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Archivio del Tag ‘Benito Mussolini’

  • La Francia ci calpesta? Ovvio: siamo lo zerbino del mondo

    Scritto il 01/4/18 • nella Categoria: idee • (21)

    «In questo momento – scandisce Gianfranco Carpeoro – l’Italia è lo zerbino del mondo». Lo dimostra la disinvoltura con cui la gendarmeria doganale francese ha condotto un’operazione contro i migranti a Bardonecchia, in valle di Susa, su suolo italiano e senza neppure avvisare la nostra polizia. «L’Italia non conta nulla. Ed è tutta colpa è nostra», aggiunge Carpeoro: «Se il problema oggi sono i francesi è solo perché sono confinanti, e quindi ci sono più possibilità che commettano degli abusi. Ma nei confronti dell’Italia gli abusi li fanno tutti». Immediata (ma rituale) la reazione della Farnesina, che ha convocato l’ambasciatore francese. A stretto giro, Parigi difende i gendarmi: hanno agito in base ad accordi transfrontalieri stipulati negli anni ‘90. E’ vero solo a metà, sostiene Roma: gli agenti francesi hanno “invaso”, armi in pugno, un locale assegnato dall’Italia alle Ong che sostengono i migranti in difficoltà, i disperati che tentano di raggiungere la Francia (dove peraltro vige lo “ius soli”). Dal Viminale, Minniti avverte: potremmo stracciare quegli accordi e impedire ai poliziotti francesi di varcare la frontiera italiana. Se Di Maio approva la convocazione dell’ambasciatore di Macron, Salvini va oltre: anziché espellere diplomatici russi dopo l’opaco affare Skripal, dice, sarebbe il caso di allontare da Roma il personale diplomatico francese.
    In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro taglia corto: inutile sperare che cambi qualcosa, dato il peso internazionale dell’Italia – ormai pari a zero. «D’altro canto, qui da noi, appena uno canta l’inno nazionale lo prendono in giro. Se noi stessi non abbiamo rispetto per quello che siamo, perché ne dovrebbero avere gli altri?». Avvocato e scrittore, nonché esperto simbologo, Carpeoro è un originale osservatore della situazione contemporanea. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela i retroscena (interamente occidentali, atlantici) dell’odierna strategia della tensione internazionale. Punta il dito sulla “sovragestione” occulta del massimo potere, che ogni tanto fa vittime eccellenti anche tra i suoi stessi esponenti – come Nicolas Sarkozy, ora nella bufera. Ma se il caso Sarkozy è un’eccezione, la regola nel Belpaese è un’altra: «L’Italia ha consentito che i suoi massimi esponenti politici fossero trascinati nel fango, senza tutelarli in nulla: ha consentito che dall’estero si pigliassero per il culo il propri leader».
    Proprio di Sarkozy si ricordano le grasse risate alle spalle di Berlusconi, condivise con Angela Merkel, di fronte alla compiacente stampa italiana, deliziata all’idea che i “paesi seri” si prendessero gioco del proprio premier “impresentabile”. «L’Italia è questo», insiste Carpeoro: «Noi per primi abbiamo utilizzato l’odio degli stranieri per “fottere” i nostri stessi connazionali». E’ una storia lunga e ripetitiva, che risale a Craxi e, prima ancora, a Mattei. Nel saggio “Il compasso, il fascio le la mitra”, che illumina gli aspetti più oscuri all’origine del fascismo, Carpero descrive i legami internazionali (Francia, Gran Bretagna) del faccendiere massone Filippo Naldi, uomo-chiave dell’ascesa e poi della caduta di Mussolini, nonché della spietata liquidazione di Giacomo Matteotti, che aveva scoperto (a Londra) la corruzione del sovrano, Vittorio Emanuele III, implicato nello scandalo petrolifero della Sinclair Oil. Sulla stessa nascita della repubblica italiana, Carpeoro ha manifestato perplessità: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita ha potuto fare il ministro “a vita” perché suo padre, Giuseppe Romita, ministro dell’interno nel ‘46, custodì il segreto del vero risultato del referendum che ufficialmente bocciò la monarchia».
    Se la repubblica “antifascista” è nata già fragile, il resto l’hanno fatto gli italiani: «Non dobbiamo lamentarci di nulla, perché noi per primi non abbiamo avuto rispetto dell’Italia. Non possiamo pretendere che altri ce l’abbiano: non siamo in questa condizione», aggiunge Carpeoro. «L’italiano accetta questa situazione perché non assoggetta mai la propria individualità agli interessi generali, come invece avviene all’estero». Umiliazioni come quella appena inferta dai gendarmi francesi? Ne usciremo solo «quando cominceremo ad avere più rispetto del nostro Stato e delle nostre istituzioni, senza assoggettarle continuamente a trame e complotti dove abbiamo regolarmente chiesto noi l’aiuto per diffamare leader politici di fronte a fonti di informazioni estere».

    «In questo momento – scandisce Gianfranco Carpeoro – l’Italia è lo zerbino del mondo». Lo dimostra la disinvoltura con cui la gendarmeria doganale francese ha condotto un’operazione contro i migranti a Bardonecchia, in valle di Susa, su suolo italiano e senza neppure avvisare la nostra polizia. «L’Italia non conta nulla. Ed è tutta colpa è nostra», aggiunge Carpeoro: «Se il problema oggi sono i francesi è solo perché sono confinanti, e quindi ci sono più possibilità che commettano degli abusi. Ma nei confronti dell’Italia gli abusi li fanno tutti». Immediata (ma rituale) la reazione della Farnesina, che ha convocato l’ambasciatore francese. A stretto giro, Parigi difende i gendarmi: hanno agito in base ad accordi transfrontalieri stipulati negli anni ‘90. E’ vero solo a metà, sostiene Roma: gli agenti francesi hanno “invaso”, armi in pugno, un locale assegnato dall’Italia alle Ong che assistono i migranti in difficoltà, i disperati che tentano di raggiungere la Francia (dove peraltro vige lo “ius soli”). Dal Viminale, Minniti avverte: potremmo stracciare quegli accordi e impedire ai poliziotti francesi di varcare ancora la frontiera italiana. Se Di Maio approva la convocazione dell’ambasciatore di Macron, Salvini va oltre: anziché espellere diplomatici russi dopo l’opaco affare Skripal, dice, sarebbe il caso di allontare da Roma il personale diplomatico francese.

  • Veneziani: vi presento l’altro Pertini, iracondo e stalinista

    Scritto il 31/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (15)

    Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.
    Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.
    Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).
    «Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).
    Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.
    Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».
    (Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.

  • Ilaria Bifarini: di rigore si muore. Lo sanno, e così insistono

    Scritto il 29/3/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».
    In pratica, si continua con la stessa ricetta – mortale – che ha ridotto il malato in fin di vita. Secondo uno studio della stessa Oxfam, aggiunge Bifarini, «se le misure di austerità continueranno, entro il 2025 l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più». Ma il mainstream politico e giornalistico «preferisce ignorare queste verità che trapelano ogni tanto dai documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali e propagandare quelli conformi al pensiero unico economico». Nel silenzio generale dei media è uscita questa notizia: è ormai a rischio povertà anche chi lavora, quasi 1 su 8. «La colpa è proprio di questo sistema, che premia la disuguaglianza», spiega Bigarini. «Il futuro ci prospetta una società sempre più polarizzata, con una ristretta cerchia di privilegiati sempre più ricchi e il resto della popolazione, lavoratrice e non, che continuerà a impoverirsi». D’altronde, aggiunge, il fenomeno dei “working poors” è già diffuso in Germania, dove il problema della disoccupazione non è “mostruoso” come in Italia. Eppure, anche in Germania «la deflazione salariale è una colonna portante del modello neoliberista».
    Inversioni di rotta? Siamo alla vigilia di un cambiamento? Fa pensare, sostiene “Lospeciale”, che il Movimento 5 Stelle oggi parli di natalità e soldi alle coppie con figli: dirlo solo cinque anni fa avrebbe creato polemiche su un presunto “ritorno al fascismo”, in relazione al primitivo welfare nazionalista mussoliniano.  «Sicuramente è iniziata una svolta nel sentimento della popolazione», sostiene Ilaria Bifarini, secondo cui il voto del 4 marzo «ha dimostrato la forte volontà e speranza di cambiamento da parte dei cittadini». Politicamente parlando, per l’economista «andrà avanti chi manterrà le promesse e non deluderà gli elettori». E questo, aggiunge, «perché c’è più consapevolezza, anche grazie all’informazione indipendente», che si è progressivamente sviluppata sul web. «Lavoro e famiglia sono senz’altro prioritari: il problema della denatalità non può essere risolto né aggirato con l’accoglienza indiscriminata, ma va affrontato seriamente». Proponendo reddito minimo e Flat Tax, Di Maio e Salvini dimostrano di sapere che occorre dare (o lasciare) più soldi a famiglie e aziende: il contrario dei tagli, che l’Ue – al servizio dei grandi oligopoli globalizzati – continua a raccomandare, fingendo di non conoscene le conseguenze.

    Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».

