Archivio del Tag ‘cibo’
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Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Di Maio e i vaccini obbligatori: aprite gli occhi, amici 5 Stelle
Di Maio & company? Non abbiamo ancora visto niente: se vanno al potere i 5 Stelle (non la base: i dirigenti), «ci terremo intatto lo strapotere delle multinazionali del farmaco, della chimica, dell’alimentazione devitalizzata, dei megamedia del potere». E soprattutto «il dominio della finanza, i livelli di inquinamento, l’ossequienza al Vaticano e alle massonerie varie, alla Trilateral, a Goldman Sachs». Parola di Fausto Carotenuto, promotore del network “Coscienze in Rete” e già analista internazionale per l’intelligence: un uomo esperto, che conosce a fondo – dall’interno – le dinamiche del vero potere, quello che indossa diverse maschere per compiacere e illudere i cittadini-elettori. Ma perché tanto allarme per Di Maio? durante una visita all’ateneo di Harvard, «una delle università dove oramai i candidati premier vanno a prendere la benedizione», lo scorso maggio il beniamimo di Beppe Grillo ha dichiarato che i vaccini «in Italia sono obbligatori per legge», e quindi, ha aggiunto, «noi non abbiamo intenzione di eliminarla», quella legge. «E lo dice quello che poi verrà “unto” con un plebiscito di finta “democrazia diretta” come capo politico del 5 Stelle e candidato alla presidenza del Consiglio», protesta Carotenuto.Domanda che sorge spontanea: «Per chi lavora questo signore? Per chi lavorano i vertici manifesti e occulti del 5 Stelle? Non certo per la gente e per la nostra libertà», scrive Carotenuto su “Coscienze in Rete”. «E’ chiaro che chi è contro l’obbligatorietà dei vaccini non potrà mai votare per questo signore», Di Maio, che appare «al servizio di chi vuole vaccinare obbligatoriamente i nostri bambini». Per l’analista, semplicemente «occorre svegliarsi», perché «con questa gente al governo – e non parliamo dei militanti, ma di chi li dirige in modo del tutto privo di vera democrazia – si verificheranno anche altri fatti, che i votanti grillini pieni di ingenuo entusiasmo non immaginano nemmeno: rimarremo saldissimamente in Europa, ci terremo l’euro, l’appartenenza alla Nato e gli interventi militari “umanitari”». Peggio: Big Pharma non ha nulla da temere dai grillini, e nemmeno Wall Street, la super-oligarchia, i ras della devastazione agroalimentare, gli scienziati del cibo-killer, cancerogeno. Nessuno trema, di fronte a Di Maio: né i media mainstream, professionisti della disinformazione, né le multinazionali onnivore e globaliste, né i santuari supermassonici dell’élite finanziaria.«Stiamone certi», aggiunge Carotenuto: «Se vogliamo che nulla di importante cambi nel sistema di potere che ci manipola, votiamo tranquillamente per questo signore». Non che Di Maio sia il peggiore il campo, sia chiaro: «Certo, anche se voteremo per gli altri partiti ora in Parlamento, nulla cambierà di tutto questo». Ma almeno, evitando di votare 5 Stelle, «non avremo sprecato le nostre migliori energie e le nostre scelte facendoci abbindolare da questa ennesima trappola per le coscienze in risveglio». La tesi di Carotenuto: il potere lavora per rendere eterno il nostro “letargo”, ben sapendo che – statistiche alla mano – un cittadino su tre ha ormai fiutato l’imbroglio e non crede più a nessuno, né ai politici né ai media. «Il nostro vero terreno di operazioni – sottolinea il fondatore di “Coscienze in Rete” – non è delegare a comici o a giovanottini legati a “nonsisachi”, comunque dipendenti dalla finanza internazionale, come minimo. E nemmeno delegare agli altri partiti, che dipendono dagli stessi poteri di controllo».Carotenuto propende per il rifiuto del potere istituzionale che viene dall’alto, frutto di “piramidi” irrimediabilmente compromesse e inattendibili, a prescindere dai personaggi dietro i quali si nascondono: meglio la solidarietà circolare dei territori, dal basso. «Utilizziamo le nostre energie e la nostra voglia di bene senza delegare, facendo il bene là dove siamo, nel locale, orizzontamente, intorno a noi», sapendo che un giorno «da questa crescita orizzontale, quando sarà ampia e solida, verranno fuori istituzioni nuove». Ma non oggi, non ancora: «Ora è il momento della maturazione delle coscienze attraverso l’impegno diretto là dove siamo e possiamo verificare che le nostre forze alimentano veramente il bene di tutti». Poù in alto, la nostra possibilità di controllo è pari a zero: restiamo in balia delle solite manipolazioni. L’ultima, in ordine di tempo, sarebbe proprio quella del Movimento 5 Stelle: pura illusione ottica, certificata dal Di Maio “pro-vax”, di fronte alla potentissima platea di Harvard. «Non dimentichiamo…».Di Maio & company? Non abbiamo ancora visto niente: se vanno al potere i 5 Stelle (non la base: i dirigenti), «ci terremo intatto lo strapotere delle multinazionali del farmaco, della chimica, dell’alimentazione devitalizzata, dei megamedia del potere». E soprattutto «il dominio della finanza, i livelli di inquinamento, l’ossequienza al Vaticano e alle massonerie varie, alla Trilateral, a Goldman Sachs». Parola di Fausto Carotenuto, promotore del network “Coscienze in Rete” e già analista internazionale per l’intelligence: un uomo esperto, che conosce a fondo – dall’interno – le dinamiche del vero potere, quello che indossa diverse maschere per compiacere e illudere i cittadini-elettori. Ma perché tanto allarme per Di Maio? durante una visita all’ateneo di Harvard, «una delle università dove oramai i candidati premier vanno a prendere la benedizione», lo scorso maggio il beniamimo di Beppe Grillo ha dichiarato che i vaccini «in Italia sono obbligatori per legge», e quindi, ha aggiunto, «noi non abbiamo intenzione di eliminarla», quella legge. «E lo dice quello che poi verrà “unto” con un plebiscito di finta “democrazia diretta” come capo politico del 5 Stelle e candidato alla presidenza del Consiglio», protesta Carotenuto.
