra. La forza dei movimenti verdi è invece nella loro autonomia dalle categorie politiche del Novecento, dalla storia ideologica e dallo schema progressista.Curioso osservare che il fenomeno dei Verdi attecchisce in modo particolare in Germania, dove il primo ministro ecologista fu durante il nazismo, si chiamava Walter Darrè (Hitler era un ecologista rispetto a Lenin, Stalin e Roosevelt…). In realtà l’ecologia è nata conservatrice, patriottica e rurale, mentre le sinistre erano per definizione industrialiste, urbane, internazionaliste e operaiste. Solo con i figli dei fiori si aprì una breccia naturalistica che germogliò poi tra i contestatori innamorati di società preindustriali (la Cina, il Vietnam, il Terzo Mondo). I primi ecologisti della modernità furono i nazionalconservatori noti come Wandervogel, Uccelli migratori. E in Italia le prime leggi a tutela dell’ambiente le fece il fascismo con Giuseppe Bottai. Alla fine degli anni Settanta sorsero movimenti ecologisti anche a destra, soprattutto in ambiente rautiano. Alcune tematiche dell’ambiente degradato incontrano naturaliter la sensibilità di un conservatore, di un patriota, di un cattolico e di un tradizionalista: il rispetto per il creato e per la natura, l’evocazione del mondo incontaminato e genuino di una volta, l’amore per le cose sane e antiche, i borghi d’origine e le tracce del passato, la predilezione per l’agricoltura, per i prodotti chilometro zero e per le attività legate alla natura, il legame con la terra e con le radici, il senso del limite e il realismo. E in negativo la critica alle metropoli invivibili, al progresso senza freni; il rifiuto di cibi manipolati o geneticamente manipolati, il rifiuto dell’inquinamento acustico, l’aria inquinata, il mare sporco, la terra desertificata.Si sa poi che i cittadini a maggior contatto con la natura (dagli agricoltori agli allevatori e ai cacciatori) hanno tradizionalmente espresso preferenze politiche non certo progressiste. Perché regalare la sensibilità verde al grillo-sinistrismo che la usa come foglia di fico e tisana per far digerire bocconi inquinanti della società euro-global? In passato si sono già rubati le querce, gli ulivi, i cespugli e le margherite; perché regalare loro l’intera natura? In difesa della natura, del paesaggio e dell’ambiente hanno scritto diversi autori tra la nuova destra e il pensiero conservatore, da Alain de Benoist a Roger Scruton. Un giovane editore, Francesco Giubilei, ha pubblicato ora un libro, “Conservare la natura”, cercando di riscoprire il legame tra pensiero conservatore e difesa della natura. Trent’anni fa scrissi sui «verdi sentieri dell’ecologia» in “Processo all’Occidente” (1990), sostenendo la necessità di un’alleanza trasversale e comunitaria alternativa alla società global che si profilava. Insomma, il tema verde è molto più serio e profondo di un travestimento elettorale o di una battaglia anti-Trump; e non appartiene certo a una cultura progressista e mao-capitalista. Ma va praticato con realismo, con amore della natura e delle sue leggi, in armonia e non in conflitto con la civiltà e con l’umanesimo. E ricordate: l’amore per la natura è incompatibile con chi vuole modificare geneticamente la natura umana.(Marcello Veneziani, “Per non fermarsi col rosso passano col verde”, da “La Verità” del 1° luglio 2020).Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.
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Lombardia: è l’inquinamento a far esplodere il coronavirus
Le prime ricerche sono comparse all’inizio dell’epidemia, sostenute dai pareri di molti scienziati. Eppure in molti non hanno voluto crederci e hanno continuato a sostenere che il fatto che non fosse dimostrato scientificamente che il Covid-19 abbia colpito più duramente nelle aree più inquinate del pianeta. Ricercatori dell’Università di Bologna hanno però scoperto che il virus viene trattenuto dalle particelle presenti nell’aria inquinata, confermando una ricerca cinese che affermava che le polveri sottili ospitano diversi tipi di microbi. Gli studiosi sostengono che l’analisi di questa presenza possa essere un possibile indicatore precoce di future recidive dell’epidemia da Covid-19. Il trasporto potrebbe avvenire su più lunghe distanze, e non basterebbe stare distanti un metro. Non sono i soli a collegare inquinamento e pandemia. Pubblicato dalla Harvard University, un altro studio potrebbe porre fine agli eventuali dubbi: conferma che c’è uno stretto legame tra la qualità dell’aria e il rischio di morte per il coronavirus. E questo potrebbe spiegare come mai la Lombardia, e in particolare l’area di Brescia, abbia contato un numero di vittime decisamente più alto che in altre parti del paese.Lo studio di Harvard è stato compiuto sul territorio americano. C’è una evidenza statistica per cui a ogni aumento di 1 grammo per metrocubo di polveri sottili, e in particolare della Pm 2.5, un incremento molto piccolo, corrisponde un aumento del 15 per cento del tasso di mortalità. Come già si sapeva, questa componente dell’atmosfera, prodotta dalla combustione dell’energia fossile, dagli allevamenti intensivi e dal comparto dell’edilizia, provoca anche nascite premature, infarto, danni ai polmoni e cancro. I ricercatori ritengono che la causa dell’effetto sia proprio da cercare nel fatto che il Pm 2.5 colpisce il sistema respiratorio e cardiovascolare. Già precedentemente lo stesso team di ricerca aveva effettuato uno studio su 60 milioni di americani con più di 65 anni scoprendo che lo stesso fattore di aumento provocava lo 0,73 per cento di tutti i casi di mortalità. Il risultato è chiaro: una esposizione a lungo termine agli inquinanti aumenta la vulnerabilità, che diventa ancora grave quando scoppia una epidemia. D’altronde un altro studio effettuato dal dipartimento di epidemiologia dell’Università della California e dalle Università di Pechino e Shanghai sulla Sars, strettamente imparentata con il Covid-19, aveva già dimostrato che il tasso di mortalità dei pazienti che vivevano in aree inquinate era doppio rispetto alle altre.A conferma del fatto che possiamo ormai essere scientificamente certi che esista una correlazione tra coronavirus e smog, c’è anche un’altra ricerca, della Martin Luther University di Halle-Wittenberg, Germania, che ha studiato un altro inquinante, il biossido di azoto, un forte irritante delle vie polmonari prodotto da tutti i processi di combustione ad alta temperatura (impianti di riscaldamento, motori dei veicoli, combustioni industriali), per ossidazione dell’azoto atmosferico. Anche questo composto è legato a un tasso di morti più alto nella pandemia. In questo caso grazie ai monitoraggi satellitari, è stata controllata la distribuzione del biossido di azoto in Europa negli scorsi due mesi, confrontandoli con il numero dei morti in 66 regioni di Italia, Spagna, Francia e Germania. E’ emerso che su 4.443 morti al 19 marzo, il 78 per cento erano avvenute solo in cinque regioni, concentrate tra nord Italia e Spagna centrale. Non basta. Anche un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University (Danimarca) ha messo in correlazione l’alta letalità del coronavirus registrata nelle zone della Lombardia e Emilia-Romagna con l’inquinamento. In base ai dati della Protezione civile hanno visto che la letalità registrata in Lombardia ed Emilia Romagna era del 12 per cento, mentre nel resto d’Italia siamo intorno al 4,5 per cento. In base all’Air quality index elaborato dall’Agenzia europea dell’ambiente, quelle sono proprio le due regioni più inquinate di Italia e tra le peggiori in Europa.(Mariella Bussolati, “Ritrovato il coronavirus nelle polveri sottili, ecco tutte le ricerche che legano sempre più strettamente Covid e inquinamento”, da “Business Insider” del 25 aprile 2020).Le prime ricerche sono comparse all’inizio dell’epidemia, sostenute dai pareri di molti scienziati. Eppure in molti non hanno voluto crederci e hanno continuato a sostenere che il fatto che non fosse dimostrato scientificamente che il Covid-19 abbia colpito più duramente nelle aree più inquinate del pianeta. Ricercatori dell’Università di Bologna hanno però scoperto che il virus viene trattenuto dalle particelle presenti nell’aria inquinata, confermando una ricerca cinese che affermava che le polveri sottili ospitano diversi tipi di microbi. Gli studiosi sostengono che l’analisi di questa presenza possa essere un possibile indicatore precoce di future recidive dell’epidemia da Covid-19. Il trasporto potrebbe avvenire su più lunghe distanze, e non basterebbe stare distanti un metro. Non sono i soli a collegare inquinamento e pandemia. Pubblicato dalla Harvard University, un altro studio potrebbe porre fine agli eventuali dubbi: conferma che c’è uno stretto legame tra la qualità dell’aria e il rischio di morte per il coronavirus. E questo potrebbe spiegare come mai la Lombardia, e in particolare l’area di Brescia, abbia contato un numero di vittime decisamente più alto che in altre parti del paese.
