Archivio del Tag ‘Brasile’
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I barbari alle porte: anche Salvini tra gli ideologi pro-Tav
Hanno alzato bandiera bianca sui vaccini e poi sul gasdotto Tap nel Salento, deludendo i propri elettori a cui avevano promesso barricate. Per questo, i 5 Stelle ora sembrano intenzionati a “sacrificare” la grande opera più controversa della storia al pari del Ponte sullo Stretto: la linea Tav Torino-Lione, massimo emblema del lato oscuro del potere, quello che tratta i cittadini come sudditi. Faraonico, devastante e costosissimo, ma soprattutto scandalosamente inutile: il tracciato Tav transalpino, che trasformerebbe la valle di Susa in una wasteland inabitabile, resta un mistero della fede. In vent’anni, nessun governo è mai riuscito a dimostrarne l’utilità. Proprio questo aspetto rende la Torino-Lione un totem metafisico, il “Dio lo vuole” dei nuovi crociati, spesso mercenari, arruolati dall’imperativo teologico dello sviluppismo affaristico all’italiana. Tra i suoi hoolingan figurano gli immancabili Pd e Forza Italia, cui si aggiunge il disinvolto Salvini che, di fronte all’immane cataclisma del Brasile, con l’eroe nazionale Lula escluso dalle elezioni per via giudiziaria, non trova di meglio che cinguettare “finalmente la sinistra ha perso anche in Brasile”, reclamando lo scalpo dell’ex terrorista Cesare Battisti. E mentre festeggia la vittoria dell’ultraliberista e militarista Jair Bolsonaro, la Lega si prepara allo scontro con i 5 Stelle, aggrappati al “no alla Tav” fatto votare solennemente dalla città di Torino.I media alzano il volume, di fronte allo sconcertante evento simbolico consumatosi nel capoluogo subalpino guidato da Chiara Appendino: raccontano che il Piemonte, come nelle fiabe, sprofonderà nell’abisso. Non uno, tanto per cambiare, che sappia davvero descriverlo, l’abisso. «La Tav è un’opera strategica», piange il capogruppo leghista a Torino, Fabrizio Ricca. «Non vogliamo correre il rischio di vedere il nostro territorio tagliato fuori dalle tratte commerciali europee proprio ora che ne avrebbe più bisogno». La Torino-Lione strategica? Secondo l’autorità svizzeria incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti alpini, al contrario, la linea sarebbe un’opera-spazzatura: la ferrovia attuale Torino-Modane potrebbe aumentare del 900% il traffico, se solo esistessero queste famose merci tra trasportare. Sa di cosa parla, Luigi Ricca? E soprattutto: perché anche lui, come i suoi autorevoli colleghi e predecessori del Pd e di Forza Italia, non si premura di spiegare in che modo, la rinuncia alla linea-doppione, taglierebbe fuori il Piemonte dal mondo civile? «C’è un blocco ideologico», protesta l’ideologo degli industriali piemontesi, Dario Gallina: «Il Piemonte muore, se non si fa questa opera». Mille e non più mille: sta arrivando l’Armageddon, scatenato dall’ex steward dello stadio napoletano Luigi Di Maio.Di ideologia parla un altro eminente ideologo piemontese, il presidente della Camera di Commercio torinese Vincenzo Ilotte, insieme ai portavoce degli artigiani e dei sindacati. «È disarmante – singhiozzano – avere interlocutori che antepongono l’ideologia all’interesse del territorio». Che brutta, ideologia altrui. Che orrore. «Non vogliamo tornare al medioevo», chiosa il medievalista Claudio Chiarle, della Fim-Cisl. Giorgio Marsiaj, industriale dell’Amma, è altrettanto categoricamente millenaristico: parla di «decisione gravissima» che rischia di essere «letale» per Torino e di far sprofondare la città «in un burrone». Non uno degli ipotetici “vedovi” della Torino-Lione, neppure stavolta, si perita di dare spiegazioni, citare numeri, esibire proiezioni – salvo, naturalmente, tentare di liquidare come “ideologica” la posizione NoTav che oggi i 5 Stelle sembrano sposare. La Torino-Lione resta un banco di prova, innanzitutto, per la democrazia italiana: si vorrebbe finanziare una maxi-opera miliardaria ad altissimo impatto, fortemente contestata (e “smontata”, dati alla mano dagli oppositori) senza la minima preoccupazione di illustrare almeno, alla popolazione, la sua eventuale utilità. Senza spiegazioni, il Tav valsusino resta un capolavoro ideologico neoliberista nel senso tharchriano: There Is No Alternative, prendere o lasciare. Alla faccia del mitico populismo sovranista del signor Salvini.Hanno alzato bandiera bianca sui vaccini e poi sul gasdotto Tap nel Salento, deludendo i propri elettori a cui avevano promesso barricate. Per questo, i 5 Stelle ora sembrano intenzionati a “sacrificare” la grande opera più controversa della storia al pari del Ponte sullo Stretto: la linea Tav Torino-Lione, massimo emblema del lato oscuro del potere, quello che tratta i cittadini come sudditi. Faraonico, devastante e costosissimo, ma soprattutto scandalosamente inutile: il tracciato Tav transalpino, che trasformerebbe la valle di Susa in una wasteland inabitabile, resta un mistero della fede. In vent’anni, nessun governo è mai riuscito a dimostrarne l’utilità. Proprio questo aspetto rende la Torino-Lione un totem metafisico, il “Dio lo vuole” dei nuovi crociati, spesso mercenari, arruolati dall’imperativo teologico dello sviluppismo affaristico all’italiana. Tra i suoi hoolingan figurano gli immancabili Pd e Forza Italia, cui si aggiunge il disinvolto Salvini che, di fronte all’immane cataclisma del Brasile, con l’eroe nazionale Lula escluso dalle elezioni per via giudiziaria, non trova di meglio che cinguettare “finalmente la sinistra ha perso anche in Brasile”, reclamando lo scalpo dell’ex terrorista Cesare Battisti. E mentre festeggia la vittoria dell’ultraliberista e militarista Jair Bolsonaro, la Lega si prepara allo scontro con i 5 Stelle, aggrappati al “no alla Tav” fatto votare solennemente dalla città di Torino.
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Akakor, Amazzonia: l’impero segreto dei Figli delle Stelle
Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.La sua avventura inizia nel 1972, nell’ex capitale del caucciù alla confluenza tra l’Amazonas e il Rio Negro. Dopo tante esplorazioni tra gli indios, Brugger fa l’incontro che gli cambierà la vita: entra in contatto con Tatunca Nara, che si considera l’ultimo capo degli Ugha Mongulala, misteriosa Tribù degli Alleati Eletti. Da lui proviene un racconto straordinario, tratto direttamente dai “libri sacri” che costituiscono la cronistoria di un regno scomparso, Akakor. La “Cronaca di Akakor” racconta Dino Vitagliano sul blog “Acam”, ripreso da “La Crepa nel Muro”, si compone di vari testi: “Il Libro del Giaguaro”, “Il Libro dell’Aquila”, “Il Libro della Formica” e “Il Libro del Serpente d’Acqua”. C’è scritto che gli Alleati Eletti, provenienti dal cielo, «con infinito amore donarono agli indios il lume della civiltà e gettarono le basi di un impero vastissimo». Il reame comprendeva «Akakor, l’imprendibile fortezza di pietra nella vallata sui monti al confine tra Perù e Brasile», ma anche «Akanis in Messico e Akahim in Venezuela», senza contare «le grandiose città di Humbaya e Patite in Bolivia, Cadira, Emin sul Grande Fiume e maestosi luoghi sacri: Salazare, Tiahuanaco e Manoa sull’altopiano a sud». L’antropologo Samir Osmanagich, scopritore delle Piramidi di Visoko in Bosnia datate 28.000 anni, avverte: l’Amazzonia e l’America Centrale ospitano migliaia di antichissime piramidi, sepolte dalla vegetazione: costruite da chi?La disposizione delle piramidi, incluse quelle egizie – aggiunge Osmanagich – riproduce sempre il sistema stellare di qualche precisa costellazione. E’ il caso delle 13 “città invisibili” di Akakor, costruite nel sottosuolo per sfuggire alla vista degli intrusi: «La loro pianta riproduce fedelmente Schwerta, la dimora cosmica degli Antichi Padri». Secondo il racconto della “Cronaca di Akakor”, di sapore mitologico, «una luce innaturale» illumina le città dall’interno, mentre un ingegnoso complesso di canalizzazioni assicura l’afflusso di aria e acqua anche in profondità. Nella narrazione poi compaiono numeri precisi, per raccontare l’improvvisa scomparsa dei “padri celesti”: «Il potente dominio, che contava sotto di sé 362 milioni di individui, durò 3.000 anni». Poi, nell’Ora Zero – identificata nel 10.481 avanti Cristo – gli Antichi Padri «ripresero la via del cielo», sia pure «con la promessa di ritornare». Un viavai astronautico, che ricorda quello che Mauro Biglino ricava direttamente dalla rilettura letterale, in ebraico, dell’Antico Testamento (solitamente tradotto con un’infedeltà clamorosa, capace di trasformare in “gloria” l’inesplicabile “Khavod” con cui, si legge, l’Eohim chiamato Yahvè era solito volare, come su un’astronave capace di varcare le “porte del cielo” che conducono “le olàm”, nello spazio sconosciuto).La partenza dei Figli delle Stelle dall’Amazzonia, prosegue la sintesi offerta da Vitagliano, fu decisamente traumatica: «La Terra parve piangere la loro scomparsa e, 13 anni dopo, un’immane catastrofe si abbattè sul pianeta e sconvolse il suo aspetto, seminando ovunque morte e desolazione». Sapevano, gli “dei” precipitosamente partiti, che cosa sarebbe successo al nostro pianeta? Al che, gli uomini «persero la fede» in quelli che avevano cominciato a considerare “dèi”. La società umana degenerò, e gli individui presero a commettere «azioni crudeli», pessima abitudine protrattasi «nei millenni a venire». Ma non è tutto: «Seguì un seconda catastrofe: una stella gigantesca dalla coda rossa impattò la Terra, provocando un immane diluvio», altro “topos” narrativo citato in tutte le letterature antiche. Secondo le parole di quelli che, nel frattempo, erano diventati sacerdoti, «quando la disperazione avesse raggiunto il culmine, i Primi Maestri sarebbero tornati». Circa 6.000 anni dopo, infatti – nel 3.166 avanti Cristo – ricomparvero le “navi d’oro”. Un nuovo ciclo di regalità “illuminata”: «Lhasa, il Sublime, regnò ad Akakor». E attenzione: «Suo fratello Samon volò sul Nilo per fondare un secondo impero». In più, il nuovo potere egizio «approdava regolarmente in terra sudamericana», sempre «a bordo di immense navi».A che punto era, nel resto del mondo, la civiltà umana attorno al 3000 avanti Cristo? A Creta stava per nascere la cultura minoica, sulla sponda orientale del Mediterraneo sorgeva il villaggio da cui sarebbe nata Troia, mentre sul Nilo regnava la primissima dinastia di faraoni. Più avanzata la civiltà dei Sumeri in Mesopotamia, con importanti città come Ur e Uruk, mentre in Siria si stagliavano le mura di Aleppo. Grandi movimenti da oriente verso occidente: la Cina già molto sviluppata, i contatti con l’Iran, i primi stanziamenti indoeuropei in Ucraina e l’agricoltura che si affaccia sul Baltico, mentre in Inghilterra sorgono le prime tracce di Stonehenge. Legami con l’Amazzonia? Reperti di varia natura scoperti dagli archeologi confermano la presenza egiziana in Sudamerica, come la Roccia delle Scritture che l’antropologo statunitense George Hunt Williamson rinvenne sulle Ande nel 1957, istoriata da geroglifici simili a quelli egizi, venerata dai nativi e collegata alla discesa di antenati spaziali che dimoravano nel “Gran Paititi”. Fili non proprio invisibili, che collegano continenti lontani, fino al mitico impero delle Amazzoni.