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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Elezioni da medioevo, vince la religione del debito pubblico
“Il debito pubblico è un peso che grava sulle spalle delle future generazioni: stiamo rubando il futuro ai nostri figli”. Da questa singola frase ci si può rendere conto di come, in Italia, i programmi politici di molti partiti siano sostanzialmente simili (fatte salve alcune eccezioni), con nuance “de sinistra” o “de destra”, volte a (far finta di) “differenziare” gli uni dagli altri. Chi sostiene questa idea, sostiene tutto quel coacervo di teorie economiche che fanno riferimento a un paradigma unico, anzi, a una teologia dogmatica. Già, perché la cosa ha da tempo assunto una dimensione religiosa, tale da non poter essere contraddetta in alcun modo nel dibattito pubblico (la scienza economica, invece, l’ha già fatto), pertanto assistiamo alla demonizzazione continua degli “eretici”. Un vero e proprio oscurantismo, in salsa “Medioevo 2.0”, periodo storico in cui stiamo sprofondando. Un’operazione in stile “1984”, allorché il grande Eric Arthur Blair (in arte, George Orwell) mise tutti in guardia dal fatto che chi detiene il potere nel presente, non solo è in grado di cambiare il futuro, bensì anche il passato, riadattandolo a proprio piacimento e creando una memoria collettiva differente, per mezzo della rimozione di tutti quegli aspetti non approvati dal “pensiero unico”.I pricipi sono chiari e anche semplici da comprendere, hanno una loro logica, ma sono fondati su presupposti mistificanti della realtà: “Lo Stato è come una famiglia/azienda, non può spendere più di quello che guadagna”, oppure (soprattutto in Italia): “Avete vissuto al di sopra dei vostri mezzi”, la celebre metafora della cicala e della formica, oppure ancora, la frase che apre questo articolo, riportata urbi et orbi da politicanti, pennivendoli, intellettualoidi vari ed eventuali. Una questione, dunque, religiosa, come precedentemente anticipato: abbiamo il Dio Mercato, la dottrina (che ha assunto una dimensione sacrale) e i suoi sacerdoti, che professano la fede e offrono sull’altare della divinità le (tante) vittime sacrificali, al fine di alimentare il sistema. Questa dinamica, in atto da più di 40 anni, è andata avanti lentamente ed inesorabilmente, con un’accelerazione improvvisa e preoccupante nel corso dell’ultimo decennio (dalla “crisi dei mutui subprime” in poi). Inoltre, il sistema di “Inquisizione 2.0” condanna tutti coloro che si azzardano a proporre politiche economiche “anti-cicliche” di stampo keynesiano, poiché la spesa a deficit “graverà sulle spalle dei nostri figli”.Il tutto ignorando le grandi lezioni della Storia. Ignorando, anzi, cancellando totalmente, la memoria collettiva relativa alla Grande Depressione (o crisi del ‘29) e tutto il periodo post-bellico – definito Liberal Consensus – in cui partiti di destra, moderati e di sinistra condividevano sostanzialmente le ricette ispiratrici del New Deal di rooseveltiana memoria (e del boom economico successivo), cancellando le teorie di politica economica di Keynes, anzi rendendole addirittura anti-costituzionali in Italia (con la recente approvazione dell’articolo 81 della Costituzione, sul pareggio di bilancio), e cancellando anche il concetto di Welfare State teorizzato da William Beveridge. Cancellando, in ultima analisi, la dimensione umana, in favore di una visione economicistica della società, che ignora volutamente il diritto degli individui a vivere una vita dignitosa e li costringe a fare sacrifici per espiare colpe che non hanno. Ci troviamo, dunque, nell’epoca del Neoliberal Consensus, in cui partiti di destra, moderati e di sinistra (con la condivisione, da parte di questi ultimi, della “Third Way” di Anthony Giddens) condividono lo stesso paradigma.Per “Liberal” si intende quell’ideologia democratica, social-liberale, progressista, attenta alle istanze di giustizia sociale e ai diritti civili e politici di tutti: parola usata per la prima volta, in questi termini, da Franklin Delano Roosevelt, in contrapposizione a “Conservative”. Per “Neoliberal”, invece, si intende “neoliberismo” (non “neoliberalismo”, che non significa nulla ed è frutto di un’errata traduzione dall’inglese), ovvero il “lassez-faire” portato alla sua radicalizzazione: in altre parole, il fondamentalismo del mercato, sotto forma di teologia dogmatica. Il Neoliberal Consensus prevede un consenso comune in merito a una serie di ricette, che possiamo riassumere così: privatizzazioni, austerity, deregulation finanziaria, riduzione della spesa pubblica, Stato minimo, concezione dello Stato paragonato a un’azienda, vera e propria isteria sui conti pubblici e sul debito pubblico e conseguente “feticismo” delle coperture economiche. Dunque, in conclusione, mentre un “contatore del debito pubblico” lampeggia sui maxi-led delle stazioni di Milano Centrale, Roma Termini e Roma Tiburtina, iniziativa di terrorismo psico-economico intrapresa dall’Istituto Bruno Leoni – il quale simpaticamente ci informa anche del fatto che abbiamo 40 mila euro di debito a testa – l’invito è quello di riflettere criticamente sui programmi economici presentati dai vari partiti e di riflettere sulle pressioni mediatiche e internazionali su determinati temi. Riflettere e sforzarsi di capire perché siamo in presenza di questa condivisione paradossale, che assottiglia le differenze tra “destra” e “sinistra” e le implicazioni nei rapporti con l’Unione Europea. Qualsiasi partito decidiate di votare.(Rosario Picolla, “Verso il 4 marzo: Orwell, il Neoliberal Consensus e le scemenze elettorali”, dal blog del Movimento Roosevelt del 1° marzo 2018).“Il debito pubblico è un peso che grava sulle spalle delle future generazioni: stiamo rubando il futuro ai nostri figli”. Da questa singola frase ci si può rendere conto di come, in Italia, i programmi politici di molti partiti siano sostanzialmente simili (fatte salve alcune eccezioni), con nuance “de sinistra” o “de destra”, volte a (far finta di) “differenziare” gli uni dagli altri. Chi sostiene questa idea, sostiene tutto quel coacervo di teorie economiche che fanno riferimento a un paradigma unico, anzi, a una teologia dogmatica. Già, perché la cosa ha da tempo assunto una dimensione religiosa, tale da non poter essere contraddetta in alcun modo nel dibattito pubblico (la scienza economica, invece, l’ha già fatto), pertanto assistiamo alla demonizzazione continua degli “eretici”. Un vero e proprio oscurantismo, in salsa “Medioevo 2.0”, periodo storico in cui stiamo sprofondando. Un’operazione in stile “1984”, allorché il grande Eric Arthur Blair (in arte, George Orwell) mise tutti in guardia dal fatto che chi detiene il potere nel presente, non solo è in grado di cambiare il futuro, bensì anche il passato, riadattandolo a proprio piacimento e creando una memoria collettiva differente, per mezzo della rimozione di tutti quegli aspetti non approvati dal “pensiero unico”.