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Radio, radar, satelliti e 5G: e arriva, puntuale, la pandemia
Nel 1918, dopo l’enorme pandemia dell’influenza Spagnola, hanno chiesto a Rudolf Steiner a cosa fosse dovuta. Lui rispose: i virus sono semplicemente le escrezioni di una cellula avvelenata. I virus sono delle parti di Dna o Rna, o di qualche altra proteina, che vengono espulse dalla cellula. Si formano quando la cellula è avvelenata, non sono la causa di niente. Oggi, improvvisamente, scopriamo che nel circolo polare artico i delfini stanno morendo: per un contagio, o magari per qualche schifezza finita in mare, come il greggio della super-petroliera Exxon Valdez? Se date un’occhiata alle teorie correnti sui virus, l’ultima conferenza del Nih (il Dipartimento della salute degli Usa) parla della complessità dei virus, e vedrete che corrisponde esattamente alle teorie correnti su cosa sono realmente i virus. Ho un esempio drammatico di ciò, nella mia vita. Durante la mia infanzia, fuori da casa mia c’erano degli acquitrini. Erano pieni di rane, che mi svegliavano di notte. Col tempo tutte le rane sono sparite. Quanti di voi pensano che le rane avessero una malattia genetica? Quanti pensano che le rane avessero un virus? Quanti pensano che qualcuno abbia sversato del Ddt nell’acqua? Questo è infatti quello che è successo.Ogni pandemia, negli ultimi 150 anni, corrisponde a un salto di qualità nell’elettrificazione della Terra. Come si spiega l’epidemia di Spagnola nel 1918? Alla fine dell’autunno del 1917 c’era stata l’introduzione delle onde radio, intorno al mondo. Quando esponete un qualsiasi essere vivente a un nuovo campo elettromagnetico, lo avvelenate: qualcuno ne viene ucciso, e gli altri entrano in una specie di ibernazione; vivono un po’ di più, e più malati. Con la Seconda Guerra Mondiale è iniziata una nuova pandemia, a causa dell’introduzione dei radar su tutta la Terra, improvvisamente ricoperta dai nuovi campi magnetici emessi dai radar. Era la prima volta che gli esseri umani subivano quel tipo di esposizione. Nel 1968, poi, c’è stata l’influenza di Hong Kong: è stata la prima volta che, nella fascia protettiva della cintura di Van Allen – il cui ruolo principale è quello di incorporare i raggi cosmici provenienti dal Sole, dalla Luna, da Giove, e distribuirli a tutti gli esseri viventi terrestri – sono stati posti dei satelliti che emettono delle frequenze radioattive. In sei mesi c’è stata una nuova epidemia “virale”. In realtà, la gente è stata avvelenata, anche se pensava di subire un’epidemia influenzale.Nel 1918, la sanità di Boston deciss di analizzare la caratteristica contagiosa di una epidemia: che lo crediate o no, hanno preso centinaia di persone che avevano l’influenza, hanno prelevato ciò che avevano nel naso e l’hanno iniettato in soggetti sani, che non avevano l’influenza. Neanche una volta sono riusciti a far ammalare qualcuno. L’hanno ripetuto più e più volte, e non sono riusciti a dimostrare il contagio. L’hanno fatto pure con dei cavalli, che sembrava avessero preso l’influenza Spagnola; gli hanno messo dei sacchi sulle teste: il cavallo starnutiva dentro il sacco, e poi infilavano il sacco attorno alla testa del cavallo seguente. Nessun cavallo si è ammalato. Potete leggere tutto ciò in un libro che si chiama “L’arcobaleno invisibile”, di Arthur Firstenberg. Ad ogni stadio di elettrificazione della Terra ha corriposto, entro sei mesi, una nuova pandemia influenzale. Non ci sono altre spiegazioni, per la Spagnola. Come ha potuto propagarsi, dal Kansas al Sudafrica in appena due settimane, in modo tale che il mondo intero manifestasse i medesimi sintomi nello stesso momento, nonostante i mezzi di trasporto dell’epoca fossero la nave e il cavallo? Non ci sono spiegazioni, per questo. Infatti ammettono: non sappiamo come sia successo.Riflettete: tutte queste onde radio e altre frequenze, che avete in tasca o tra le mani, vi permettono di inviare un segnale in Giappone, e arriva all’istante. Voi magari non credete che esista, un campo elettromagnetico capace di comunicare a livello mondiale nel giro di qualche secondo: semplicemente, non ci prestate attenzione. Aggiungo che c’è stato un salto di qualità drammatico, durante gli ultimi sei mesi, per quel che riguarda l’elettrificazione della Terra. Sono certo che molti di voi sanno di cosa si tratta. Si chiama 5G. Ora ci sono 20.000 satelliti che emettono radiazioni, proprio come quelle emesse nella vostra tasca o nella vostra mano, dai dispositivi elettronici che usate continuamente. Tutto questo – mi spiace doverlo dire – non è compatibile con la salute. Le frequenze dei dispositivi che usiamo destrutturano l’acqua presente nel nostro corpo. Finisco con un indovinello: qual è la prima città al mondo interamente coperta dal 5G? Whuan, esatto.Quindi cominciamo a pensarci: siamo in una crisi esistenziale di un’ampiezza tale, che gli esseri umani non hanno mai visto. Non gioco a fare il profeta del Vecchio Testamento: è davvero qualcosa che non ha precedenti, la messa in orbita di centinaia di migliaia di satelliti nella fascia protettrice della Terra. In effetti, ciò non ha a che vedere con la questione dei vaccini. Un anno fa ho avuto un paziente che era in piena forma, che faceva surf. Era elettricista, installava dei sistemi Wi-Fi per delle persone molto ricche. Gli elettricisti hanno un tasso di mortalità molto elevato, ma lui stava bene. Poi si ruppe un braccio e gli hanno messo una placca metallica nell’arto. Tre mesi più tardi non poteva più scendere dal letto, aveva un’aritmia cardiaca. Fu il crollo totale. La sensibilità dipende dalla quantità di metallo che avete in corpo, come anche dalla qualità dell’acqua nelle vostre cellule. Quindi, quando si inizia ad iniettare dell’alluminio nel corpo, le persone diventano dei ricettori per assorbire maggiormente i campi elettromagnetici. E questa è una “tempesta perfetta”, visto il tipo di danni di cui sta facendo esperienza tutta la nostra specie, adesso.