«Il principe di Akakor – prosegue la “Cronaca” del regno amazzonico – governò con saggezza riorganizzando l’impero distrutto ed eresse nuove città come Manu, Samoa e Kin in Bolivia, e Machu Picchu in Perù. Trecento anni rimase sulla Terra, finchè un giorno si diresse sulla Montagna della Luna, sopra le Ande, e disparve nel cielo in un fuoco». Partenza che riecheggia quella di Quetzalcoatl, misterioso personaggio messicano poi venerato come “divinità”. Millenni di guerre contro le tribù nemiche – aggiunge Vitagliano – videro Akakor cadere e risorgere più volte, stringendo anche alleanze con «stirpi straniere giunte da lontano». Attenzione: le tradizioni degli Ugha Mongulala parlano di «popolazioni bianche, come i Goti che visitarono le loro terre». Nientemeno: sarebbero gli antenati degli stessi Goti che, con Alarico, avrebbero tentato di ripristinare la perduta “regalità iniziatica” resuscitando quel che restava dell’Impero Romano.Ancora una volta, sottolineano i blog “Acam” e “La Crepa nel Muro”, questa citazione si rivela una notevole conferma delle antiche cronache medievali, nelle quali «navi vichinghe partite all’esplorazione di mondi lontani, dopo un naufragio, approdarono sulle coste del Sudamerica». Nella Sierra di Yvytyruzu, in Paraguay, l’archeologo franco-argentino Jacques de Mahieu negli anni ‘70 scoprì un masso istoriato di caratteri runici e disegni dei Drakkar, le navi nordiche, con anche un uomo barbuto protetto da un’armatura. «Le attuali popolazioni di quei territori possiedono la pelle bianca, un torace sviluppato e la barba». Ma un evento ancor più strano, «preconizzato nelle antiche scritture degli Antenati Divini», è l’arrivo ad Akakor di 2.000 soldati tedeschi: militari del Terzo Reich, che aiutarono gli indios ad armarsi contro i “barbari bianchi” (ma senza successo, perché la Germania stava ormai perdendo la Seconda Guerra Mondiale). «I nativi ricordano lo stemma cucito sulla giacche delle truppe, identico ai covoni di grano in foggia di svastica, che rotolavano dalle colline durante cerimonie sacre nel solstizio d’estate».Lo stesso Hitler era ossessionato a tal punto dalle tradizioni esoteriche da abbracciare le idee della società segreta Thule, che prendeva il nome di un vasto territorio esteso dal Mar del Gobi al Polo Nord, abitato dalla “civiltà degli Iperborei”, considerata custode di antiche conoscenze perdute. L’esistenza di una “razza antichissima” che viveva in cavità sotterranee in Amazzonia stimolò la sua curiosità, spingendo il capo del nazismo a inviare numerose spedizioni in tutto il globo per accertare la veridicità dei suoi studi occulti. In questo caso il contingente tedesco “atteso” dagli indios salpò da Marsiglia, a bordo di un sommergibile, per una missione segretissima: tentare di prendere contatto con la mitica Tribù degli Alleati Eletti, quella che – decenni dopo – Karl Brugger avrebbe intercettato, incontrando Tatunca Nara (cioè la fonte principale della leggendaria “Cronaca di Akakor”). Sempre secondo Dino Vitagliano, non fu casuale la scelta, da parte dei nazisti, di partire dal porto mediterraneo: «Un resoconto di viaggio del navigatore greco Pitea di Massalia, nel IV sec a.C., il “De Oceano”, narra la partenza da Massalia, l’antica Marsiglia, per giungere alla mitica Thule ubicata nei ghiacci remoti nel lontano Nord. Molto probabilmente la città francese custodisce segreti esoterici noti ai nazisti da lungo tempo».Sempre secondo la “Cronaca”, il Tempio del Sole di Akakor, vigilato da guardie armate, custodisce mappe segrete, vergate dagli Antichi Padri: mostrano il cosmo com’era millenni prima, con altre Lune, un’isola perduta ad Ovest e una terra in mezzo all’Oceano, «inghiottite dai flutti nel corso di un’epica battaglia stellare», combattuta tra due progenie di “dèi”, le cui conseguenze «investirono persino i pianeti Marte e Venere». A un certo punto, in questa favolosa cosmogonia, compare l’umanità: «I Signori del Cielo portarono l’uomo da un pianeta all’altro, fino a giungere sulla Terra». Già l’austriaco Hanns Hoerbiger, teorico nazista, aveva postulato l’esistenza di varie Lune nelle ère perdute della Terra. Poi c’è un’allusione diretta ai Vimana, le “astronavi” dei Deva (i paleo-astronauti indiani di cui si parla nei Veda, poi trasformati in “divinità” con la nascita dell’Induismo): le mappe di Akakor, citate da Brugger, si ricollegano alla carta astronomica del 4.000 avanti Cristo, appartenuta al compianto ricercatore britannico David Davenport sulle rotte dei Vimana verso il nostro pianeta, provenienti da sistemi stellari lontanissimi. Amazzonia, India, Palestina: è come se venisse raccontata sempre la stessa storia, sia pure in lingue diverse. Qualcuno sarebbe giunto sulla Terra dallo spazio profondo, dando origine all’uomo.Nella foresta pluviale amazzonica, questa “conoscenza” sarebbe stata preservata secondo precise modalità: «Fedeli ai desideri dei Primi Maestri, i sacerdoti raccolsero tutto il sapere e la storia della Tribù Eletta in libri custoditi in una sala scolpita nella roccia all’interno delle dimore sotterranee. Nello stesso luogo gli enigmatici disegni dei Padri Divini sono incisi in verde e azzurro su di un materiale sconosciuto. Disegni che né l’acqua né il fuoco riescono a distruggere». Sempre nel Tempio del Sole, «nei sotterranei giacciono anche armi simili a quelle dei tedeschi appartenute agli “dèi”, l’astronave di Lhasa, un cilindro di metallo ignoto che volava senz’ali, e un veicolo anfibio che attraversava le montagne». Tatunca Nara raccontò a Karl Brugger di aver visto con i suoi occhi «una sala rischiarata da una luminosità azzurrina che mostrava in animazione sospesa quattro persone, tra cui una donna, con sei dita alle mani e ai piedi, entro contenitori di cristallo pieni di liquido». Fervida fantasia fantascientifica – decisamente fuori luogo, in un indio amazzonico degli anni ‘70 – o testimonianza semplicemente sconcertante, così come l’intera storia del regno sotterraneo di Akakor fondato dai Padri Celesti?Il ricercatore italiano Antonio Filangieri verificò le credenziali di Karl Brugger tramite il fratello, Benno, incontrato a Monaco. Benno Brugger rivelò a Filangieri che, dopo l’improvvisa morte di Karl, «colpito in circostanze misteriose da una pallottola nel 1984», il consolato tedesco aveva perquisito l’appartamento di Karl a Rio de Janeiro, confiscando tutta la documentazione relativa alla spedizione di Akakor. «In seguito, le casse con gli incartamenti furono oggetto di diversi tentativi di furto». Di punto in bianco, il console tedesco di Rio venne trasferito in Costa d’Avorio, con i documenti al seguito. Parte del materiale, infine, scomparve non appena giunse in Germania, dov’era arrivato su richiesta di Benno Brugger. Ma non tutto era perduto: «Quando Tatunca Nara avviò delle trattative con alti ufficiali bianchi per fermare lo sterminio indiscriminato degli indios, che prosegue tuttora indisturbato da parte delle autorità, ebbe modo di affidare alcuni scritti degli “dèi” a un vescovo cattolico». Si tratta di monsignor Giocondo Grotti. Dopo aver spedito i documenti in Vaticano, il prelato morì in uno strano incidente aereo, il 28 settembre 1971, durante il decollo dalla pista amazzonica di Sena Madureira, nello Stato dell’Acre, alla frontiera brasiliana con il Perù. Disgustato dai “barbari” bianchi, Tatunca Nara si dichiara orgoglioso delle sue origini: «Noi siamo uomini liberi, del Sole e della Luce. Non vogliamo gravare il nostro cuore del peso della loro fede errata e bugiarda».Con pazienza, conclude Vitagliano, il vecchio Tatunca Nara attende il ritorno degli “dèi”. O forse le “divinità”, tuttora nascoste negli impenetrabili recessi di Akakor, «attendono con pazienza che gli uomini tornino a loro stessi». In ogni caso, aggiunge il ricercatore su “Acam”, il Terzo Reich non fu il solo a interessarsi al mitico regno amazzonico. L’antica civiltà scomparsa, le cui colossali rovine sarebbero sepolte sotto le foreste del Sudamerica, è stato il sogno di numerosi avventurieri nel corso delle varie epoche. Già nel 1530 l’ufficiale di Pizarro, Francisco Orellana, favoleggiava di un reame pieno d’oro tra il Rio delle Amazzoni e il fiume Orinoco. La Chiesa ne sa qualcosa: «I gesuiti sono in possesso di antichi scritti di viaggio relativi a un’antica popolazione che dimora in una città maestosa nella giungla brasiliana». Un gruppo di sette uomini, guidato dal geografo americano Hamilton Rice, nel 1925 si spinse nella Sierra Parima, tra Venezuela e Brasile, alla scoperta di Ma-Noa, la capitale del leggendario El Dorado. Curiosamente, annota Vitagliano, il nome ricorda Manu, una delle 13 città costruite da Lhasa, detto il Sublime, che avrebbe regnato su Akakor 3.000 anni prima di Cristo.La documentazione più importante riguardo l’esistenza di scomparse civilizzazioni antecedenti a quelle conosciute – aggiunge sempre Vitagliano – proviene del colonnello britannico Percy Harrison Fawcett, cartografo della National Geographic Society. «In Sudamerica si dedicò alla consultazione del Manoscritto dei Bandeirantes, della prima metà del 1700», ora custodito al Museo dell’Indio a Rio de Janeiro. Il testo descrive l’esplorazione delle foreste amazzoniche da parte di un gruppo di venti uomini, e la loro clamorosa scoperta: una metropoli di pietra, ormai deserta, protetta da mura ciclopiche. Organizzata una spedizione del 1925 in Mato Grosso, Fawcett «si inoltrò con il figlio Jack lungo il Rio Araguaia, entrando in contatto con varie tribù di indios che conservavano nelle loro tradizioni il ricordo di una provenienza stellare». Proprio quando sembrava aver raggiunto «le vestigia di remote città illuminate da luci fredde», il cartografo inglese «scomparve misteriosamente, in estate, nell’alto Rio Xingu». Nel 1946 è la volta del connazionale Leonard Clark, che in un resoconto di viaggio (“I fiumi scendevano a Oriente”, edito nel 2000 da Tea), narra il ritrovamento di sei delle sette città dell’El Dorado nelle Ande Peruviane.Undici anni dopo, stimolato dai racconti del colonnello Fawcett, Antonio Filangieri ricalcò lo stesso itinerario e constatatò che molti luoghi collimavano. «Partì per un secondo viaggio, in modo da verificarne le scoperte archeologiche e raccogliere informazioni sulla sua scomparsa». Viaggio da cui però dovette desistere, come egli stesso riferisce, «per drammatici eventi sopraggiunti». Poco dopo, nel 1975, l’archeologo brasiliano Roldao Pires Brandao individuò una montagna tra il Brasile e il Venezuela, il Pico De La Neblina, attorno a cui – quattro anni dopo – scoprì tre piramidi di 150 metri, accanto a un complesso urbano nascosto dalla foresta. Ma la ricerca non è finita, aggiunge Vitagliano: ai giorni nostri, il ricercatore Marco Zagni si è assunto il compito di svelare l’esistenza di scomparse civiltà pre-incaiche. Zagni ha organizzato una spedizione in Perù, nelle zone di Pantiacolla, del fiume Pini Pini e di Pusharo, basandosi sulle testimonianze di una spedizione francese smarritasi nel 1979: in quella regione esisterebbero «indios di due metri», che vivono in mezzo a «strane formazioni piramidali, fotografate dal satellite LandSat», in un’area attraversata da una fitta rete di cavità sotterraneee, chiamate Soccabones. Ultime tracce del mitico Akakor?Anche gli archeologi, conclude Vitagliano, ormai sono propensi a riconoscere che – tra il 6.000 e il 4.000 avanti Cristo – sia fiorita una civiltà amazzonica, quella dei Mogulalas, formata da numerose città-Stato. Un dominio estremamente vasto, che si estendeva dal Venezuela alle Ande Peruviane. «Una conferma esoterica giunge anche dal libro di Leo e Viola Goldman, “I Misteri del Tempio” (Edizioni Synthesis, 1998)», che descrive «il cammino iniziatico di una donna nella città nascosta di Ibez, all’interno della montagna sacra del Roncador in Mato Grosso». Una montagna popolata da Maestri Divini che, «scampati alla distruzione di Atlantide con i Vimana», cioè le loro potenti astronavi, crearono le civiltà degli Inca, dei Maya e degli Atzechi. Una storia affascinante, ma costellata da troppe strane morti: non porta fortuna, a quanto pare, inoltrarsi in Amazzonia alla ricerca degli Splendenti, i Padri Celesti come Lhasa il Sublime. Chi erano, dunque, gli esseri “superiori” che, secondo Tatunca Nara (e il suo interlocutore tedesco, Karl Brugger, ucciso misteriosamente) avrebbero addirittura “importato” la vita sul pianeta Terra, trasportandola sin qui da pianeti sconosciuti, fino a dare origine alla stessa presenza dell’uomo?Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.