  • Terzo parricidio all’italiana, con Moro finì l’era di Bisanzio

    Scritto il 24/3/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.
    Ma davvero pensate che il disegno di Moro fosse finalizzato a portare all’opposizione la Dc e al governo il Pci nel nome di una formula politica, l’alternanza? Suvvia, è una fiaba masochista, la stessa che fece erigere a Maglie il monumento a Moro con in mano “l’Unità”. Moro pensava che l’unico modo per garantire ancora altri anni di Dc al potere fosse quello di proseguire l’integrazione avviata nei primi anni ’60 coi socialisti, estendendo il condominio ai comunisti, che al potere avrebbero perso il crisma della diversità. In lui la ragion di partito prevaleva sulla ragion di Stato, conservare al potere la Dc era priorità assoluta, come mostrò nel processo Lockeed. Poi la prospettiva dichiarata era quella, ma intanto garantiva alla Dc di continuare a governare, inglobando un’opposizione cresciuta oltre il 30%. Per far questo, qualcun altro (De Mita) pensò poi di varare la formula dell’arco costituzionale in modo da usare l’antifascismo come collante e alibi. La conventio ad excludendum dei missini era un rito d’esclusione che serviva in realtà a un’inclusione, del Pci nell’area del governo.
    In terzo luogo, chi avversava quel progetto? A livello internazionale gli americani e i sovietici, per ragioni complementari, riconducibili a Yalta. A livello nazionale, i comunisti duri e puri e l’ultrasinistra vedevano in Moro il Corruttore del comunismo in un governo catto-borghese, filo-atlantico, filo-capitalistico. E lo avversavano i socialisti di Craxi che restavano soffocati dall’abbraccio tra Dc e Pci; e le destre, missini in testa. Via libera invece dal capitalismo nostrano e dalle sue mosche cocchiere repubblicane (l’alleanza dei produttori). Se si chiede “cui profuit”, a chi giovò, l’assassinio di Moro, si deve dire: a tutti loro. Ma Craxi cercò di salvarlo. E la destra avrebbe capitalizzato il dissenso di chi non ci stava col compromesso storico, passando da piccolo partito marginale a grande forza di opposizione. Il consociativismo era un’occasione di crescita per la destra nazionale.
    A destra Moro non piaceva non solo per l’apertura a sinistra, ma per la sua politica estera, soprattutto su due questioni: la sua reazione debole alla Libia di Gheddafi che espropriò e cacciò gli italiani e il trattato sulla zona B a Trieste che segnava ancora una certa sudditanza a Tito, un tradimento e una cessione di sovranità. In quarto e ultimo luogo, cosa ha lasciato Moro in eredità politica? Poco o nulla del suo stile e della sua teoria che divenne prassi con l’altra sfinge Dc, Andreotti, salvo sterzare verso altre strategie (il Caf) liquidando il compromesso storico. Sul piano civile, col delitto Moro finì l’onda rivoluzionaria e panpolitica del ’68, s’impose il Riflusso, il Privato, l’Oblio, l’edonismo, la tv… Dopo Moro tramontò la politica come primato e militanza, tramontò il Partito, si appiattirono le ideologie, si perse l’afflato popolare. Poi ci sono le leggende morotee, gli occultismi e gli spiritismi intorno alla sua prigionia e alle sue (non) belle lettere; la storia delle tangenti e il ruolo del suo segretario Freato; le dicerie – come quella che Moro avrebbe chiesto ad Almirante di candidare nel Msi Miceli, già capo del Sid, accusato del tentato golpe – e perfino i gossip (come la presunta love story, lui sobrio e compassato, con una cantante pugliese).
    Lasciamo da parte pure le congetture sulla sua morte, le romanzate, pirotecniche e fumose dietrologie sul suo assassinio, che reca sicura la firma comunista delle Brigate Rosse, anche se sono verosimili le reti di complicità istituzionali e internazionali e le ombre che si allungarono sulle trattative. Infine un’impressione personale. Quand’ero ragazzo vedevo Moro, mio conterraneo, come un vetusto leader al potere dall’antichità; lento, affaticato, emaciato, dalla voce flebile, la parola paludata e la frezza bianca che ormai aveva la maggioranza assoluta della sua chioma. E invece quando morì Moro aveva solo 61 anni. Gli anni del potere, un tempo, si contavano in ere geologiche. Si dirà che un tempo era così, si diventava vecchi molto prima. Ma è pure vero che il potere conservava una sua solennità che intrecciava gerarchia e gerontocrazia, anche nei leader meno carismatici come lui. Di Moro non restarono grandi opere, grandi tracce. Solo il fumo di un lessico e lo stile felpato e cattolico di un potere e del suo logorio. Finì con Moro l’era di Bisanzio.
    (Marcello Veneziani, “La verità politica sul caso Moro”, da “Il Tempo” del 15 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.

  • Border Nights, dove sono di casa le domande più scomode

    Scritto il 20/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Se non ci foste, bisognerebbe inventarvi». Che faccia farebbero, al Tg1, se ricevessero un messaggio simile? Qualcuno ha mai scritto, a Mentana, qualcosa come «grazie di esistere»? Quello, semmai, è il tenore delle comunicazioni rivolte, in modo sistematico, a “Border Nights”, trasmissione web-radio in live streaming su “Web Radio Network” ogni martedì sera da ormai otto anni. E’ seguita da migliaia di appassionati ascoltatori, fedelissimi di lunga data o fan più recenti, che poi scrivono: «M’è capitato una volta di sentirvi e, da allora, non mi perdo una puntata». Fabio Frabetti, il giovane conduttore – affiancato da Paolo Franceschetti per la consueta mezz’ora “a ruota libera”, spesso condita di autorionia esilarante – si avvale anche delle interviste di Stefania Nicoletti su temi di scottante attualità, mentre una vera signora della radiofonia, Barbara Marchand (Radio Montecarlo, RadioRai), ha licenza di curiosare tra libri e film, giganti del pensiero e follie contemporanee. Nell’assortimento della “notte ai confini” ci sono anche lo stile genuinamente complottistico del “Maestro di Dietrologia”, le divagazioni esoteriche di Federica Francesconi, i singolari profili astrologici con i quali Germana Accorsi tratteggia politici, star e protagonisti della cronaca. Cuore di ogni puntata: grandi ospiti, presenti in diretta, coi i quali gli ascoltatori possono interagire in tempo reale inviando messaggi, via email e in chat.
    Tra le ultime voci intervenute, quelle di Giovanni Fasanella (il caso Moro) e Gioele Magaldi (elezioni), lo scomodo reporter Gianni Lannes, il regista Massimo Mazzucco (“American Moon”, l’uomo sulla Luna secondo Washington), che si aggiungono a quelle dei vari Giulietto Chiesa, Marcello Foa, Claudio Messora di “ByoBlu”. Geopolitica e temi spinosi, spesso dribblati dal mainstream, che invece a “Border Nights” trovano piena cittadinanza: dalle strane morti per doping ai misteriosi delitti rituali, passando per le scie chimiche e i gialli irrisolti della storia italiana. Vicende come il delitto di Pasolini e la morte di Rino Gaetano ricostruita dall’avvocato Bruno Mautone, fenomeni come il satanismo e la saga horror del Mostro di Firenze (secondo Carmelo Carlizzi e il pm perugino Giuliano Mignini). “Verità cercasi”, fino alla recente sentenza che condanna il ministero della difesa per il silenzio sul sequestro di Davide Cervia, specialista elettronico della marina militare italiana rapito sulla porta di casa e sparito nel nulla 28 anni fa. Dalla tragedia di Ustica a quella della Costa Concordia, passando per gli attentati firmati Isis, si cerca sempre una lettura diversa – anche simbolica – sulle tracce di possibili indizi.
    “Border Nights” è anche una finestra sui “saperi altri”, come la spettacolare lettura simbologica offerta da Michele Proclamato, tra Cartesio e Arcimboldo, Vitruvio e i “cerchi nel grano”. E poi la lettura “spirituale” proposta da Fausto Carotenuto, la lezione di Steiner secondo Piero Cammerinesi, le vie “alternative” alla conoscenza (Ambra Guerrucci, Stefano Mayorca, Manuela Pompas) e la medicina reinterpretata da Gabriella Mereu (approccio psicologico) e Marcello Pamio (vaccini). C’è davvero di tutto, su “Border Nights”: la Bibbia riletta da Mauro Biglino, la scienza divenuta ultra-dogmatica per Enzo Pennetta, la “dittatura” tecnologica del mondo contemporaneo senza più diritti (Ugo Mattei). Una giovane ricercatrice come Enrica Perucchietti denuncia le menzogne orwelliane del mainstream, fra terrorismo “false flag” e psicosi “fake news”, mentre lo storico Enrico Montermini svela il rapporto tra Mussolini e i circoli massonici internazionali che favorirono l’avvento del fascismo. Lara Pavanetto illumina altre pagine inesplorate di storia, mentre Varo Venturi, Roberto Pinotti, Corrado Malanga e Massimo Barbetta si addentrano – in modi diversissimi – nel mondo dell’ufologia, cioè nell’universo “rivelato da Giordano Bruno”, come spiega l’astrofisica Giuliana Conforto.
    Sempre tra le stelle, il celebre astrologo Marco Pesatori si muove in modo del tutto inedito, quasi quanto il poetico Silvano Agosti nella vita quotidiana, sognando la sua “Kirghisia”, il mondo di armonia al quale abbiamo voltato le spalle. Last but not least, naturalmente, Gianfranco Carpeoro: avvocato e scrittore nonché colonna portante di “Border Nights”, il simbologo e gran maestro, cultore dei Rosacroce, offre spunti spiazzanti e memorabili la domenica mattina nella rubrica “Carpeoro Racconta”, in web-streaming su YouTube, appuntamento imperdibile per i fan della “notte ai confini”. «Viviamo, senza saperlo, immersi in un pensiero di tipo magico: tendiamo a chiederci sempre e solo “come” fare qualcosa, mai “perché”». La tesi di Carpeoro si traduce in una sorta di manifesto, che “Border Nights” fa proprio: offre spazi generosi a voci spesso isolate, autori poco noti, denunce inascoltate. Trasmissioni mai banali, sempre stimolanti – non è un caso, il “grazie di esistere” che la redazione si vede così spesso recapitare. E’ un nuovo modo di fare informazione: aperto e leale, rispettando e coinvolgendo il pubblico. Beninteso: la trasmissione si regge sul solo volontariato. Ai “follower” più affezionati, ora si propone una sorta di libera sottoscrizione, mediante crowdfunding, su “Produzioni dal basso”. «Ma in ogni caso – assicura Frabetti – noi continueremo come prima, offrendo il nostro lavoro settimanale gratuitamente, a tutti».

    «Se non ci foste, bisognerebbe inventarvi». Che faccia farebbero, al Tg1, se ricevessero un messaggio simile? Qualcuno ha mai scritto, a Mentana, qualcosa come «grazie di esistere»? Quello, semmai, è il tenore delle comunicazioni rivolte, in modo sistematico, a “Border Nights”, trasmissione web-radio in live streaming su “Web Radio Network” ogni martedì sera da ormai otto anni. E’ seguita da migliaia di appassionati ascoltatori, fedelissimi di lunga data o fan più recenti, che poi scrivono: «M’è capitato una volta di sentirvi e, da allora, non mi perdo una puntata». Fabio Frabetti, il giovane conduttore – affiancato da Paolo Franceschetti per la consueta mezz’ora “a ruota libera”, spesso condita di autorionia esilarante – si avvale anche delle interviste di Stefania Nicoletti su temi di scottante attualità, mentre una vera signora della radiofonia, Barbara Marchand (Radio Montecarlo, RadioRai), ha licenza di curiosare tra libri e film, giganti del pensiero e follie contemporanee. Nell’assortimento della “notte ai confini” ci sono anche lo stile genuinamente complottistico del “Maestro di Dietrologia”, le divagazioni esoteriche di Federica Francesconi, i singolari profili astrologici con i quali Germana Accorsi tratteggia politici, star e protagonisti della cronaca. Cuore di ogni puntata: grandi ospiti, presenti in diretta, coi i quali gli ascoltatori possono interagire in tempo reale inviando messaggi, via email e in chat.