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Fame, paura e morte: dove è nato l’uomo d’acciaio Putin
Oggi, Vladimir Vladimirovic Putin, detto Volodja, compie 65 anni. Molti sanno della sua vita politica e il recente film di Oliver Stone ne sta mettendo in luce gli aspetti più interessanti. Pochissimi sanno però della sua incredibile infanzia. A fronte di leader politici vissuti da bambini in ville con piscina, tra lussi e scuole di prestigio come Obama, Trump e Macron, Putin ha vissuto la povertà, quella vera. Per questo, oggi lo omaggiamo con alcuni significativi riferimenti alla sua infanzia travagliata. Quando nel 1952 Putin viene al mondo, la sua città natale, Leningrado, è un cumulo di macerie. L’odierna San Pietroburgo, infatti, ha subito il più terribile assedio della seconda guerra mondiale: tre anni di fame, paura e morte durante i quali persero la vita un milione di cittadini russi. Putin perse un fratello, Viktor, morto durante l’assedio a 9 anni, e che il presidente non ha mai conosciuto. Un altro, Oleg, era morto alla nascita. La mamma soffre di denutrizione e il padre, ex combattente, è un ferito di guerra. Da bambino era piccolo e di statura e gracile, ma fin dall’età infantile si rivelò un avido lettore, uno degli elementi che fin da subito mi sorpresero di più e che mi portarono ad affrontare i libri letti da Putin e l’ambito filosofico che più lo formò.A 12 anni lesse “Lo scudo e la spada”, bestseller ove si narrano le gesta di una spia sovietica. Suggestioni che lo porteranno da adulto ad intraprendere una carriera nel servizio segreto dell’Urss, il famigerato Kgb. Il primo serio tentativo della Russia di resistere all’americanizzazione e alla globalizzazione viene da queste esperienze, perchè la scuola del Kgb non era una scuola come le altre. Ma se il Kgb ha forgiato Volodja, anche la Kommunalka lo ha forgiato. Eccome. Di cosa si tratta? La kommunalka è una sorta di condominio, ma gestito in modo comunitario tra diverse famiglie: stanze scarsamente illumintate, androni desolati, rampe di scale fatiscenti, pavimenti bucati, immondizia abbondante dentro i palazzi. In quei cortili, tra risse con i coetanei e vendette, Volodja ha passato la sua giovinezza. Il padre si era arruolato come fuciliere dell’85esimo battaglione d’assalto dell’Armata Rossa e fu costretto a combattere casa per casa nella celeberrima “sacca della Neva”. Come in un film, Spiridonovic Putin fu un vero sabotatore, per miracolo sopravvissuto ad una missione suicida con un manipolo di coetanei.Ferito nella periferia della città qualche mese dopo l’impresa, il papà di Putin rischiò seriamente la morte. La mamma Maria per molto tempo non seppe che fine avesse fatto il marito. Quando, per puro caso, lo ritrovò la loro vita era in gran parte segnata perché entrambi deformati da denutrizione e ferite. Grazie a vecchie competenze acquisite sul campo, il padre di Putin troverà lavoro come operaio specilizzato nelle officine Yegorov, che trattavano materiale ferroviario, la madre Maria farà la facchina ai mercati e poi verrà impiegata in una sorta di ospizio. La maggior parte del tempo, comunque, la donna lo passava a cercare cibo da mettere in tavola. E la Kommunalka? Più famiglie in coabitazione, ove ogni nucleo disponeva di una sola stanza con bagno in comune e cucina in comune. Dunque, per mangiare a pranzo e a cena, occorreva fare i turni e le fila, con tutte le litigate, a volte anche furibonde, che possiamo immaginarci. Inutile dire che una vita come questa fu caratterizzata da degrado e amici teppisti di strada, tra scazzottate e bevute.I topi erano onnipresenti nella Leningrado anni Cinquanta e Sessanta, e non era affatto raro, per Putin, affrontarli nelle staze del palazzo in cui viveva per ucciderli con mezzi di fortuna. Anche la vita scolastica non fu delle più facili e Putin tra i banchi si dimostrò intelligente, ma sovente ribelle, spesso punito ed escluso dai circoli studenteschi che contavano. Senza pena di smentita posso affermare che una vita come questa, segnata dalla povertà e dalle ristrettezze, ha forgiato il carattere dell’uomo più degli studi di giurisprudenza e dei corsi specializzati del Kgb. Certamente, ha reso il presidente russo maggiormente temprato alle difficoltà, alla strategia e alla freddezza decisionale dei numerosi figli di papà che caratterizzano la nostra classe dirigente, pubblica o privata che sia.(Massimo Bordin, “L’infanzia di Volodja, alias Vladimir Putin”, dal blog “Micidial” del 7 ottobre 2017).Oggi, Vladimir Vladimirovic Putin, detto Volodja, compie 65 anni. Molti sanno della sua vita politica e il recente film di Oliver Stone ne sta mettendo in luce gli aspetti più interessanti. Pochissimi sanno però della sua incredibile infanzia. A fronte di leader politici vissuti da bambini in ville con piscina, tra lussi e scuole di prestigio come Obama, Trump e Macron, Putin ha vissuto la povertà, quella vera. Per questo, oggi lo omaggiamo con alcuni significativi riferimenti alla sua infanzia travagliata. Quando nel 1952 Putin viene al mondo, la sua città natale, Leningrado, è un cumulo di macerie. L’odierna San Pietroburgo, infatti, ha subito il più terribile assedio della seconda guerra mondiale: tre anni di fame, paura e morte durante i quali persero la vita un milione di cittadini russi. Putin perse un fratello, Viktor, morto durante l’assedio a 9 anni, e che il presidente non ha mai conosciuto. Un altro, Oleg, era morto alla nascita. La mamma soffre di denutrizione e il padre, ex combattente, è un ferito di guerra. Da bambino era piccolo e di statura e gracile, ma fin dall’età infantile si rivelò un avido lettore, uno degli elementi che fin da subito mi sorpresero di più e che mi portarono ad affrontare i libri letti da Putin e l’ambito filosofico che più lo formò.