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Salvini con Bannon e Orban? Big Business resusciterà il Pd
Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.Oltretutto, è già stato ampiamente previsto che proprio l’odierna crisi degli “emergenti” già cova in sé l’usuale rimbalzo sia speculativo che in termini di produzione, con profitti cosmici per gli investitori. Il punto: gli uomini con le scarpe da 5.000 dollari che stanno a Manhattan, Hong Kong, Davos o a Francoforte sanno fare i loro conti coi soldi, e oggi, al contrario di solo pochi anni fa, non si possono più permettere di ‘offendere’ quelli neri, marron o gialli. L’accusa, o anche solamente il sospetto, di simpatie o contiguità con la parola razzismo è fra le ultime cose che vogliono al mondo. Basta un titolo sul “Wall Street Journal” che insinui quella vicinanza e loro ci smenano miliardi in pochi minuti. No, non deve succedere. L’implacabile sobillare del padano nella direzione dell’ipertrofico allarme migranti ha appiccicato a questo governo una colossale etichetta di razzismo-xenofobia populista agli occhi di tutto il mondo, e ora non ce la leva più nessuno. Unite i puntini e starete capendo cosa accadrà.L’Italia è un paese ancora ricco, con un notevolissimo bottino in assets privati, che ispira grandi appetiti fra gli investitori internazionali. Si pensi solo che Assogestioni, che ha il polso del risparmio delle famiglie italiane, ha registrato a metà 2016 il suo record storico di patrimonio con 1.857 miliardi, più dell’intero Pil nazionale. E’ quindi ovvio che i mercati non rinunceranno a operare in Italia. Ma fosse stato solo per gli sbraiti nazionali a tinteggiature razziste populiste di Matteo Salvini, e delle sue folle nelle piazze o sui social, è anche possibile pensare che gli investitori internazionali avrebbero solo esercitato prudenza, con Roma. In altre parole: far affari, ma con un basso profilo. Invece, come detto, tutto è cambiato per il peggio e senza rimedio dopo che Salvini si è associato inequivocabilmente, platealmente e sbracando del tutto con Steve Bannon e Viktor Orban. Un atto politico irresponsabile per il paese.I mercati pianificano il loro futuro in politica non a 8 stupidi mesi (le europee) come fa l’esaltato fan-club leghista, ma a 10 o 30 anni. Ora gli investitori internazionali, dopo l’irrimediabile svolta di cui sopra e, ricordo ancora, con ¾ di occhio puntato a tenersi buoni i mercati emergenti dei ‘neri, marron e gialli’, stanno scegliendo l’unico loro possibile interlocutore rimastogli in Italia, quello che non rischia di finire sul “Wall Steet Journal” o su “Bloomberg” come razzista populista: il centrosinistra, che peraltro fu sempre il loro favorito. Il Movimento 5 Stelle è per il momento fuori dai loro radar, perché incatenato (e sottomesso risibilmente) alla Lega. A cosa credete che stiano lavorando in quest’epoca i Romano Prodi, Mario Monti, Corrado Passera o i Giovanni Bazoli, e naturalmente Mattarella e Draghi con la loro enorme rete di contatti in finanza e nelle Powerhouse del mondo? Per essere ancor più chiari: Big Business non potrà sposarsi con un trionfo a breve termine (2019) dei razzisti Bannon, Orban, Salvini e codazzo in Ue. Starà calmo in superficie, mentre finanzierà sia la rapida caduta dei populisti che il ritorno dei soliti noti. Ancora dettagli.La storia delle spinte ai partiti da parte della lobbistica e dei mercati, con finanziamenti, appoggi trasversali, lavori di persuasione mediatica, scolastica, accademica, e in particolare di terrorismo economico sugli elettori, l’ho lungamente descritta nella parte storica de “Il Più Grande Crimine”. Ne sarà beneficiario nei prossimi 5-10 anni il centrosinistra, e tornerà a vincere. Basterebbero a questo fine anche solo le aste dei titoli con cui si finanzia il nostro Tesoro, perché sono loro a decidere chi governa o meno, e dunque se tu avrai una vita decente o invece una lunga miseria di fatiche. Quelle aste, di nuovo, le hanno totalmente in mano gli investitori internazionali di cui sopra, perché l’Italia, anche con Salvini e i suoi economisti in malafede, è incastonata nell’Eurozona senza che nessuno seriamente intenda togliervela. E’ desolante nella sua stupidità l’elettorato gradasso tinto di verde nella sua convinzione che nessuno più fermerà il populismo. Balle, loro stessi (e per primi) si squaglieranno al sole quando gli stolti populismi europei mancheranno miseramente di ‘consegnargli il concreto’ nei portafogli.Avete presente i proverbiali topi che saltano dalla nave? Saranno nulla in confronto. Sappiamo bene di cosa è capace l’italiano medio nel suo genio supremo, il trasformismo. Ho descritto quella che sarà una catastrofe a tutto tondo, e per essa dovrete solo ringraziare Matteo Salvini nella sua smisurata e miope ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia. Ma non è tutto. Ci sono i Faang. Sono ahimè pochissimi gli italiani che assieme a me si stanno rendendo conto che qualcosa di ancor più inaudito sta avvenendo alle spalle delle già epocali manovre post-capitalismo sopra descritte. Please welcome i Faang, cioè la dilagante conquista di ogni frammento di globo da parte delle tecnologie di Facebook (F), Apple (A), Amazon (A), Netflix (N), e Google (G) – ma non ci si dimentichi di Alibaba, Tencent, Huawei, dall’altra parte del pianeta, e di migliaia di altri simili al seguito in ogni dove.Come ho già scritto in due anni di lavoro, i colossi “tech” vanno man mano acquisendo niente meno che le chiavi private della vita sul pianeta in ogni campo, dalla finanza alla medicina alle comunicazioni; dai trasporti civili e commerciali all’energia alle materie prime; dagli alloggi alla difesa al cibo stesso, e si potrebbe continuare all’infinito. Possono farlo perché sono loro, e non più il vecchio capitalismo industriale, a brevettare quasi tutto ciò che di nuovo nasce sulla Terra da almeno 20 anni a questa parte. Ma di più: il loro strapotere è balzato oltre l’atmosfera con il dilagare della loro Artificial Intelligence (Machine Learning in particolare), perché, come epicamente detto dal fondatore di Google-DeepMind Demis Hassabis, «noi vogliamo padroneggiare l’intelligenza, e poi risolvere tutto il resto». Questo fu geniale, perché davvero è solo l’intelligenza il motore dell’umanità, e chi la controllerà con le “tech” controllerà il mondo. Ma anche senza esplorare nei dettagli l’inimmaginabile nuovo potere dei Faang e soci, chiunque oggi non viva nelle catacombe vede ogni giorno come la società e l’economia di ogni centimetro quadrato della Terra stiano vestendosi sempre più di Faang.E rieccoci al punto: per motivi che ho per primo divulgato al pubblico, i nuovi padroni “tech” del pianeta stanno correndo forsennatamente verso posizioni etiche sempre più avanzate, che piazzano in primo piano in ogni loro pubblica mossa, ricerca di laboratorio e prodotto. Fa parte del Dna della loro strategia di vendita globale. Occorrerebbe un saggio enorme per dare conto con esempi di questo, ma dovrebbe essere evidente a chiunque segua anche solo distrattamente il dibattito sulle “tech”. Dunque se la parola “Ethics” è spalmata dappertutto fra i padroni del futuro, le parole “Racism” e la consociata “Populism” sono per essi letteralmente virus di peste bubbonica, e anche solo sfiorassero l’immagine aziendale di questi colossi gli farebbero perdere tali volumi d’affari da impietrire i loro Ad. Riapplicate su Faang e soci quanto già detto sopra nel caso degli investitori internazionali, e ci risiamo: con un Salvini al governo che ora puzza internazionalmente del razzismo populista di Bannon-Orban, i padroni delle chiavi orivate della vita sul pianeta in ogni campo sterzeranno molto alla larga dalla Roma gialloverde, e indovinate su chi punteranno? Vi rendete conto di che razza di spinta politica si tratta? Più che spinta, è una certezza.Concludo riprendendo il testimone da qui: il populismo italiano, prima di Salvini e dei suoi inguardabili compari, aveva il potenziale di svilupparsi in una nuova frontiera della difesa dei nostri diritti costituzionali macellati dalla Ue, alla luce del disgustoso tradimento della sinistra politically correct. Ora è un’etichetta marcia, inavvicinabile e senza futuro. La colpa è ben ferma sulle spalle di Matteo Salvini, “nella sua smisurata ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia”. Mercati e Faang sono ora costretti a riportarci il Peggior (P) Destino (D) possibile, nella camera a gas chiamata Eurozona. Agli esagitati stupidi che “il trionfo sarà fra 8 mesi” (le europee), ricordo ancora che oggi il loro futuro è pianificato a 10 o 30 anni a partire da questo minuto da chi gli finanzia il 100% dell’ossigeno di cui vivono. E con quest’arma in mano, quelli difficilmente perdono. Che il volere del popolo sia infermabile è la più sonora balla mai raccontata ai popoli. Da chi? Dai populisti alla Salvini.(Paolo Barnard, estratto dal post “Salvini ha sbracato e ci riporterà il Pd, ecco come”, pubblicato sul blog di Barnard il 26 settembre 2018).Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.