  • “Non fidatevi delle elezioni, comanda il Pontifex Maximus”

    Scritto il 02/3/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Fascismo e antifascismo: il ritorno della violenza politica in campagna elettorale? Diciamo che puzza un po’ di strategia della tensione. Io all’epoca vivevo negli ambienti che si occupavano di queste cose: conoscevo le persone che si occupavano di organizzarla, la strategia della tensione. Quindi sento puzza di bruciato (diciamo “di bruciaticcio”: certo non  siamo a quelli livelli là). Però è come se qualcuno volesse dire: guardate che razza di disordini vengono fuori, teniamoci la tranquillità e non andiamo verso il nuovo, se no si scatenano delle forze strane. Io però non le vedo, le sorprese in arrivo. Come si fa a capire qual è il gioco dei grandi poteri? Lo si capisce dopo che l’hanno fatto, il gioco. Quali possono essere, le sorprese, in questo momento? La più grossa sorpresa sarebbe se il Pd rimanesse al potere – da solo, quantomeno. Un’ipotesi molto probabile è che facciano un bell’inciucione mascherato, mantenendo un personaggio come Gentiloni a capo di un “governo di responsabilità” per rispondere all’emergenza (altrimenti ecco “i mercati, lo spread”). E chi più dell’apparentemente mite Gentiloni potrebbe assicurarlo? Ma non è detto che sarà così, e secondo me non dipende tanto dal risultato elettorale. Io non mi fido, del risultato elettorale. Non mi sono mai fidato: brogli, broglietti…
    Impicci e imbrogli si facevano talmente bene al tempo del pentapartito, quando al ministero degli interni si lavorava con la penna, e figuriamoci adesso che si lavora coi computer. Quindi mi aspetto di tutto. Che invece di un inciucione, o del successo della destra, venga fuori il cosiddetto risultato a sorpresa dei 5 Stelle, potrebbe non essere per niente una sorpresa, dal punto di vista di certi poteri. Quali? Quelli che hanno costruito il 5 Stelle, ovviamente. E chi sono, questi poteri? Gli stessi che stanno dietro a Renzi, dietro alla Bonino. Gli stessi gruppi che, per dominare gli elettori, gli creano contenitori apparentemente diversi (ma che in realtà sono gli stessi). Il problema è un altro, e mi dà un po’ di sospetto: per quale motivo è stato fatto questo enorme sforzo, negli ultimi mesi, per accreditare un Di Maio? E’ un democristiano, non è un 5 Stelle originario. E lo si è fatto diventare sempre più democristiano, con tinte massonico-reazionarie molto vicine alla finanza, alla Trilateral. Ho visto la nomina di Fioramonti come possibile ministro dello sviluppo economico: un uomo che ha lavorato per Rockefeller, per i Rothschild, che scrive su un sito vicino a Soros. C’è un avvicinamento forte alla Chiesa, all’Europa, alla Nato. Che sorpresa sarebbe, un successo di Di Maio? Ci ritroveremmo – travestiti da grillini – sempre gli stessi poteri. Nell’inconsapevolezza di tutti.
    Il paese è stato diviso in guelfi e ghibellini, la gente si illude che ci sia qualcosa di nuovo, e invece siamo ai tempi di Garibaldi e del Gattopardo. Le manovre dei grandi poteri, uno se le può immaginare, ma il risultato lo vede dopo. Noi non sappiamo se ci sono già delle “truppe” disposte ad allearsi coi 5 Stelle, per esempio, però certi poteri le possono muovere. Oppure: che ne sappiamo se non è già pronto un inciucio? O se invece la manovra sarà di tipo “trumpiano”, cioè: “Rimettiamo Berlusconi in sella”? Questo lo sapremo solo dopo. Una cosa è certa: è tutta la stessa banda, divisa in un paio di “piramidi”, ma sono sempre quelli. Berlusconi “ridicolo”? Però è funzionale. Una parte degli elettori, è vero, è colpita dalla sua goffaggine. Ma non faceva ridere anche Mussolini, se non fosse stato una maschera tragica? Com’è possibile che gli italiani dessero credito a uno che si presentava così, che parlava in quel modo? Eppure è successo. Una parte degli italiani dorme di brutto e si fa prendere da strane passioni, ma queste sono le condizioni della psiche dai popoli: da una parte quelli che usano una psiche più arretrata ed egoica, come quella della destra, ma ancora peggio – secondo me – sono quelli che adoperano i buoni sentimenti delle persone, inventandosi sempre nuovi contenitori per prenderle in giro.
    La sovragestione internazionale che si accanisce sull’Italia? Sfatiamo l’idea che noi saremmo pizza e mandolino. E’ quasi un understatement voluto, questo “non contare” dell’Italia, questo essere un paesetto poverello. Non è così. Il buon Steiner, che se ne intendeva, diceva: l’Italia, dal punto di vista della storia umana, traccia le strade. Come a dire: le cose cominciano in Italia. Basta guardare il Rinascimento, e prima ancora l’Impero Romano. Ed è ancora così. Noi sottostimiamo dei poteri, per esempio quelli all’interno della Chiesa cattolica. Sottostimiamo il potere di certi gruppi italiani. Tra i gruppi oscuri che dominano il mondo tutti pensano agli americani, agli inglesi, ai francesi… Se dovessi salire, direi che la direzione strategica transnazionale di tanti elementi di strategie oscure è in buona parte ancora a Roma – certo non nelle facce che noi conosciamo, che sono ridicole o miserande. So che è strano parlarne, sembrano fantasie quasi ufologiche, ma ci sono gruppi molto particolari, che in qualche modo derivano direttamente dall’Impero Romano.
    Una cosa ho imparato, in tanti anni: “Se lo conosci, non conta niente”. Se sai il nome di qualcuno, che è sui giornali, è una persona che non conta praticamente nulla: è solo un burattino messo lì dal potere per fare da specchietto per le allodole. Il livello di cui si parla di più, anche nella letteratura complottistica, è quello del Bilderberg, delle massonerie. Al massimo ci si spinge fino agli Illuminati: si vedono queste strane piramidi, di cui però mancano sempre i pezzi principali. Già a livello di massonerie e ordini religiosi ci sono gruppi che li infiltrano, e non sono noti. Ogni tanto emerge qualcuno, ma noi non sappiamo che fa parte di questi gruppi. Sono gruppi transnazionali, legati a ritualità di un certo tipo: hanno bisogno anche di supporti oscuri, non necessariamente “umani”, che però traspaiono anche da certi delitti rituali, che servono a tenere in piedi dei gruppi che non sono noti, eppure lavorano per creare forme-pensiero. Gli stessi gruppi, con le medesime caratteristiche di anonimato, erano presenti anche all’interno dell’Impero Romano. Nella storia romana c’è l’evidente traccia di fortissime ritualità: tutto era innanzitutto spirituale – e solo dopo materiale (economico, guerresco, politico, giudiziario). Tutto era dominato dal Campidoglio: la testa dell’impero era tutta templi, dominata dalla figura del Pontifex Maximus, che già allora aveva le scarpe rosse e, come simbolo, due chiavi incrociate. Ancora oggi, quel potere – non per forza incarnato dal Papa di turno – pretende di essere superiore ai poteri politici e finanziari.
    (Fausto Carotenuto, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-radio “Border Nights” del 27 febbraio 2018. Già analista politico dei servizi segreti italiani e dell’intelligence Nato, Carotenuto è animatore del network “Coscienze in Rete” dedicato allo sviluppo spirituale. In chiave spiritualistica è anche il saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato nel 2005 da Uno Editori).

    Fascismo e antifascismo: il ritorno della violenza politica in campagna elettorale? Diciamo che puzza un po’ di strategia della tensione. Io all’epoca vivevo negli ambienti che si occupavano di queste cose: conoscevo le persone che si occupavano di organizzarla, la strategia della tensione. Quindi sento puzza di bruciato (diciamo “di bruciaticcio”: certo non  siamo a quelli livelli là). Però è come se qualcuno volesse dire: guardate che razza di disordini vengono fuori, teniamoci la tranquillità e non andiamo verso il nuovo, se no si scatenano delle forze strane. Io però non le vedo, le sorprese in arrivo. Come si fa a capire qual è il gioco dei grandi poteri? Lo si capisce dopo che l’hanno fatto, il gioco. Quali possono essere, le sorprese, in questo momento? La più grossa sorpresa sarebbe se il Pd rimanesse al potere – da solo, quantomeno. Un’ipotesi molto probabile è che facciano un bell’inciucione mascherato, mantenendo un personaggio come Gentiloni a capo di un “governo di responsabilità” per rispondere all’emergenza (altrimenti ecco “i mercati, lo spread”). E chi più dell’apparentemente mite Gentiloni potrebbe assicurarlo? Ma non è detto che sarà così, e secondo me non dipende tanto dal risultato elettorale. Io non mi fido, del risultato elettorale. Non mi sono mai fidato: brogli, broglietti…