(Thomas Cowan, estratto del video “Rudolf Steiner, i virus e l’elettrificazione della Terra”, pubblicato il 19 marzo 2020 sul canale YouTube “L’Ortolana” e ripreso da “La Voce del Trentino”. Per avere un’idea della preoccupazione che il filmato sta suscitando, basta dare un’occhiata alle moltissime pagine web che, scagliandosi contro il medico statunitense, alimentano la disinformazione quotidiana, promossa dalla crociata neo-medievale contro il pluralismo scientifico. Illuminanti, in questo senso, gli attacchi pubblicati da siti umoristici come “Butac” e lo spassoso “Open”, diretto da Enrico Mentana, che arriva a definire “guru” il fondatore dell’antroposofia, presentando Steiner come “ispiratore del nazismo magico”. Ai burloni di “Butac”, “Open” e colleghi, forse vale ricordare la recente sentenza della magistratura italiana che, sulla scorta di evidenze medico-scientifiche, ufficializza la correlazione tra salute – tumori, addirittura – ed esposizione a radiofrequenze elettroniche, anche solo quelle dei comuni smartphone 4G).Nel 1918, dopo l’enorme pandemia dell’influenza Spagnola, hanno chiesto a Rudolf Steiner a cosa fosse dovuta. Lui rispose: i virus sono semplicemente le escrezioni di una cellula avvelenata. I virus sono delle parti di Dna o Rna, o di qualche altra proteina, che vengono espulse dalla cellula. Si formano quando la cellula è avvelenata, non sono la causa di niente. Oggi, improvvisamente, scopriamo che nel circolo polare artico i delfini stanno morendo: per un contagio, o magari per qualche schifezza finita in mare, come il greggio della super-petroliera Exxon Valdez? Se date un’occhiata alle teorie correnti sui virus, l’ultima conferenza del Nih (il Dipartimento della salute degli Usa) parla della complessità dei virus, e vedrete che corrisponde esattamente alle teorie correnti su cosa sono realmente i virus. Ho un esempio drammatico di ciò, nella mia vita. Durante la mia infanzia, fuori da casa mia c’erano degli acquitrini. Erano pieni di rane, che mi svegliavano di notte. Col tempo tutte le rane sono sparite. Quanti di voi pensano che le rane avessero una malattia genetica? Quanti pensano che le rane avessero un virus? Quanti pensano che qualcuno abbia sversato del Ddt nell’acqua? Questo è infatti quello che è successo.
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Franco Prodi: Greta, abbaglio mondiale. Non è colpa nostra
Con Greta siamo di fronte a un abbaglio mondiale: perché questo movimento incanala nella direzione sbagliata, cioè la lotta al riscaldamento globale, quella che è in realtà un’urgenza giusta, ovvero la salvaguardia del pianeta. Al momento, nessuna ricerca scientifica stabilisce una relazione certa tra le attività dell’uomo e il riscaldamento globale. Perciò, dire che siamo noi i responsabili dei cambiamenti climatici è scientificamente infondato. Io non nego affatto che ci siano i cambiamenti climatici. La storia del nostro pianeta è anche la storia dei cambiamenti climatici che si sono susseguiti nel tempo. Nel tardo medioevo, intorno all’anno 1200, è noto che la temperatura della Terra aumentò significativamente. Così come sappiamo che a metà del diciassettesimo secolo ci fu un fenomeno inverso, ovvero una piccola glaciazione. In entrambi i casi, l’uomo non aveva ancora sviluppato tutte quelle attività industriali che oggi sono considerate responsabili dei cambiamenti climatici. Come si può dire, dunque, che per il 95% è colpa dell’uomo?I dati che abbiamo a disposizione dicono che, dai primi anni dell’ottocento (quando sono state state impiantate le prime stazioni meteorologiche in diverse parti del mondo), la temperatura media globale è cresciuta ogni secolo di un decimo di grado. Questo è innegabile, nessuno lo contesta. Ciò che è in discussione, nella comunità scientifica, è la causa di questa crescita. Per certo si sa che il clima terrestre è il risultato dello scambio di due flussi di fotoni: uno che dal Sole va verso la Terra, e l’altro che sale dalla Terra verso l’esterno. Come sa, il Sole è un corpo che misura quasi 6.000 gradi kelvin. La Terra, invece, ha una temperatura di 300 gradi kelvin, circa 25,5 gradi centigradi. È come se da una parte ci fosse una lampada, e dall’altra una palla di vetro. In mezzo a esse, l’atmosfera. Significa che la temperatura della palla di vetro dipende da una molteplicità di fattori, tra cui la distanza che c’è tra la lampada e la palla di vetro. Una distanza che non è sempre costante, e che dipende da una molteplicità di fattori che non sono facilmente calcolabili. Per questo, non possiamo stabilire con esattezza quanto il riscaldamento climatico sia responsabilità dell’uomo e quanto, invece, dipenda da altri fattori.Perché la scienza è così incerta? Perché la scienza del clima è ancora nell’età dell’infanzia. È nata nel 1800. Prima non esisteva nulla di paragonabile. E con i modelli che ha a disposizione, può solo elaborare degli scenari incompleti. Incompleti, soprattutto, se qualcuno intende basare su di essi il destino dell’umanità. Farlo, non sarebbe un atto di coscienza ecologica. Piuttosto, di incoscienza scientifica. Sinceramente non mi allarmo, quando leggo che una parte del Monte Bianco si sta sciogliendo: sono fenomeni che abbiamo già conosciuto. La pianura padana, per dire, era un’enorme ghiacciaio. Poi, la vita è ripresa. Sono uno dei pochi scienziati a dire queste cose, ma non sono l’unico (sia in Italia, sia nel mondo). Peraltro, non è nella mia natura essere controcorrente. Confesso che, a volte, mi sento anche a disagio nel ruolo di grillo parlante. Però non posso fare a meno, quando parlo, di fare riferimento alle conoscenze scientifiche che abbiamo a disposizione, e che non dicono quello che il regime catastrofista che domina il discorso pubblico vorrebbe che dicessi. Tutto qui.(Franco Prodi, dichiarazioni rilasciate a Nicola Mirenzi per l’intervista “Con Greta siamo di fronte a un abbaglio mondiale”, pubblicata dall’”Huffington Post” il 7 febbraio 2020. Fisico e climatologo di fama mondiale, Franco Prodi è fratello di Romano Prodi).Con Greta siamo di fronte a un abbaglio mondiale: perché questo movimento incanala nella direzione sbagliata, cioè la lotta al riscaldamento globale, quella che è in realtà un’urgenza giusta, ovvero la salvaguardia del pianeta. Al momento, nessuna ricerca scientifica stabilisce una relazione certa tra le attività dell’uomo e il riscaldamento globale. Perciò, dire che siamo noi i responsabili dei cambiamenti climatici è scientificamente infondato. Io non nego affatto che ci siano i cambiamenti climatici. La storia del nostro pianeta è anche la storia dei cambiamenti climatici che si sono susseguiti nel tempo. Nel tardo medioevo, intorno all’anno 1200, è noto che la temperatura della Terra aumentò significativamente. Così come sappiamo che a metà del diciassettesimo secolo ci fu un fenomeno inverso, ovvero una piccola glaciazione. In entrambi i casi, l’uomo non aveva ancora sviluppato tutte quelle attività industriali che oggi sono considerate responsabili dei cambiamenti climatici. Come si può dire, dunque, che per il 95% è colpa dell’uomo?