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Italia in declino da 25 anni, privatizzati 170.000 miliardi
E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglosassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1.201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco.Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio – alla lettera l’esempio thatcheriano.Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse, nel periodo che va dal 1981 al 1986, il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire, tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv (2.753 miliardi); 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni (12.704 miliardi); 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta (13.462 miliardi); 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre (18.000 miliardi); 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma (40.000 miliardi); 1998 Bnl + altre tranche (25.000 miliardi); 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale (47.100 miliardi); 2000 Dismissione Iri (19.000 miliardi).Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica, il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 – 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perché ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire, pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti.Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive, e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei.Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1.266 miliardi dell’anno precedente ai 1.199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1.225 miliardi) per poi scendere ancora a 1.208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001, dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina, che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti, soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.(Giuseppe Maneggio, “Il declino nazionale? Tutto è cominciato negli anni ‘90”, da “Il Primato Nazionale” del 18 marzo 2015).E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.
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Crisi, colpa nostra? Bifarini: dai media, soltanto fake news
Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».Le privatizzazioni come soluzione? Giammai: «Privatizzare vuol dire svendere il nostro bene pubblico senza risolvere il problema della crisi e del debito attuale, mettendolo per lo più in mano ad investitori stranieri», spiega Ilaria Bifarini. «Questo ha ripercussioni notevoli sul livello dei salari (che entrano nel sistema perverso della concorrenza sfrenata, propria del modello neoliberista) e sull’abbassamento ulteriore della qualità dei prodotti e dei servizi». Privatizzando, «si vuole estromettere il ruolo dello Stato dalla politica economica: questo è quanto suggerisce l’Unione Europea per risanare il debito pubblico». In realtà, nonostante le devastanti privatizzazioni degli ultimi anni, il debito pubblico continua a crescere. «Quindi, privare il proprio paese di asset pubblici fondamentali per il proprio sviluppo e per la fruibilità e la qualità dei servizi non è altro che controproducente per l’economia di un paese». Cosa rispondere a chi afferma anche che gli aiuti pubblici uccidono la concorrenza e il Pil? «In realtà è proprio vero il contrario: infatti esiste una relazione diretta tra le dimensioni del governo e il reddito pro capite dei cittadini. Perché un’economia aperta, sviluppata e competitiva possa prosperare, è necessario che ci sia un intervento da parte dello Stato. E che quindi uno Stato offra tutele alle fasce di popolazione più debole in modo che possa funzionare la dinamica del libero mercato».Attualmente, la “teologia” neoliberista imposta dall’Ue fa in modo che avvega l’esatto opposto: i soli aiuti pubblici «sono rivolti ai salvataggi delle banche». Per l’economista, «siamo di fronte a un sistema bancario ipertrofico che non produce ricchezza reale ma soltanto speculazione, evade ed elude i propri profitti». E i cittadini «si trovano a dover finanziare un simile sistema che è deleterio per la crescita e per lo sviluppo». E se la globalizzazione «ha portato indiscutibili miglioramenti nell’ambito dello sviluppo economico e del progresso industriale», oggi ci troviamo in una fase successiva, la cosiddetta “iperglobalizzazione”, «dove a rischio sono la sopravvivenza della democrazia e degli Stati nazionali». Secondo quello che il “trilemma di Rodrik”, dal nome dell’economista turco Danil Rodrik, esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione: «Quindi, se spingiamo oltre la globalizzazione, come è già avvenuto, dobbiamo rinunciare o allo Stato nazionale o alla democrazia». Di fatto, aggiunge Bifarini, alla democrazia stiamo già rinunciando: «Ci troviamo di fronte a quella formale, ma completamente svuotata del suo contenuto sostanziale, la cosiddetta “democrazia apatica”». Ora, attraverso l’Ue e l’Eurozona, «ci dicono di rinunciare anche allo Stato nazionale in nome di una governance internazionale inefficace e carente».Altro tragico dogma in auge: limitare la spesa pubblica al 3% del Pil. «Il limite del 3% del rapporto deficit-Pil non è assolutamente salutare per l’economia», sottolinea Ilaria Bifarini. «La prova è che l’Italia si trova a generare un avanzo primario da ben 24 anni con una sola eccezione nel 2009, quindi in realtà paghiamo più di quanto riceviamo e questo non può essere salutare per l’economia e il suo sviluppo». Attenzione: «Non si può riuscire a pareggiare il bilancio attraverso politiche di riduzione del reddito nazionale senza occuparsi del problema della disoccupazione, come insegnava Keynes». Il più falso dei “refrain” impugnati dai profeti del rigore? Avremmo “vissuto al di sopra le nostre possibilità”. Ridicolo: il boom del debito italiano risale al 1981, anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nulla a che vedere coi consumi italiani. La crisi finanziaria mondiale del 2008? «Non è una crisi da debito pubblico, ma una crisi generata da un fattore di debito privato». Propaganda: «Si vuole alimentare questa concezione per la quale ci sono paesi come il nostro, spendaccioni (i cosiddetti Pigs, che hanno “vissuto oltre le proprie possibilità”) e che quindi le misure dure, inefficaci e deleterie dell’austerity imposte dalla Troika e dalle istituzioni finanziarie internazionali siano la giusta pena da espiare per i peccati commessi». In altre parole, barando, «si è creata una questione morale su un argomento prettamente economico». Se ne sono accorti, gli italiani?Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».