  • Hai un’opinione? Errore: ti è stata venduta, a tua insaputa

    Scritto il 21/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.
    Di origine ebraica, emigrato a New York verso la fine del 1800, Bernays fu amico di Franklin Delano Roosevelt e della First Lady, Eleanor Roosevelt, nonostante Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema – anch’egli di origine austro-ebraica – lo accusasse di essere «un avvelenatore professionista dei cervelli della gente», ricorda Federico Povoleri in una ricostruzione proposta dal blog “La Crepa nel Muro”. Consulente dell’ufficio propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, Bernays ha dominato a lungo la scena della comunicazione in America. Un maestro, nel manipolare l’opinione pubblica anche nei periodi di crisi come la Grande Depressione del ‘29. Definito «il patriarca della persuasione occulta», aveva compreso «l’importanza dell’uso massiccio e spregiudicato dei media, che utilizzava per lanciare un prodotto, un candidato politico o una causa sociale». Nel 1933, Joseph Goebbels rivelò a un giornalista americano che il libro “Crystallizing Public Opinion”, pubblicato da Bernays nel 1923, fu utilizzato dai nazisti per le loro campagne. Una Bibbia per ogni politico, da Hitler a George Bush, fino a Obama. Primo comandamento: “Controlla le masse senza che esse lo sappiano”.
    Inizialmente, continua Povoleri, Bernays studiò l’opera di Gustav Le Bon, “Psicologia delle folle”, pubblicata nel 1895. Opera di riferimento per molti uomini politici, fu meticolosamnete studiata anche da Lenin, Stalin, Hitler, e Mussolini. Quest’ultimo commentò: «Ho letto tutta l’opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua “Psicologia delle Folle”. E’ un’opera capitale, alla quale ancora oggi spesso ritorno». Migliaia di individui separati, spiega Le Bon, «in un dato momento, sotto l’influenza di violente emozioni – un grande avvenimento nazionale, per esempio – possono acquistare i caratteri di una folla psicologica». Un qualunque caso che li riunisca «basterà allora perché la loro condotta subito rivesta la forma particolare agli atti delle folle». Infatti, «in certe ore della storia, una mezza dozzina di uomini possono costituire una folla psicologica», cosa che invece non riuscirà a «centinaia di individui riuniti accidentalmente». Per le folle, secondo Le Bon, «l’illusione risulta essere più importante della realtà». E’ decisiva l’apparenza: «Le folle non si lasciano influenzare dai ragionamenti», scrive Le Bon. «Sono colpite soprattutto da ciò che vi è di meraviglioso nelle cose. Esse pensano per immagini, e queste immagini si succedono senza alcun legame».
    Per la folla, l’inverosimile non esiste: preferisce nutrirsi di suggestioni. E la prima suggestione formulata «s’impone, per contagio, a tutti i cervelli», stabilendo subito l’orientamento generale. Secondo Le Bon, non c’è differenza tra un celebre matematico e l’ultimo calzolaio: «Può esserci un abisso in termini intellettuali, ma quando essi facciano parte di una folla (una folla può essere composta anche da cinque persone, non è il numero che conta), agiranno nello stesso modo e reagiranno emotivamente e non più con la ragione». Si verifica cioè un appiattimento verso il basso, «perché la ragione e il raziocinio vengono totalmente eliminati». Bernays mise insieme le idee di Le Bon (e di altri studiosi come Wilfred Trotter) con le teorie sulla psicologia elaborate dal celebre zio Freud, «intuendo che la gente sarebbe stata sensibile a una manipolazione inconscia, basata sia sull’emotività, sia sull’uso massiccio di immagini simboliche».
    Bernays intuì con grande anticipo la potenza delle nuove tecnologie della comunicazione di massa, aggiunge Povoleri. E concluse che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse potesse svolgere un ruolo importante in una società democratica. Chi fosse stato in grado di padroneggiare questo dispositivo sociale – pensava Bernays – avrebbe costituito un potere invisibile capace di dirigere una nazione:  «Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla», scrive Bernays nel libro “Propaganda”, uscito nel ‘29. «Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare». E’ indispensabile, sostiene, per gestire un regime sociale democratico, una società politicamente “tranquilla”. «In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale – agiunge – siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone. Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese».
    Bernays applicò con implacabile successo le sue leggi. Inventore delle relazioni pubbliche, diede anche origine alla figura professionale dello spin-doctor: le regole da lui scritte vengono oggi applicate in ogni ambito sociale e di comunicazione mediatica, dalla politica alla pubblicità. Sua l’invenzione – sempre nel 1929 – delle “brigate della libertà”, fiaccolata di donne con sigaretta tra le labbra. Un atto di sfida e di indipendenza, in una società che non riconosceva alla donna la parità dei diritti? Forse, ma non solo: «Ben poche femministe sanno che quella del “diritto al fumo”, fino ad allora riservato ai soli uomini, non fu affatto una ribellione spontanea delle donne, ma il risultato di un’operazione mediatica su larga scala, concepita orchestrata da Edward Bernays, che aveva ricevuto l’incarico dalla “American Tobacco Company”», ricorda Povoleri. Va da sé che la “brigata della libertà” conquistò le prime pagine, facendo esplodere il fatturato del tabacco. «Migliaia di donne iniziarono a emulare le ragazze newyorchesi della sfilata; il messaggio era stato recepito chiaramente: chi era anticonformista e indipendente non poteva non fumare». In pochi mesi, annota Povoleri, la Chesterfield triplicò le vendite. «E molti anni dopo la Philip Morris, memore di quell’evento, sfruttò lo stesso concetto inventando il cowboy della Marlboro per pubblicizzare le sue sigarette».
    Anche nel nuovo millennio, nei paesi in via di sviluppo, la sigaretta continua ad essere l’emblema dell’emancipazione femminile. Ma Bernays non si fermò qui: collaborò con l’Ama (Associazione Medici Americani) per produrre ricerche scientifiche che dimostrassero che il fumo “fa bene alla salute”. «Da allora – scrive Povoleri – è diventata prassi, per le multinazionali, finanziare ricerche scientifiche al fine di confermare la bontà dei prodotti che progettano di vendere». E l’ineffabile Bernays «suggeriva che vi fosse sempre una terza parte, indipendente, che garantisse la credibilità del prodotto o dell’immagine da promuovere». Esempio: chi mai crederebbe alla General Motors se fosse lei a a dire che il riscaldamento globale è “una bufala inventata dagli ambientalisti”? Ben altro impatto avrebbe, invece, un istituto di ricerca indipendente, chiamato ad esempio “Alleanza per il clima globale”. «Ecco perché Bernays mise in piedi una quantità impressionante di istituti e fondazioni, finanziati in segreto dalle stesse industrie i cui prodotti dovevano venirne valutati, per garantirne la qualità. Fu così che questi istituti sfornarono una moltitudine di rapporti scientifici, che poi la stampa rendeva pubblici, aiutando a creare l’immagine positiva del prodotto da lanciare».
    Lasciando un segno permanente, continua Povoleri, Bernays stupì il mondo degli affari statunitense per la sua capacità di controllare l’opinione pubblica su larga scala quando, assieme a Walter Lippman e su commissione del presidente Woodrow Wilson, fece una campagna tesa a spingere l’opinione pubblica ad accettare l’entrata nella Prima Guerra Mondiale, a fianco della Gran Bretagna, in un momento in cui la stragrande maggioranza del popolo americano era pacifista e isolazionista. «In soli sei mesi Bernays sovvertì completamente l’idea avversa della gente verso l’entrata in guerra, provocando una mastodontica ondata di isteria anti-tedesca, che impressionò profondamente (tra gli altri) anche Adolf Hitler, che sarebbe diventato un profondo conoscitore della sua opera». Nel ‘28, tra le pagine del saggio “L’ingegneria del consenso”, aveva scritto: «Se capisci i meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa». Le idee di Bernays cambiarono il vecchio concetto che prevedeva che i bisogni venissero soddisfatti da politica, industria e finanza. Capovolse la gerarchia: prima di tutto, la creazione dei bisogni attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. Politica, industria e finanza non servono più a soddisfare bisogni, ma a controllare la società.
    Nascono così i luoghi comuni creati dalla persuasione occulta operata dalla rivoluzione di Bernays. Per lo scrittore americano Russ Kick, la lista è infinita. Esempio: i medicinali ridanno la salute, i vaccini rendono immuni. Gli americani scoppiano di salute, sono quellio che stanno meglio al mondo. Il virsu Hiv è la causa dell’Aids, il fluoro nell’acqua potabile protegge i nostri denti, la vaccinazione anti-influenzale previene l’influenza. Ancora: i dolori cronici sono una naturale conseguenza dell’età. La soia? E’ la più salutare fonte di proteine. «Per costruire queste illusioni sono stati spesi miliardi di dollari, grazie ai quali oggi milioni e milioni di persone la pensano allo stesso modo», sottolinea Povoleri. In “Trust Us, We’re Experts” i sociologi John Stauber e Sheldon Rampton hanno raccolto una serie di dati che descrivono la scienza della creazione dell’opinione pubblica in America. Sono assiomi, scaturiti dalla nuova scienza delle “pierre”. Tipo: la tecnologia è in se stessa una religione. Oppure: se la gente è incapace di formulare un pensiero razionale, la vera democrazia è pericolosa. Quindi: le decisioni importanti dovrebbero essere lasciate agli esperti. Consigli per il manipolatore: stai lontano dalla sostanza, limitati a creare delle immagini. E non affermare mai chiaramente un bugia dimostrabile.
    «Le parole stesse vengono selezionate in base al loro impatto emozionale: nelle nuove scienze delle pubbliche relazioni sono entrate prepotentemente le tecniche di controllo mentale, che sfruttano le basi della psicologia e le linee guida di Bernays con le tecniche dell’illusionismo». Immagine, simbologia, parole e perfino musica e suoni. «Cinema e televisione hanno un potere enorme (esteso ora a tutta l’industria dell’intrattenimento, compreso i moderni videogiochi) in quanto hanno la capacità di ricombinare tra loro tutti questi elementi», agiunge Povoleri. «Sono molti gli esempi di uso politico del potere della musica, utilizzata come strumento psicologico di persuasione di massa. Non è un caso che durante la Seconda Guerra Mondiale la “Bbc” proibisse la messa in onda della musica di Wagner, utilizzata invece in modo mirato e massiccio dal nazismo, o che la sigla di apertura della nota emittente fossero le note basse che richiamavano la celebre apertura della Quinta di Beethoven». Secondo il filosofo Theodor Adorno, la musica crea “riflessi condizionati” che riguardano l’inconscio. Lo ricorda il consulente psicologico Matteo Rampin nel saggio “Tecniche di controllo mentale”. Nel suo filone tedesco, la musica da camera (legata alla “Sonata”, «tipica creazione della società normativa aristocratica e poi borghese») ha una componente “agonistica” che «deriva dalla struttura concorrenziale della società borghese». E così, chi ascolta quella musica «assimila inconsciamente queste strutture fondanti».
    Per Rampin, «si codifica un modo di ascoltare musica classica disciplinato, senza battere i piedi, in silenzio assoluto, che è parte di una educazione alla “staticità”». Se la musica produce un’educazione alla postura dei corpi, c’è da chiedersi «quali effetti avrà nel tempo l’abitudine contemporanea di ascoltare la musica in maniera autistica, mentre si lavora, si cammina, si studia, attraverso cuffie individuali e dispositivi portatili». Sempre Rampin sottolinea come l’utilizzo del sistema “Sensorround” nel film “Terremoto” (di Mark Robson, 1974) abbia proposto frequenze inferiori a quelle percepibili dall’orecchio umano (16 Hertz), in modo da traumatizzare profondamente molti spettatori, senza che questi ne sapessero il motivo. «Una delle tecniche più utilizzate nella guerra psicologica e nel lavaggio del cervello era arrivata in aiuto al filone dei film catastrofici», spiega David Annan nel saggio “Catastrophe, The end of the cinema”, del ‘75. Fu Eisenstein a sostenere che gli elementi di una singola ripresa possono essere pensati in modo matematico, al fine di produrre uno shock emozionale: il cinema ha trasformato la cultura, la percezione e forse anche la struttura mentale di miliardi di individui. Poi è arrivata la televisione, il trionfo definitivo del non-pensiero di Bernays: «Non ci sintonizziamo per scoprire cosa succede (perché in generale succedono sempre le stesse cose) ma per passare del tempo in compagnia dei personaggi». Non si cerca un programma specifico: si accende il televisore. La tv distrugge il tempo, rimpiazza la famiglia. «Per molti di noi, vive al nostro posto».