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Greta, Vogue e Joaquim Phoenix: l’ambientalismo dei cretini
È vero, stiamo rovinando l’ambiente. È vero, stiamo depredando il pianeta delle sue risorse naturali. È vero, stiamo avvelenando l’aria, l’acqua e i cibi che mangiamo. Ma problemi del genere, che sono di portata globale, richiedono soluzioni complesse e ragionate, e non ci si può certo accontentare di gesti simbolici che servono solo ad acquietare momentaneamente la nostra coscienza, ma non possono minimamente intaccare i problemi che abbiamo di fronte. Sembra invece che ultimamente si sia scatenata una gara a chi riesce a inventare la soluzione più stupida per far vedere che lui ha capito come si fa a risolvere il problema ambientale. La capofila di queste stupidità è proprio Greta Thunberg, che ha deciso di non viaggiare più in aereo “perché gli aerei inquinano”. Ma pensare oggi di abolire i voli aerei è assolutamente ridicolo, come è ridicolo pensare di poter modificare in modo sostanziale il modo in cui funzionano i loro motori. Talmente ridicolo, fra l’altro, è stato il gesto di Greta, che poi per riportare indietro la barca a vela che l’aveva trasportata fino a New York hanno dovuto andarci – in aereo, naturalmente – quattro marinai. Per cui, per un biglietto aereo risparmiato da lei, ne sono stati acquistati quattro per l’equipaggio di ritorno. Ma Greta è stata solo la apripista delle idiozie “a impatto zero”.Ultimamente la rivista “Vogue Italia” ha deciso di cavalcare l’onda ambientalista con una scelta tanto spettacolare quanto ridicola. Hanno fatto un intero numero della loro rivista senza fotografie (che è un po’ come se la Ferrari facesse un’automobile senza il motore, tanto per capirci: le riviste di moda “sono” le loro fotografie). E la loro spiegazione è stata talmente stupida che non riesco riassumerla con parole mie, devo per forza citare la dichiarazione originale dell’editore: «Lo scopo di questa scelta coraggiosa è, semplicemente, di essere più sostenibili». Che cosa ci sia di così sostenibile nell’evitare di fare le fotografie ce lo spiega il direttore di “Vogue Italia”, Emanuele Farneti: «150 persone coinvolte. Una ventina di voli aerei e una dozzina di viaggi in treno. 40 automobili a disposizione. 60 consegne internazionali. Luci che vengono spente e accese senza sosta per almeno 10 ore, parzialmente alimentate da generatori a benzina. Avanzi di cibo per alimentare le troupes. Plastica per avvolgere i vestiti. Elettricità per ricaricare i telefoni, le macchine fotografiche…». A questo punto – verrebbe da dire – smettiamo anche di produrre film, perché se la produzione di alcuni servizi fotografici ha un tale impatto ambientale, quella di un semplice film ne ha 100 volte tanto.Lo sapete quanti voli aerei servono per realizzare un film internazionale, quanto mangia ogni giorno una troupe cinematografica, quante volte accende e spegne la luce entrando in studio, quante automobili si muovono durante la realizzazione, e quanti telefonini e cineprese bisogna alimentare ogni giorno con la corrente elettrica? Torniamo quindi ai cartoni animati, con quattro disegnatori segregati in cantina, e diciamo addio al cinema una volta per tutte. Ma la vera follia di un gesto del genere è che venga proprio da una rivista come “Vogue”. L’alta moda infatti rappresenta la quintessenza del superfluo, la quintessenza dello spreco, la quintessenza del lusso, la prevalenza assoluta dell’apparire sulla sostanza. Per non parlare dello sfruttamento della manodopera nel terzo mondo, dove buona parte degli stilisti fa produrre propri tessuti per due lire, per poi rivendere i vestiti “griffati” a cifre stratosferiche. Ma loro, invece di chiudere una rivista del genere e andare a lavorare in fabbrica, preferiscono sostituire le fotografie con dei disegnini (per un mese soltanto, sia chiaro), per lavarsi la coscienza sul problema ambientale senza minimamente intaccare un’industria dai profitti miliardari.Veniamo ora al terzo esempio, perché è il più ridicolo di tutti. L’attore Joaquim Phoenix ha deciso di usare sempre lo stesso smoking, da adesso in avanti, per tutti i premi che andrà a ritirare. Dall’articolo dell’Ansa leggiamo: «Phoenix, vegano e ambientalista convinto, ha fatto la scelta consapevole di avere lo stesso tuxedo per l’intera stagione dei premi (dove, c’è da giurarci, sarà protagonista con allori) per ridurre sprechi e avere un’impronta green coerente al suo attivismo». E’ infatti noto come la produzione massiccia di smoking da cerimonia sia una delle cause principali del disboscamento della foresta amazzonica, dell’inquinamento atmosferico e dell’estinzione delle balene. Pensate che bello, se invece di una scemenza del genere Joaquim Phoenix avesse detto: «Da oggi mi presenterò a ritirare qualunque premio mi venga assegnato vestito esclusivamente di abiti di canapa. La canapa infatti è un prodotto pienamente eco-sostenibile, che non inquina e che non porta alcun danno ambientale nella sua coltivazione». Ma un discorso del genere avrebbe significato essere intelligenti, e di intelligenza al mondo a questo punto sembra restarne molto poca.(Massimo Mazzucco, “L’ambientalismo degli stupidi”, da “Luogo Comune” del 13 gennaio 2020).È vero, stiamo rovinando l’ambiente. È vero, stiamo depredando il pianeta delle sue risorse naturali. È vero, stiamo avvelenando l’aria, l’acqua e i cibi che mangiamo. Ma problemi del genere, che sono di portata globale, richiedono soluzioni complesse e ragionate, e non ci si può certo accontentare di gesti simbolici che servono solo ad acquietare momentaneamente la nostra coscienza, ma non possono minimamente intaccare i problemi che abbiamo di fronte. Sembra invece che ultimamente si sia scatenata una gara a chi riesce a inventare la soluzione più stupida per far vedere che lui ha capito come si fa a risolvere il problema ambientale. La capofila di queste stupidità è proprio Greta Thunberg, che ha deciso di non viaggiare più in aereo “perché gli aerei inquinano”. Ma pensare oggi di abolire i voli aerei è assolutamente ridicolo, come è ridicolo pensare di poter modificare in modo sostanziale il modo in cui funzionano i loro motori. Talmente ridicolo, fra l’altro, è stato il gesto di Greta, che poi per riportare indietro la barca a vela che l’aveva trasportata fino a New York hanno dovuto andarci – in aereo, naturalmente – quattro marinai. Per cui, per un biglietto aereo risparmiato da lei, ne sono stati acquistati quattro per l’equipaggio di ritorno. Ma Greta è stata solo la apripista delle idiozie “a impatto zero”.