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Un mondo migliore? No, grazie. Così la letteratura è morta
Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.Sembra che l’Impero Romano avesse perso la sua anima molto prima di scomparire come organizzazione politica. Spesso, ho l’impressione che stiamo seguendo la stessa strada verso il collasso seguita dall’Impero Romano, ma più rapidamente. Fatevi questa domanda: riesco a citare un pezzo letterario recente (intendo, diciamo, di 10 o 20 anni) che penso che i posteri ricorderanno? (E non come esempio di cattivo gusto). Personalmente non ci riesco. E penso che si possa dire che la letteratura nel mondo occidentale abbia declinato a partire degli anni 70, più o meno, e che oggi non sia più una forma d’arte vitale. Naturalmente, le percezioni in questo campo potrebbero essere molto diverse, ma posso citare un sacco di grandi romanzi pubblicati durante la prima metà del XX secolo, racconti che hanno cambiato il modo in cui le persone guardavano il mondo. Pensate alla grande stagione degli scrittori americani a Parigi degli anni 20 e 30, pensate a Hemingway, a Fitzgerald, a Gertrude Stein e a molti altri. E a come la letteratura americana ha continuato a produrre capolavori, da John Steinbeck a Jack Kerouac ed altri. Ora, siete in grado di citare uno scrittore americano equivalente successivo?Pensate a grandi scrittori come John Gardner, che scriveva negli anni 70 ed oggi è stato in gran parte dimenticato. Qualcosa di simile sembra essere successo dall’altra parte della Cortina di Ferro, dove diversi scrittori sovietici dotati (Dudintsev, Grossman, Solzhenitsyn ed altri) hanno prodotto un corpus letterario negli anni 50 e 60 che ha fortemente cambiato l’ortodossia sovietica ed ha giocato un ruolo nel crollo dell’Unione Sovietica. Ma non sembra che esista più nulla di paragonabile nei paesi dell’Europa dell’est che si possa paragonare a quei romanzi. Non è solo una questione di letteratura scritta, le arti visuali sembrano aver attraversato lo stesso processo di appassimento: pensate a Guernica di Picasso (1937) come ad un esempio. Riuscite a pensare a qualcosa dipinta negli ultimi decenni con un impatto lontanamente comparabile? Riguardo ai film, quale è stato davvero originale o ha cambiato la percezione del mondo? Forse coi film stiamo facendo meglio che con la letteratura scritta, perlomeno alcuni film non passano inosservati, anche se i loro meriti letterari sono discutibili.Pensate a “La notte dei morti viventi” di George Romero, che risale al 1968 e che ha generato uno tsunami di imitazioni. Pensate a “Guerre Stellari” (1977), che ha plasmato un intero piano strategico dei militari statunitensi. Ma durante l’ultimo decennio, più o meno, l’industria cinematografica non sembra essere stata in grado di fare meglio che lanciare legioni di zombi e mostri assortiti contro gli spettatori. Non che non abbiamo più bestseller, proprio come abbiamo film da blockbuster. Ma siamo in grado di produrre qualcosa di originale e rilevante? Sembra che abbiamo ripercorso i passi dell’Impero Romano: non siamo più in grado di produrre un Virgilio, al massimo un equivalente di Ausonio. E c’è una ragione per questo. La letteratura, quella grande, ha a che fare col cambiare la visione del mondo del lettore. Un grande romanzo, un grande poema, non sono solo una trama interessante o delle belle immagini. La buona letteratura porta avanti un sogno: il sogno di un mondo diverso. E quel sogno cambia il lettore, lo rende diverso. Ma per svolgere questa azione, il lettore deve essere in grado di sognare un cambiamento. Deve vivere in una società dove sia possibile, almeno teoricamente, mettere in pratica i sogni. Ma non è sempre così.Nell’Impero Romano del IV e V secolo D.C., il sogno era scomparso. I Romani si erano ritirati dietro le loro fortificazioni ed avevano sacrificato tutto – compresa la loro libertà – in nome della sicurezza. La poesia era diventata semplicemente una lode al governante di turno, la filosofia una compilazione dei lavori precedenti e la storia una mera cronaca. Una cosa del genere sta capitando a noi oggi: dove sono finiti i nostri sogni? Ma è anche vero l’uomo non vive di solo pane. Ci servono i sogni come ci serve il cibo. E i sogni sono qualcosa che l’arte ci può portare; sotto forma di letteratura o altro, non importa. E’ il potere dei sogni che non può mai scomparire. Se la letteratura romana era scomparsa come fonte originale di sogni, poteva ancora funzionare come veicolo di sogni provenienti dall’esterno dell’impero. Dal Confine Orientale dell’Impero, i culti di Mitra e di Cristo avrebbero fatto incursioni profonde nelle menti romane.All’inizio del V secolo, in una città di provincia meridionale assediata dai barbari, Agostino, il vescovo di Ippona, ha completato “La Città di Dio”, un libro che leggiamo ancora oggi e che ha cambiato per sempre il concetto di narrativa; è stato forse il primo romanzo – in senso moderno – mai scritto. Pochi secoli dopo, quando l’Impero non era niente di più che una memoria spettrale, un poeta sconosciuto ha composto il Beowulf e, ancora più tardi, è apparsa la saga dei Nibelunghi. Durante questo periodo, sono cominciate ad apparire le storie sul signore della guerra della Britannia che poi sarebbero confluite nel Ciclo Arturiano, forse il cuore della nostra visione moderna della letteratura epica. Così, il sogno non è morto. Da qualche parte, ai margini dell’impero, o forse al di fuori di esso, qualcuno sta sognando un bel sogno. Forse lo scriverà in una lingua lontana o forse userà il linguaggio dell’Impero. Forse userà un mezzo diverso dalla parola scritta, non possiamo dirlo. Ciò che possiamo dire è che, un giorno, questo nuovo sogno cambierà il mondo.(Ugo Bardi, “Dove sono finiti tutti i nostri sogni? La morte della letteratura occidentale”, dal blog di Bardi del 21 gennaio 2015).Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.
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Jama: medici pagati da 50 anni per mentire sullo zucchero
Per più di cinquant’anni l’industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l’attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Jama Internal Medicine”, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente. «Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni», ha detto al “New York Times” Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il “depistaggio” si sarebbe verificato a partire dagli anni ‘60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come “Sugar research foundation”, oggi divenuto “Sugar Association”, avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul “New England Journal of Medicine” uno studio che distruggesse l’immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.«La ricerca concludeva che, “senza dubbio”, l’unico modo per prevenire i problemi cardiaci era quello di ridurre il colesterolo e i grassi saturi», spiegano gli autori del report su “Jama”. In altre parole, gli scienziati si adoperarono per sottovalutare pubblicamente il ruolo dello zucchero nel causare malattie cardiovascolari. Sebbene i ricercatori di allora non siano più rintracciabili, perché ormai deceduti, si sa che uno di questi, Mark Hegsted, divenne capo della divisione che si occupa di nutrizione al Dipartimento dell’Agricoltura e che il suo gruppo pubblicò le linee guida sull’alimentazione nel 1977. Un altro, il dottor Fredrick J. Stare, ricoprì il ruolo di presidente del dipartimento di nutrizione di Harvard. Nonostante i fatti risalgano a decenni fa, il tema è destinato ad aprire un nuovo dibattito. «Questo incidente di cinquant’anni fa potrebbe sembrare storia antica – spiega in un editoriale Marion Nestle, professoressa di “food policy” alla New York University – ma è rilevante perché risponde ad alcune domande che ci poniamo ancora oggi. È vero che le lobby dello zucchero hanno manipolato la ricerca in loro favore? Sì, è vero, e la pratica continua».«Il nostro studio mette in luce il bisogno di fare più attenzione e non dare la ricerca sempre per scontata», spiegano gli autori. «Ci sono molti modi in cui uno studio può essere manipolato, dalle domande che pone e si pone al come le informazioni vengono analizzate fino al modo in cui le conclusioni vengono riportate nel testo». C’è di che tenere gli occhi aperti, insomma. Anche perché la Sugar Association, come riporta “Vox”, continua a pubblicare le sue linee-guida sul rapporto tra zuccheri e salute del cuore. Dal canto suo, l’associazione si è difesa: «Lo studio di “Jama” cavalca il trending dell’anti-zucchero. Le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce che lo zucchero non ha una responsabilità univoca sulle malattie del cuore. Siamo preoccupati per la crescente diffusione di articoli ideati apposta per prendere click e che minano la qualità delle ricerche scientifiche, ma siamo ancora più delusi dal fatto che un simile report sia apparso su una rivista come “Jama”».(“La lobby dello zucchero ci ha ingannato per 50 anni, medici pagati per mentire: uno studio su Jama svela anni di depistaggi”, dall’“Huffington Post” del 13 settembre 2016).Per più di cinquant’anni l’industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l’attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Jama Internal Medicine”, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente. «Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni», ha detto al “New York Times” Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il “depistaggio” si sarebbe verificato a partire dagli anni ‘60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come “Sugar research foundation”, oggi divenuto “Sugar Association”, avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul “New England Journal of Medicine” uno studio che distruggesse l’immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.
