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Archivio del Tag ‘Cina’

  • Dal ‘45, Usa e Occidente hanno ucciso 55 milioni di persone

    Scritto il 16/9/16 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».
    La prima Guerra del Golfo ebbe inizio grazie ad un inganno: Saddam venne portato a credere che l’occupazione del Kuwait, che era stato un protettorato inglese ma che era rivendicato dall’Iraq fin dal 1961 come appartenente al suo territorio, sarebbe avvenuta senza l’interessamento degli Usa. «Fu una trappola tesa da April Gaspie, ambasciatrice Usa a Baghdad dell’epoca, che fece intendere che gli Usa non avrebbero interferito». Poi, l’11 settembre 2001, «l’abbattimento delle Torri Gemelle fornì il pretesto per terminare il lavoro». Dei 19 presunti attentatori nessuno era iracheno e nessuno era afghano: ben 15 di loro erano sauditi. Ma ad essere colpita non fu l’Arabia Saudita, bensì l’Afghanistan. «La sfortuna degli afghani – dice Ferrara – fu che in quel territorio doveva transitare un oleodotto, che i Talebani non volevano». Una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l’Afghanistan occidentale, cioè le province di Herat e Kandahar.
    Il progetto venne avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal, per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad, in cooperazione con il regime talebano. Nel 1996, la Unocal apre una sede a Kandahar. E l’anno dopo, esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa. Ma il piano viene poi accantonato per le difficoltà politiche imputabili ai Talebani. «La seconda sfortuna era che gli anni ’70 avevano visto il boom della produzione di oppio e di eroina in Afghanistan. Era il cosiddetto triangolo d’oro», formato da Laos, Birmania e Cambogia. Triangolo «controllato dalla Cia, che in questo modo finanziava le operazioni anticomuniste nel sud-est dell’Asia». I Talebani negli anni ’90 «continuarono il business della droga con la Cia, ma nel 2000 il Mullah Omar lo mise al bando, allo scopo di guadagnarsi un consenso internazionale». L’anno dopo, la produzione di oppio crollò a valori prossimi allo zero. «Grazie alla conquista dell’Afghanistan, la produzione di eroina afghana (che gli Usa si rifiutarono di combattere, sostenendo che non era compito loro) tornò presto a soddisfare il 93% del fabbisogno mondiale».
    Gli Stati Uniti non combattono mai una guerra inseguendo un solo obiettivo, continua Ferrara: secondo l’Unicef, i 10 anni di embargo all’Iraq hanno causato la morte di un milione e mezzo di persone, tra cui cinquecentomila bambini. Il segretario di Stato Usa Madeleine Albright, quando le fu chiesto di commentare la morte di questi 500 mila bambini, rispose che la scelta era stata difficile, ma che ne era valsa la pena. «La balla sesquipedale delle armi di distruzione di massa, che sarebbero state in mano a Saddam, fu la scusa per impadronirsi definitivamente dell’Iraq, nel quadro della strategia economico-commerciale “Pivot to Asia”, che mirava a cinturare la Cina per impedirle un’espansione a ovest». Ma le uniche armi di distruzione di massa in mano a Saddam «erano quelle che proprio gli Stati Uniti gli avevano venduto, perché fossero usate per lo sterminio dei curdi».
    Un genocidio, quello del Kurdistan iracheno, al quale abbiamo contribuito anche noi italiani, con la vendita a Saddam di ben 9 milioni di mine antiuomo: «Del resto ancora adesso Matteo Renzi ritiene doveroso fare affari con chi finanzia l’Isis». Ma anche supponendo che l’Iraq avesse posseduto quelle armi, aggiunge Ferrara, i 7.000 ordigni nucleari di cui gli Stati Uniti d’America sono dotati non sono forse “armi di distruzione di massa”? Bisognerebbe chiederlo all’allora vice di Bush, Dick Cheney, che «per pura coincidenza era anche a capo della grande azienda petrolifera Halliburton, che si avvantaggiò successivamente dell’occupazione dei pozzi petroliferi iracheni». Ma, chiusa la partita con l’Iraq, il processo di colonizzazione prevedeva l’invasione della Siria. «Senza dimostrare molta fantasia, gli Stati Uniti cercarono di convincere il mondo che Assad usava armi chimiche contro i suoi cittadini». Solo la ferma opposizione di Putin riuscì a bloccare Obama, che nel 2013 era a un passo dall’attacco.