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La “teoria del chiasso” oscura la verità sul clima terrestre
Sulla questione climatica, oramai, si sente soltanto chiasso. Chiasso mediatico, chiasso rabbioso, chiasso interessato, genuino, ispirato, malevolo… ma sempre e solo chiasso. Perché il chiasso è il fenomeno che più s’oppone al ragionamento e alla meditazione, unica via per giungere alla sintesi di qualsiasi evidenza naturale, per trovarne una soluzione o, almeno, comprenderne la genesi. Potremmo definire il chiasso come l’antitesi vera e propria della ricerca scientifica. A parte il chiasso, quali sono i dati in nostro possesso? La percentuale di CO2 nell’atmosfera terrestre nel 1975 era di 320 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato le 390 ppm: in 45 anni è aumentata del 22%. Nello stesso periodo, la temperatura media globale è aumentata di circa 0,5 gradi Celsius e i mari sono saliti di circa 40 millimetri. Possono indicarci qualcosa questi pochi dati certi? Il rapporto fra questi dati è provato e riproducibile in laboratorio: se in un laboratorio, a temperatura e illuminazione costanti, immettiamo in un recipiente di vetro una miscela di aria e CO2 ed aumentiamo la CO2, otteniamo un aumento di temperatura, perché l’anidride carbonica (e altri gas) riflettono la radiazione infrarossa che, dal suolo, viene riflessa verso il cielo e la proiettano nuovamente verso terra. Insomma, come in una serra, non la lasciano sfuggire.Il terzo dato necessita di una comparazione; ossia due recipienti, come sopra, con del ghiaccio alla medesima temperatura e peso: in quello a maggior temperatura, nella stessa unità di tempo, si scioglierà una maggior quantità di ghiaccio. Ciò che possiamo provare scientificamente è tutto qui: il resto richiede la preparazione di modelli matematici, poiché un conto è operare un esperimento in laboratorio, un altro espanderlo a livello della biosfera, dove intervengono miliardi d’interazioni delle quali non conosciamo interamente i rapporti, e per questo li indaghiamo con modelli matematici i quali, come ogni modello prodotto dall’uomo, è passibile di critica. Perché il chiasso? Il primo obiettivo dei fautori del chiasso è disperdere la concentrazione, effettuando un’operazione di per sé semplice, soprattutto nei confronti di coloro che non sono molto avvezzi nell’epistemologia delle scienze sperimentali: assegnare il medesimo valore d’inesistenza inerente fra la critica dei modelli matematici e l’evidenza dei dati scientifici. E’ un chiasso un poco furbetto e sempliciotto: in altre parole, se dimostro che il modello matematico è imperfetto, lo saranno anche i dati scientifici che lo alimentano. Il che è pietosamente falso: sarebbe come sostenere, nella costruzione di due grattacieli, che essendo errato in uno dei due il calcolo delle masse e delle relative pressioni, sono errati i concetti fisici di massa e pressione.Più interessante, invece, la critica proveniente dagli ambienti del “complotto”. Si sostiene che, siccome il sistema politico-economico è una piovra che tutto controlla e decide, allora l’evidenza di nuovi ed enormi profitti conduce ad esaltare la necessità di compiere questi interventi, finalizzati ad un maggior profitto per gli azionisti. Nulla da eccepire sotto l’aspetto della critica: nessuno di noi ha mai pensato che le holding economiche del pianeta siano istituti di beneficienza sociale. Il nesso, però – inconsistente – è fra le nuove tecnologie energetiche e l’intervento finanziario. Prima del secolo XVIII, era la nobiltà ad assumersi oneri ed onori per quanto riguardava gli interventi, ma la macchina a vapore sconvolse questi equilibri: troppo grandi gli interventi richiesti, estesi sui cinque continenti, in continua evoluzione. La ferrovia fu il canto del cigno per il potere economico della nobiltà, la quale – anche per altri fattori storici – si vide relegata in un angolo del potere finanziario ed economico. Precisando il fenomeno, nel secolo XIX, per la macchina a vapore e il carbone, furono le banche ad investire e a fare profitti, sorrette dal patrimonio azionario dell’espansione borghese, mentre nel XX secolo s’affermarono mezzi di finanziamento ancor più evoluti, quali fondi d’investimento, fondi pensione, fondi sovrani.Ricapitolando, c’è da operare una distinzione fra sviluppo e ricerca tecnologica e mezzi di finanziamento: mentre i primi possono essere anche frutto di ricerche e sviluppi nati nell’ambito pubblico – gli istituti universitari, ad esempio – i secondi sono quasi interamente rivolti agli investitori privati, siano essi banche o strutture finanziarie. Aprendo una breve parentesi, si può notare come in Italia si sia generato un fenomeno che dire “assai strano” è ancora riduttivo: il sistema autostradale, costruito col finanziamento pubblico, è diventato una gestione privata, in cambio – diciamolo chiaro – di un piatto di lenticchie. E la dimostrazione, lampante, è dei nostri giorni e di cosa sta accadendo. Quindi, è assolutamente normale che il sistema finanziario s’adoperi per entrare e guadagnare nel comparto delle nuove tecnologie energetiche: compito della parte pubblica sarà, invece, definire il quadro degli investimenti per fare in modo che questi interventi non siano “a gamba tesa”. Alternative? Ancor più ampio, come prospettive, è la definizione del sistema economico di riferimento: non si può tacere sul fatto, evidente, che la maggior potenza economica in forte ascesa sia la Cina – la Cina popolare, che si dice ancora comunista, qualsivoglia sia il significato che i dirigenti cinesi assegnano oggi a quel termine (sarebbero, però, analisi che richiederebbero ben altro spazio di un articolo).Il ministro del petrolio saudita, molti anni fa, ebbe a pronunciare una frase profetica: «L’Era della Pietra non terminò certo per la mancanza di pietre, e l’Era del Petrolio potrebbe terminare molto prima dell’esaurimento del petrolio». E se così non fosse, sarebbe un dramma. Oggi, a nostro favore, abbiamo la ricerca tecnologica, la quale è passata da un processo combustione>energia meccanica>energia elettrica alla più semplice captazione diretta dell’energia elettrica, vuoi con la captazione eolica, vuoi con quella fotovoltaica. E molto rimane ancora da esplorare, sul fronte delle energie dalle correnti sottomarine e dal moto ondoso, sull’eolico d’alta quota, sul geotermico, sullo sfruttamento delle biomasse di scarto, sull’idroelettrico da grandi masse e modeste cadute e quanto, sicuramente, ci segnaleranno nel futuro scienza e tecnologia. Perché rifiutare? Non sappiamo cosa significhino quelle 390 ppm di CO2 nell’atmosfera, come non sappiamo cosa ci porterà quel mezzo grado in più, né quei 40 millimetri in più d’acqua negli oceani. Possiamo solo dire che quei miseri 40 millimetri d’innalzamento del livello di mari e oceani significano circa 14.500 miliardi di tonnellate d’acqua in più negli oceani. Non cambierà nulla? Lo cambierà? Non lo sappiamo.Sappiamo però che, qualsiasi mutamento questo quadro porterà, sarà fuori dalle capacità umane, in futuro, porvi rimedio: l’unico atteggiamento da assumere, oggi, è l’elementare principio di prudenza, cercando di salvaguardare un equilibrio che ben conosciamo e nel quale siamo vissuti per migliaia di anni. I mezzi li abbiamo tutti: sarà solo l’ennesima transizione della civiltà umana verso sistemi più evoluti: dalla trazione animale a quella meccanica, alla trazione elettrica. Dall’energia muscolare a quella meccanica, a quella elettrica fino a quella nucleare, che non ha dato i risultati sperati, poiché basta un solo errore (e ce ne sono stati ben due) per condannare intere regioni all’inesistenza per la vita umana. Ci sono gli aspetti economici e finanziari, ma questo non è un principio immutabile – come le leggi della fisica – bensì soltanto un metodo costruito dall’uomo per governare l’economia delle società umane. Se dovesse risultare un errore, un obbrobrio oppure un ostacolo per l’evoluzione umana, basterà rimuoverlo o modificarlo. Questo lo possiamo fare: basta averne consapevolezza.