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La Cina sa che persino la corruzione fa volare l’economia
La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.La questione centrale non è se la Cina possa continuare a trasgredire o confondere le norme, semmai quanto gli è richiesto di farlo. E ciò, come sempre, dipende dal fatto che il governo cinese possa trovare un equilibrio tra l’intervento statale e le forze di mercato. Il potere autoritario centralizzato ha i suoi pregi, inclusa la capacità – per gli imprenditori che lo “subiscono” – di costringerli a correggere rapidamente la rotta. Ciò ha permesso ai leader cinesi di mettere l’economia su un binario di crescita più sostenibile negli ultimi anni. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo è rimbalzato lo scorso anno. I salari sono aumentati. La recente abolizione dei limiti di mandato per i termini della carica di presidente e vicepresidente fornisce al presidente Xi Jinping più tempo e margine per promuovere la sua visione di una Cina prospera, moderna e potente, e con l’aiuto di consulenti fidati: il suo ex zar della corruzione, Wang Qishan, dovrebbe essere nominato vice-presidente e Liu He, vice-capo responsabile dell’economia.Gli scettici sul futuro della Cina di solito indicano il debito in crescita nel paese. In verità si tratta di un aumento abbastanza nella media: superiore a quello della maggior parte delle economie dei mercati emergenti, ma inferiore a quello della maggior parte dei paesi ad alto reddito. Onere al debito della Cina: nella media ma in decisa impennata… Il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia sul fatto che altre economie che hanno registrato rapporti di indebitamento così rapidamente in aumento – il Brasile e la Corea del Sud qualche decennio fa, e diversi paesi europei più recentemente – alla fine hanno ceduto a una crisi finanziaria. Perché la Cina dovrebbe essere diversa? Una ragione è che non tutto il debito è stato creato uguale. Come alcuni ottimisti osservano, il debito della Cina è pubblico, non privato, il che significa che i rischi sono in gran parte sostenuti dallo Stato. Il prestito viene in gran parte dall’interno, piuttosto che dall’esterno. E nonostante l’aumento dei mutui, le famiglie cinesi hanno un peso del debito complessivo basso rispetto alle loro controparti in giro per il mondo. Nonostante tutta la sua crescita inebriante, il sistema finanziario cinese rimane relativamente semplice, senza l’incubo della cartolarizzazione esotica che ha fatto crollare l’economia americana un decennio fa.Anche il rapporto debito/Pil della Cina – che sembra così preoccupante – è spesso frainteso. Le banche cinesi non servono più solo gli attori statali; ora servono anche il settore privato, in particolare dopo la privatizzazione delle abitazioni di proprietà pubblica alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 ed hanno creato un ampio mercato immobiliare commerciale. La rapida crescita del credito riflette in gran parte una crescita della finanza, piuttosto che una bolla immobiliare. Secondo i miei calcoli, i prezzi delle proprietà in Cina sono aumentati di sei volte dal 2004. Tuttavia, le transazioni immobiliari non sono incluse nelle valutazioni del prodotto interno lordo. Si dice che la corruzione impedisca la crescita inibendo gli investimenti. Non così in Cina, dove lo Stato controlla le maggiori risorse, come i terreni e l’energia, eppure genera rendimenti più bassi su tali attività di quanto non faccia il settore privato. Privatizzare quelle risorse è stato un inizio di vita sotto il comunismo, e così la corruzione è servita come opportunità di fare successo, consentendo a più attori privati di utilizzare risorse statali dopo aver stretto accordi con i funzionari. Poiché le pratiche di questi attori sono state redditizie, l’economia ne ha tratto beneficio in generale.Alcuni osservatori cinesi temono anche che la rapida crescita della Cina non possa essere sostenuta a meno che il consumo non sostituisca gli investimenti come principale motore dell’economia (il governo cinese sembra d’accordo, o almeno lo afferma.) Sottolineano che mentre gli investimenti rappresentano una quota insolitamente elevata del prodotto interno lordo, il consumo rappresenta una quota insolitamente bassa. Ma dire questo è fraintendere la natura della crescita squilibrata della Cina. La causa principale di questo squilibrio è l’urbanizzazione. Negli ultimi quattro decenni il rapporto di urbanizzazione della Cina è aumentato da meno del 20% a quasi il 60%. Nel processo, i lavoratori delle attività rurali ad alta intensità di lavoro sono passati a lavori industriali ad alta intensità di capitale nelle città. E così, una quota sempre maggiore del reddito nazionale è andata in investimenti. Ma anche i profitti delle imprese sono aumentati, portando a salari più alti, che hanno stimolato i consumi. Il consumo è cresciuto molto più velocemente in Cina che in qualsiasi altra grande economia.(Massimo Bordin, “La corruzione non ha fatto per niente male all’economia cinese”, dal blog “Micidial” del 14 marzo 2018).La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.
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Le foibe che ingoiano la verità: l’Italia sterminò gli jugoslavi
Ci sono foibe dove, ancora oggi, sparisce la verità: inghiottita dalla propaganda. Se il comunismo è morto, perché l’anticomunismo scoppia di salute? Forse per seppellire (nelle nuove foibe mediatiche) la memoria dell’antifascismo storico, inteso come impegno a lottare contro un sistema ingiusto e dispotico. Traduzione: il potere ha sempre ragione, e chi lo contesta è un delinquente. E’ la tesi di Angelo d’Orsi, impegnato con altri studiosi in un convegno a Torino. Gli storici hanno protestato formalmente con Mattarella per la dichiarazione rilasciata in occasione del 10 febbraio, “Giorno del Ricordo” dedicato alle vittime delle feroci rappresaglie, contro gli italiani, attuate alla fine della Seconda Guerra Mondiale dai partigiani di Tito nella Jugoslavia che prima era stata sottoposta alla feroce occupazione dell’esercito fascista (di cui nessuno parla). «Quella delle “foibe” è una vera e propria operazione politico-culturale, che ha contribuito a creare o consolidare un senso comune anticomunista, e anti-antifascista, volto a favorire una memoria contraffatta», afferma d’Orsi insieme ai colleghi Andrea Martocchia, Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Sandi Volk e Davide Conti. «La menzogna viene propalata, ripetuta, ribadita, fino a che diventa senso comune».«I telegiornali, i talk show, i “programmi di approfondimento”, i docufilm, le pseudomemorie di pseudoreduci o pseudoesiliati, stanno realizzando una sorta di cortina fumogena, dietro la quale si erge come un totem (e insieme un tabù), “la foiba”: una sorta di gigantesco monumento alla menzogna», scrive d’Orsi su “Micromega”. Il bilancio storico degli eccidi è tuttora incerto: secondo Wikipedia oscilla tra le 5.000 e le 11.000 vittime. Dal ‘43 al ‘45, negli inghiottitoi carsici finirono fascisti e italiani comuni, anche non aderenti al regime. Sempre Wikipedia riassume sotto la voce “crimini di guerra italiani” l’occupazione fascista di Slovenia e Croazia, Dalmazia e Montenegro. Villaggi bombardati, popolazione civile trucidata, partigiani torturati. Fra il 1941 e il 1943, secondo “Storia XXI Secolo”, le truppe italiane fecero oltre 13.000 vittime jugoslave: 4.000 persone fucilate (di cui 1.500 ostaggi civili), 187 individui morti sotto tortura e ben 7.000 persone decedute nei campi di concentramento (anche donne e bambini). Pagina particolarmente infame, quella dei lager italiani in Jugoslavia. Esiste dunque una drammatica “proporzione” fra le atrocità commesse dall’occupante italiano e la successiva, spietata rappreseglia jugoslavia (esecuzioni sommarie e seppellimento, nelle foibe, di esseri umani spesso ancora vivi). Ma non ve n’è traccia nella propaganda attuale: gli jugoslavi erano semplicemente “cattivi”, in quanto “comunisti”. Combattevano a casa loro, per difendersi? Meglio non ricordarlo, nel Giorno del Ricordo.«Si è parlato di pulizia etnica nei confronti degli italiani quando le documentazioni riguardanti gli scomparsi indicano chiaramente che la gran parte furono colpiti sulla base della loro adesione al fascismo», protesta la storica Alessandra Keservan, maltrattata da Bruno Vespa durante la trasmissione “Porta a Porta”. Per la Kersevan si dovrebbe «studiare e conservare la memoria di tutte queste vicende ma nella parte più lunga e soprattutto precedente, quella che ha visto le gravi violenze italiane e fasciste contro sloveni e croati e contro gli italiani antifascisti». Dati che a giudizio della Kersevan non vengono neppure accennati in occasione delle commemorazioni, «disattendendo, in questo modo, anche le finalità della legge che ha istituito il Giorno del Ricordo», scrive il quotidiano on-line “Next”. «Si tratta di una disattenzione dovuta non ad ignoranza», secondo la storica, che parla di «censure» e denuncia un «uso propagandistico fatto delle foibe come evento unico paragonabile alla Shoah». Un “frame” comunicativo, quello sulle foibe, dove si è prodotta una colossale mole di falsificazioni. Lo dimostra uno sconcertante dossier presentato da “Wu Ming Foundation”: moltissime foto d’epoca, esibite al pubblico per suscitare orrore, non riguardano affatto le vittime delle foibe. Spesso, al contrario, sono vittime – anche civili – della brutale violenza italiana.La foto più famosa? E’ quella di una fucilazione. Immagine riciclata mille volte, per le commemorazioni ufficiali del Giorno del Ricordo e persino in televisione, da Vespa. Mostra un plotone di esecuzione, inquadrato di spalle, che prende di mira cinque civili, anch’essi di spalle. Feroci partigiani titini contro poveri italiani? Macché: italiani sono i soldati, i killer, mentre le vittime sono ostaggi sloveni rastrellati nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sud-est di Lubiana. Foto scattata il 31 luglio 1942, e si conoscono pure i nomi dei fucilati. Altro orrore: civili sorvegliati da armati scavano la fossa che ospiterà i loro corpi, dopo la fucilazione. Persino il Tg3 la presenta a corredo del caso-foibe. Ma, di nuovo, si tratta di ostaggi jugoslavi che si stanno scavando la fossa, sotto lo sguardo dei loro giustizieri italiani. “Wu Ming” mostra un corredo fotografico – impropriamente usato – veramente imbarazzante: cumuli di corpi (jugoslavi fucilati da italiani) vengono presentati come “italiani vittime della violenza titina”. C’è un soldato che si accanisce sui prigionieri, prendendoli a calci: stanno andando alla fucilazione, ma in Montenegro (il soldato è italiano, e i civili sono jugoslavi). Seguono primi piani, crudeli, dei cadaveri fucilati: sono stati presentati come “vittime delle foibe” a Cernobbio.Ad Arezzo, viene spacciata per “strage titina” quella documentata da una foto, scattata in Slovenia, che mostra una fucilazione collettiva: carneficina perpetrata dalle truppe di occupazione italiane. Nel 2015, addirittura, lo stesso Vespa – parlando di foibe – ha trasmesso l’immagine, terribile, di un’impiccagione di massa (ma le vittime sono partigiani, giustiziati in Friuli dai nazifascisti). E ancora: il “Piccolo” di Trieste – in tema di foibe – ha pubblicato una foto che documenta la strage di Srebrenica del 1995. Errori e orrori, all’infinito: la copertina di un libro (“Una grande tragedia dimenticata, la vera storia delle foibe”, di Giuseppina Mellace, Newton Compton) mostra un’atroce esecuzione: tre carnefici sgozzano la vittima. Ma niente foibe, nemmeno qui: i carnefici sono miliziani cetnici, che uccidono un collaborazionista serbo. Nell’iconografia delle “vittime italiane di Tito” c’è anche la foto, spaventosa, di un uomo ridotto a uno scheletro. In realtà si tratta di un deportato croato nel campo di concentramento italiano dell’isola di Arbe. L’immagine è addirittura sulla copertina del libro di Alessandra Kersevan “Lager italiani, pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, edito da Nutrimenti.«Se il comunismo è finito, perché l’anticomunismo prospera?», si domanda Angelo d’Orsi su “Micromega”. «A Kiev come a Roma, a Budapest come a Varsavia, a Washington come a Berlino, in Brasile come in Cile, governanti, magistrati, politici, giornalisti e professori emanano leggi, accendono polemiche, aprono processi, creano norme amministrative o si spingono a riscrivere la storia in un senso diligentemente revisionistico, e rovescistico». Obiettivo: mandare alla sbarra «il comunismo, i suoi teorici, i suoi esponenti storici, i suoi dirigenti e militanti», ignorando deliberatamente «l’ansia di liberazione di centinaia di milioni di esseri umani, schiacciati dai grandi potentati economici e vilipesi da una ingiustizia mostruosa», cioè le motivazioni – drammaticamente concrete – che alimentarono la speranza di riscatto sociale agitata dal comunismo nel ‘900. «Quell’ansia di liberazione dei subalterni è stata moltiplicata dagli svolgimenti del turbocapitalismo nel senso della disuguaglianza, dell’oppressione, dell’ingiustizia. Delle nuove povertà per le classi medie, delle accresciute povertà per i poveri, delle accresciute ricchezze per i ricchi». A questo serve la memoria dolorosa delle foibe degradata a propaganda: ad assolvere i potenti di oggi.«Berlusconi, Salvini, Meloni e loro adepti, non esitano a richiamare lo spauracchio comunista, convinti che quel richiamo porterà voti», scrive d’Orsi. Lo stesso Vespa, «tradendo ogni deontologia professionale», in una puntata di “Porta a Porta” dedicata alle foibe «scatena il proprio demone anticomunista, contro ogni verità accertata». Mattarella? Cita solo di striscio l’ombra – nerissima e insanguinata – della feroce occupazione della Jugoslavia da parte dell’Italia. Vespa e Mattarella, secondo d’Orsi, «in fondo colpiscono nel “comunismo titino” qualsiasi idealità comunista, ossia ogni esigenza di giustizia». E che per farlo «offendano la verità storica», poco importa. «Poco importa che centri di ricerca accreditati abbiano prodotto monografie, saggi, articoli, in grado di smontare le balle spaziali sulle foibe. Poco importa che gli italiani occupanti abbiano seminato morte e distruzione nella Jugoslavia». Inutile ricordare che l’esercito partigiano di Tito contribuì in modo determinante alla liberazione dell’Europa. «Se si prova a opporre ragionamenti argomentati alle più truci invettive, dati reali e certificati ai dati inventati, vicende storiche accertate alla propaganda becera – conclude d’Orsi – allora si viene sommersi dall’ingiuria e additati, una volta di più, con la stentorea accusa: “Comunista!”. Parola che vorrebbe essere il culmine dell’infamia, ma forse, a maggior ragione se si guarda a chi la proferisce, diventa un titolo di merito».Ci sono foibe dove, ancora oggi, sparisce la verità: inghiottita dalla propaganda. Se il comunismo è morto, perché l’anticomunismo scoppia di salute? Forse per seppellire (nelle nuove foibe mediatiche) la memoria dell’antifascismo storico, inteso come impegno a lottare contro un sistema ingiusto e dispotico. Traduzione: il potere ha sempre ragione, e chi lo contesta è un delinquente. E’ la tesi di Angelo d’Orsi, impegnato con altri studiosi in un convegno a Torino. Gli storici hanno protestato formalmente con Mattarella per la dichiarazione rilasciata in occasione del 10 febbraio, “Giorno del Ricordo” dedicato alle vittime delle feroci rappresaglie, contro gli italiani, attuate alla fine della Seconda Guerra Mondiale dai partigiani di Tito nella Jugoslavia che prima era stata sottoposta alla feroce occupazione dell’esercito fascista (di cui nessuno parla). «Quella delle “foibe” è una vera e propria operazione politico-culturale, che ha contribuito a creare o consolidare un senso comune anticomunista, e anti-antifascista, volto a favorire una memoria contraffatta», afferma d’Orsi insieme ai colleghi Andrea Martocchia, Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Sandi Volk e Davide Conti. «La menzogna viene propalata, ripetuta, ribadita, fino a che diventa senso comune».