    Serviva allora un’altra strategia: così si inventarono la guerra per procura. «Bisognava finanziare i gruppi che si opponevano ad Assad: Al Nusra e l’Isis. Così, arrivarono piogge di dollari statunitensi sugli jihadisti, come rivelarono in tanti, tra cui ex dipendenti della Cia, ex ufficiali». Michael Flynn: «Sostenere Isis fu una nostra decisione deliberata». Tra le ammissioni persino quelle di un senatore, Rand Paul, e di una deputata, Tulsi Gabbard. Per non parlare del vicepresidente Joe Biden, che nell’ottobre del 2014 rivelò che sugli jihadisti impegnati in Siria erano arrivate piogge di dollari statunitensi. «La vera ragione per cui Assad è stato attaccato – afferma Ferrara – è che nel 2009 si era rifiutato di far transitare sul proprio territorio un gasdotto, proposto dal Qatar e dall’Arabia Saudita, che doveva passare per la Turchia e avere come destinazione l’Europa, per togliere alla Russia di Putin il monopolio». Non solo: «Assad si era accordato con l’Iraq per accogliere un gasdotto alternativo, ed era dalla parte dei palestinesi contro le aggressioni dello Stato di Israele».
    Poco prima, il “trattamento” era toccato alla Libia, che possiede le riserve di petrolio africane più importanti: 48.000 miliardi di barili, più 1.500 miliardi di metri cubi di gas. «Ma in realtà Gheddafi fu fatto fuori anche per un’altra ragione: proprio come Saddam, aveva deciso di non vendere più il petrolio in dollari, bensì attraverso un’altra moneta sovrana che stava creando: il dinaro libico». Dalla Libia alla Siria, fino all’attuale terrorismo internazionale: i recenti attentati in Francia, Belgio e Germania «hanno delle analogie con quello che accadde in Italia negli anni ’90, dopo la rottura del patto Stato-mafia, quando Roma e Milano furono duramente colpite dalle ritorsioni di Cosa Nostra». Dietro ai kamikaze ci sono «veri professionisti del terrore, che da sempre hanno usato mercenari, criminali, fondamentalisti e perfino squilibrati per seminare la paura e instaurare, sotto la copertura di una finta democrazia, una dittatura economico-militare». I jihadisti, poi, svolgono anche un altro ruolo importante: «Sono un eccellente concime per far germogliare il seme della paura in Occidente: più abbiamo paura, più cerchiamo protezione». Con buona pace del grande Tiziano Terzani, secondo cui «il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali».

    Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».

  • Brzezinski: contrordine, America. Pace con Putin e la Cina

    Scritto il 05/9/16 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    «L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina». Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su “The American Interest”, dal titolo “Towards a Global Realignment” (verso un riallineamento globale) è stato ampiamente ignorato dai media, «dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia», afferma Mike Whitney. Il super-massone reazionario Brzezinski, primo reclutatore di Osama Bin Laden in Afghanistan, «è stato il principale fautore di questa idea», l’espansione “imperiale”, già esposta nel 1997 nel libro “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. Ora «ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica». Infatti scrive che «gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale», dal momento che «finisce la loro epoca di dominio globale». Meglio sfruttare la residua potenza americana per affrontare in modo diverso, cioè pacifico, «l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente».