(Carlo Bertani, “Teoria del chiasso”, dal blog di Bertani del 1° gennaio 2020).Sulla questione climatica, oramai, si sente soltanto chiasso. Chiasso mediatico, chiasso rabbioso, chiasso interessato, genuino, ispirato, malevolo… ma sempre e solo chiasso. Perché il chiasso è il fenomeno che più s’oppone al ragionamento e alla meditazione, unica via per giungere alla sintesi di qualsiasi evidenza naturale, per trovarne una soluzione o, almeno, comprenderne la genesi. Potremmo definire il chiasso come l’antitesi vera e propria della ricerca scientifica. A parte il chiasso, quali sono i dati in nostro possesso? La percentuale di CO2 nell’atmosfera terrestre nel 1975 era di 320 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato le 390 ppm: in 45 anni è aumentata del 22%. Nello stesso periodo, la temperatura media globale è aumentata di circa 0,5 gradi Celsius e i mari sono saliti di circa 40 millimetri. Possono indicarci qualcosa questi pochi dati certi? Il rapporto fra questi dati è provato e riproducibile in laboratorio: se in un laboratorio, a temperatura e illuminazione costanti, immettiamo in un recipiente di vetro una miscela di aria e CO2 ed aumentiamo la CO2, otteniamo un aumento di temperatura, perché l’anidride carbonica (e altri gas) riflettono la radiazione infrarossa che, dal suolo, viene riflessa verso il cielo e la proiettano nuovamente verso terra. Insomma, come in una serra, non la lasciano sfuggire.
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Agamben: fine del mondo, la scienza è diventata religione
Il tema della fine del mondo è apparso più volte nella storia della cristianità e in ogni tempo sono comparsi profeti che annunciavano come prossimo l’ultimo giorno. È singolare che oggi questa funzione escatologica, che la Chiesa ha lasciato cadere, sia stata assunta dagli scienziati, che si presentano sempre più spesso come profeti, che predicono e descrivono con assoluta certezza le catastrofi climatiche che porteranno alla fine della vita sulla Terra. Singolare, ma non sorprendente, se si considera che nella modernità la scienza si è sostituita alla fede e ha assunto una funzione propriamente religiosa – è, anzi, in ogni senso la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono (o, almeno, credono di credere). Come ogni religione, anche la religione della scienza non poteva mancare di un’escatologia, cioè di un dispositivo che, mantenendo i fedeli nella paura, rafforza la loro fede e, insieme, assicura il dominio della classe sacerdotale. Apparizioni come Greta sono, in questo senso, sintomatiche: Greta crede ciecamente in quel che gli scienziati profetizzano e aspetta la fine del mondo nel 2030, esattamente come i millenaristi nel medioevo credevano nell’imminente ritorno del messia a giudicare il mondo.Non meno sintomatica è una figura come quella dell’inventore di Gaia, uno scienziato che, concentrando le sue diagnosi apocalittiche su un unico fattore – la percentuale di CO2 nell’atmosfera – dichiara con stupefacente candore che la salvezza dell’umanità sta nell’energia nucleare. Che, in entrambi i casi, la posta in gioco abbia carattere religioso e non scientifico, si tradisce nella funzione centrale che vi svolge un vocabolo – la salvezza – tratto dalla filosofia cristiana della storia. Il fenomeno è tanto più inquietante, in quanto la scienza non ha mai annoverato l’escatologia fra i propri compiti ed è possibile che l’assunzione del nuovo ruolo profetico tradisca la consapevolezza della propria innegabile responsabilità nelle catastrofi di cui predice l’avvento. Naturalmente, come in ogni religione, anche la religione della scienza ha i suoi increduli e i suoi avversari, cioè gli adepti dell’altra grande religione della modernità: la religione del denaro.Ma le due religioni, in apparenza divise, sono segretamente solidali. Poiché è stata certamente l’alleanza sempre più stretta fra scienza, tecnologia e capitale che ha determinato la situazione catastrofica che gli scienziati oggi denunciano. Deve essere chiaro che queste considerazioni non intendono prendere posizione quanto alla realtà del problema dell’inquinamento e delle trasformazioni deleterie che le rivoluzioni industriali hanno prodotto nelle condizioni materiali e spirituali dei viventi. Al contrario, mettendo in guardia contro la confusione fra religione e verità scientifica e fra profezia e lucidità, si tratta di non farsi dettare acriticamente da parti interessate le proprie scelte e le proprie ragioni, che in ultima analisi non possono essere che politiche.(Giorgio Agamben, “Sulla fine del mondo”, da “Quodlibet” del 18 novembre 2019. Agamben è un filosofo italiano particolarmente noto anche all’estero, avendo insegnato a Parigi e New York. Laureatosi con una tesi sul pensiero politico di Simone Weil, a Roma ha frequentato Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, facendo anche l’attore nel film “Il Vangelo secondo Matteo”. Esperto in linguistica e cultura medievale, vicino a Pierre Klossowski, Frances Yates e Italo Calvino, partecipò ai seminari di Martin Heidegger su Eraclito e Hegel. Per Einaudi ha curato l’opera completa di Walter Benjamin. Professore di estetica a Macerata e Verona, negli anni ‘90 ha sviluppato il concetto di “biopolitica”. Rileggendo Aristotele, Michel Foucault, Hannah Arendt e Carl Schmitt, ha elaboraro una teoria del rapporto fra diritto e vita, con una critica del concetto di sovranità, nel suo libro più noto, “Homo sacer”, pubblicato da Einaudi nel 1995).Il tema della fine del mondo è apparso più volte nella storia della cristianità e in ogni tempo sono comparsi profeti che annunciavano come prossimo l’ultimo giorno. È singolare che oggi questa funzione escatologica, che la Chiesa ha lasciato cadere, sia stata assunta dagli scienziati, che si presentano sempre più spesso come profeti, che predicono e descrivono con assoluta certezza le catastrofi climatiche che porteranno alla fine della vita sulla Terra. Singolare, ma non sorprendente, se si considera che nella modernità la scienza si è sostituita alla fede e ha assunto una funzione propriamente religiosa – è, anzi, in ogni senso la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono (o, almeno, credono di credere). Come ogni religione, anche la religione della scienza non poteva mancare di un’escatologia, cioè di un dispositivo che, mantenendo i fedeli nella paura, rafforza la loro fede e, insieme, assicura il dominio della classe sacerdotale. Apparizioni come Greta sono, in questo senso, sintomatiche: Greta crede ciecamente in quel che gli scienziati profetizzano e aspetta la fine del mondo nel 2030, esattamente come i millenaristi nel medioevo credevano nell’imminente ritorno del messia a giudicare il mondo.