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Migranti, ora basta. Il super-potere: ci costano troppo
Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».Al netto della retorica, fa notare Camarota in premessa, il motto elettorale “America First” di Donald Trump coincide perfettamente con la storica posizione della democratica Barbara Jordan, icona dei diritti civili statunitensi e già stratega di Bill Clinton: «Nel dibattito sull’immigrazione c’è un solo tema fondamentale, ed è il benessere del popolo americano». Ovvero: «Gestire l’immigrazione in modo che serva l’interesse nazionale». Cosa che, secondo l’analista di “Foreign Affairs”, negli ultimi 50 anni non è avvenuta. Solo che «il dibattito sull’argomento è stato smorzato». Manipolazione politico-mediatica: «I decisori politici e gli opinionisti di entrambi i partiti hanno teso a sovrastimare i benefici e a sottovalutare o ignorare i costi dell’immigrazione», scrive Camarota. Trump ha sfruttato elettoralmente il disagio per l’immigrazione irregolare? Vero, ma il disastro non l’ha creato lui, ammette l’analista: negli Usa ci sono troppi immigrati irregolari e non. «Gli Stati Uniti attualmente garantiscono ogni anno un milione di permessi legali di residenza permanente agli immigrati (o “carta verde”), il che significa che possono rimanere fino a quando desiderano e diventano cittadini dopo cinque anni, o tre se sono sposati con un cittadino statunitense. Annualmente arrivano anche circa 700.000 visitatori a lungo termine, soprattutto lavoratori ospiti e studenti stranieri».Un così grande afflusso annuale, agiunge Camarota, si somma nel tempo: nel 2015 i dati del Census Bureau indicano che nel paese vivevano 43,3 milioni di immigrati – il doppio del numero del 1990. «I dati del censimento comprendono circa 10 milioni di immigranti clandestini, mentre circa un altro milione di persone non viene conteggiato». In più, ci sono gli effetti dello “ius soli”: «Contrariamente alla maggior parte dei paesi, gli Stati Uniti concedono la cittadinanza a chiunque nasca su suolo americano, inclusi i figli dei turisti o degli immigrati clandestini, per cui i dati sopra riportati non comprendono nessuno dei bambini di immigrati nati negli Stati Uniti». I sostenitori dell’immigrazione sostengono che l’America è una “nazione di immigrati”, e certamente «l’immigrazione ha svolto un ruolo importante nella storia americana». Tuttavia, osserva Camarota, «gli immigrati attualmente rappresentano il 13,5% della popolazione totale statunitense, la percentuale più alta in oltre 100 anni». Il Census Bureau prevede che entro il 2025 la percentuale di immigrati nella popolazione raggiungerà il 15%, superando il record del 14,8%, raggiunto nel 1890. «Senza una modifica della politica, questa percentuale continuerà ad aumentare per tutto il ventunesimo secolo».Conteggiando gli immigrati e i loro discendenti, il Pew Research Center stima che dal 1965, anno in cui gli Stati Uniti liberalizzarono le proprie leggi, l’immigrazione ha aggiunto 72 milioni di persone nel paese, «un numero maggiore della popolazione attuale della Francia». Tenuto conto di questi numeri, scrive Camarota, è sorprendente che i funzionari pubblici «si siano concentrati quasi esclusivamente sugli 11-12 milioni di immigrati clandestini del paese, che rappresentano solo un quarto della popolazione totale degli immigrati». L’immigrazione legale, infatti, «ha un impatto molto più grande sugli Stati Uniti». Ma i leader del paese «raramente si sono posti le grandi domande». Per esempio: qual è la capacità di assorbimento delle scuole e delle infrastrutture nazionali? Come se la caveranno gli americani meno qualificati nel mercato del lavoro, in concorrenza con gli immigrati? Oppure, forse la più importante: quanti immigrati gli Stati Uniti sono in grado di assimilare nella propria cultura? «Trump non sempre ha approcciato queste domande con attenzione, o con molta sensibilità, ma va a suo merito averle almeno sollevate».Secondo gli integrazionisti, visto che l’America riuscì ad assorbire l’ultima grande ondata del passato, quella dal 1880 al 1920, tutti gli immigrati si assimileranno, oggi e domani. Ma le condizioni di ieri non sono quelle attuali, obietta Camarota: negli ultimi decenni «la crescita marcata delle enclave di immigrati ha probabilmente rallentato il ritmo di assimilazione», e oggi «la moderna economia americana ha meno buoni posti di lavoro per i lavoratori non qualificati». Ecco perché «gli immigrati non migliorano nel tempo la loro situazione economica», come invece facevano in passato. Ma è cambiato anche l’atteggiamento degli americani verso gli immigrati, che ieri erano competamente soli, mentre oggi – grazie al web e alla telefonia mobile – sono in contatto permanente con la terra d’origine. «In passato c’era un consenso più vasto sulla desiderabilità dell’assimilazione», sostiene Camarota. Il giudice della Corte Suprema di Giustizia Louis Brandeis, figlio di immigrati ebrei, in un discorso sul “vero americanismo” nel 1915 dichiarò che gli immigrati, oltre a imparare l’inglese, dovevano «essere portati in completa armonia con i nostri ideali e le nostre aspirazioni». Oggi non è più così: il forte accento sull’assimilazione «è stato sostituito con il multiculturalismo, che sostiene che non esiste una singola cultura americana, che gli immigrati e i loro discendenti dovrebbero mantenere la loro identità, e che il paese dovrebbe adattarsi alla cultura dei nuovi arrivati anziché il contrario».Per Camarota, l’istruzione bilingue, i distretti legislativi disegnati lungo linee etniche e le schede elettorali in lingua straniera «incoraggiano gli immigrati a considerarsi separati dalla società e bisognosi di un trattamento speciale a causa dell’ostilità degli americani comuni». Per John