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Morire di carne: stiamo letteralmente suicidando la Terra
Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».Attualmente, negli Stati Uniti, 157 milioni di tonnellate di cereali, legumi e proteine vegetali potenzialmente utilizzabili dall’uomo sono destinate alla zootecnia: è una produzione di 28 milioni di tonnellate di proteine animali che l’americano medio consuma in un anno, riassume Sabbadini su “Disinformazione.it”. «In tutto il mondo la domanda di cereali per la zootecnia continua a crescere perché le multinazionali cercano di capitalizzare sulla richiesta di carne proveniente dai paesi ricchi». Fra il 1950 e il 1985, gli anni boom dell’agricoltura, negli Stati Uniti e in Europa, due terzi dell’aumento di produzione di grano sono stati destinati alla fornitura di cereali d’allevamento, per lo più bovino. «E’ stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo», sostiene Sabbadini. «È importante tenere a mente che un acro di terra coltivato a cereali produce proteine in misura cinque volte maggiore rispetto ad un acro di terra destinato all’allevamento di carni; i legumi e le verdure possono produrne rispettivamente 10 e 15 volte tanto». Le grandi multinazionali producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano mattatoi, canali di marketing e distribuzione della carne: «Hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali».Purtroppo, la carne fa ancora tendenza: «La pubblicità e le campagne di vendita destinate ai paesi in via di sviluppo equiparano e associano all’allevamento di bovini nutriti a foraggio il prestigio di quel dato paese. Salire la “scala delle proteine” è diventato un simbolo di successo che assicura l’entrata in un club elitario di produttori che sono in cima alla catena alimentare mondiale». Il periodico americano “Farm Journal” riflette con queste parole i pregiudizi della comunità agro-industriale: «Incrementare e diversificare le forniture di carne sembra essere il primo passo di ogni paese in via di sviluppo». Iniziano tutti con l’allevamento di polli e con l’installazione di attrezzature per la produzione delle uova: è il modo più veloce ed economico che permette di produrre proteine non vegetali. «Poi, quando le loro economie lo permettono, salgono “la scala delle proteine” e spostano la loro produzione verso carne suina, latte, latticini, manzo nutrito al pascolo. Per poi arrivare, in alcuni casi, al manzo allevato con grano raffinato». Ma incoraggiare altri paesi a salire la “scala delle proteine”, avverte Sabbadini, promuove solo gli interessi degli agricoltori occidentali (americani soprattutto) e delle società agro-industriali.Molti paesi in via di sviluppo hanno iniziato a salire la “scala delle proteine” all’apice del boom agricolo, con molto grano in eccesso. Nel 1971 la Fao suggerì di passare al grano grezzo, che poteva essere consumato più facilmente dal bestiame. Il governo americano, prosegue “Disinformazione.it”, incoraggiò ulteriormente i suoi programmi di aiuti all’estero, collegando gli aiuti alimentari allo sviluppo sul mercato dei cereali foraggieri. «Società come la Ralston Purina e la Cargill hanno ricevuto finanziamenti governativi a basso tasso di interesse per la gestione di aziende avicole e l’uso di cereali foraggeri nei paesi in via di sviluppo, iniziando queste nazioni al viaggio che le avrebbe condotte verso la scala delle proteine. Molte nazioni hanno seguito il consiglio della Fao e si sono sforzate di rimanere in cima a questa scala». Risultato: «Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale di carne si è quintuplicata». E il passaggio dal cibo al mangime «continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame». Un caso emblematico? La crisi in Etiopia nel 1984, con migliaia di vittime denutrite. «L’opinione pubblica non era al corrente del fatto che in quel momento l’Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di panelli di lino, di semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia».Le statistiche sono sconcertanti: l’80% dei bambini che nel mondo soffrono la fame vive in paesi che di fatto generano un surplus alimentare prodotto sotto forma di mangime animale, di conseguenza utilizzato solo da consumatori benestanti. La corsa alla carne sta travolgendo i paesi in fase di sviluppo come la Cina, dove la quota di grano destinato alla zootecnia è triplicata. Nel solo Messico, dal 1960 ad oggi, la percentuale di grano da allevamento è cresciuta dal 5 al 45% per cento, mentre in Egitto è passata dal 3 al 31% e in Thailandia dall’uno al 30%. Ironia della sorte: «Milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo (attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete – malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali), mentre i poveri del Terzo Mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo». Le statistiche parlano chiaro, sottolinea Sabbadini: sarebbero 300.000 gli americani che ogni anno muoiono prematuramente a causa di problemi di sovrappeso, ed è un numero destinato ad aumentare. «Secondo gli esperti, nel giro di qualche anno, se continuano le attuali tendenze, sempre più americani moriranno prematuramente più per cause di obesità che per il fumo delle sigarette».Attualmente è sovrappeso il 61% degli americani, insieme a oltre la metà degli europei. La colpa, accusa l’Oms, è dell’hamburger. Gli obesi nel mondo sono il 18%, più o meno quanto gli individui denutriti. «Mentre i consumatori dei paesi ricchi letteralmente fagocitano se stessi fino alla morte, seguendo regimi alimentari carichi di grassi animali, nel resto del mondo circa 20 milioni di persone l’anno muoiono di fame e di malattie collegate». Secondo le stime, la fame cronica contribuisce al 60% delle morti infantili. Ma i consumatori di carne non sanno, né vogliono sapere. «I consumatori di carne dei paesi più ricchi – scrive Sabbadini – sono così lontani dal lato oscuro del circuito grano-carne che non sanno, né gli interessa sapere, in che modo le loro abitudini alimentari influiscano sulle vite di altri esseri umani e sulle scelte politiche di intere nazioni». Obiettivamente: «Chi mangia carne consuma le risorse della terra quattro volte di più di chi non lo fa». Ogni volta che si mangia una bistecca, aggiunge il blogger, «bisognerebbe essere consapevoli dei liquami che filtrano nelle falde acquifere, delle foreste disboscate, del deserto conseguente, dell’anidride carbonica e del metano che intrappolano il globo in una cappa calda. Ogni bistecca equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra».Bisognerebbe essere consapevoli anche delle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla fonte delle bistecche, non dimenticandosi «degli 840 milioni di persone che nel mondo hanno fame e dei 9 milioni che ne hanno tanta da morirne». Mangiare meno carne, o magari non mangiarne più? «Una scelta sociale, solidale con chi ha fame e con il futuro del pianeta». E non è tutto: «Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes, il raccoglitore di gomma assassinato dagli allevatori per una disputa sull’uso della foresta pluviale, per accorgersi dell’esistenza di una “bovino connection”». E ancora: «In Amazzonia la foresta pluviale è stata divorata da 15 milioni di ettari di pascolo, eppure è in questo habitat che dimora il 50% delle specie viventi e da qui deriva un quarto di tutti i farmaci che usiamo». Dove prima c’erano migliaia di varietà viventi ora ci sono solo mandrie.«Vacche ovunque», scrive Rifkin nel suo “Ecocidio”: «Attualmente il nostro pianeta è popolato da ben oltre un miliardo di bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone». Per farvi posto occorre terreno da pascolo. E deforestazione per creare pascoli significa desertificazione: dopo tre o quattro, il suolo calpestato e divorato da milioni di bovini (ogni capo libero ingurgita 400 chili di vegetazione al mese) finisce esposto a sole, piogge e vento, quindi diventa sterile. E i ruminanti si devono spostare dissacrando altri ettari di foresta. «Ci vorranno da 200 a mille anni perché quei terreno ritorni fertile». E che dire dell’acqua? «Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame: è stato calcolato che un chilo di manzo si beve 3.200 litri d’acqua». Risultato: le falde acquifere del Midwest e delle Grandi Pianure statunitensi si stanno esaurendo. Non solo: l’allevamento richiede ingenti quantità di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici: «Tutti prodotti dalle stesse, poche multinazionali che detengono il monopolio dei semi usati per coltivare cereali e legumi destinati ad alimentare il bestiame», fa notare Enrico Moriconi, veterinario e ambientalista, nelle pagine del suo “Le fabbriche degli animali” (Edizioni Cosmopolis).«Ogni anno in Europa gli animali da allevamento consumano 5.000 tonnellate di antibiotici, di cui 1.500 per favorirne la crescita, e tutti vanno a finire nelle falde acquifere», incalza Marinella Correggia, attivista della Global Hunger Alliance e autrice di “Addio alle carni” (Lav). Roberto Marchesini, docente di bioetica e zoo-antropologia, autore di “Post-human” (Bollati Boringhieri) svela che nel bacino del Po, ogni anno, «vengono riversate 190.000 tonnellate di deiezioni animali: contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni». Con quali conseguenze? Per esempio, le alghe abnormi nell’Adriatico. Marchesini parla di «fecalizzazione ambientale». E Rifkin ci illumina sulla portata del problema: un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno. «C’è dell’altro: i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero a causa dell’uso di petrolio (22 grammi per produrre un chilo di farina contro 193 per uno di carne), delle emissioni di metano dovute ai processi digestivi (60 milioni di tonnellate ogni anno) e dell’anidride carbonica scatenata dal disboscamento».E’ la stessa Fao a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della bio-diversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. E tutto questo per cosa? Per quelle che Frances Moore Lappé, autrice di “Diet for a small planet”, definisce «fabbriche di proteine alla rovescia». Occorre un chilo di proteine vegetali per avere 60 grammi di proteine animali. «Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie», spiegano gli autori di “Assalto al pianeta” (Bollati Boringhieri), «il manzo deve ricavare 5.000 calorie, il che vuoi dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50.000». Attenzione: «Solo un centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata, usata per il processo di conversione e per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano, come ossa o peli». Il bestiame? E’ una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta: quel 20% che sfrutta l’80% delle risorse mondiali, per non rinunciare alla sua bistecca quotidiana. «Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di alcuni», diceva Gandhi.Ingordigia che ha raggiunto livelli esorbitanti: dal dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo pro capite all’anno a 85-90 (110-120 negli States), riferisce Marchesini. Secondo Moore Lappé, le tonnellate di cereali e soia che nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri umani per un anno. E la Fao conferma: una dieta vegetariana mondiale potrebbe dar da mangiare a 6,2 miliardi di persone, mentre un’alimentazione che limiti la carne al 25% può sfamarne solo 3,2 miliardi. La spiacevole sorpresa? La domanda di carne sta crescendo. «Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali», scrive Sabbadini: «Stiamo esportando il nostro modello alimentare (e che modello!)». Secondo l’Ifpri, entro il 2020 la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali zootecnici: fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate di carne. «Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse». Una slavina inarrestabile, globalizzata. Si chiama: rivoluzione zootecnica. «Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne».La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l’industria dell’allevamento e della macellazione. «Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo a suon di bistecche e hamburger», scrive “Disinformazione.it”. «Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita deI 20% ogni dieci anni», prevede Rifkin, «si sta preparando una crisi alimentare planetaria». Rincara la dose Correggia: «E’ stato calcolato che l’impronta ecologica di una persona che mangia carne, cioè suo il consumo di risorse, di 4.000 metri quadrati di terreno, contro i mille sufficienti a un vegetariano». Allo stato attuale, «la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è di 2.700 metri quadrati». Ancora: un ettaro di terra a cereali per il bestiame dà 66 chili di proteine, che diventano 1.848 (28 volte di più!) se lo stesso terreno viene coltivato a soia. Ancora Rifkin: «Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate dì anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera».La nuova dimensione del male, ragiona Sabbadini, è intimamente connessa con il complesso bovino moderno, che ha acquisito i caratteri di un male occulto, inflitto a distanza: è un male camuffato da strati sovrapposti di veli tecnologici e istituzionali. «Un male cosi lontano, nel tempo e nel luogo, da chi lo commette e da chi lo subisce, da non lasciar sospettare o avvertire alcuna relazione causale». E’ un male che non può essere avvertito, data la sua natura impersonale. «E’ probabile che i proprietari dei negozi in cui si vende carne di bovini nutriti a cereali non avvertano mai, personalmente, la disperazione delle vittime della povertà, di quei milioni di famiglie allontanate dalla propria terra per fare spazio a coltivazioni di prodotti destinati esclusivamente all’esportazione. E che i ragazzi che divorano cheeseburger in un fast-food non siano consapevoli di quanta superficie di foresta pluviale sia stata abbattuta e bruciata per mettere a loro disposizione quel pasto». Il consumatore che acquista una bistecca al supermercato non si sente responsabile dell’immensità del dolore che il suo gesto provoca. «Abbiamo appiattito la ricchezza organica dell’esistenza, trasformando il mondo che ci circonda in astratte equazioni algebriche, statistiche e standard di performance economica».Il male occulto? Viene perpetuato da istituzioni e individui: il mercato, la globalizzazione del profitto. In un mondo di questo genere, conclude Sabbadini, ci sono ben poche occasioni per essere in sintonia con l’ambiente e proteggere i diritti delle future generazioni. «L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente, per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica». Primo passo necessario: «Diventare consapevoli dei meccanismi di sfruttamento del pianeta di cui siamo complici». Il secondo passo «non è fare la rivoluzione, e non è neanche aderire a questa o quest’altra organizzazione alternativa (per quanto possa essere positivo), ma è far seguire conseguenti e coerenti azioni personali in armonia con una vita etica e rispettosa dell’ambiente e del prossimo. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo iniziare da noi stessi».Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».