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Voto inutile, chiunque vinca: l’Italia non deve svegliarsi
La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni restano un fenomeno soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano informato e consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia destinata a non essere raccolta da nessuno, né aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo andare al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, imposto dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 milardi di euro in soli tre anni.Stessa musica a casa Pd, dove restano tabù i dogmi di Maastricht che sono all’origine della tragedia, la decadenza strutturale del made in Italy. Idem i 5 Stelle, che non sono corresponsabili della catastrofe ma si stanno attrezzando: propongono un taglio fantascientifico, l’amputazione del 40% del debito pubblico, cioè della spesa strategica per l’economia. Quali sono i paesi, storicamente, con il maggior debito statale? Stati Uniti e Giappone. Il problema è dunque il debito o la moneta in cui è denominato? La moneta, ovvio. Quindi i 5 Stelle cosa contestano, il debito o la moneta? Il debito, purtroppo: nulla deve cambiare. Deve restare in piedi il paradigma, falso, che vuole lo Stato in ginocchio, costretto a privatizzare per fare cassa, taglieggiando i contribuenti. Risparmi erosi, aziende senza crediti, dipendenti senza lavoro, studenti senza futuro, coppie senza figli. Ce lo chiede l’Europa: e noi all’Europa, ancora una volta, rispondiamo che va bene così. Siamo contenti di sprofondare. Felici, ancora una volta, di non poter scegliere – alle urne – nessuna opzione alternativa alla rassegnazione sistemica, alla resa di fronte a uno schema che punisce l’Italia come nazione, come società, come sistema produttivo, come partner europeo colpevole di esistere.L’Italia ha tante colpe, in effetti: è un paese ammirato, invidiato e detestato perché potenzialmente ricchissimo, creativo, ingegnoso, padrone di un giacimento culturale senza pari al mondo, proteso nel cuore strategico del Mediterraneo. Guai se dovesse svegliarsi, il paese che seppe risorgere dalle macerie della guerra per diventare la quarta potenza industriale del pianeta, nonostante i suoi tumori endemici (mafia, corruzione, evasione fiscale). Guai, se l’Italia risvegliata mandasse a stendere Bruxelles e il suo 3%, Francoforte e la sua moneta privata, Berlino e la sua cancelliera privatizzata. Per questo sono sempre così delicate, per l’oligarchia dominante, le elezioni italiane: è fondamentale che l’Italia resti in letargo, in coma farmacologico. Faccia come crede, purché voti Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il risultato, per Bruxelles, è già in cassaforte: chiunque prevalga, di quei tre, non impensierirà nessuno dei nemici dell’Italia. Il voto-contro, per chi alle fiabe non crede più? Niente paura: sarà disperso in mille rivoli, nessuno dei quali (dicono i sondaggi) raggiungerà neppure l’anticamera del Parlamento. In più, nessuno dei maggiori candidati avrà i numeri per governare. Due sole ipotesi: larghe intese o nuove elezioni. Nulla che, in ogni caso, riguardi gli italiani stanchi di dormire, e di vedere il loro paese trattato come un malato terminale ingombrante, in parte ancora ricco. Un malato da spolpare fino all’ultimo, da tenere in vita solo per evitare l’imbarazzo del funerale.La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni sembrano un fenomeno innocuo e soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia fatalmente pletorica, destinata a non essere raccolta da nessuno, né in aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo trascinarsi fino al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, cioè la camicia di forza imposta dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 miliardi di euro in soli tre anni.
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Bezos l’uomo più ricco della storia, 105 miliardi in 25 anni
Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.Cresciuto a Seattle come Bill Gates e lo stesso Steve Jobs della Apple, nel 1994 Jeff Bezos era già un trentenne brillante, ricorda il “Corriere della Sera”. «Laurea in ingegneria a Princeton, un passaggio a Wall Street, una prima esperienza nel commercio internazionale con la Fitel, l’approdo all’hedge fund di New York, De Shaw & Co. Qui, nel 1992, aveva conosciuto MacKenzie Tuttle, che sposò l’anno dopo: la compagna della vita con cui ha avuto quattro figli. Jeff veniva da un’infanzia non semplice: sua madre, Jacklyn Gise, lo ebbe nel 1964 quando era ancora adolescente da Ted Jorgensen, da cui divorziò l’anno dopo. Nel 1968 Jacklyn si trasferì a Houston con Miguel Bezos, un immigrato cubano che prestò diventò ingegnere della Exxon». In quel 1994, dunque, Jeff aveva soldi, posizione sociale, un impiego d’élite: quanto bastava per soddisfare anche le ambizioni più esigenti. «Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto in quell’anno: Jeff inventa un nuovo formato commerciale, una libreria online che chiama Cadabra e poi Amazon, come il Rio delle Amazzoni. «Nel 1999 è già sulla copertina di “Time”, come persona dell’anno. Il decollo è stato verticale, un po’ come quello del razzo New Glenn, l’ultimo progetto di Blue Origin, una delle società dell’imprenditore».Se si vuole provare a definire la “dottrina Bezos”, scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere”, si deve partire da questa voracità insaziabile, questa spinta a debordare. «Jeff è un onnivoro che ama raccontarsi come un uomo di grandi curiosità e passioni». A cinque anni, dice, rimase «folgorato» dallo sbarco sulla Luna. Per questo nel 2009 fondò Blue Origin, che ora pianifica i primi voli di turismo spaziale per il 2019. «Ma anche sulla Terra l’orizzonte è ampio. Nel 2013 il businessman rivolge lo sguardo all’editoria, uno dei settori più maturi del mercato. Compra, per 250 milioni di dollari, il “Washington Post”, uno de quotidiani più importanti, a quel tempo piuttosto sofferente». Un giornale con 800 reporter, in utile per il secondo anno consecutivo: guadagna con gli abbonamenti, raddoppiati dal gennaio scorso. «Il dato più sorprendente è che l’azienda ha aumentato i ricavi anche con la pubblicità digitale, nonostante la concorrenza micidiale di Facebook e di Google». C’è un po’ di “effetto Trump” in tutto questo. Sotto la testata si legge: «Democray dies in darkness».Il core business, però, ruota sempre intorno ad Amazon, cui ha affiancato, nell’agosto del 2017, Whole Foods, la grande catena di supermercati di qualità negli Stati Uniti: un’acquisizione record da 13,7 miliardi di dollari. «Il progetto prevede: riduzione dei prezzi, distribuzione a domicilio ancora più capillare». Ma non mancano le contraddizioni, aggiunge il “Corriere” L’editore del “Post” litiga spesso con i sindacati e con i “maratoneti”, cioè i dipendenti dei magazzini Amazon, che percorrono chilometri al giorno tra le linee di distribuzione. La Commissione Europea lo accusa di non pagare il dovuto al fisco. «Intanto però tutti continuano a cercarlo. Bezos ha aperto un’asta per la nuova sede di Amazon negli Stati Uniti. Le più importanti città americane, a cominciare da New York, si sono messe in coda».Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.