Fonte, studioso dell’Hudson Institute, queste politiche – che spingono gli immigrati a mantenere la loro lingua e cultura – rendono meno probabile la loro assimilazione sociale. Un recente sondaggio “Associated Press”, aggiunge Camarota, ha scoperto che la maggior parte degli americani pensa ancora che il proprio paese dovrebbe avere una cultura fondamentale che gli immigrati adottino. Ma il tipo di assimilazione finora tentato «non ha più il sostegno dell’elite», osserva l’analista. Come sottolinea lo psicologo politico Stanley Renshon, molte organizzazioni incentrate sugli immigrati oggi aiutano gli immigrati a imparare l’inglese, ma lavorano duramente anche per rafforzare i legami con il vecchio paese. E questo evidenzia anche l’altra area di contesa nel dibattito sull’immigrazione, cioè il suo impatto economico e fiscale: «Molte famiglie immigrate prosperano negli Stati Uniti, ma una grande parte non ci riesce, aggiungendosi in modo significativo ai problemi sociali già esistenti».Numeri preoccupanti: «Quasi un terzo di tutti i bambini americani che vivono in povertà oggi hanno un padre immigrato, e gli immigrati e i loro figli rappresentano quasi un terzo dei residenti Usa senza un’assicurazione sanitaria», rileva “Foreign Affaris”. Nonostante alcune restrizioni alla capacità dei nuovi immigrati di utilizzare programmi di assistenza basati sul reddito, circa il 51% delle famiglie immigrate usa il sistema previdenziale, rispetto al 30% delle famiglie native. Delle famiglie con figli, i due terzi rientrano in programmi di assistenza alimentare. «Tagliare fuori gli immigrati da questi programmi sarebbe sciocco e politicamente impossibile – ragiona Camarota – ma è giusto mettere in discussione un sistema che accoglie immigrati così poveri da non poter nutrire i propri figli». La maggior parte degli immigrati arriva negli Stati Uniti per lavorare. «Ma poiché il sistema legale dell’immigrazione statunitense privilegia le relazioni familiari sulle competenze professionali – e poiché il governo ha generalmente tollerato l’immigrazione clandestina – gran parte degli immigrati non è qualificata. Infatti, metà degli immigrati adulti negli Stati Uniti non hanno alcuna istruzione oltre la scuola superiore. Questi lavoratori hanno generalmente guadagni bassi, il che significa che si appoggiano alla previdenza sociale anche se stanno lavorando».Recenti studi statistici dimostrano che gli immigrati e le loro famiglie «utilizzano servizi pubblici per un valore notevolmente più alto di quante tasse pagano», con un “drenaggio fiscale” di quasi 300 miliardi di dollari l’anno. Attualmente, il bilancio fiscale è pesantemente negativo. Enorme, poi, l’impatto sul mercato del lavoro. Uno dei principali economisti statunitensi dell’immigrazione, George Borjas di Harvard, ha recentemente scritto sul “New York Times” che, aumentando l’offerta di lavoratori, l’immigrazione riduce i salari per alcuni americani: sono immigrati «un terzo dei lavoratori edili». Sicché, «i perdenti dell’immigrazione sono gli americani meno istruiti, molti dei quali neri e ispanici, che lavorano in queste occupazioni». E se il multiculturalismo assicura che i migranti risolveranno il problema demografico dei paesi occidentali, la cui popolazione invecchia, l’economista Carl Schmertmann ha mostrato più di due decenni fa che «l’afflusso costante di immigrati, anche in età relativamente giovane, non necessariamente ringiovanisce una popolazione a bassa fertilità».Nel 2015, scrive Camarota, l’età media di un immigrato era di 40 anni, contro i 36 per i nativi. E il tasso di fertilità globale degli Stati Uniti, inclusi gli immigrati, è di 1,82 bambini per donna, che scende solo a 1,75 quando gli immigrati vengono esclusi dal conteggio. «In altre parole, gli immigrati aumentano il tasso di fertilità di appena il 4%». L’ultimo argomento a favore degli immigrati si concentra sui benefici per i profughi più poveri, diretti nel Primo Mondo. «Ma, data la portata della povertà del Terzo Mondo, l’immigrazione di massa non è la forma migliore di soccorso umanitario: più di tre miliardi di persone nel mondo vivono in povertà, guadagnando meno di 2,50 dollari al giorno», riferisce “Foreign Affaris”. «Anche se l’immigrazione legale triplicasse a tre milioni di persone all’anno, gli Stati Uniti farebbero comunque entrare solo l’un per cento dei poveri del mondo ogni decennio. Al contrario – avverte Camarota – l’assistenza allo sviluppo potrebbe aiutare molte altre persone nei paesi a basso reddito».L’ultima volta che gli Usa limitarono l’immigrazione fu a metà degli anni ’90, con Barbara Jordan. «Clinton inizialmente sembrava approvare le raccomandazioni, ma poi cambiò inclinazione dopo la morte della Jordan e il vento politico mutò direzione. Il tentativo di abbassare il livello di immigrazione è stato sconfitto nel Congresso dalla stessa strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che hanno dominato il dibattito pubblico sull’immigrazione da allora fino all’era Trump». Con l’elezione di “The Donald”, potrebbe essere possibile un compromesso politico negli Stati Uniti? L’analista di “Foreign Affaris”, voce ufficiale del Council on Foreign Relations, avanza possibili soluzioni alternative. Per esempio, legalizzare «alcuni immigrati clandestini», in cambio però «di una politica più restrittiva su chi entra». Inoltre, «dare precedenza all’immigrazione qualificata», istruita, più facile da assimilare. Realisticamente, in ogni caso, l’immigrazione rimarrà controversa: «Per il futuro prevedibile, il numero di persone che vorranno venire nei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, sarà molto più grande di quello che questi paesi sono disposti ad accettare o in grado di permettersi».Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».