    La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.

  • Giannuli: Potere al Popolo, per scuotere questi partiti morti

    Scritto il 19/2/18 • nella Categoria: idee • (4)

    «Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».
    La destra berlusconiana, «anche se solo tatticamente» (per affondare Renzi) ha votato No al referendum, «mentre il Pd era l’eversore». Secondo Giannuli, «il nemico costituzionale è un nemico strategico assoluto». Dopo, non c’è più possibilità d’intesa: «Non glielo perdoneremo mai». Questo però non è chiaro a quella parte del Pd (neppure a tutta) che votò No e poi si è scissa, dando vita a “Liberi e Uguali”. Ok, ieri hanno ingaggiato la battaglia referendaria e oggi non hanno accettato di entrare in coalizione col Pd, ma l’hanno fatto «con un costante margine di ambiguità, per cui in Lazio entrano nella coalizione di Zingaretti e non escludono alleanze future». Il problema? Per Leu non è il Pd, ma Renzi: «Con un Pd senza Renzi si potrebbe ragionare», pensano. «E invece no: il Pd era una cosa sbagliata anche prima del fiorentino, un intruglio venefico fra neoliberismo e centralismo staliniano per il quale il gruppo dirigente fa opportunisticamente quel che vuole senza mai rendere conto a nessuno». D’altra parte, aggiunge Giannuli, il Pd appartiene a quella post-socialdemocrazia “terzista”, blairiana, «che si arrese al neoliberismo e che oggi sta pagando il conto, riducendosi a percentuali non rilevanti». La sua stagione è finita, e questo vale anche per il Pd. «Ma i nostri amici di Leu non sembrano capaci di imparare dall’esperienza, e insistono».
    Poi c’è stata «l’imbarazzante vicenda della caccia al “capo”», prima inseguendo «quel nulla politico che è Pisapia», per poi planare incredibilmente su Pietro Grasso, «un nome che non ha bisogno di commenti». Quindi, continua Giannuli, sono passati all’ancora più imbarazzante vicenda delle candidature, «in cui Leu si è dimostrata un ufficio di collocamento per parlamentari in cerca di rielezione, senza nessuna consultazione della base», con politici a fine carriera «paracadutati in collegi in cui non c’entravano nulla». Il programma di “Liberi e Uguali”? Lo svela una colorita espressione siciliana: “Nuddu, ammiscàtu a nenti” (nessuno, sommato a niente). «Insomma, iniziativa politica zero, idee zero, democrazia interna zero: invotabili». Giannuli, che vota a Milano, farà un’eccezione solo per Onorio Rosati, candidato con Leu alle regionali lombarde, «perché la Regione non è il Parlamento nazionale». Quanto ai 5 Stelle, dopo la manfrina elettoralistica del “né di destra, né di sinistra”, hanno fatto la scelta peggiore: la destra neoliberista. Il “reddito di cittadinanza”? «Una proposta tutta interna al neoliberismo». Lorenzo Fioramonti, il guru arruolato da Di Maio nonché suo mentore a Wall Street? «Nemico numero uno del Pil, economista di spiccata ispirazione neoliberista» (vorrebbe amputare del 40% il debito pubblico).
    «La solita solfa “né di destra né di sinistra” è un vecchio trucco per raccogliere voti da ambo le parti», ricorda Giannuli: «Per primi lo usarono i Fasci di Combattimento di Mussolini esattamente 99 anni fa». Furbetti e pilateschi, i 5 Stelle, su questo punto, «per non dire dell’annosa vicenda dei migranti». Quanto al modello organizzativo – apparato di funzionari o notabili parlamentari, oppure gruppi dirigenti regolarmente selezionati in modo collegiale e democratico – il Movimento 5 Stelle «ha scelto il peggiore: quello dell’uomo solo al comando, tanto simile a quello renziano». E l’ha fatto «con un colpo di mano statutario sbalorditivo», adottando «un regolamento subito applicato, senza neppure essere mai stato votato da nessuno». Il risultato, ferma restando la “pasticcioneria dell’ultima ora” tipica dei 5 Stelle, «è questa selezione di candidati su cui non spenderemo neppure mezza parola». Unico auspicio: forse non finirà così. «La base del movimento non è stata consultata e ha taciuto perché c’erano le elezioni, ma il 5 marzo magari avrà qualcosa da dire». Poi bisogna vedere come andrà Di Maio alle elezioni, cosa diranno Grillo e Di Battista, «e Dio non voglia che vengano fuori una decina di “responsabili”»). Comunque sia, per Giannuli, la base pentastellata resta pur sempre «un serbatoio di forze antisistema per nulla trascurabile».
    Poi ci sono le liste-contro, specie quelle di sinistra: l’unica che in base ai sondaggi sembra avere una chance (almeno di conquistare qualche seggio) è “Potere al Popolo”, messa insieme all’ultimo momento e tra mille difetti. «Però non c’è dubbio che una sua affermazione scombinerebbe molti giochi», sostiene Giannuli: «Tanto per cominciare, questo significherebbe che la domanda di una nuova rappresentanza politica si fa avanti e non è frenata», nonostante le tante “trappole” inventate dalla classe politica, tra sbarramenti e scatole cinesi: dalla valanga di firme da raccogliere in tempo record per ogni per circoscrizione, fino alla stessa «incomprensibile» legge elettorale, per cui «persino quelli di Forza Italia hanno rischiato». Non sta scritto da nessuna parte che il Parlamento debba essere monopolio dei tre poli maggiori, sottolinea Giannuli. E allora «allarghiamo il club e vediamo soprattutto quanti voti raccoglieranno le liste fuori coalizione».
    Queste elezioni, in fondo, sono solo il secondo round del crollo dell’infelicissima Seconda Repubblica. Il primo round è stato il referendum. Ne verrà un terzo tra un anno alle europee, poi forse un quarto alle regionali, sempre che prima non ci siano elezioni anticipate. Dunque, un voto necessariamente tattico: «Se “Potere al Popolo” prendesse ora il 3%, fra un anno parteciperebbe alle elezioni senza dover raccogliere le firme». Un bel punteruolo nella schiena di Leu e M5S: «Mica male, considerate le porcherie che hanno combinato questa volta». Capirebbero che «non possono dar da bere alla gente proprio tutto»? Inizieranno a correggere la rotta? «Ho visto dei sondaggi che danno “Potere al Popolo” al 2,4%», scrive Giannuli. «Certo, c’è la valanga degli indecisi che poi, quando rientra, non premia i piccoli partiti». Ma forse l’impresa non è impossibile: “Potere al Popolo” ha registrato una crescita costante fin dall’inizio, «quando nei sondaggi non compariva proprio». Lo spazio politico da riempire c’è tutto, chiosa Giannuli: «Diciamo che deve rastrellare 120-130.000 voti, per farcela». Poi dipende anche dall’astensionismo: in quanti voteranno? Quanti, invece, diserteranno le urne?

    «Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».