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Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
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Morire di carne: stiamo letteralmente suicidando la Terra
Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».Attualmente, negli Stati Uniti, 157 milioni di tonnellate di cereali, legumi e proteine vegetali potenzialmente utilizzabili dall’uomo sono destinate alla zootecnia: è una produzione di 28 milioni di tonnellate di proteine animali che l’americano medio consuma in un anno, riassume Sabbadini su “Disinformazione.it”. «In tutto il mondo la domanda di cereali per la zootecnia continua a crescere perché le multinazionali cercano di capitalizzare sulla richiesta di carne proveniente dai paesi ricchi». Fra il 1950 e il 1985, gli anni boom dell’agricoltura, negli Stati Uniti e in Europa, due terzi dell’aumento di produzione di grano sono stati destinati alla fornitura di cereali d’allevamento, per lo più bovino. «E’ stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo», sostiene Sabbadini. «È importante tenere a mente che un acro di terra coltivato a cereali produce proteine in misura cinque volte maggiore rispetto ad un acro di terra destinato all’allevamento di carni; i legumi e le verdure possono produrne rispettivamente 10 e 15 volte tanto». Le grandi multinazionali producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano mattatoi, canali di marketing e distribuzione della carne: «Hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali».Purtroppo, la carne fa ancora tendenza: «La pubblicità e le campagne di vendita destinate ai paesi in via di sviluppo equiparano e associano all’allevamento di bovini nutriti a foraggio il prestigio di quel dato paese. Salire la “scala delle proteine” è diventato un simbolo di successo che assicura l’entrata in un club elitario di produttori che sono in cima alla catena alimentare mondiale». Il periodico americano “Farm Journal” riflette con queste parole i pregiudizi della comunità agro-industriale: «Incrementare e diversificare le forniture di carne sembra essere il primo passo di ogni paese in via di sviluppo». Iniziano tutti con l’allevamento di polli e con l’installazione di attrezzature per la produzione delle uova: è il modo più veloce ed economico che permette di produrre proteine non vegetali. «Poi, quando le loro economie lo permettono, salgono “la scala delle proteine” e spostano la loro produzione verso carne suina, latte, latticini, manzo nutrito al pascolo. Per poi arrivare, in alcuni casi, al manzo allevato con grano raffinato». Ma incoraggiare altri paesi a salire la “scala delle proteine”, avverte Sabbadini, promuove solo gli interessi degli agricoltori occidentali (americani soprattutto) e delle società agro-industriali.Molti paesi in via di sviluppo hanno iniziato a salire la “scala delle proteine” all’apice del boom agricolo, con molto grano in eccesso. Nel 1971 la Fao suggerì di passare al grano grezzo, che poteva essere consumato più facilmente dal bestiame. Il governo americano, prosegue “Disinformazione.it”, incoraggiò ulteriormente i suoi programmi di aiuti all’estero, collegando gli aiuti alimentari allo sviluppo sul mercato dei cereali foraggieri. «Società come la Ralston Purina e la Cargill hanno ricevuto finanziamenti governativi a basso tasso di interesse per la gestione di aziende avicole e l’uso di cereali foraggeri nei paesi in via di sviluppo, iniziando queste nazioni al viaggio che le avrebbe condotte verso la scala delle proteine. Molte nazioni hanno seguito il consiglio della Fao e si sono sforzate di rimanere in cima a questa scala». Risultato: «Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale di carne si è quintuplicata». E il passaggio dal cibo al mangime «continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame». Un caso emblematico? La crisi in Etiopia nel 1984, con migliaia di vittime denutrite. «L’opinione pubblica non era al corrente del fatto che in quel momento l’Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di panelli di lino, di semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia».Le statistiche sono sconcertanti: l’80% dei bambini che nel mondo soffrono la fame vive in paesi che di fatto generano un surplus alimentare prodotto sotto forma di mangime animale, di conseguenza utilizzato solo da consumatori benestanti. La corsa alla carne sta travolgendo i paesi in fase di sviluppo come la Cina, dove la quota di grano destinato alla zootecnia è triplicata. Nel solo Messico, dal 1960 ad oggi, la percentuale di grano da allevamento è cresciuta dal 5 al 45% per cento, mentre in Egitto è passata dal 3 al 31% e in Thailandia dall’uno al 30%. Ironia della sorte: «Milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo (attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete – malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali), mentre i poveri del Terzo Mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo». Le statistiche parlano chiaro, sottolinea Sabbadini: sarebbero 300.000 gli americani che ogni anno muoiono prematuramente a causa di problemi di sovrappeso, ed è un numero destinato ad aumentare. «Secondo gli esperti, nel giro di qualche anno, se continuano le attuali tendenze, sempre più americani moriranno prematuramente più per cause di obesità che per il fumo delle sigarette».Attualmente è sovrappeso il 61% degli americani, insieme a oltre la metà degli europei. La colpa, accusa l’Oms, è dell’hamburger. Gli obesi nel mondo sono il 18%, più o meno quanto gli individui denutriti. «Mentre i consumatori dei paesi ricchi letteralmente fagocitano se stessi fino alla morte, seguendo regimi alimentari carichi di grassi animali, nel resto del mondo circa 20 milioni di persone l’anno muoiono di fame e di malattie collegate». Secondo le stime, la fame cronica contribuisce al 60% delle morti infantili. Ma i consumatori di carne non sanno, né vogliono sapere. «I consumatori di carne dei paesi più ricchi – scrive Sabbadini – sono così lontani dal lato oscuro del circuito grano-carne che non sanno, né gli interessa sapere, in che modo le loro abitudini alimentari influiscano sulle vite di altri esseri umani e sulle scelte politiche di intere nazioni». Obiettivamente: «Chi mangia carne consuma le risorse della terra quattro volte di più di chi non lo fa». Ogni volta che si mangia una