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Attorno a noi 10.000 pianeti, la Nasa: li stiamo scoprendo
Attorno a noi, a meno di 50 anni luce, ci sono più di 1.500 stelle. E attorno ad esse, orbitano migliaia di pianeti, molti dei quali con una struttura rocciosa e caratteristiche simili a quelle della Terra. Magari, qualcuno potrebbe persino ospitare la vita. Al momento non sappiamo neppure se esistono davvero: il 99% di questi “esopianeti” relativamente vicini non è ancora stato scoperto. Ma tutto starebbe per cambiare grazie a Tess, il telescopio spaziale della Nasa da poco in orbita sopra le nostre teste. A parlarne è un articolo pubblicato online dalla rivista “The Conversation” e scritto da due astrofisici, Daniel Apai (Università dell’Arizona) e Benjamin Rackham (Mit di Boston), entrambi convinti che nel giro di pochi anni il “Transiting Exoplanet Survey Satellite”, insieme agli altri telescopi da terra, riuscirà a scovare migliaia di mondi per ora ignoti. Lo spiega la giornalista Sabrina Pieragostini sul blog “Extremamente”: «Non solo gli studiosi avranno una comprensione migliore dei pianeti alieni che ci circondano, ma avranno anche dei precisi obiettivi sui quali puntare la loro attenzione (e le loro strumentazioni di ultima generazione) alla ricerca di segni di vita».In poco più di un anno, Tess ha già identificato oltre 1.200 potenziali corpi planetari: di questi, 29 sono già stati confermati. «Considerando l’eccezionale capacità del telescopio spaziale di analizzare in contemporanea decine di migliaia di stelle, gli scienziati pensano che entro la fine della missione il “cacciatore” della Nasa dovrebbe essere in grado di scovare almeno 10.000 nuovi mondi». Secondo Apai e Rackham, «questi sono tempi entusiasmanti, per gli astronomi e soprattutto per coloro che indagano sugli esopianeti». Scopo della ricerca: scovare mondi extrasolari, «per capire le loro proprietà e il loro potenziale per ospitare la vita». Tra le ultime scoperte c’è Proxima B, un pianeta che orbita attorno a Proxima Centauri (una piccola nana rossa, invisibile a occhio nudo: una degli oltre 100 miliardi di stelle della Via Lattea). Eppure, Proxima Centauri è importantissima per i ricercatori, perché è la più vicina al nostro Sole e sopratutto perché, come scoperto nel 2016, illumina e riscalda un mondo misterioso e affascinante, di cui gli scienziati conoscono ancora pochissimo.Proxima B non è mai stato visto da un telescopio. «Ma sappiamo che esiste – dicono gli astrofisici – a causa della sua attrazione gravitazionale sulla stella ospite, che la fa oscillare leggermente». Primi indizi: «Proxima B ha molto probabilmente una composizione rocciosa simile a quella terrestre, ma di massa superiore. Riceve circa la stessa quantità di calore che la Terra riceve dal Sole. E questo è ciò che rende questo pianeta così eccitante: si trova nella zona “abitabile” e potrebbe avere proprietà simili a quelle della Terra, come una superficie, acqua liquida e – chi lo sa? – forse anche un’atmosfera che porta i segni chimici rivelatori della vita». A dircelo potrebbe essere proprio Tess, che scandaglia lo spazio usando il metodo del transito: rileva i minimi cali di luminosità di una stella al passaggio di un pianeta. «Con questo sistema, a differenza di quello basato sull’oscillazione stellare, gli astronomi riescono a calcolare anche la dimensione del corpo in orbita, che può essere ulteriormente studiato per determinarne la densità e le composizioni atmosferiche, tutte informazioni preziose per stabilire la compatibilità con la vita».I candidati preferiti dai ricercatori sono i piccoli esopianeti in orbita attorno alle nane rosse, stelle con masse pari a circa la metà di quella del Sole. «Ognuno di questi sistemi è unico», spiegano Apai e Rackham. «Ad esempio, LP 791-18 è una nana rossa a 86 anni luce dalla Terra attorno alla quale Tess ha trovato due mondi. Il primo è una “super-Terra”, un pianeta più grande del nostro, ma probabilmente ancora per lo più roccioso, e il secondo è un “mini-Nettuno”, un pianeta più piccolo di Nettuno ma ricco di gas e ghiaccio. Nessuno di questi pianeti ha equivalenti nel nostro sistema solare». Finora il telescopio non ha trovato delle repliche perfette della Terra. Uno dei favoriti degli astronomi, LHS 3884B, si è rivelato un mondo infernale: dai dati di Hubble, risulta privo di atmosfera e con temperature che passano da 700 °C a mezzogiorno fino allo zero assoluto (-460 Fahrenheit) a mezzanotte. Probabilmente, i gemelli terrestri si nascondono vicino alle stelle più fredde, quelle con temperature di circa 2700 °C. Ma proprio l’estrema debolezza di questi astri rende la ricerca complicata, soprattutto per Tess e per i suoi piccoli quattro obiettivi con un diametro di 10 centimetri.Dove fallisce il telescopio spaziale, però, spesso hanno successo quelli terrestri, dotati di ottica e lenti molto più potenti». E’ il caso del sistema solare Trappist-1, scoperto dall’omonimo telescopio posizionato a La Silla, nel deserto cileno di Atacama. «Scansionando le più flebili tra le nane rosse alla ricerca di infinitesimali cali di luminosità – spiega Pieragostini – lo strumento utilizzato da un’équipe di astronomi belgi ha individuato il passaggio di ben sette pianeti di dimensioni più o meno simili a quella della Terra attorno a questa stella ultra-fredda a circa 40 anni luce da noi. Sulla scorta di questo precedente, ora una serie di telescopi posizionati in diversi paesi (uno anche in Italia), coordinati dai progetti Eden e Speculoos, come tanti occhi elettronici sempre puntati al cielo osservano continuamente le nane rosse alla ricerca dei mondi di dimensioni terrestri che transitano davanti ad esse». Attenzione: nel prossimo decennio, le scoperte dovrebbero moltiplicarsi: entro il 2025, si presume che Tess troverà tra i 5 e i 10.000 potenziali esopianeti. Entro il 2030, poi, i ricercatori ne prevedono 20-35.000 dalle missioni Gaia e Plato dell’Esa. «Molti di questi mondi possono essere studiati nei minimi dettagli, inclusa la ricerca di segni di vita», concludono Apai e Rackham.Attorno a noi, a meno di 50 anni luce, ci sono più di 1.500 stelle. E attorno ad esse, orbitano migliaia di pianeti, molti dei quali con una struttura rocciosa e caratteristiche simili a quelle della Terra. Magari, qualcuno potrebbe persino ospitare la vita. Al momento non sappiamo neppure se esistono davvero: il 99% di questi “esopianeti” relativamente vicini non è ancora stato scoperto. Ma tutto starebbe per cambiare grazie a Tess, il telescopio spaziale della Nasa da poco in orbita sopra le nostre teste. A parlarne è un articolo pubblicato online dalla rivista “The Conversation” e scritto da due astrofisici, Daniel Apai (Università dell’Arizona) e Benjamin Rackham (Mit di Boston), entrambi convinti che nel giro di pochi anni il “Transiting Exoplanet Survey Satellite”, insieme agli altri telescopi da terra, riuscirà a scovare migliaia di mondi per ora ignoti. Lo spiega la giornalista Sabrina Pieragostini sul blog “Extremamente“: «Non solo gli studiosi avranno una comprensione migliore dei pianeti alieni che ci circondano, ma avranno anche dei precisi obiettivi sui quali puntare la loro attenzione (e le loro strumentazioni di ultima generazione) alla ricerca di segni di vita».