  • Ma la bufera sulle logge non sfiora la massoneria che conta

    Scritto il 27/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica 
e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo 
degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. «
E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».
    «Ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste», protesta il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, a capo di 23.000 affiliati distribuiti in oltre 800 logge. Sull’“Espresso”, Turano sostiene che le nuove indagini «hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il “venerabile” per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica». Il giornale cita lo storico Aldo Mola, secondo cui la P2 non era affatto una loggia coperta, ma una cellula speciale regolarmente affiliata al Goi, con tre caratteristiche. «Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita, ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita». La loggia di Gelli, afferma Mola, era una replica della loggia Propaganda, costituita nel 1877 «come vetrina e fiore all’occhiello del Goi, tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote». Peraltro, si trattava di “capitazioni” ridicole: «Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».
    Finisce lì, l’analisi sulla P2 offerta dall’“Espresso”. Secondo Gioele Magadi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) la P2 non era altro che il braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, fondata da Kissinger e Rockefeller, “mente” storica della supermassoneria globalista neo-reazionaria, che avrebbe affiliato – tra gli altri – Giorgio Napolitano. Un circuito potentissimo, quello delle Ur-Lodges di ispirazione neo-aristocratica, che terrebbe insieme politici e tecnocrati, da Monti a Draghi passando per D’Alema e per il governatore Visco di Bankitalia, inclusi tutti i recenti ministri dell’economia (da Siniscalco a Grilli, da Saccomanni a Padoan), ridotti a cinghie di trasmissione dei diktat neoliberisti del super-potere globalista, quello delle crisi finanziarie e della disoccupazione di massa. Lo stesso Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione) svela i retroscena ben poco islamici degli attentati europei firmati Isis (chiamando in causa settori dell’intelligence Nato), sostiene che la P2 di Gelli serviva a “coprire” il vero ponte di comando del potere: «Si tratta della loggia P1, mai scoperta ufficialmente, responsabile della “sovragestione” che ha eterodiretto in Italia la strategia della tensione e poi la crisi degli ultimi anni».
    Fatevi qualche domanda, insiste Carpeoro: «Non è strano che nessun giornale, nemmeno per sbaglio, abbia mai evocato la P1?». La lettera P, come scrive lo stesso Mola, sta per “propaganda”: doveva essere una vetrina di iscritti prestigiosi, destinati a dare lustro al Grande Oriente. «E allora che senso ha, poi, fare la P2 e tenerla nascosta?». In proposito, Carpeoro ha le idee chiare: «Un tempo, ogni anno, la massoneria apriva le porte delle logge alla cittadinanza, ricordando i massoni illustri che avevano fatto qualcosa di meritevole per la loro città». Dal canto suo, Magaldi contesta il farisaismo della politica italiana: «Questo è uno Stato nato dalla massoneria risorgimentale», e non solo: era notoriamente massone Meuccio Ruini, capo della commissione per la Costituente, così come il giurista Pietro Calamandrei, uomo simbolo dell’antifascismo e della rinascita democratica del paese. Era massone – trentatreesimo grado del Rito Scozzese – lo stesso Giacomo Matteotti, martire antifascista, come ricorda Carpeoro nel saggio “Il compasso, il fascio e la mitra” (Uno Editori), che documenta lo strano “inciucio” tra massoneria e Vaticano all’origine del regime di Mussolini – col placet del sovrano Vittorio Emanuele III, che in cambio avrebbe intascato una maxi-tangente petrolifera dalla Sinclair Oil della famiglia Rockefeller.
    Grandi poteri, non beghe di cortile: il reportage dell’“Espresso” cita solo di striscio il drammatico caso Mps, che ha coinvolto il Goi nelle recenti inchieste. «Politica e giornali hanno attaccato il gran maestro Stefano Bisi – protesta Magaldi – guardandosi bene dal citare Anna Maria Tarantola e Mario Draghi, cioè i due tecnocrati allora ai vertici di Bankitalia che avrebbero dovuto vigilare sulle azioni del Montepaschi». Peggio: sul caso incombe la strana morte di David Rossi, alto funzionario della banca senese, precipitato da una finestra. Un suicidio da più parti ritenuto inverosimile, che secondo Carpeoro (intervistato da Fabio Frabetti di “Border Nights”) lascia pensare a una guerra inframassonica senza esclusione di colpi, tutta interna all’ala destra della supermassoneria internazionale oligarchica: «Da una parte il gruppo di Draghi, e dall’altra i suoi antagonisti, che probabilmente vogliono metterlo in difficoltà – con la tempesta su Mps – per poi arrivare a sostituirlo». Carpeoro e Magaldi, massoni entrambi (il primo uscito dal circuito delle logge, il secondo fondatore del Grande Oriente Democratico, che punta a creare una massoneria trasparente) sono tra i pochissimi a spiegare, in modo convincente, un mondo di cui sui giornali continua a non esservi traccia.
    Lo stesso libro “Massoni” (sottotitolo, “La scoperta delle Ur-Lodges”), dopo infinite ristampe che ne hanno fatto un bestseller italiano è stato recensito soltanto dal “Fatto Quotidiano”, nel silenzio assordante della grande stampa mainstream, quella che poi si scatena sulle inchieste che coinvolgono le periferie massoniche provinciali. «Come tutte le associazioni umane, anche la massoneria si degrada se smarrisce lo scopo iniziale e si riduce a essere una struttura, che poi diventa inevitabilmente appetibile per il potere», sintetizza Carpeoro: «L’architetto Christopher Wren, capo della massoneria inglese incaricato di ricostruire Londra dopo l’incendio che la distrusse nel 1666, riprogettò tutti i maggiori edifici tranne uno, il tempio massonico. Il 1717 è ufficialmente la data di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della sua morte». Magaldi non concorda appieno: «Dobbiamo a quella massoneria la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana e persino la Rivoluzione d’Ottobre che abbattè lo zarismo. Lo Stato laico, la democrazia elettiva: valori che oggi diamo per scontati, ma che nascono dalla libera muratoria del ‘700».
    Per questo, sostiene Magaldi, è assolutamente disonesto sparare sulla massoneria tout-court. E lo dice uno che l’ha messa in croce, per iscritto, la supermassoneria oligarchica “contro-iniziatica” che ha letteralmente inquinato l’Occidente, sabotandone il percorso democratico. Nel suo libro, Magaldi ascrive alle Ur-Lodges reazionarie il colpo di Stato del massone Pinochet in Cile (contro il massone Allende) e il doppio omicidio di Bob Kennedy e del massone Martin Luther King, nonché i tentativi di golpe nell’Italia del dopoguerra, orchestrati con la collaborazione della P2 di Gelli su mandato della “Three Eyes”. Capolavoro europeo dell’offensiva neo-oligarchica, l’omicidio del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu, come segretario generale. «Socialista democratico – sottolinea Carpeoro – Palme era un trentatreesimo grado del Rito Scozzese». Poco prima del delitto, Gelli inviò un telegramma negli Usa per avvertire che «la palma svedese» sarebbe stata abbattutta. «Il telegramma – scrive Carpeoro – era destinato a Philip Guarino, parlamentare allora vicino al politologo Michael Ledeen, massone e membro del B’nai B’rit sionista, negli anni ‘80 vicino a Craxi e poi a Di Pietro, quindi a Renzi ma al tempo stesso anche a Di Maio e Grillo».
    «Se Olof Palme fosse rimasto in campo, mai e poi mai avremmo visto nascere questo obbrobrio di Unione Europea», scommette Carpeoro, intenzionato – con Magaldi e il Movimento Roosevelt – a promuovere un convegno, a Milano, proprio sulla figura del leader svedese, «l’uomo che creò il miglior welfare europeo e scongiurò la disoccupazione impegnando direttamente lo Stato nelle imprese in crisi: la sua missione dichiarata era “tagliare le unghie al capitalismo”, contenerlo e limitarne l’egemonia». Non poteva non sapere, Olof Palme, che all’inzio degli anni ‘80 l’intera comunità delle potentissime Ur-Lodges, comprese quelle di ispirazione progressista, aveva firmato lo storico patto “United Freemasons for Globalization”, che diede il via alla mondializzazione definitiva dell’economia, archiviando decenni di diritti e conquiste democratiche. Era scomoda, la “palma svedese”: andava “abbattuta”. Per mano di fratelli massoni? «Nella ritualistica, l’iniziazione del maestro rievoca l’uccisione del mitico architetto Hiram Abif, assassinato proprio da due confratelli», sottolinea Carpeoro. «Lo stesso organizzatore del delitto Matteotti, il massone Filippo Naldi, fece in modo – con estrema perfidia – che fossero massoni i killer del leader socialista, massone anche lui».
    Analisi e retroscena, spiegazioni, ragionamenti in controluce che permettono di rileggere la storia da un’altra angolazione. Nulla che si possa rintracciare, tuttora, nella stampa mainstream. «Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene», si limita a scrivere Turano sull’“Espresso”. «Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: “Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni”». Garibaldi, passato alla storia (spesso agiografica) come “l’eroe dei due mondi”, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un altro massone, Cavour, fu il “cervello” del Risorgimento: se non fosse morto prematuramente, sostiene Carpeoro, non avremmo vissuto in modo così drammatico l’Unità d’Italia, con il Sud martizizzato dal militarismo di La Marmora e Cialdini e l’esodo di milioni di migranti. Massoni “delinquenti”? «Erano massoni anche Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Nelson Mandela», protesta Magaldi. Problema: la storia ufficiale non ne fa cenno. Risultato: per il potere, il miglior massone resta il massone occulto, segreto. E per la gran parte dell’opinione pubblica italiana, la massoneria resta un mondo opaco e borderline, tra le indagini antimafia e il fantasma di Gelli. Anche per questo, grazie al silenzio dei media, la massoneria mondiale – quella vera – continuerà a stabilire a tavolino cosa deciderà il prossimo G20, che politica farà la Bce, come agirà Macron in Francia e cosa dichiarerà il Fondo Monetario Internazionale sulle pensioni italiane, a prescindere dalle prossime elezioni.

    «Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica 
e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo 
degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. «
E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».

  • Barnard: voto i 5 Stelle, sono la peggior peste. Vacciniamoci

    Scritto il 24/1/18 • nella Categoria: idee • (32)