bistecca, aggiunge il blogger, «bisognerebbe essere consapevoli dei liquami che filtrano nelle falde acquifere, delle foreste disboscate, del deserto conseguente, dell’anidride carbonica e del metano che intrappolano il globo in una cappa calda. Ogni bistecca equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra».Bisognerebbe essere consapevoli anche delle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla fonte delle bistecche, non dimenticandosi «degli 840 milioni di persone che nel mondo hanno fame e dei 9 milioni che ne hanno tanta da morirne». Mangiare meno carne, o magari non mangiarne più? «Una scelta sociale, solidale con chi ha fame e con il futuro del pianeta». E non è tutto: «Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes, il raccoglitore di gomma assassinato dagli allevatori per una disputa sull’uso della foresta pluviale, per accorgersi dell’esistenza di una “bovino connection”». E ancora: «In Amazzonia la foresta pluviale è stata divorata da 15 milioni di ettari di pascolo, eppure è in questo habitat che dimora il 50% delle specie viventi e da qui deriva un quarto di tutti i farmaci che usiamo». Dove prima c’erano migliaia di varietà viventi ora ci sono solo mandrie.«Vacche ovunque», scrive Rifkin nel suo “Ecocidio”: «Attualmente il nostro pianeta è popolato da ben oltre un miliardo di bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone». Per farvi posto occorre terreno da pascolo. E deforestazione per creare pascoli significa desertificazione: dopo tre o quattro, il suolo calpestato e divorato da milioni di bovini (ogni capo libero ingurgita 400 chili di vegetazione al mese) finisce esposto a sole, piogge e vento, quindi diventa sterile. E i ruminanti si devono spostare dissacrando altri ettari di foresta. «Ci vorranno da 200 a mille anni perché quei terreno ritorni fertile». E che dire dell’acqua? «Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame: è stato calcolato che un chilo di manzo si beve 3.200 litri d’acqua». Risultato: le falde acquifere del Midwest e delle Grandi Pianure statunitensi si stanno esaurendo. Non solo: l’allevamento richiede ingenti quantità di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici: «Tutti prodotti dalle stesse, poche multinazionali che detengono il monopolio dei semi usati per coltivare cereali e legumi destinati ad alimentare il bestiame», fa notare Enrico Moriconi, veterinario e ambientalista, nelle pagine del suo “Le fabbriche degli animali” (Edizioni Cosmopolis).«Ogni anno in Europa gli animali da allevamento consumano 5.000 tonnellate di antibiotici, di cui 1.500 per favorirne la crescita, e tutti vanno a finire nelle falde acquifere», incalza Marinella Correggia, attivista della Global Hunger Alliance e autrice di “Addio alle carni” (Lav). Roberto Marchesini, docente di bioetica e zoo-antropologia, autore di “Post-human” (Bollati Boringhieri) svela che nel bacino del Po, ogni anno, «vengono riversate 190.000 tonnellate di deiezioni animali: contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni». Con quali conseguenze? Per esempio, le alghe abnormi nell’Adriatico. Marchesini parla di «fecalizzazione ambientale». E Rifkin ci illumina sulla portata del problema: un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno. «C’è dell’altro: i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero a causa dell’uso di petrolio (22 grammi per produrre un chilo di farina contro 193 per uno di carne), delle emissioni di metano dovute ai processi digestivi (60 milioni di tonnellate ogni anno) e dell’anidride carbonica scatenata dal disboscamento».E’ la stessa Fao a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della bio-diversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. E tutto questo per cosa? Per quelle che Frances Moore Lappé, autrice di “Diet for a small planet”, definisce «fabbriche di proteine alla rovescia». Occorre un chilo di proteine vegetali per avere 60 grammi di proteine animali. «Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie», spiegano gli autori di “Assalto al pianeta” (Bollati Boringhieri), «il manzo deve ricavare 5.000 calorie, il che vuoi dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50.000». Attenzione: «Solo un centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata, usata per il processo di conversione e per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano, come ossa o peli». Il bestiame? E’ una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta: quel 20% che sfrutta l’80% delle risorse mondiali, per non rinunciare alla sua bistecca quotidiana. «Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di alcuni», diceva Gandhi.Ingordigia che ha raggiunto livelli esorbitanti: dal dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo pro capite all’anno a 85-90 (110-120 negli States), riferisce Marchesini. Secondo Moore Lappé, le tonnellate di cereali e soia che nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri umani per un anno. E la Fao conferma: una dieta vegetariana mondiale potrebbe dar da mangiare a 6,2 miliardi di persone, mentre un’alimentazione che limiti la carne al 25% può sfamarne solo 3,2 miliardi. La spiacevole sorpresa? La domanda di carne sta crescendo. «Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali», scrive Sabbadini: «Stiamo esportando il nostro modello alimentare (e che modello!)». Secondo l’Ifpri, entro il 2020 la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali zootecnici: fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate di carne. «Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse». Una slavina inarrestabile, globalizzata. Si chiama: rivoluzione zootecnica. «Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne».La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l’industria dell’allevamento e della macellazione. «Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo a suon di bistecche e hamburger», scrive “Disinformazione.it”. «Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita deI 20% ogni dieci anni», prevede Rifkin, «si sta preparando una crisi alimentare planetaria». Rincara la dose Correggia: «E’ stato calcolato che l’impronta ecologica di una persona che mangia carne, cioè suo il consumo di risorse, di 4.000 metri quadrati di terreno, contro i mille sufficienti a un vegetariano». Allo stato attuale, «la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è