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Zurigo vara il reddito sociale universale: 2.200 euro a tutti
Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.«Il progetto che avevamo proposto a livello nazionale – spiega a “Repubblica” uno dei sostenitori dell’iniziativa respinta nel 2016, il docente di economia all’università di Friburgo, Sergio Rossi – sarebbe stato sostenuto, tra l’altro, tassando le transazioni finanziarie». Era previsto, inoltre, che il “reddito di base incondizionato” si sostituisse alla maggior parte delle prestazioni sociali. In sostanza, si calcolava che lo Stato non ne avrebbe sofferto più di tanto. Rossi è contento che il progetto che era stato messo a punto per tutti gli svizzeri possa venire messo in pratica a Zurigo: «È la dimostrazione – afferma – che sul piano locale esiste, ormai, la consapevolezza che le sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione delle attività economiche non possono essere affrontate e superate correttamente, senza modificare in maniera fondamentale l’attuale sistema di protezione sociale, che risale alla seconda metà del secolo scorso». Il reddito di base incondizionato (Rbi) sarebbe una rendita mensile, sufficiente per vivere, versata individualmente ad ogni persona, dalla nascita alla morte, indipendentemente dalle altre sue fonti di reddito o ricchezze personali.«Attualmente ricaviamo tutte le entrate dal nostro lavoro, dal nostro patrimonio, dalla nostra famiglia o dalle prestazioni sociali che ci vengono versate», spiega il sito svizzero creato per sostenere l’iniziativa. Il “reddito di base incondizionato” si sostituisce alla parte di reddito individuale che copre i bisogni fondamentali, «mentre le altre rendite rivestiranno la funzione di completare il reddito di base, apportando il margine di comodità, di agio». In sostanza, la nuova entrata dovrebbe sostituirsi alla maggior parte delle prestazioni sociali fino alla quota del suo ammontare, coprendo assistenza sociale, sussidi allo studio, assegni familiari e assicurazione sulla disoccupazione. Le prestazioni sociali più mirate «saranno mantenute per gli aventi diritto, per esempio nel caso della disoccupazione o delle prestazioni complementari». In pratica, dicono gli elvetici, l’Rbi «garantisce la parte di reddito destinata a coprire i bisogni di base: le persone non cercheranno più un impiego perché devono sopravvivere, ma perché nessuno desidera accontentarsi di sopravvivere». Gli svizzeri «potranno così negoziare le loro condizioni di lavoro per soddisfare le loro comodità, più che i loro bisogni vitali».Secondo i sostenitori del “reddito di base”, «le condizioni di lavoro miglioreranno per motivare le persone, che già avranno una base di reddito, a impegnarsi di più». Di fatto, «potranno più facilmente negoziare condizioni di lavoro migliori a tempo parziale, se desiderano», e le imprese «saranno sollevate dalla responsabilità di far vivere le persone». Di conseguenza, «saranno incoraggiate ad automatizzare i compiti più ripetitivi e meno attraenti». Secondo i suoi sostenutori, l’Rbi non rappresenta un vero costo: l’attuale erogazione del welfare svizzero equivale già a un “reddito minimo”. «Non resta dunque che un piccolo saldo da finanziare per le persone che oggi guadagnano meno di quell’importo». Il reale saldo da finanziare, in termini di prestazioni sociali, sarebbe di appena 18 miliardi di franchi, pari al 3% del Pil svizzero. «Questo saldo può facilmente essere coperto in molti modi, come una correzione della Tva», l’Iva elvetica, oppure «della fiscalità diretta», o magari inserendo «una tassa sulla produzione automatizzata, sull’impronta ecologica», senza contare l’eventualità di introdurre una tassazione sulle transazioni finanziarie. Diverse forme di reddito sociale garantito sono state sperimentate negli Usa, in Canada, in Namibia e in India. Il principio è stato introdotto nella Costituzione del Brasile nel 2004. Il Kuwait e altri Stati del Golfo Persico hanno adottato una misura simile al reddito universale. «La Finlandia e il Quebec hannno deciso di introdurlo dal 2017. In Olanda, la città di Utrecht e una decina di altre città si preparano a realizzare dei test con l’Rbi, che intanto è entrato nel dibattito pubblico in Francia».Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.
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Atleti russi, carabinieri “stupratori” e stampa complottista
Ebbene sì. Esistono due tipi di complottismi: quello che la grande stampa mainstream disapprova costantemente e con il quale si tende ad etichettare tesi che contrastano troppo la narrativa ufficiale. Però esiste un altro complottismo, che non solo non è scandaloso ma è indicato e indispensabile, se ad attuarlo è proprio la grande stampa mainstream e se serve a confermare la tesi ufficiale o perlomeno il frame dominante. Già, perché l’obiettività assoluta è difficile nel giornalismo, che invece si caratterizza per un certo conformismo. Pubblica le notizie ma già con un’intonazione di fondo, un giudizio di fondo. E quando emergono fatti che contrastano quel “frame”, spesso anziché ammettere ci si rifugia nel complottismo, quello buono. Perché serve a confortare la tesi iniziale. Un esempio è proprio di questi giorni. Vi ricordate titoli come questo? “Olimpiadi Rio 2016, Tas respinge ricorso di Mosca: atletica russa esclusa dai Giochi per doping di Stato”. Certo che sì. Dall’autunno del 2015, in seguito a un’inchiesta giornalista tedesca, tutti i giornali del mondo hanno pubblicato, in crescendo, migliaia di articoli sul doping degli atleti russi.Era un coro; anzi un’autentica valanga mediatica, che ignorava e all’occorrenza travolgeva, screditandola, qualunque posizione dubitativa. D’altronde non potevano esserci dubbi. Gli atleti russi erano tutti dopati! Infatti la squadra di atletica russa fu esclusa dai Giochi Olimpici di Rio. E dopo qualche mese addirittura dalle Paraolimpiadi. Oggi veniamo a conoscere la verità. La Wada, ovvero l’Agenzia anti-doping mondiale, ha scagionato 95 dei 96 atleti sospesi, perché le prove contro di loro erano insufficienti. Clamoroso, non c’è che dire. Ma è a questo punto che scatta il complottismo “giustificazionista” secondo gli schemi dello “spin”. A fare lo scoop è ancora una volta il “New York Times”, che dà l’intonazione a tutta la stampa internazionale. E infatti si mette in risalto, ad esempio sulla “Repubblica”, che è «una decisione destinata a suscitare polemiche, con l’interrogativo se sia prevalsa l’efficacia del sistema russo nel distruggere le prove o l’approccio soft degli investigatori». Capito?La Wada, che era elogiata e ritenuta una fonte sicurissima un anno e mezzo fa, ora viene ritenuta poco seria perché, tra l’altro, non avrebbe sentito la “gola profonda” dell’inchiesta. Si dubita, improvvisamente, dell’integrità di chi giudica. Notate bene: l’idea che gli atleti fossero puliti e che la loro esclusione dai Giochi sia stata un’ingiustizia non viene nemmeno presa in considerazione. Il complottismo necessario traspare anche in una drammatica vicenda di questi giorni, quella del denunciato stupro delle due turiste americane a Firenze. Sia chiaro: saranno i giudici a stabilire cos’è successo e i carabinieri si sono comportati comunque in maniera inaccettabile, avendo violato le regole e il codice d’onore dell’Arma. L’intonazione di fondo della stampa, però, è colpevolista nei loro confronti. L’altro giorno, ad esempio, il “Corriere della Sera” aveva un titolo in home page in cui si parlava di “prime ammissioni” di uno dei due carabinieri. E io, come migliaia di lettori, ho pensato: ecco, ha confessato lo stupro. Poi però, leggendo l’articolo, si scopriva che le ammissioni riguardavano il fatto che ci fosse stato un rapporto sessuale consenziente.E lo stesso atteggiamento traspare ora, dopo l’interrogatorio del secondo carabiniere. Guardate questo titolo: “Stupro a Firenze, il carabiniere ai pm: ho fatto quello che diceva il capo”. Entrambi sostengono la stessa tesi; però, evidenzia il “Corriere” nel sommario, “ci sono buchi e violazioni nella notte dei carabinieri”. Ne converrete: un conto è violare il regolamento, un altro è violentare due turiste, peraltro in circostanze strane, a quanto pare. Una in ascensore, l’altra sul ballatoio di un condominio. Con due ragazze che – a quanto si è letto nei giorni scorsi – avrebbero stipulato la polizza antistupro e che trovano la forza di fotografare uno dei due rapporti. Volendo essere complottisti in loro favore – anche escludendo quelle più controverse come la polizza antistupro, prima annunciata e poi smentita – si potrebbe sostenere che le circostanze rafforzano la tesi dei carabinieri: perché violentarle sul ballatoio? Sarebbe stato molto più semplice in appartamento. Un rapporto in un luogo semipubblico come quello lascia prefigurare più un rapporto impetuoso, fugace, fuori dagli schemi e consenziente che una violenza. E poi: perché la ragazze li hanno fatti salire?Visto? Volendo si può dare un’intonazione tesa a scagionare i due agenti dall’accusa più infamante. Ma non è questo l’atteggiamento prevalente che, invece, perlomeno sui grandi media (che a loro volta influenzano gli altri media, non dimenticatelo) è quello improntato sul sospetto colpevolista. E se poi finisce come gli atleti russi? La verità si saprà fra mesi se non anni, quando la vicenda non interesserà più il grande pubblico. Quel che conta è l’intonazione del momento; perché è adesso che si influenza l’opinione pubblica. Questo conta in termini mediatici. Con poca oggettività e tanto complottismo conformista. Ma, vi prego, non ditelo alla maggior parte dei miei colleghi; potrebbero offendersi.(Marcello Foa, “Quando la grande stampa è complottista, sugli atleti russi e sui carabinieri “stupratori”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 14 settembre 2017).Ebbene sì. Esistono due tipi di complottismi: quello che la grande stampa mainstream disapprova costantemente e con il quale si tende ad etichettare tesi che contrastano troppo la narrativa ufficiale. Però esiste un altro complottismo, che non solo non è scandaloso ma è indicato e indispensabile, se ad attuarlo è proprio la grande stampa mainstream e se serve a confermare la tesi ufficiale o perlomeno il frame dominante. Già, perché l’obiettività assoluta è difficile nel giornalismo, che invece si caratterizza per un certo conformismo. Pubblica le notizie ma già con un’intonazione di fondo, un giudizio di fondo. E quando emergono fatti che contrastano quel “frame”, spesso anziché ammettere ci si rifugia nel complottismo, quello buono. Perché serve a confortare la tesi iniziale. Un esempio è proprio di questi giorni. Vi ricordate titoli come questo? “Olimpiadi Rio 2016, Tas respinge ricorso di Mosca: atletica russa esclusa dai Giochi per doping di Stato”. Certo che sì. Dall’autunno del 2015, in seguito a un’inchiesta giornalista tedesca, tutti i giornali del mondo hanno pubblicato, in crescendo, migliaia di articoli sul doping degli atleti russi.