    Gli Stati Uniti, sottolinea Brzezinski, «sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo». Ma, aggiunge, «dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale». In un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Mike Whitney invita a confrontare questo giudizio con quello che lo stesso Brzezinski aveva dato ne “La Grande Scacchiera”, quando affermava che gli Stati Uniti erano «il massimo potere a livello mondiale, giudice-chiave delle relazioni di potere eurasiatiche». Il crollo dell’Unione Sovietica aveva determinato «la rapida ascesa di una potenza dell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, come l’unica e, in effetti, la prima potenza veramente globale». Nell’ultima parte del ventesimo secolo, nessuna altra potenza gli si è nemmeno avvicinata». Ma, scrive oggi Brzezinski, «quell’epoca sta ormai per finire». L’ex consigliere strategico per la sicurezza nazionale sotto Jimmy Carter, autorevolissimo esponente della dottrina della supremazia mondiale degli Usa, ora «indica l’ascesa della Russia e della Cina, la debolezza dell’Europa e il “violento risveglio politico tra i musulmani post-coloniali”, come le cause approssimative di questa improvvisa inversione».
    I suoi commenti sull’Islam, continua Whitney, sono particolarmente istruttivi: Brzezinski infatti «fornisce una spiegazione razionale per il terrorismo, invece dell’aria fritta governativa sull’“odiare le nostre libertà”». Del resto, lo stesso Brzezinski seppe vedere lo scoppio del terrore come lo «sgorgare di lamentele storiche» da un «senso di ingiustizia profondamente sentito», e quindi non come «la violenza cieca di psicopatici fanatici». Nel libro “Massoni”, Gioele Magaldi presenta Brzezinski anche sotto un’altra luce: come leader del cartello super-massonico neo-aristocratico e ultra-conservatore. Un fronte che, però, si starebbe incrinando, davanti al cinismo della strategia della tensione – dall’11 Settembre all’Isis – e, soprattutto, alla crescente resistenza di Russia, Cina e loro alleati. Una parte di quell’élite, fino a ieri granitica, si starebbe “sfilando”. E questo, avvertono alcuni osservatori provienienti dalla cultura massonica democratica, forse spiega il crescente ricorso agli attentati: l’oligarchia teme di perdere la presa sulla scena geopolitica e sull’opinione pubblica occidentale. Anche così si spiega il clamoroso successo degli outsider nella campagna elettorale americana: Bernie Sanders e soprattutto Donald Trump, così morbido con Putin. Una “prudenza” che sembra ora pienamente condivisa da un ex super-falco come Brzezinski.
    «E’ chiaro che quello che più lo preoccupa è il rafforzamento dei legami economici, politici e militari tra la Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia e gli altri Stati dell’Asia centrale», osserva Whitney. Un problema già segnalato nel libro del ‘97: «D’ora in poi – scriveva Brzezinski – gli Stati Uniti potrebbero dover stabilire come far fronte a coalizioni regionali che cercano di spingere l’America fuori dall’Eurasia, minacciando in tal modo lo status degli Stati Uniti come potenza mondiale». Ergo, per l’imperialista Brzezinski il problema era «prevenire la collusione e mantenere la dipendenza sulla difesa tra i vassalli, tenere i tributari docili e protetti, e impedire che i barbari si uniscano». Il che si è puntualmente verificato, prima con la “guerra infinita” promossa dal clan Blush, e poi con la «politica estera sconsiderata dell’amministrazione Obama, in particolare il rovesciamento dei governi in Libia e in Ucraina», cosa che – annota Whitney – ha «notevolmente accelerato la velocità con cui si sono formate queste coalizioni anti-americane». In altre parole, «i nemici di Washington sono apparsi, in risposta al comportamento di Washington. Obama può biasimare solo se stesso».