di 2.700 metri quadrati». Ancora: un ettaro di terra a cereali per il bestiame dà 66 chili di proteine, che diventano 1.848 (28 volte di più!) se lo stesso terreno viene coltivato a soia. Ancora Rifkin: «Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate dì anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera».La nuova dimensione del male, ragiona Sabbadini, è intimamente connessa con il complesso bovino moderno, che ha acquisito i caratteri di un male occulto, inflitto a distanza: è un male camuffato da strati sovrapposti di veli tecnologici e istituzionali. «Un male cosi lontano, nel tempo e nel luogo, da chi lo commette e da chi lo subisce, da non lasciar sospettare o avvertire alcuna relazione causale». E’ un male che non può essere avvertito, data la sua natura impersonale. «E’ probabile che i proprietari dei negozi in cui si vende carne di bovini nutriti a cereali non avvertano mai, personalmente, la disperazione delle vittime della povertà, di quei milioni di famiglie allontanate dalla propria terra per fare spazio a coltivazioni di prodotti destinati esclusivamente all’esportazione. E che i ragazzi che divorano cheeseburger in un fast-food non siano consapevoli di quanta superficie di foresta pluviale sia stata abbattuta e bruciata per mettere a loro disposizione quel pasto». Il consumatore che acquista una bistecca al supermercato non si sente responsabile dell’immensità del dolore che il suo gesto provoca. «Abbiamo appiattito la ricchezza organica dell’esistenza, trasformando il mondo che ci circonda in astratte equazioni algebriche, statistiche e standard di performance economica».Il male occulto? Viene perpetuato da istituzioni e individui: il mercato, la globalizzazione del profitto. In un mondo di questo genere, conclude Sabbadini, ci sono ben poche occasioni per essere in sintonia con l’ambiente e proteggere i diritti delle future generazioni. «L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente, per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica». Primo passo necessario: «Diventare consapevoli dei meccanismi di sfruttamento del pianeta di cui siamo complici». Il secondo passo «non è fare la rivoluzione, e non è neanche aderire a questa o quest’altra organizzazione alternativa (per quanto possa essere positivo), ma è far seguire conseguenti e coerenti azioni personali in armonia con una vita etica e rispettosa dell’ambiente e del prossimo. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo iniziare da noi stessi».Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».
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Lavoro a tutti, per legge: e se lo garantisse la Costituzione?
Tutti al lavoro: per legge. Lo garantisce la Costituzione. Quale? Quella del 1948, largamente inattuata, o – meglio ancora – quella che andrebbe in parte riscritta e aggiornata al 2017, per trasformarla in uno strumento capace di fronteggiare la vera piaga dei nostri tempi? Il mostro ha le sembianze della disoccupazione di massa, alimentata dal neoliberismo sfrenato della globalizzazione più selvaggia e predatoria, privatizzatrice. E’ la peste che ha delocalizzato il lavoro e importato “neo-schiavi” migranti, mettendo ancora più in crisi i lavoratori europei, costretti a salari al ribasso, nell’eclissi generale dei diritti conquistati nei decenni ruggenti del welfare e del benessere. Vogliamo finirla con le chiacchiere e cominciare a fare sul serio? Allora bisogna ripartire proprio da lì, dalla Carta costituzionale. Deve diventare la norma fondamentale attorno a cui rifondare, dalle radici, la comunità nazionale: «Si tratta di costituzionalizzare il diritto al lavoro: cioè fare in modo che la piena occupazione sia garantita, e che quindi nessuno abbia più, costituzionalmente, la possibilità di rimanere senza lavoro, senza reddito e senza dignità».E’ la sfida che lancia il Movimento Roosevelt, impegnato a Roma con un convegno su come rimettere in moto l’anima progressista della Costituzione italiana, sempre celebrata con vuote formule rituali ma di fatto largamente inattuata, ingessata come un totem intoccabile o magari «surrettiziamente insidiata da riforme involutive come quelle proposte da Renzi», e bocciate dal referendum del 2016. «Dobbiamo ragionare in termini di Costituzione come del fulcro della vita civile e politica di un paese», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. E non vale solo per l’Italia: «Se noi avessimo avuto una Costituzione Europea passata attraverso il vaglio dei cittadini, quindi non imposta dall’alto ma condivisa, se cioè avessimo una Costituzione politica, l’Europa non sarebbe quella che è: non sarebbe questa cosa matrigna e tecnocratica di pochi burocrati al servizio di interessi privati, con cancellerie europee altrettanto asservite e un Parlamento Europeo che non conta nulla, incapace di farsi carico degli ideali di giustizia sociale e di diffusione della properità e della piena occupazione, nonché della rigenerazione dei territori».La riflessione sulla Costituzione, aggiunge Magaldi, «deve farci capire che in Italia, senza Costituzione democratica pienamente attuata o perfezionata per adempiere a certi bisogni, non si va da nessuna parte». L’affronto più grave alla Costituzione antifascista? L’avervi inserito l’obbligo del pareggio di bilancio – governo Monti, appoggiato da Berlusconi e Bersani. Pareggio di bilancio? Una bestemmia, per un economista come Nino Galloni, dirigente del Movimento Roosevelt, di scuola keynesiana: il debito pubblico (deficit positivo) è esattamente lo strumento-chiave attraverso il quale rilanciare l’economia privata, come dimostra la storia italiana dei decenni del boom, sorretti da un sistema economico misto, pubblico-privato, e dalla sovranità monetaria, quindi con capacità di fare investimenti strategici – quelli che oggi mancano, sanguinosamente, a causa del divieto imposto da Bruxelles. Risultato: il declino evidente del paese, nell’ultimo quarto di secolo. Agitare retoricamente la Costituzione? Così com’è, «in questi 25 anni la Costituzione non è stata capace di garantire l’arresto del declino dell’Italia sul piano economico, civile e politico», dice Magaldi. «E quindi serve una scossa».