    Vaccinarsi dall’orrore? Votare per il partito che più si teme, per immunizzare il corpo elettorale. «Non scherzo, non provoco», assicura Paolo Barnard, che annuncia che voterà per Grillo. E cita Tucidide, “La peste ad Atene”: a curare gli infetti erano gli ex malati, sopravissuti e ormai immuni. La triste realtà, premette Barnard, è che il 4 marzo «non siamo chiamati a poter decidere un’accidenti di democrazia o economia». La novità? Sarebbe la possibilità di «sbarazzarci una volta per tutte dal più micidiale partito politico dal 1948, e sono i 5 Stelle». Sbarazzarcene come? Votandoli, è la ricetta di Barnard: prima andranno al potere, e prima gli italiani capiranno, “immunizzandosi”. Secondo il giornalista, «il M5S è ormai un’epidemia di psicosi nazionale, ha la forza di penetrazione infermabile della peste in Europa del 1346. Sfonda ovunque col fideismo impazzito di milioni di farneticanti febbricitanti pazzi chiamati grillini, cioè il brand che ha stracciato in allucinata irrazionalità Scientology e il culto di Kim Jong-un in Nord Korea». E quindi, conclude, «per guarire l’Italia dal partito-azienda più falsario e dittatoriale della sua storia repubblicana dobbiamo “ammalarci” di 5 Stelle, cioè portarli a Palazzo Chigi, patire la strage civica per qualche anno ma poi guarire con l’immunizzazione: solo così la storia guarisce l’umanità dalle catastrofi».
    Barnard parla di «abietto pericolo insito in questa psicosi di massa chiamata 5 Stelle» a partire dall’azienda di Casaleggio «che è l’unica al mondo assieme a Mediaset ad avere i suoi lobbysti seduti in Parlamento». Beppe Grillo? «E’ riuscito a vendere un ‘ultra nazismo’ protocollare in pieno III millennio in un paese occidentale: 100.000 euro di multa agli espulsi o ai migranti politici». Ricorda, dice Barbard, il Saddam che «faceva sparare nelle ginocchia degli allenatori iracheni della nazionale se perdeva la partita». Secondo il saggista più imprevedibile d’Italia, autore de “Il più grande crimine”, il paese «sta segnando il suo secondo marchio d’infamia nella storia moderna dopo quei bei record di Mussolini e Berlusconi, per cui ancora siamo sbeffeggiati nel mondo (Andreotti era un criminale, ma era uno statista)». Scrive, Barnard: «Ho documentato in molti articoli quanto impostori siano Grillo e i Casaleggio, uomini che hanno cavalcato in modi diversi i Tronchetti Provera e i Colaninno a lor comodo. Ma qui, davvero, ciò che è peggio è che non esiste un eletto che abbia competenze per gestire una friggitoria, altro che il paese Italia: trovatemi una singola figura all’altezza, fra i 5 Stelle».
    Politiche monetarie e operazioni monetarie dello Stato, della banca centrale, del Tesoro. E poi gestione di assets, equity markets, “currency swaps” internazionali, “commodity markets” e ora blockchain e cryptovalute. Dove sono i 5 Stelle? Cosa ne sanno dell’ambiente “startup”, che ha bisogno di attirare i “venture capitals” internazionali? E poi: diplomazia del commercio e regole mondiali presso il Wto nei suoi intricatissimi ma vitali negoziati. Padronanza degli accordi (bilaterali e multilaterali) di “free-trade”. Politica estera e geostrategie legate alla sicurezza nazionale e alla razionalizzazione delle risorse? Peggio che andar di notte. Ancora: «Conoscenza vera dello sviluppo finanziario nelle energie rinnovabili. Comprensione dei nuovi “ecosystems” industriali, le piattaforme, e non quella cretinata dell’industria 4.0». Inoltre: «Analisi del rapporto fra interesse pubblico, potere sovrano e nuove super-tech & “artificial intelligence”. La nostra disperata necessità d’investimenti in ricerca, su cosa esattamente, ma soprattutto pagata da chi. L’agonizzante arretratezza del sistema Italia nell’era dalla IoT e delle “abstractions”, come padroneggiarla, pena la fine del paese come membro del G8».
    Mai sentito dai 5 Stelle qualcosa che lasci intravedere una visione geopolitica «per proteggere davvero l’Italia dalla crisi migrazione» con piani di risoluzione sistemica delle tensioni da cui si origina? «Statura e pedigree diplomatici necessari». Per esempio: «Voi sapete che razza di calibro è il Ceo dell’Eni Claudio Descalzi? Un Rex Tillerson gli può forse tenere testa. Ma voi ve l’immaginate il teatrino di Di Maio, Grillo e Casaleggino seduti davanti a Descalzi? Se li mangia vivi in 11 minuti, li rigira da fargli venire la labirintite mentre con la mano destra telefona a Igor Sechin di Rosneft. Ma non sto scherzando, c’è di mezzo la nostra vita, Cristo». E tutti i settori citati sopra? «Mario Monti è una bestia umana, ma Monti in mezza giornata fa e pensa quello che tutti i vertici 5S messi assieme fanno e pensano in sei mesi». Fico e la Taverna coi diplomi aziendali? «Io e l’insider di Wall Street per 30 anni, Warren Mosler, incontrammo a Roma alcuni deputati 5 Stelle della commissione bilancio: si doveva parlare di macroeconomia dello Stato, e ’sti ragazzini bofonchiavano proposte per modificare la partita doppia».
    Obiezione corrente: saranno degli sprovveduti, come del resto anche gli altri politici italioti; se non altro, i 5 Stelle almeno loro sono onesti. «Tutto sbagliato», sentenzia Barnard. «Il pericolo più micidialmente insidioso del Movimento 5 Stelle è che sono dei travestiti, tutti». Ovvero: «Non solo sono dei totali incompetenti come gli altri, ma sono omertosi perché sanno benissimo cosa sia la porcata del loro partito-azienda: cioè sanno dove i CasaleggioForProfit vogliono andare a parare, a spese di 60 milioni d’italiani, fra amicizie americane e banchieri dell’Ambrosetti. Sanno che Grillo è marcio fino al collo, ma, al contrario dei piddini o dei leghisti, i 5 Stelle vivono nello stesso ricatto della prostituta moldava schiava, a cui i papponi hanno sequestrato il passaporto e che se sgarra spaccano poi le ossa alla sua famiglia a casa. Questo è. E ’sti tizi si sono spacciati per “la speranza”. Ma ormai ci sono, si moltiplicano come l’E.coli nell’intestino». E allora ok, «ammaliamoci di 5 Stelle per qualche anno, ma poi almeno saremo immunizzati». Parola di Tucidide. O meglio di Paolo Barnard. Che a marzo, giura, ai 5 Stelle farà il peggior dispetto possibile: votarli.

    Vaccinarsi dall’orrore? Votare per il partito che più si teme, per immunizzare il corpo elettorale. «Non scherzo, non provoco», assicura Paolo Barnard, che annuncia che voterà per Grillo. E cita Tucidide, “La peste ad Atene”: a curare gli infetti erano gli ex malati, sopravvissuti e ormai immuni. La triste realtà, premette Barnard, è che il 4 marzo «non siamo chiamati a poter decidere un’accidenti di democrazia o economia». La novità? Sarebbe la possibilità di «sbarazzarci una volta per tutte dal più micidiale partito politico dal 1948, e sono i 5 Stelle». Sbarazzarcene come? Votandoli, è la ricetta di Barnard: prima andranno al potere, e prima gli italiani capiranno, “immunizzandosi”. Secondo il giornalista, «il M5S è ormai un’epidemia di psicosi nazionale, ha la forza di penetrazione infermabile della peste in Europa del 1346. Sfonda ovunque col fideismo impazzito di milioni di farneticanti febbricitanti pazzi chiamati grillini, cioè il brand che ha stracciato in allucinata irrazionalità Scientology e il culto di Kim Jong-un in Nord Korea». E quindi, conclude, «per guarire l’Italia dal partito-azienda più falsario e dittatoriale della storia repubblicana dobbiamo “ammalarci” di 5 Stelle, cioè portarli a Palazzo Chigi, patire la strage civica per qualche anno ma poi guarire con l’immunizzazione: solo così la storia guarisce l’umanità dalle catastrofi».

  • Claretta Petacci fu anche violentata, prima di essere uccisa

    Scritto il 21/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Sommerso dalle polemiche per aver dato della “scrofa” a Claretta Petacci? Gene Gnocchi è un comico finito, da almeno dieci anni, e non ha più niente da dire. Fa battute sceme sul calcio, sulla “Gazzetta dello Sport”, ma davvero non ha più niente da dire, da almeno 10-15 anni. Avendo fatto bingo, cioè essendo stato inserito nella trasmissione de “La7” di Floris, ha cercato in ogni modo di attirare su di sé l’attenzione con delle cose trash, di cattivo gusto: delle autentiche idiozie, visto che una verve comico-satirica non ce l’ha più da anni. E ha utilizzato una foto del degrado di Roma – del presunto degrado di Roma, perché io a tutto questo degrado di Roma “per colpa dei pentastellati” non ci credo: penso che siano degli inetti, politicamente, ma non credo che la responsabilità della situazione di Roma sia esclusivamente loro. Gene Gnocchi ha preso la foto di un maiale che fruga tra i rifiuti e ha detto che quel maiale si chiamava Claretta Petacci. Ora, la Petacci rappresenta una pagina dolorosa della nostra storia. Claretta Petacci è stata violentata, ripetutamente. E successivamente trucidata, assieme a Mussolini – non voglio dire da chi, perché non lo so precisamente (alcuni se ne sono assunti la responsabilità, altri no, altri parzialmente) – senza che avesse nessuna responsabilità: né di guerra, né di pace.