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Scienziati Usa: la Terra ora rischia una nuova era glaciale?
Un aumento del ghiaccio in Antartide potrebbe innescare la prossima era glaciale. E’ l’avvertimento lanciato da un gruppo di scienziati dell’Università di Chicago, che ha condotto una serie di simulazioni al computer. «Le loro conclusioni – scrive l’Agi – suggeriscono che, qualora si accumulasse ghiaccio marino in Antartide, si formerebbe una sorta di coperchio sull’oceano che bloccherebbe lo scambio di anidride carbonica con l’atmosfera». Questo, aggiunge l’Agenzia Italia, provocherebbe una sorta di effetto serra “inverso”, che alla fine raffredderebbe la Terra e «farebbe entrare il nostro pianeta in una nuova era glaciale, dopo l’ultima che si è verificata oltre due milioni di anni fa, durante l’era pleistocenica». Sono anni che gli scienziati americani stanno studiando i processi che hanno portato alle ere glaciali in passato. E hanno scoperto che un ruolo importante lo giocherebbe lo scambio di gas tra l’oceano e l’atmosfera. Dalle simulazioni al computer, i ricercatori hanno scoperto che il ghiaccio marino, in Antartide, non solo cambia la circolazione oceanica, ma agisce come un “tappo”, bloccando il rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera e raffreddando così le temperature.«Quando la temperatura scende, viene rilasciata meno anidride carbonica nell’atmosfera, il che provoca un maggiore raffreddamento», conferma Alice Marzocchi, una delle ricercatrici del team americano. Queste conclusioni – aggiunge sempre l’agenzia di stampa – coincidono con le evidenze climatiche del passato, come sedimenti, barriere coralline e campioni di ghiaccio “antico”. Notizie come questa sembra vadano prese con le dovute cautele, così come quelle – di segno opposto – diffuse a gran voce dall’Ipcc, il comitato intergovernativo sul cambiamento climatico, che (attraverso testimonial come Greta Thunberg) sostengono che vi sia una correlazione diretta, e molto rilevante, tra le attività umane e le alterazioni climatiche. Sarebbe invece di origine addirittura cosmica il catastrofico sconvolgimento planetario determinato dal cosidetto “Dryas recente”, secondo cui una “pioggia cometaria” attorno al 10.900 avanti Cristo avrebbe causato una grande esplosione nell’atmosfera terrestre, in seguito all’impatto di giganteschi frammenti meteorici provenienti dallo spazio esterno.All’evento si attribuisce l’innesco di un periodo freddo, diffuso su tutto il pianeta. Lo sciame di comete avrebbe colpito vaste aree del continente nordamericano, producendo numerosissimi incendi diffusi su tutta l’America del Nord fino a causare, nel corso della Glaciazione Würm (ultimo periodo glaciale) l’estinzione degli animali più grandi. Molto più vicina a noi è invece la “piccola era glaciale”, che dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo fece registrare un brusco abbassamento della temperatura media terrestre. Quella fase fredda fu preceduta da un lungo periodo di temperature relativamente elevate, chiamato “periodo caldo medievale”. Dal 1300, ricorda Wikipedia, si assistette a un graduale avanzamento dei ghiacciai che prima si erano ritirati molto o erano scomparsi, e si ebbe anche la formazione di nuovi depositi di ghiaccio sui monti. I ghiacciai arrivarono al culmine della loro estensione intorno al 1850. La “piccola era glaciale” causò inverni molto freddi in Europa e Nord America. Il Tamigi e molti canali in Olanda si congelarono spesso durante l’inverno. Nel 1780 si ghiacciò anche il porto di New York, consentendo di andare a piedi da Manhattan a Staten Island.Il mare ghiacciato circondante l’Islanda si estese per molti chilometri in tutte le direzioni, impedendo l’accesso navale ai porti dell’isola. Lo stesso avvenne anche in Groenlandia. In entrambe le isole le navi commerciali provenienti dalla Danimarca non riuscivano più a entrare nei porti. Questo fece sì che la Danimarca cominciò quasi a dimenticare l’esistenza delle due isole. Si hanno riferimenti del 1500 di una spedizione danese che trovò la Groenlandia completamente disabitata. In particolar modo, viene ricordato l’inverno 1709 che, secondo gli esperti, è considerato il più freddo degli ultimi 500 anni per il continente europeo. Gli inverni più rigidi ebbero effetti sulla vita umana: le carestie divennero più frequenti (quella del 1315 uccise 1,5 milioni di persone) e le morti per le malattie aumentarono. La piccola era glaciale (visibile anche nella pittura fiamminga di Pieter Bruegel il Vecchio, vissuto nel Cinquencento) si concluse intorno al 1850, quando il clima terrestre tornò gradualmente a riscaldarsi, facendo nuovamente arretrare i ghiacciai. Ora le ultime notizie dall’Antartide ci dicono che il freddo potrebbe tornare a sfrattare il caldo?Un aumento del ghiaccio in Antartide potrebbe innescare la prossima era glaciale. E’ l’avvertimento lanciato da un gruppo di scienziati dell’Università di Chicago, che ha condotto una serie di simulazioni al computer. «Le loro conclusioni – scrive l’Agi – suggeriscono che, qualora si accumulasse ghiaccio marino in Antartide, si formerebbe una sorta di coperchio sull’oceano che bloccherebbe lo scambio di anidride carbonica con l’atmosfera». Questo, aggiunge l’Agenzia Italia, provocherebbe una sorta di effetto serra “inverso”, che alla fine raffredderebbe la Terra e «farebbe entrare il nostro pianeta in una nuova era glaciale, dopo l’ultima che si è verificata oltre due milioni di anni fa, durante l’era pleistocenica». Sono anni che gli scienziati americani stanno studiando i processi che hanno portato alle ere glaciali in passato. E hanno scoperto che un ruolo importante lo giocherebbe lo scambio di gas tra l’oceano e l’atmosfera. Dalle simulazioni al computer, i ricercatori hanno scoperto che il ghiaccio marino, in Antartide, non solo cambia la circolazione oceanica, ma agisce come un “tappo”, bloccando il rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera e raffreddando così le temperature.