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Chi comanda il mondo: ecco il Council on Foreing Relations
Ha un potere immenso, spesso evocato ma mai visibile. E’ il Cfr, Council on Foreign Relations, potentissimo think-tank mondialista fondato negli Usa nel lontano 1921 da John Davis, allora a capo della super-banca Jp Morgan. «Il denaro erogato per la costituzione di questa organizzazione fu fornito dalla famiglia Rockefeller, da Jp Morgan, Bernard Baruch, Otto Kahn, Jacob Schiff, Paul Warburg, le stesse persone coinvolte nella fondazione della Federal Reserve», ricorda “AgoraVox”. Rappresenta il nuovo ordine mondiale pienamente realizzato, quello del business neoliberista, grazie alla globalizzazione universale e ai suoi politici di complemento, tra cui gli italiani Amato e Prodi, D’Alema, Emma Bonino. «Quello del Cfr è un salotto che conta davvero, attraverso il quale, finora inutilmente, Matteo Renzi ha tentato di essere introdotto nel network supermassonico internazionale», sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, uscito a fine 2014. «Il Cfr è un salotto tecnicamente paramassonico, cioè fondato da massoni ma aperto a non-massoni, e di chiaro orientamento neo-conservatore e neo-aristocratico».Il Cfr mtte insieme finanza, grande industria, politica, editoria, università, magistrati e militari. In altre parole, “suggerisce” le linee-guida della politica internazionale, sulla base degli studi prodotti dai suoi analisti, finanziati dal super-capitale. Tra gli attuali finanziatori, segnala “AgoraVox”, figurano colossi finanziari come American Express, American Security Bank, Chase Manhattan Bank, e poi McKinsey, Manufacturers Honover Trust, Coopers & Librand, Hill & Knowlton, e – fino al 2011 – anche Lehman Brothers. Accanto ad essi, compaiono più importanti marchi industriali del mondo. Tra questi Coca Cola e Pepsi Cola, Rjr Nabisco (tabacco), le multinazionali del cibo (Cargill, Archer Daniel Midland), il gigante pubblicitario Young & Rubicam, quindi la Itt telecomunicazioni e primattori della farmaceutica (Johnson & Johnson, Glaxo Smithkline Beecham). Senza contare Elf, Mobil ed Exxon (petrolio), Volvo Usa e General Motors, General Electric, Salomon e Levi’s, più l’italiana Finmeccanica.Folta, nel board europeo, la presenza di connazionali: da Giampiero Auletta Armenise della Rothschild Bank a Marta Dassù (Aspen, Aspenia, governi Monti e Letta), passando per Franco Frattini, il renziano Sandro Gozi, la presidente Rai Monica Maggioni, l’europarlamentare Pd Alessia Mosca, Lapo Pistelli (Eni). Ci sono due ambasciatori – Pasquale Salzano (Qatar) e Stefano Sannino (Spagna) – più politici come Lia Quartapelle e il sottosegretario agli esteri Vincenzo Amendola, entrambi del Pd, nonché Marco Margheri (Edison), Nicolò Russo Perez (Compagnia di San Paolo) e Giuseppe Scognamiglio (Unicredit), la finanziera Luisa Todini e Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali. Tra i big europei figurano il francese Pierre Moscovici, “ministro delle finanze” della Commissione Europea, il tedesco Joschka Fischer, già ministro degli esteri e vice di Gerhard Schröder, l’ex presidente finlandese Martti Ahtisaari, il greco George Papandreou (già primo ministro), l’inglese Timothy Garton Ash (Oxford) e due spagnoli, Joaquín Almunia (vicepresidente della Commissione Ue) e l’intramontabile Javier Solana, già “ministro degli esteri” Ue ed ex segretario generale della Nato.«Perchè pochissime persone conoscono il Cfr?», si domanda “AgoraVox”, ricordando che ne hanno fatto parte anche Angela Merkel e Tony Blair, il sovrano svedese Carl Gustav XVI nonché Bill Clinton e Margaret Thatcher, insieme a Mario Draghi, Berlusconi, George W. Bush, Corrado Passera, Gianni Riotta, Giulio Tremonti e Marco Tronchetti Provera. Insieme a strutture istituzionali (Fmi, Banca Mondiale e Bis, Bank of International Settlements) nonché organismi paralleli di vertice, dalla Commissione Trilaterale al Gruppo Bilderberg, il Council on Foreign Relations, al pari del suo corrispettivo inglese (Chatam House, “The Royal Institute of International Affairs) rappresenta il massimo punto d’incontro, in Occidente, tra economia, finanza e politica. Un super-salotto, dove si affronta in anticipo qualsiasi risvolto geopolitico, per poi “indirizzare” in modo preciso i vari leader locali, quelli che poi gli elettori voteranno, giudicandoli in base agli slogan delle loro campagne elettorali nazionali.Ha un potere immenso, spesso evocato ma mai visibile. E’ il Cfr, Council on Foreign Relations, potentissimo think-tank mondialista fondato negli Usa nel lontano 1921 da John Davis, allora a capo della super-banca Jp Morgan. «Il denaro erogato per la costituzione di questa organizzazione fu fornito dalla famiglia Rockefeller, da Jp Morgan, Bernard Baruch, Otto Kahn, Jacob Schiff, Paul Warburg, le stesse persone coinvolte nella fondazione della Federal Reserve», ricorda “AgoraVox”. Rappresenta il nuovo ordine mondiale pienamente realizzato, quello del business neoliberista, grazie alla globalizzazione universale e ai suoi politici di complemento, tra cui gli italiani Amato e Prodi, D’Alema, Emma Bonino. «Quello del Cfr è un salotto che conta davvero, attraverso il quale, finora inutilmente, Matteo Renzi ha tentato di essere introdotto nel network supermassonico internazionale», sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, uscito a fine 2014. «Il Cfr è un salotto tecnicamente paramassonico, cioè fondato da massoni ma aperto a non-massoni, e di chiaro orientamento neo-conservatore e neo-aristocratico».
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Se il popolo di Vasco marciasse contro il governo zootecnico
Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».Bisognerebbe «gridare che le mitiche speranze dell’europeismo sono state tradite», e che «nel mondo reale, il liberismo di mercato non ha gli effetti promessi dal modello ideale, ossia che il mercato non è “libero” ma gestito da cartelli: non tende a evitare o assorbire le crisi, ma le genera e amplifica», onde «non a distribuire le risorse, ma concentrarle in mano a pochi monopolisti». E’ un sistema che «dissolve la società invece di renderla più efficiente», anzi «dissolve l’idea stessa dell’uomo», scrive Della Luna. «Se i giovani per una volta dormissero all’addiaccio, pagassero i trasporti verso Roma, si comportassero per qualche giorno da soldati politici – dice Blondet nel suo blog – farebbero paura al governo che ci è stato imposto dalla Banca Centrale e da Bruxelles, ai parlamentari che dipendono dalle lobbies e comitati d’affari, e che hanno svenduto l’Italia, le sue industrie e la sua sovranità agli interessi stranieri». Della Luna, annota Blondet, è stato «il primo in Italia ad avvertirci che il capitalismo terminale globale