  • I generali: Mussolini deve sparire e morire come Matteotti

    Scritto il 07/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    «Posdomani Mussolini andrà dal Re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti: Mussolini va “spedito” senza lasciar traccia, in modo che il Re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto». Così parlò il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, nelle primissime ore del mattino del fatidico 25 luglio del 1943, giornata che poi si concluderà con la sconfitta del Duce alla riunione d’emergenza del Gran Consiglio del Fascismo. In realtà, riferisce Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, il voltafaccia dei gerarchi fascisti era stato pianificato dallo stesso Mussolini, con l’appoggio di settori massonici. Obiettivo: uscire (fuori tempo massimo) dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’abbraccio mortale di Hitler. Galeazzo Ciano avrebbe guidato la futura Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe soppiantato la monarchia e voltato le spalle all’altro grande sponsor del fascismo, il Vaticano, con il quale il Duce aveva stipulato i Patti Lateranensi, in cambio del consenso cattolico al regime. Mussolini, scrive Carpeoro, fu tradito dal massone Filippo Naldi, che informò Vittorio Emanuele III e la diplomazia pontificia, la quale a sua volta si affrettò a riferire ai nazisti. E in quelle ore concitate, scrive Lara Pavanetto, erano già in corso prove di golpe da parte dei vertici militari.
    L’esortazione a far sparire Mussolini, ricevuta dal generale Ambrosio, era rivolta al generale Angelo Cerica, comandante dell’arma dei carabinieri. Anziché riservare al Duce “la stessa fine di Matteotti”, però, il generale Cerica vuotò il sacco – sempre il 25 luglio – con il colonnello Tito Torella di Romagnano, “aiutante di campo” di Vittorio Emanuele III. Il sovrano «apprense così il piano dei suoi generali di rapire e assassinare Mussolini, e si infuriò», racconta Lara Pavanetto sul suo blog. Chi erano i capi militari che avevano ordito il piano? Tra i cospiratori figura il generale Giuseppe Castellano, primo aiutante di Ambrosio: era il più giovane generale dell’esercito, quello che avrebbe poi firmato l’armistizio di Cassibile, il 3 settembre del ‘43, sancendo la resa dell’Italia agli Alleati. Ma il cervello della congiura, sostiene Pavanetto, era il generale Giacomo Carboni, che dopo l’8 settembre sarà accusato della mancata difesa di Roma dai tedeschi. Nato a Reggio Emilia, da padre mazziniano e madre di origine anglo-americana, tra il 1936 e il 1937 svolse una serie di operazioni speciali in Etiopia che lo avvicinarono al Sim, Servizio informazioni militare. «Lo si ricorda soprattutto per aver diretto il Sim nel periodo della cosiddetta “non belligeranza”, fino alla drammatica estate del 1943». Il generale Carboni «fu il regista che aprì e chiuse l’esperienza bellica italiana al fianco dei tedeschi».
    Su posizioni antitedesche, nei mesi precedenti la dichiarazione di guerra, Giacomo Carboni «mantenne, per conto di Galeazzo Ciano e Pietro Badoglio, relazioni con gli addetti militari di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, e redasse rapporti pessimistici sulle capacità militari italiana e germanica». Come scrive Solange Manfredi nel suo saggio “Psyops”, «Carboni era assai vicino a Giuseppe Cambareri, spia-mago-esoterista al servizio degli Alleati». Proprio a Carboni, «Cambareri offrì la sua casa e la sua organizzazione come sede del quartier generale impegnato nella difesa di Roma dopo l’armistizio del 1943». Aggiunge Pavanetto: «Carboni era un conoscitore attento della realtà americana e, in dichiarazioni e scritti, si vanterà più volte di essere stato il primo, tra gli esponenti della fronda militare, a proporre al generale Ambrosio l’adozione di misure energiche contro il Duce». E infatti «ebbe un ruolo essenziale negli avvenimenti che seguirono la caduta di Mussolini». Il 18 agosto 1943 «fu nominato da Badoglio commissario del Sim, carica che mantenne sino alla capitolazione delle forze armate italiane».
    Sempre Carboni entrò a far parte del Consiglio della Corona, presieduto dal sovrano, cui erano deputate le decisioni politiche più importanti. Vi fece parte assieme a Badoglio, il generale Ambrosio e il capo di stato maggiore dell’esercito, Mario Roatta. Ambrosio affidò a Carboni il comando del corpo d’armata “motocorazzato” per la difesa di Roma dai nazisti. Il 7 settembre 1943, Carboni ricevette due ufficiali americani, Maxwell Taylor e William Gardiner, che gli comunicarono ufficialmente che l’indomani, alle 18.30, doveva essere resa nota l’avvenuta sottoscrizione dell’armistizio. Nel frattempo, si dovevano concordare i particolari dell’Operazione Giant 2 per la difesa della capitale. «Carboni sostenne che lo schieramento italiano non avrebbe potuto resistere più di sei ore alle truppe tedesche». Per decidere su come agire al meglio, lo stesso Carboni e i due ufficiali americani incontrarono Badoglio, e sempre Carboni riuscì a convincere il maresciallo della sua posizione. Badoglio richiese dunque l’annullamento dell’operazione-Roma al generale Eisenhower, che però, irritato dal tira e molla italiano, dalle onde di “Radio Algeri” rese nota la stipula dell’armistizio. Al Consiglio della Corona non restò che ordinare a Badoglio di ufficializzare la capitolazione, ai microfoni dell’“Eiar”.
    Il 9 settembre, a battaglia in corso e all’insaputa del suo superiore Ambrosio, il generale Roatta ordinò a Carboni di spostare su Tivoli parte del corpo d’armata “motocorazzato” posto a difesa di Roma, le divisioni Ariete e Piave, e di disporre una linea del fronte che escludesse la difesa della capitale. Roatta informò inoltre Carboni che a Tivoli avrebbe ricevuto ulteriori ordini dallo stato maggiore, che si sarebbe provvisoriamente insediato a Carsoli. «Più tardi pervenne a Carboni il formale ordine scritto con il quale lo si nominava anche comandante di tutte le truppe dislocate in Roma». Ma nel frattempo Vittorio Emanuele III e la sua famiglia, il maresciallo Badoglio, i capi di stato maggiore Ambrosio e Roatta e i ministri militari erano già in fuga, alla volta di Brindisi. Carboni raggiunse Tivoli per organizzare le truppe. Non riuscendo a rintracciare Roatta proseguì sino ad Arsoli, dove apprese che la colonna dei sovrani (con Badoglio) era ormai lontana. «Rimase alcune ore ospite del produttore Carlo Ponti, sino a quando il suo aiutante di campo non gli comunicò che l’ordine di Roatta delle ore 5.15 era stato confermato e, pertanto, provvide a riportarsi a Tivoli, dove insediò il suo comando. Nel frattempo, a Roma, in virtù del grado gerarchicamente più elevato, il maresciallo Enrico Caviglia stava procedendo a contattare i tedeschi per la cessazione del fuoco».
    Nel primo pomeriggio del 9 settembre, Carboni dette ordine alla divisione Granatieri di Sardegna, che stava fronteggiando la 2ª divisione paracadutisti tedesca al Ponte della Magliana, di resistere a oltranza. E chiese alle divisioni Ariete e Piave di predisporsi a sud (per prendere alle spalle la “paracadutisti”) e anche verso nord, tagliando la strada alla 3ª divisione Panzergrenadier che stava sopraggiungendo dalla via Cassia. Mentre ciò avveniva, però, il colonnello Giuseppe di Montezemolo e il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, a Frascati, incontravano il comandante tedesco Albert Kesselring, preparando la resa delle truppe di Carboni. Prima di sera, sempre il 9 settembre, fu ordinato ai Granatieri di Sardegna di lasciare il conteso ponte della Magliana, lasciando affluire verso nord le truppe naziste. La mattina del 10, rientrano nella capitale ormai assediata, Carboni scoprì – dai manifesti fatti affiggere dal maresciallo Caviglia – che ormai Roma era in mani tedesche.
    «Dopo la resa – annota Lara Pavanetto – Carboni fece distruggere buona parte degli archivi del Sim, custoditi nelle due sedi di Forte Braschi e Palazzo Pulcinelli, occultandone una parte superstite nelle catacombe di San Callisto». Nonostante la capitolazione, lo storico Ruggero Zangrandi ritiene il generale Carboni il vero vincitore della “battaglia di Roma”, avendo tenuto impegnate le efficienti divisioni paracadutisti e Panzergrenadier, impenendo loro di ricongiungersi al resto dell’armata germanica nei pressi di Salerno, in modo da permettere agli anglo-americani di effettuare lo sbarco sulla Piana del Sele il 9 settembre. Il generale Carboni, la mente del tentato golpe contro Mussolini, agì sicuramente nell’interesse degli aglo-americani. «Nel giugno 1944 fu spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per la mancata difesa di Roma, ma eluse il provvedimento e si rese latitante grazie alle protezioni dei servizi di intelligence degli Alleati, in particolare l’Oss americano». Più tardi fu processato in contumacia, e il 19 febbraio 1949 fu assolto da ogni accusa per aver adottato «determinazioni indirizzate all’intendimento di arrestare fuori dalle porte della capitale l’invasione ad opera delle forze germaniche».
    Nel secondo dopoguerra, ricorda Pavanetto, lo stesso Carboni si avvicinò ai partiti della sinistra e fornì loro numerosi elementi di lettura sulla intelligence italiana, dal Sim al Sifar. Nel 1951, un precedente ordine di congedo assoluto emesso nei suoi confronti venne annullato e fu deciso il suo trasferimento nella riserva. Il 25 luglio del ‘43 non era riuscito ad attuare il golpe per eliminare Mussolini, data l’opposizione dei carabinieri? Il destino del Duce, però, era comunque segnato. Uscito sconfitto in piena notte dalla riunione del Gran Consiglio, il capo del fascismo chiese al segretario del partito, Carlo Scorza, di accompagnarlo in auto alla sua residenza romana di Villa Torlonia. Poche ore prima, tramite il generale Cerica dei caraninieri, il Re aveva appreso del tentato golpe militare. Al comandante dell’Arma, il sovrano rispose che avrebbe preso in mano la situazione, ricevendo Mussolini l’indomani, nel pomeriggio del 26 luglio, per chiedergli di dimettersi, cedendo il posto a Badoglio. Tre giorni prima, il 22 luglio, il Re aveva saputo – tramite il genero, Filippo d’Assia – del fallimento dell’incontro di Feltre e della decisione di Hitler: era pronta per l’Italia l’operazione Alarico, pensata nel caso che l’Italia rompesse, unilateralmente, l’alleanza con il Reich.
    L’operazione prevedeva l’istituzione del controllo militare diretto tedesco sulla penisola, dopo la fuga di notizie sulle ultimissime intenzioni di Mussolini: «Aggregare attorno all’Italia le potenze dell’Asse per imporre con forza alla Germania la pace separata con la Russia». Scrive Pavanetto: «Una parte dei vertici militari tedeschi erano favorevoli, non Hitler». Mussolini aveva messo al corrente il sovrano sulla linea che intendeva seguire, e Vittorio Emanuele III gli aveva inizialmente espresso il suo appoggio. Ma poi, dopo l’ambasciata di Filippo d’Assia, tutto cambiava: non ci sarebbe stato più spazio per nessuna mediazione, la penisola sarebbe stata invasa dai nazisti. Appena dopo i febbrili contatti con l’ambasciata del Giappone, anche Mussolini – dopo il Re – seppe della decisione di Hitler. Lo stesso Vittorio Emanuele III gli riferì del complotto dei generali: anche per questo, forse, l’ex Duce accettò di buon grado la protezione dei carabinieri, senza sapere però che il Re sarebbe poi scappato a Brindisi, con Badoglio, a gambe levate. «Quello che accadde poi lo sappiamo – o meglio, ancora oggi sappiamo solo alcune cose, di sicuro mezze verità», conclude Lara Pavanetto. «Certo la caduta di Mussolini non fu provocata dall’ordine del giorno Grandi, come scritto nei libri di storia e come raccontato nelle fiction televisive».

    «Posdomani Mussolini andrà dal Re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti: Mussolini va “spedito” senza lasciar traccia, in modo che il Re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto». Così parlò il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, nelle primissime ore del mattino del fatidico 25 luglio del 1943, giornata che poi si concluderà con la sconfitta del Duce alla riunione d’emergenza del Gran Consiglio del Fascismo. In realtà, riferisce Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, il voltafaccia dei gerarchi fascisti era stato pianificato dallo stesso Mussolini, con l’appoggio di settori massonici. Obiettivo: uscire (fuori tempo massimo) dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’abbraccio mortale di Hitler. Galeazzo Ciano avrebbe guidato la futura Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe soppiantato la monarchia e voltato le spalle all’altro grande sponsor del fascismo, il Vaticano, con il quale il Duce aveva stipulato i Patti Lateranensi, in cambio del consenso cattolico al regime. Mussolini, scrive Carpeoro, fu tradito dal massone Filippo Naldi, che informò Vittorio Emanuele III e la diplomazia pontificia, la quale a sua volta si affrettò a riferire ai nazisti. E in quelle ore concitate, scrive Lara Pavanetto, erano già in corso prove di golpe da parte dei vertici militari.

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