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Sos, rischiamo un’estinzione di massa: la sesta, sulla Terra
Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’Olocene (l’ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. Nel suo libro tradotto in italiano come “Benvenuti nell’Antropocene”, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce (in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone), sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’aumento rapido dei gas serra è probabilmente segna l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo. Negli ultimi decenni, aggiungono Conversi e Moreno in un’analisi su “Micromega”, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi.Purtroppo però questa massa di studi fatica a trovare spazio sui grandi media, spesso «ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili». Data l’assenza di vere informazioni, «non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni». Come ridurre il climate change? Nebbia fitta. «Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra». L’attuale modello iper-consumistico «è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali». Processi che «hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».Secondo un noto rapporto di Oxfam, la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno al fenomeno. «E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale: un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, che non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni», aggiungono Conversi e Moreno. Inoltre, questo sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente non è prodotto dai numeri di bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso. Secondo un altro studio, “Carbon and inequality from Kyoto to Paris”, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.Di conseguenza, continuano Conversi e Moreno, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. E un terzo studio, pubblicato di recente (“The Carbon Majors Report” 2017) mostra che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi. In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini – una delle percentuali più alte al mondo – riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico: i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. «Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo».Per Conversi e Moreno, non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di “miracoli tecnologici” all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (dal 2019 la Volvo produrrà solo auto elettriche o ibride), dalla decrescita volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali. Si pensa alla protezione delle economie pre-industriali residue, all’economia circolare, al riciclaggio, alla pratica della “sovranità alimentare” (km zero, filiere corte), fino all’opzione estrema della geo-ingegneria, «che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale». In ogni caso, aggiungono Conversi e Moreno, sarà vitale «ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza».Da parte sua, l’Ue si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova “economia circolare”. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. «Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie». A livello planetario, i problemi restano di portata incalcolabile. «Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi». Unica possibilità di salvezza, trovare i mezzi per «controllare questa ristretta élite, detentrice di un potere economico e mediatico immenso». Ma le cose non stanno andando esattamente così: restano modesti gli obiettivi dei trattati internazionali finora firmati, da Rio (1992) all’accordo di Parigi del 2015, in vigore dal 2016 «in vista della sua piena applicabilità nel 2020», a seguito del Protocollo di Kyoto del 1997.Non mancano ulteriori complicazioni: «Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le élites dei combustibili fossili». In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, «indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile», concludono Conversi e Moreno. «Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta». Ciò che si profila è un mondo nuovo, un “brave New World”, come annunciava Aldous Huxley, condannato a finire in tempi brevissimi. «Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente del genere umano sembra pronta a immolare i destini della Terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti».Conmversi e Moreno parlano di “classicidio”, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici, ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. «Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il “secolo del genocidio”, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il “secolo dell’omnicidio”, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani». Ma, onestamente, «piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una “cronaca” lungamente preannunciata». Bisognerà quindi «combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti e nell’anarchia informativa della post-verità». Appello inevitabile: «Contro quest’Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai».Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.
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Padroni di tutto, anche dei giornali: chi crede alle loro news?
Industria, energia, finanza, cemento, sanità. E poi, anche, informazione. Editori puri? Non pervenuti. Chi stampa giornali, in Italia, ha soprattutto altri interessi. Qualcuno può stupirsi se poi “la verità” fatica a imporsi, sui media mainstream? «Ecco chi controlla i giornali in Italia: praticamente sono 9 entità, ma in realtà sono molte di meno se si considerano i legami, le infiltrazioni, le affiliazioni, le “amicizie”», scrive “Coscienze in Rete”, citando l’ultimo report del Cnms, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, una Onlus che monitora lo stato dell’informazione partendo dalla lettura dell’assetto proprietario dei media. «I nomi? Li conosciamo tutti, ma non tutti hanno avuto modo di apprezzare come questo dominio sia pervasivo», sostiene il blog di Fausto Carotenuto, sottolineando come venga spesso dato «enorme risalto» a fonti «autorevoli», internazionali: il gioco si svela scoprendo, ad esempio, il legame tra “La Stampa” e l’“Economist”. In altre parole, gli uomini del quarto potere: «Sono loro che, tramite sottoposti, ci dicono quotidianamente qual’è la realtà».E sono «indispettiti», oggi, per il fatto che «un numero sempre crescente di persone ha cominciato a capire che la realtà che gli raccontano questi signori non coincide con quello che si vede», e quindi «cercano informazioni in rete, da fonti alternative». Eccoli qui, i proprietari del pensiero mainstream, in ordine alfabetico: Agnelli, Angelucci, Berlusconi, Cairo, Caltagirone, Conferenza Episcopale Italiana, Confindustria, De Benedetti, Maria Luisa Monti. «Ovviamente a loro va aggiunto Rupert Murdoch, proprietario di Sky, e chiunque gestisca la Rai in qualunque momento (tanto è sempre qualcuno che prende ordini dal governo, che a sua volta è stato messo lì anche tramite l’informazione mainstream)». Niente di strano, quindi, se oggi sono nati «tormentoni come “fake news” o “post-verità”, forieri di leggi sulla censura del web». Tormentoni «proposti ed amplificati da questi signori», che ormai «passano da una tv all’altra, da un giornale all’altro». Il problema? «Le testate sono tante. I padroni, però, sono molto pochi. E fanno i finanzieri, i costruttori, gli industriali e i religiosi».Imprenditori impeccabili? Non esattamente: «I loro nomi saltano spesso fuori, una volta uno, una volta l’altro, in storie di magagne, truffe, magna-magna, inquinamento, guerre, malasanità: proprio quelle storie che cercano di comprendere le persone che si svegliano, andando a cercare informazioni on-line». Dal punto di vista dei “padroni della notizia”, aggiunge “Coscienze in Rete”, «è sacrosanto che le uniche informazioni che debbano avere il “bollino blu” siano le loro. Come ci permettiamo, noi, di volerci fare gli affari loro?». Molto utile, quindi, dare un’occhiata allo studio del Cnms, dove si scopre che l’unico giornale italiano auto-prodotto dai giornalisti, in cooperativa, è “Il Manifesto”, che però distribuisce appena 11.000 copie al giorno. Largamente indipendente è il “Fatto Quotidiano”, nono in graduatoria con 45.000 copie in edicola: accanto ad Antonio Padellaro e Cinzia Monteverdi, titolari del 16% delle azioni, figurano – con analoga partecipazione azionaria – la società Edima Srl, «società di vari industriali marchigiani, fra cui il calzaturiero Enrico Paniccià», e l’editrice Chiarelettere, partecipata al 49% dal grande Gruppo Editoriale Mauri Spagnol. Tra i soci minori, alla fondazione, comparivano: Francesco Aliberti (12%), Bruno Tinti (8%), Marco Travaglio (5%), Peter Gomez (3,2%) e Marco Lillo (2,5%).Ma i grandi numeri, ovviamente, li fanno i super-quotidiani: il podio è composto, nell’ordine, dal “Corriere della Sera” (322.000 copie diffuse al giorno), da “Repubblica” (249.000 copie) e dal “Sole 24 Ore” (197.000). Il “Corriere” appartiene a Rcs Group, al 60% nelle mani di Urbano Cairo, patron de “La7” e già collaboratore di Berlusconi in Fininvest, coinvolto nell’inchiesta Mani Pulite. Rcs Media Group è una corazzata: gestisce “Gazzetta dello Sport” e “Corriere del Mezzogiorno”, nonché “Corriere di Bologna”, “Corriere del Veneto”, “Corriere Fiorentino”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, e poi riviste a larghissima diffusione come “Oggi”, “Amica”, testate come “Abitare”, “Sw”, “Living”, “Dove”, “Io”, “Style”, “Sette”. E all’estero, partecipa alla gestione di giornali come “El Mundo”, “Expansiòn” e “Marca”. Cairo non è solo al comando: gli sono accanto, tra gli altri, Mediobanca (con il 10% delle azioni) e l’industriale Diego Della Valle (con il 7,3%). A ruota, il quotidiano milanese è seguito dalla storica rivale romana, fondata da Eugenio Scalfari: oltre a “Repubblica”, il gruppo guidato da Carlo De Benedetti controlla importanti periodici (“L’Espresso”, “National Geographic”), storici quotidiani a diffusione regionale come “Il Mattino” di Napoli, “Il Piccolo” di Trieste, “Il Tirreno”, insieme a quotidiani di Mantova, Modena, Reggio Emilia, Ferrara e Pavia. Senza contare le radio (“Radio Capital”, “Radio Deejay”) e l’informazione solo su web (“Huffington Post”, di Lucia Annunziata).«Oltre che nell’editoria – scrive il Cnms – la famiglia De Benedetti opera nei settori industriale e sanitario. L’insieme delle tre attività formano un unico impero economico, al cui vertice si trova Cir Spa, detenuta al 46% da F.lii De Bendetti Spa e al 15% da Cir stessa», secondo dati Consob aggiornati al 2017. «Il gruppo operativo nel settore industriale è Sogefi, che produce componenti per auto. Nel settore sanitario è Kos, che gestisce varie cliniche private. Fino al marzo 2015, Cir comprendeva anche la società energetica Sorgenia, poi ceduta alle banche con le quali era indebitata, fra cui Monte dei Paschi. Nel 2015 l’insieme delle attività controllate da Cir ha prodotto un giro d’affari di 2,5 miliardi di euro. La famiglia De Benedetti opera anche nel settore finanziario tramite vari fondi d’investimento che fanno capo a Cofide». La “Repubblica” è gestita dal Gruppo editoriale L’Espresso, che raccoglie pubblicità tramite la controllata A.Manzoni & C. Altro azionista di rilievo, aggiunge il Cnms, è Giacaranda Maria Caracciolo, col 6%. «Va segnalato che il 30 luglio 2016 il Gruppo L’Espresso ha concluso un accordo con Fca (Fiat Chrysler Automobiles, guidata da Sergio Marchionne), per condividere la proprietà del quotidiano “La Stampa”. Secondo l’accordo, “La Stampa” verrà trasferita al Gruppo L’Espresso, ma nel contempo verrà ampliato il capitale del gruppo per permettere ai vecchi proprietari della testata torinese di entrare nella compagine azionaria del Gruppo L’Espresso».Al terzo posto in Italia tra i quotidiani più venduti, con 197.000 copie distribuite, figura il “Sole 24 Ore” , di proprietà di Confindustria al 67,5% (il resto è azionariato diffuso). Il “Sole” è tallonato dalla “Stampa” di Torino, della famiglia Agnelli guidata da John Elkann (auto, immobiliare e finanza), che detiene anche il 43% del settimanale inglese “The Economist”. Il