«Già il solo parlare di riforme, in senso opposto a quello renziano, significa magari galvanizzare la possibile attuazione di quelle parti della Costituzione che sono state sin qui dimenticate», aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, che auspica di poterne discutere con personaggi come Paolo Maddalena e Gustavo Zagrebelsky, ma anche Giorgio Cremaschi e Alfredo D’Attorre, Antonio Ingroia e Ferdinando Imposimato. «Pensiamo che la Costituzione del 2018 possa essere più adatta a calare nel nuovo secolo lo spirito originario di quella del 1948, che a sua volta riprendeva lo spirito di quella della Repubblica Romana». Correva l’anno 1849: sulle barricate c’era un certo Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, alla testa di un’avanguardia di massoni progressisti. Obiettivo, oggi: recuperare quello spirito originario, di cui abbiamo un bisogno estremo. Soprattutto di questi tempi, con una politica completamente allo sbando e un Parlamento che, grazie al Rosatellum, dopo le elezioni del 2018 sarà letteralmente ingovernabile, preda di larghe intese e governi di bassissimo profilo.Inutile sperare in quel che resta della sinistra ufficiale, avverte Magaldi, ridotta a «piccolo circolo di nostalgici di una sinistra che non c’è più e che non ci sarà mai più». Le spoglie di Sel, Mdp e Articolo 1, il gruppo del Teatro Brancaccio, Sinistra Italiana, Campo Progressista di Pisapia? «Consiglierei loro di ragionare in termini di rigenerazione della democrazia, non della sinistra – dice Magaldi – perché la democrazia e il progresso non sono né di destra né di sinistra». Vero, alcuni partiti di sinistra hanno fatto grandi battaglie in questo senso, «ma è anche vero che, per sinistra, in Italia si intende tutto quel mondo comunista e post-comunista che nella versione comunista avversava la democrazia e propugnava ideologicamente un mondo post-democratico, mentre nella versione Pds-Ds-Pd è diventata asservita a quella stessa ideologia neoliberista declinata da tutti i partiti di centrodestra», come nel caso del famigerato inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. Destra e sinistra? Conviene «superare questa tassonomia obsoleta». Contrastare il Jobs Act renziano? «Va bene difendere l’articolo 18, ma ancora meglio sarebbe liberare gli imprenditori da lacci e laccioli, e al tempo stesso garantire, per legge, la piena occupazione». Onestamente: «L’Italia è cambiata, servono categorie diverse. E il popolo è afflitto da una decadenza che il ceto politico non è in grado di arrestare».Tutti al lavoro: per legge. Lo garantisce la Costituzione. Quale? Quella del 1948, largamente inattuata, o – meglio ancora – quella che andrebbe in parte riscritta e aggiornata al 2017, per trasformarla in uno strumento capace di fronteggiare la vera piaga dei nostri tempi? Il mostro ha le sembianze della disoccupazione di massa, alimentata dal neoliberismo sfrenato della globalizzazione più selvaggia e predatoria, privatizzatrice. E’ la peste che ha delocalizzato il lavoro e importato “neo-schiavi” migranti, mettendo ancora più in crisi i lavoratori europei, costretti a salari al ribasso, nell’eclissi generale dei diritti conquistati nei decenni ruggenti del welfare e del benessere. Vogliamo finirla con le chiacchiere e cominciare a fare sul serio? Allora bisogna ripartire proprio da lì, dalla Carta costituzionale. Deve diventare la norma fondamentale attorno a cui rifondare, dalle radici, la comunità nazionale: «Si tratta di costituzionalizzare il diritto al lavoro: cioè fare in modo che la piena occupazione sia garantita, e che quindi nessuno abbia più, costituzionalmente, la possibilità di rimanere senza lavoro, senza reddito e senza dignità».
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Droga Nato: viene dall’Afghanistan e ha salvato Wall Street
L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La produzione afghana di oppio, iniziata negli anni ‘80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli anni ‘90 durante la guerra civile, era stata bandita dai Talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine anni ‘90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.A gestire il business afghano della droga non sono i guerriglieri islamici, bensì i signori della droga legati al governo sostenuto dall’Occidente. «Gli insorti afgani intascano mediamente non più del 2,5%-5% del valore di esportazione dell’eroina afghana», spiegavano nel 2006 Onu e Banca Mondiale e poi di nuovo l’Onu nel 2009, sottolineando che «i 25-30 più grossi narcotrafficanti afghani controllano le principali transazioni e spedizioni lavorando a stretto contatto con complici che ricoprono alte cariche governative». A volte sono essi stessi parte del governo, come nel caso del defunto Ahmend Wali Karzai, boss di Kandahar e fratello dell’allora presidente, o di Sher Mohammed Akhundzada, ex governatore della provincia di Helmand, o di Mohammed Fahim, vicepresidente della repubblica e ministro della difesa, o del generale Abdul Rashid Dostum, vicepresidente e capo di stato maggiore delle forze armate, o di Mohammed Daud Daud, viceministro dell’interno con delega all’antidroga. Boss del narcotraffico ma intoccabili per il loro ruolo politico-militare o perché informatori della Cia o alleati della Nato.Afghanistan, Stati Uniti e Nato hanno deciso di sacrificare la lotta alla droga in nome di quella al terrorismo. La stessa scelta fatta in Europa, Asia e America Latina in nome della lotta al comunismo. Per mantenere il controllo, gli americani si sono alleati con potenti criminali e signori della guerra locali, chiudendo un occhio su tutta l’industria della droga afghana risorta dopo il 2001. Una strategia che ha garantito non solo la tenuta del protettorato Usa/Nato in Afghanistan, ma anche quella delle grandi banche di Wall Street dopo la crisi del 2008 grazie all’enorme massa di narcodollari riciclati e immessi nel circuito finanziario: unica quanto vitale liquidità disponibile all’epoca, come denunciato dall’ex direttore generale del dipartimento antidroga e anticrimine dell’Onu, Antonio Maria Costa.(Enrico Piovesana, “Afghanistan, un protettorato fondato su tonnellate di oppio” dal “Fatto Quotidiano” del 9 ottobre 2017).L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La produzione afghana di oppio, iniziata negli anni ‘80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli anni ‘90 durante la guerra civile, era stata bandita dai Talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine anni ‘90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.