fa soldi non più producendo merci ma bolle finanziarie per poi farle scoppiare: non ha più bisogno di lavoratori, produttori, operai, eserciti di massa – né quindi di mantenere sani, efficienti, istruiti, men che meno prosperi e soddisfatti i popoli». Non servono più, i popoli, e neppure i consumatori (risale infatti al 2010 il suo saggio “Oligarchie per popoli superflui”).In questo nuovo saggio, Della Luna ci avverte che il sistema è entrato in una fase ulteriore e più letale, anti-umana. Ormai persino il profitto finanziario «ha perso importanza, sia come scopo che come mezzo». Basta ricordare «le migliaia di miliardi che le banche centrali (appartenenti alla finanza privata) creano dal nulla per mantenere a galla il sistema, mettendoli a disposizione di chi comanda in misura illimitata». E il denaro creato dal nulla «genera un flusso di cassa positivo, ossia un reddito, che la banca incassa, ma su cui non paga le tasse», perché a pagare sono i contribuenti. Della Luna giunge a preconizzare perfino «il tramonto della finanza», inteso come «sistema di dominio della società». Un tramonto che però non coinciderà con la nostra liberazione: è già in arrivo «il dominio diretto e materiale sulla società», attraverso la «gestione coercitiva del demos, potente e unilaterale, e insieme non responsabile delle scelte verso i suoi amministrati». Questo nuovo potere, «non diversamente dalla zootecnia», non è responsabile verso gli animali che “alleva”, cioè noi. Governo zootecnico: «L’allevamento-condizionamento di masse umane per l’utilità degli allevatori». Già lo fanno per via mediatica, «restringendo e omogeneizzando le rappresentazioni che gli umani hanno della realtà».Di fatto, continua Della Luna, stanno già «tabuizzando e psichiatrizzando il dissenso e la contro-informazione», fino a renderla penalmente perseguibile. Lo fanno con “la Buona Scuola”, l’attuale sistema educativo congegnato in modo da non sviluppare facoltà cognitive, né l’attenzione sostenuta, né la capacità di auto-dominio: è il metodo perfetto per «produrre persone deboli, dipendenti, condizionabili, incapaci di opporsi». Non si tratta di risultati fallimentari e ideologie erronee. Al contrario, dice Della Luna: sono effetti perseguiti deliberatamente per «semplificare» l’uomo, standardizzandolo in vista dell’allevamento zootecnico. «Impressionante – aggiunge Blondet – è l’esempio che fa della scomparsa della borghesia produttiva, culturalmente vivace e reattiva, rovinata dalle crisi deflattive continue e dal fisco rapacissimo». Non è un caso malaugurato. E’ che «la piramide sociale va interrotta lasciando uno spazio vuoto sotto il suo apice», il famigerato 1% che concentra l’80% delle ricchezze, «così che l’apice sia al sicuro dalle scalate (mobilità verticale) e dagli attacchi delle classi intermedie erudite».L’obiettivo del vertice è «realizzare tra l’oligarchia e i popoli la medesima distanza e differenziazione qualitativa che c’è tra l’allevatore e gli animali allevati», secondo il modello zootecnico. «Nella chiave del governo zootecnico – scrive Blondet – diventano perfettamente spiegabili la plurivaccinazione obbligatoria dei cuccioli», cioè bambini. Se fossimo cittadini, e non polli d’allevamento, dovremmo rifiutare «la potestà giuridica di immettere nel corpo della gente sostanze attive», fra cui quelle basate su nanotecnologie e biotecnologie, «e molte di esse coperte da segreto militare o commerciale», rileva Della Luna. Sempre nella prospettiva dell’allevamento zootecnico acquista senso anche «il dogma dell’accoglienza e della mescolanza dei popoli», imposto come «evidente, dimostrato», presentando chi li contraddice come «irragionevole, malintenzionato, pericoloso, immorale». La verità è che, oltre ad essere in Italia un business, il «circuito dell’affarismo parassitario» che succhia denaro pubblico, il “dogma” pro-migranti «ha perfettamente senso dal punto di vista dell’allevatore: la trasformazione dall’alto del popolo, il popolo-bestiame, imponendo l’immigrazione sostitutiva delle popolazioni nazionali» nello stesso modo in cui l’allevatore inserisce nella stalla nuovi tori e nuove fattrici, per “migliorare la razza”.L’immigrazione caotica è anti-economica, diminuisce l’efficienza della società e costa moltissimo? Infatti, conferma l’autore: ciò dimostra che «la comprensione economicistica del divenire attuale è palesemente scavalcata». Quando la casta politica-amministrativa «lascia senza tetto e senza cibo i cittadini italiani mentre alloggia gli immigrati in alberghi a tre e quattro stelle», scrive Della Luna, quel che attua è «l’annullamento programmatico del concetto di cittadino come titolare di diritti specifici verso la sua polis», cioè «l’annullamento del “demos”, ossia del “popolo” come entità politica, padrona collettivamente delle proprie scelte». Un modello che «non implica affatto pace, sicurezza, efficienza per le popolazioni, esattamente come non le implica il modello zootecnico». Per gli allevatori, gli animali allevati «sono solo fonte di utilità; non hanno diritti né dignità riconosciuta». Dalla robotizzazione dell’industria all’elemosina elettorale degli 80 euro di Renzi: «La mancanza di redditi e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, rende queste masse sempre più passive, remissive», dunque «politicamente inattive». Ecco lo scopo.Se infatti il “capitalismo finanziario terminale” tende a «togliere alla gente tutto il reddito e tutti i risparmi disponibili», facendo passare a tutti la voglia di pagare le tasse, “lorsignori” sanno come scongiurare la possibile rivolta: «Contrariamente a quel che fa credere la narrativa hollywoodiana – scrive Blondet – le rivoluzioni non le fanno gli affamati», in coda alle mense della Caritas, ma «le classi emergenti nella prosperità», pronte a reclamare diritti politici. «Quelli con la pancia vuota sono passivi e remissivi, aspettano il bonus da 80 euro; i giovani passano da un precariato all’altro e non avranno mai una pensione sufficiente a farli sopravvivere: dunque pietiranno dallo Stato interventi, che saranno anno per anno, incerti, caritativi». Siamo ormai al “precariato ontologico”, lo stato nel quale puntano a ridurci come condizione naturale. La precarietà «assunta a paradigma normativo» ormai è la condizione standard dei giovani: uno “stipendio” da 450 euro al mese o, in alternativa, l’emigrazione in Nord Europa. «Siete già precari ontologici?», conclude Blondet, rivolgendosi ai giovani. «Per Vasco l’avete fatta, la marcia su Modena. Ne rifarete un’altra per rifiutare il governo zootecnico?».Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».
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Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto
Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».