quotidiano – 176.000 copie diffuse al giorno – è gestito da Itedi, una società di comunicazione e raccolta pubblicitaria e (in attesa dell’esecuzione dell’accordo col Gruppo L’Espresso) appartiene ancora per il 77% a Fca (Fiat-Chrysler), a sua volta posseduta per il 30% da Exor, cassaforte della famiglia Agnelli. Il restante 23% è in quota a Ital Press Holding, società del genovese Carlo Perrone. Al gruppo Agnelli fa anche capo “Il Secolo XIX”, storico quotidiano di Genova. Se le prime quattro testate fanno capo al mondo degli affari, con 124.000 copie diffuse ogni giorno si fa largo, al quinto posto, “Avvenire”, quotidano dei vescovi italiani, gestito da Avvenire Nuova Editoriale Italiana. L’80% del capitale sociale è di proprietà della Fondazione di Religione “Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena”, espressione della Cei, Conferenza Episcopale Italiana. «Oltre a varie altre realtà ecclesiastiche risultano proprietari Italcementi di Carlo Pesenti per il 3,8% e Gold Line Spa, azienda di lavorazione di gioielli, per un altro 3,8%». Ad “Avvenire” fanno capo agenzie di stampa come Fides e Sir, la radio “inBlu” e il canale televisivo “Tv2000”.Sempre a Roma è stampato il “Messaggero”, sesto quotidano più venduto in Italia, con 113.000 copie diffuse. Il patron, Francesco Gaetano Caltagirone, opera anche nei settori finanziario, cementiero, immobiliare, dell’acqua, delle costruzioni. «L’insieme delle attività forma un unico impero economico, al cui vertice si trova Caltagirone Spa detenuta al 54% da Francesco e al 33% dal fratello Edoardo», scrive il Cnms. «Il gruppo operativo nel settore cementiero è Cementir, mentre in quello delle costruzioni è Vianini Lavori». Tramite le sue società, continua la Ong, Caltagirone è presente anche nella gestione dell’acqua con una partecipazione del 5% in Acea e del 48% in Acqua Campania Spa. «Nel 2015 l’insieme delle attività controllate da Caltagirone Spa ha prodotto un giro d’affari pari a 1,4 miliardi di euro». Il quotidiano è gestito da Caltagirone Editore, un gruppo attivo nei settori della comunicazione: stampa di quotidiani, Tv, internet e raccolta pubblicitaria. «Il gruppo editoriale appartiene per il 60% a Francesco Gaetano Caltagirone». Altri quotidani del gruppo sono “Il Mattino” di Napoli, “Il Gazzettino” di Venezia, e il “Corriere Adriatico”.A Maria Luisa Monti appartiene invece il gruppo che stampa “Il Resto del Carlino”, quotidiano di Bologna (101.000 copie), e controlla anche “Il Giorno” e “Quotidiano Nazionale”, che ha accorpato “La Nazione” di Firenze. «Il quotidiano è gestito da Poligrafici Editoriale Spa, gruppo attivo nell’editoria e nella raccolta pubblicitaria». La società editoriale «appartiene per il 62% a Monrif Spa, controllata a sua volta da Maria Luisa Monti». Altri azionisti di rilievo di Poligrafici Editoriale sono Andrea Della Valle col 10% e Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste col 5%. Solo all’ottavo posto, nella graduatoria dei quotidiani più letti, si posiziona il berlusconiano “Il Giornale”, con 66.000 copie diffuse. Il quotidiano è gestito da Società Europea di Edizioni Spa (editoria e pubblicità), che appartiene per il 63% a Paolo Berlusconi tramite le società Pbf Srl (46%) e Arcus Multimedia (17%). Il restante 37% è in quota ad Arnoldo Mondadori Editore. A sua volta, l’azionista di maggioranza di Mondadori (53%) è Silvio Berlusconi (Mediaset) tramite Fininvest. Del gruppo Mondadori fanno parte 40 brand italiani a larghissima diffusione (tra cui “Chi”, “Donna Moderna”, “Focus”, “Grazia”, “Sorrisi e Canzoni Tv” nonché il settimanale “Panorama”), più svariate testate francesi.Dopo il “Fatto”, al nono posto, la classifica della stampa presenta “Italia Oggi”, con 40.000 copie quotidiane, di proprietà di Paolo Panerai. «Il quotidiano è gestito da Class Editori Spa, gruppo attivo nei quotidiani, riviste, radio e Tv», spiega il Cnms. «Class Editori appartiene per il 10% a Paolo Panerai, il 60% a Euroclass Multimedia Holding Ss, il resto è azionariato diffuso». Curiosità: Euroclass Multimedia è domiciliata in Lussemburgo, «per cui i proprietari non sono ufficialmente identificabili». Ma, secondo indiscrezioni, «oltre ad alcune società riconducibili a Panerai, figurano anche varie banche, fra cui Unicredit col 13%». Al gruppo “Italia Oggi” fa capo anche il quotidiano “Milano Finanza”, insieme al periodico “Class”, a “Radio Classica” e al canale televisivo “ClassTv”. A seguire – con 27.000 copie – è il quotidiano “Libero”, della famiglia Angelucci, gestito da Editoriale Libero Srl. Il socio di maggioranza è la Fondazione San Raffaele, che detiene il 60% del capitale, mentre il rimanente 40% è detenuto dalla finanziaria Tosinvest. «Ma è noto che dietro entrambe queste realtà si cela la famiglia Angelucci», scrive il rapporto del Cnms. Benché impegnati in attività immobiliari, finanziarie ed editoriali tramite la finanziaria Tosinvest, il vero affare di Antonio Angelucci e del figlio Gianpaolo sarebbe la sanità, gestita tramite la San Raffaele Spa, che dispone di 26 strutture private, 3.000 posti-letto, oltre 1.000 medici specialistici e 2.800 dipendenti.«Nel corso degli anni – continua il Cnms – la stampa si è occupata a più riprese delle attività degli imprenditori Angelucci a causa di indagini e processi per reati fiscali e finanziari. Nell’agosto 2016 la casa di cura San Raffaele di Cassino è stata condannata dalla Corte dei Conti a restituire al servizio sanitario nazionale 31 milioni di euro per avere erogato servizi di qualità non appropriata. Un’indagine per frode fiscale avviata nel 2014 ha messo in luce l’esistenza di almeno tre società (Th Ss, Three e Sps di Lantigos) utilizzate dagli Angelucci in Lussemburgo per le proprie attività finanziarie». Il gruppo è titolare dello storico quotidiano romano “Il Tempo”, nonché di giornali proviciali come “Corriere di Siena”, “Corriere di Viterbo”, “Corriere di Arezzo” e “Corriere dell’Umbria”. Chiudono la lista il “Manifesto”, in dodicesima posizione (con poco più di diecimila copie) e “Il Foglio”, i cui dati di diffusione non sono però disponibili. La proprietà fa riferimento a Valter Mainetti, e il quotidiano (fondato da Giuliano Ferrara) è gestito da Foglio Edizioni, posseduta al 97,5% da Sorgente Group attraverso la società Musa Comunicazione. A sua volta, Sorgente Group è partecipata per il 35% da Valter Mainetti, mentre il restante 65% è detenuto dalla Roma Fid Società Fiduciaria Spa, che agisce per conto di altri membri della famiglia Mainetti. «Sorgente Group Spa – spiega il Cnms – è parte di un complesso multinazionale con società localizzate negli Stati Uniti, Lussemburgo, Gran Bretagna, Emirati Arabi, Brasile. Svolge attività nei settori della finanza, del risparmio gestito, dell’immobiliare, delle costruzioni». In Italia opera anche nell’editoria tramite Musa Comunicazione. Ma, appunto, quella è solo una piccola parte del business.Industria, energia, finanza, cemento, sanità. E poi, anche, informazione. Editori puri? Non pervenuti. Chi stampa giornali, in Italia, ha soprattutto altri interessi. Qualcuno può stupirsi se poi “la verità” fatica a imporsi, sui media mainstream? «Ecco chi controlla i giornali in Italia: praticamente sono 9 entità, ma in realtà sono molte di meno se si considerano i legami, le infiltrazioni, le affiliazioni, le “amicizie”», scrive “Coscienze in Rete”, citando l’ultimo report del Cnms, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, una Onlus che monitora lo stato dell’informazione partendo dalla lettura dell’assetto proprietario dei media. «I nomi? Li conosciamo tutti, ma non tutti hanno avuto modo di apprezzare come questo dominio sia pervasivo», sostiene il blog di Fausto Carotenuto, sottolineando come venga spesso dato «enorme risalto» a fonti «autorevoli», internazionali: il gioco si svela scoprendo, ad esempio, il legame tra “La Stampa” e l’“Economist”. In altre parole, gli uomini del quarto potere: «Sono loro che, tramite sottoposti, ci dicono quotidianamente qual’è la realtà».
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Clima impazzito: c’è il rischio di mezzo miliardo di profughi
Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.Storicamente, migrazioni di massa collegate alle condizioni climatiche sono molto ben documentate, e quello che viviamo adesso – appunto il milione e trecentomila anime che hanno dovuto lasciare le proprie case – è la manifestazione dei nostri tempi del problema. Durante il secolo 1900-2000 i livelli del mare si sono innalzati di ben dodici centimetri. Le previsioni sono di varie decine di centimetri in questo secolo. Secondo alcuni studi circa 470 milioni di persone perderanno la casa. Alcuni ricorderanno l’uragano Sandy che colpì le coste del New Jersey nel 2012: molte delle case sono state rasate al suolo e mai piu ricostruite. Dopo il tifone Haiyan del 2013 le Filippine hanno messo il divieto di costruire a cinquanta metri dalla costa e hanno forzato l’evacuazione di 80.000 persone. Dopo lo tsunami del 2004, almeno 22.000 case sono state perse e non più ricostruite in zone costiere. A volte la gente via via in modo preventivo, e cioè prima che ci siano i disastri: le città vengono evacuate perché i cambiamenti climatici stanno piano piano portando via coste e case e non si vuole aspettare “il grande evento”.In Louisiana accade lo stesso: qui l’erosione dovuta alle estrazioni di petrolio e di gas ha fatto perdere case, terreni e coste. Il caso più eclatante è quello di Shishmaref in Alaska, città costruita sul ghiaccio e che è destinata a morire. Siamo a 160 miglia dalla Russia, il ghiaccio scompare. Nevica sempre di meno, e sempre più tardi e il ghiaccio si scioglie prima o neanche si forma. L’erosione monta. L’assenza di ghiaccio fa sì che durante le tempeste pezzi interi di costa vengono triturati e finiscono in mare, senza protezione. Una delle case è già crollata in mare nel 2006. Norman era un ragazzino che nel 2007 cadde risucchiato dal ghiaccio di Shishmaref che si scioglieva e morì. Ogni secondo pompiamo in atmosfera 1.200 metri cubi di CO2. Il pianeta si è surriscaldato, in media di un grado centigrado dalla rivoluzione industriale ad oggi, una enormità. L’Artico ha avuto livelli di aumento di temperatura doppi che il resto del pianeta. In Alaska ci sono almeno trentuno villaggi a rischio di scomparire, come Shishmaref: dodici di questi villaggi stanno cercando di capire dove e come evacuare, perché sanno che non c’è speranza.Siamo noi a causare tutto ciò, bruciando fonti fossili a ritmi allarmanti. Se l’obiettivo è di contenere l’aumento della temperatura a due gradi centigradi, una sola cosa si deve fare: non pompare mai più petrolio. Dall’altra parte del mondo, le isole Kiribati, le isole Marshall, le isole Fiji. Lontanissme dall’Alaska ma tutte che rischiano di scomparire. Isle di Jean Charles in Louisiana che pure sprofonda a causa dei cambiamenti climatici. A Miami Beach, Florida, hanno dovuto installare pompe speciali per evitare allagamenti, collegati all’erosione. Non tutte le comunità hanno i soldi per programmare l’evacuazione e la risistemazione delle persone. È costoso, la gente è vulnerabile, è una strada a senso unico.A Shishmaref sanno che non hanno scelta, e cosi la città ha deciso di evacuare prima che il mare porti via tutto. Ma non hanno i soldi. E dove evacueranno? Non si sa, forse verso l’interno. Ma questo significa perdita di identità: la maggior parte delle persone qui vive di pesca e di caccia e di tradizioni Inupiat collegate al mare. Saranno lo stesso popolo? Perché devono evacuare loro, se il loro stile di vita, di indigeni, è molto meno impattante di quello di centinaia di milioni di persone che sprecano, bruciano, e generano molto più inquinamento e emettono molta più CO2 di loro?(Maria Rita D’Orsogna, “Un milione di profughi del clima”, da “Comune-info” del 10 aprile 2017. Fisica e docente all’Università statale della California, la professoressa D’Orsogna cura diversi blog, consapevole dell’importanza dell’informazione indipendente).Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.
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Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro
L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.(Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.