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Omicidi e stragi, la guerra segreta degli inglesi contro l’Italia
“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica. C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Usa hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino ad Aldo Moro, sovranista – cioè, che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico. E per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi.La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica e petrolifera dell’Italia. De Gasperi, presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’Agip. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’Agip lui fondò l’Eni, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’Eni, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’Eni, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli.C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle “sette sorelle”. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo; e il padre, ministro degli esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. Poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente.Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddeq, primo ministro, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo, e l’Italia dell’Eni e di De Gasperi violò quell’embargo. Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di “dare una lezione” agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran. Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Attraverso la sua politica, Mattei emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento – seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi addirittura emarginando, nel corso degli anni, la presenza britannica.In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – «un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo». E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono che Mattei «è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo». Scrivono: «Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence». Sei mesi dopo, Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio. Aldo Moro? La vicenda Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era ministro degli esteri in diversi governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia, nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di Stato che rovesciò la monarchia filo-britannica e portò al potere il colonnello Muhammar Gheddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio, che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico.E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche. E l’Eni era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia“, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969, il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: «Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana». Quindi invita il suo governo: «Dobbiamo adottare altri metodi». Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: ma perché non chiedete al governo britannico la desecretazione di quella parte del documento, in cui sono spiegati gli “altri metodi” da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di Stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono molto più scettici, e dissero agli inglesi: «Ma voi siete pazzi! Un colpo di Stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, in Italia c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue!»Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di Stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: «Visto che non è possibile attuare un colpo di Stato militare classico, per l’opposizione di Germania e Stati Uniti, passiamo al piano-B». Qual era questo piano-B? Purtroppo, anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa “azione sovversiva” naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia; beh, quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la “diversa azione sovversiva” contro Moro?Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle Brigate Rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia… Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro. Allo stato delle nostre ricerche, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro paese sia ancora più forte di prima.(Giovanni Fasanella, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora il 12 novembre 2015 per la video-intervista “I documenti Uk che fanno gelare il sangue, da Enrico Mattei ad Aldo Moro”, pubblicata su “ByoBlu” per presentare il libro “Colonia Italia”, Chiarelettere – 483 pagine, euro 18,90 – che Fasanella ha scritto insieme a Mario José Cereghino. Il possibile ruolo occulto della Gran Bretagna nella “sovragestione” dell’Italia è tornato drammaticamente in primo piano nel febbraio 2016 con l’uccisione al Cairo del giovane Giulio Regeni, ingaggiato in Egitto da una Ong collegata all’università di Cambridge; secondo molte fonti indipendenti, tra cui l’ex inviato di “Panorama” Marco Gregoretti, il lavoro di Regeni sarebbe stato utilizzato dall’Mi6, il controspionaggio inglese. La stessa intelligence britannica, sempre secondo Gregoretti, avrebbe “sacrificato” Regeni, utilizzando killer egiziani, per creare un incidente diplomatico tra Italia ed Egitto in vista di un possibile intervento militare italiano in Libia. E Fulvio Grimaldi, ex giornalista Rai, segnala che l’Italia, tramite l’Eni, ha raggiunto un accordo strategico con l’Egitto per lo sfruttamento di un immenso giacimento di gas, nel Mediterraneo, in acque egiziane, fatto che ha sicuramente irritato e preoccupato gli inglesi).“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.
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Foa: visto? Anche i tedeschi, nel loro piccolo, s’incazzano
Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.I tedeschi chiedono una vera alternativa moderata e pretendono che si affrontino i veri problemi della società. Quali? L’immigrazione, innanzitutto. In Germania si conferma una verità che i progressisti e la maggior parte dei media si ostinano ad ignorare. L’immigrazione è fonte di ricchezza e non genera problemi quando i flussi sono regolati, quando l’integrazione è reale e quando non si formano comunità chiuse. Se invece diventa impetuosa, sregolata, massiccia, viene rifiutata perché vissuta come destabilizzante e, per l’ordine pubblico, pericolosa. E la propaganda “buonista”, alimentata anche dalla Cdu, responsabile di aver spalancato le frontiere sull’onda emotiva della foto del piccolo Aylan, non basta a convincere gli elettori. Risultato: milioni votano per Alternative für Deutschland, che vola al 13%. Ma non è solo l’immigrazione ad aver favorito la destra nazionalista. La Germania ha una bilancia commerciale record ma l’export non trascina l’economia interna, dove la disoccupazione è bassa ma a fronte di troppi posti di lavoro a stipendi ridicoli, i cosiddetti minijobs da 450 euro, con cui vengono pagati oltre 7 milioni di persone; un paese dove le tasse restano alte, dove i länder dell’Est continuano a languire.In teoria, alla luce dei risultati economici, il paese dovrebbe vivere un boom memorabile ma non è così, anche per l’effetto paralizzante dell’euro – che, come spiega da tempo Alberto Bagnai, impedisce la rivalutazione e la svalutazione delle monete nazionali e di conseguenza il più naturale fenomeno di compensazione fra economie forti e deboli. La Germania è sempre più ricca ma la sua ricchezza non si trasferisce alla società nel suo insieme. L’Afd ha saputo intercettare un malumore che fino ad oggi premiava i partiti di sinistra. Non è un caso che l’Spd sia crollata e che la Linke e i Verdi siano rimasti stabili. Così come non è un caso che il Partito liberale sia tornato in Parlamento, superando lo sbarramento del 5% e di gran carriera: raggiunge il 10,5%. Molti elettori della destra moderata, che credono nell’imprenditoria privata, che vogliono pagare meno tasse, hanno convogliato sull’Fpd i consensi riservati 4 anni fa alla Cdu di Angela Merkel, a conferma del forte desiderio di una vera alternativa. Sì, anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Con l’odioso Schulz e con la smunta Merkel, che rimarrà cancelliere, ma che dovrà faticare non poco per varare una nuova coalizione. Non fatevi ingannare dai titoli di queste ore sulla vittoria della Merkel. E’ arrivata prima questo sì, ma perdendo quasi un quarto del proprio elettorato. Che scoppola!(Marcello Foa, “Anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Vero Schulz? Vero Merkel, che in realtà crolla?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 14 settembre 2017).Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.