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Il filosofo: diventare vegani è un obbligo, per noi occidentali
Amo gli animali e credo che abbiano il nostro stesso diritto di stare al mondo. Spesso si dice che essere “vegan” è una moda degli ultimi anni? La questione animale non coincide col veganismo ma è nata con la stessa filosofia. Già Aristotele, Platone, Pitagora, Plutarco parlano della relazione tra uomo e animali. Ma anche Cartesio o Heiddeger la affrontano. Possiamo dire che la questione animale è intrinsecamente legata alla cultura umana. In una delle prime opere d’arte di cui abbiamo testimonianza, le pitture nella Grotta di Chauvet, in Francia, troviamo raffigurati bisonti, mammut, rinoceronti, leoni, orsi, cervi. E così via. Il veganismo, invece, è un progetto culturale nato recentemente e strettamente legato al problema che lo ha generato: lo specismo, nato con l’industrializzazione della produzione del cibo. Sintetizzando, possiamo dire che nel dibattito sulla “questione animale” è diventato più stringente il tema del “mangiare o meno gli animali”. Per questo il veganismo è un prodotto tipicamente occidentale, che ha senso solo in una società dove esistono delle alternative al non mangiare carne.Cioè: non ha senso parlare di veganismo in Africa, ad esempio. Il veganismo è un prodotto tipico della società borghese occidentale. E ritengo, se vogliamo portare questo concetto alle estreme conseguenze, che dovremmo considerare molto più “vegano” un pescatore di un villaggetto thailandese che si nutre di quello che pesca rispetto a un turista occidentale che vola in aereo a Bangkok e si mette a cercare un supermercato dove acquistare un hamburger di soia preconfezionato. Nella nostra società, la scelta “vegan” è la migliore. Noi occidentali, se vogliamo vivere una vita giusta, abbiamo l’obbligo di diventare vegani. Non abbiamo altra scelta. L’uomo è un consumatore di suolo e la scelta “vegan” a livello alimentare – ad esempio – è la soluzione più veloce per ridurre il nostro impatto ambientale. Ma l’etica è contestuale, e la filosofia ha senso solo se tiene insieme l’utopia radicale e il mondo concreto. Bisogna anche prendere atto della realtà: un mondo umano senza violenza, sia contro gli altri uomini che contro gli altri animali, non è possibile. Anche se io lotterò sempre, fino alla fine, contro questa violenza.Come mi spiego un clima abbastanza diffuso di “diffidenza” verso chi ha scelto uno stile di vita non violento verso gli altri animali? L’animalismo è fatto anche di prese di posizioni radicali perché è nato in ambienti radicali negli anni ’70. Per questo spesso fa fatica ad accettare cambiamenti positivi, ad esempio nella situazione degli animali negli allevamenti o nelle tendenze di consumo. È abolizionista e non riduzionista. Inoltre dobbiamo tenere conto che gran parte del nostro sistema economico si regge sullo sfruttamento animale, e una critica a questo sistema è problematica. Bisogna poi sottolineare che quando il sistema in cui vivi giustifica un tipo di violenza (in questo caso contro gli animali) è difficile cambiare prospettiva. Per questo ritengo che oggi essere animalisti sia una scelta di infelicità. Perché è impossibile “integrarsi”, mescolarsi con altre culture (per esempio quando non puoi assaggiare e condividere certi cibi) e perché ogni giorno è fonte di sofferenza nel sapere e vedere cosa accade agli animali. Per questo non riesco a biasimare la miriade di persone che, coscienti della violenza delle nostra società, scelgono di non vedere. Lottare per cambiare questa situazione? Sì, certo. La mia vita perderebbe di senso se io stesso non lo facessi. L’animalismo è un esercizio di realtà, oltre che di amore. Recentemente è morto il mio cane, e non posso smettere di pensare a quante cose mi ha trasmesso. Gli animali sono una fonte meravigliosa di scoperta del mondo, e nutrirsi di loro è semplicemente una follia.(Leonardo Caffo, dichiarazioni rilasciate a Beatrice Montini per l’intervista “Noi occidentali abbiamo l’obbligo di diventare vegani”, pubblicata dal “Corriere della Sera” il 2 agosto 2017. Caffo, ricorda il “Corriere”, è uno dei pochissimi filosofi che in Italia si occupino di “antispecismo”. E’ autore di libri come “Il maiale non fa la rivoluzione”, edito da Sonda nel 2013).Amo gli animali e credo che abbiano il nostro stesso diritto di stare al mondo. Spesso si dice che essere “vegan” è una moda degli ultimi anni? La questione animale non coincide col veganismo ma è nata con la stessa filosofia. Già Aristotele, Platone, Pitagora, Plutarco parlano della relazione tra uomo e animali. Ma anche Cartesio o Heiddeger la affrontano. Possiamo dire che la questione animale è intrinsecamente legata alla cultura umana. In una delle prime opere d’arte di cui abbiamo testimonianza, le pitture nella Grotta di Chauvet, in Francia, troviamo raffigurati bisonti, mammut, rinoceronti, leoni, orsi, cervi. E così via. Il veganismo, invece, è un progetto culturale nato recentemente e strettamente legato al problema che lo ha generato: lo specismo, nato con l’industrializzazione della produzione del cibo. Sintetizzando, possiamo dire che nel dibattito sulla “questione animale” è diventato più stringente il tema del “mangiare o meno gli animali”. Per questo il veganismo è un prodotto tipicamente occidentale, che ha senso solo in una società dove esistono delle alternative al non mangiare carne.
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Ricerca inglese: ecco come morì davvero l’Isola di Pasqua
Come morirono gli abitanti dell’Isola di Pasqua? La fine della popolazione di Rapa Nui è da sempre avvolta nel mistero. Secondo alcune teorie formulate qualche tempo fa quando i conquistatori europei arrivarono sull’isola nel 1722 si trovarono di fronte una situazione catastrofica. Tutte le riserve di cibo erano terminate, a causa della sfruttamento delle risorse naturali e la popolazione era stremata dalla guerra civile e dalle malattie portate dai colonizzatori. In seguito il disboscamento avrebbe portato all’esaurimento del legno per realizzare le canoe, sottraendo alla popolazione autoctona qualsiasi possibilità di sopravvivenza e spingendola a sfamarsi unicamente con i ratti. La popolazione di Rapa Nui morì di fame? Secondo alcune recenti scoperte non andò proprio così e gli abitanti dell’isola non avrebbero compiuto un “ecocidio”, ma si sarebbero adattati alle condizioni dell’area, mostrando una forte sensibilità ecologica.Questa affascinante ipotesi è stata portata alla luce da uno studio dell’Università di Bristol, in Gran Bretagna, pubblicato sull’American Journal of Physical Anthropology. Gli studiosi hanno scoperto che gli abitanti si nutrivano soprattutto di pesce e frutti di mare, mentre il suolo veniva trattato con fertilizzanti naturali per renderlo fertile. La nuova scoperta è avvenuta grazie all’analisi al radiocarbonio su resti di piante, ossa umane e animali del 1400. La ricerca ha consentito di capire di cosa si nutrivano gli abitanti di Rapa Nui. Il risultato? La popolazione dell’Isola di Pasqua non mangiava ratti, ma si nutriva anche di frutta e verdura. Non solo: all’epoca esisteva una consapevolezza della povertà del suolo e una volontà di preservarlo, facendo molta attenzione allo sfruttamento delle risorse. Questo aspetto sino ad oggi era completamente sfuggito agli archeologi, che invece avevano dipinto la tribù dell’isola come votata ad una sorta di “suicidio”, provocato dal disboscamento e dall’utilizzo senza criterio dei terreni. Ora l’analisi dei resti ha consentito di riscrivere il passato e raccontare una nuova storia sui misteri dell’Isola di Pasqua.(“Isola di Pasqua, ecco come sono morti – davvero – gli abitanti”, da “Libero Notizie” del 30 luglio 2017).Come morirono gli abitanti dell’Isola di Pasqua? La fine della popolazione di Rapa Nui è da sempre avvolta nel mistero. Secondo alcune teorie formulate qualche tempo fa quando i conquistatori europei arrivarono sull’isola nel 1722 si trovarono di fronte una situazione catastrofica. Tutte le riserve di cibo erano terminate, a causa della sfruttamento delle risorse naturali e la popolazione era stremata dalla guerra civile e dalle malattie portate dai colonizzatori. In seguito il disboscamento avrebbe portato all’esaurimento del legno per realizzare le canoe, sottraendo alla popolazione autoctona qualsiasi possibilità di sopravvivenza e spingendola a sfamarsi unicamente con i ratti. La popolazione di Rapa Nui morì di fame? Secondo alcune recenti scoperte non andò proprio così e gli abitanti dell’isola non avrebbero compiuto un “ecocidio”, ma si sarebbero adattati alle condizioni dell’area, mostrando una forte sensibilità ecologica.