    Putin ha risposto a tono alla crescente minaccia di instabilità regionale e al posizionamento delle forze Nato ai confini della Russia: ha rafforzanto le alleanze con i paesi perimetrali della Russia e in tutto il Medio Oriente. Allo stesso tempo, insieme ai colleghi Brics (Brasile, India, Cina e Sudafrica) il presidente russo ha istituito un sistema bancario alternativo (Brics Bank e Aiib) che finirà per sfidare il sistema dominato dal dollaro, che è la fonte del potere globale degli Stati Uniti. È per questo, continua Whitney, che Brzezinski ha fatto una rapida svolta a U, abbandonando il piano egemonico degli Stati Uniti: è preoccupato «per i pericoli di un sistema non basato sul dollaro che sta nascendo tra i paesi emergenti e i non allineati, che dovrebbe sostituire l’oligopolio della Banca Centrale occidentale. Se ciò accadrà, allora gli Stati Uniti perderanno la loro morsa sull’economia globale». Quel giorno finirebbe anche «il sistema di estorsione nel quale biglietti verdi buoni per incartare il pesce vengono scambiati per beni e servizi di valore».
    Purtroppo, aggiunge Whitney, è improbabile che l’approccio più cauto di Brzezinski sarà seguito dao Hillary Clinton, «che è una convinta sostenitrice dell’espansione imperiale attraverso la forza delle armi». Spiegava infatti nel 2010, sulla rivista “Foreign Policy”: «Mentre la guerra in Iraq si esaurisce e l’America comincia a ritirare le sue forze dall’Afghanistan, gli Stati Uniti si trovano ad un punto di svolta. Negli ultimi 10 anni, abbiamo stanziato risorse immense in questi due teatri. Nei prossimi 10 anni, dobbiamo essere intelligenti e sistematici su dove investiremo tempo ed energia, in modo da metterci nella posizione migliore per sostenere la nostra leadership, garantire i nostri interessi e far avanzare i nostri valori. Uno dei compiti più importanti della politica americana nel prossimo decennio sarà quello di tenere al sicuro gli investimenti – diplomatici, economici, strategici, e di altro tipo – sostanzialmente aumentati nella regione Asia-Pacifico». L’apertura dei mercati in Asia «fornisce agli Usa opportunità senza precedenti per gli investimenti, il commercio, e l’accesso alla tecnologia d’avanguardia: le aziende americane devono sfruttare la vasta e crescente base di consumatori dell’Asia».
    L’Asia è il nuovo Eldorado: «Genera già oltre la metà della produzione mondiale e quasi la metà del commercio mondiale», affermava Hillary. «Mentre ci sforziamo di soddisfare l’obiettivo del presidente Obama di raddoppiare le esportazioni entro il 2015, siamo alla ricerca di opportunità per fare ancora più affari in Asia». Lo sapeva anche Brzezinski, 14 anni fa, quando scriveva “La Grande Scacchiera”: «Per l’America, il premio geopolitico principale è l’Eurasia», che è «il più grande continente del globo», il maggiore asse geopolitico. «Una potenza che domini l’Eurasia controllerebbe due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del mondo».Attenzione: «Circa il 75% della popolazione mondiale vive nell’Eurasia, e la maggior parte della ricchezza fisica del mondo sta lì, sia nelle sue imprese che sotto il suolo. L’Eurasia conta per il 60% del Pil mondiale e circa tre quarti delle risorse energetiche conosciute al mondo». Gli obiettivi strategici sono quelli della Clinton oggi, ma con una enorme differenza: sono passati 14 anni, e forse Hillary non se n’è accorta.
    «Brzezinski ha fatto una correzione di rotta sulla base di circostanze mutevoli e della crescente resistenza al bullismo, al dominio e alle sanzioni statunitensi», scrive Whitney. «Non abbiamo ancora raggiunto il punto di svolta per il primato degli Stati Uniti, ma quel giorno si sta avvicinando velocemente e Brzezinski lo sa». Al contrario, la Clinton «è ancora completamente impegnata ad ampliare l’egemonia degli Stati Uniti in tutta l’Asia. Non capisce i rischi che ciò comporta per il paese o per il mondo. E’ intenzionata a continuare con gli interventi fino a quando il titano combattente Stati Uniti si immobilizzerà di colpo, cosa che, a giudicare dalla sua retorica iperbolica, accadrà probabilmente dopo un po’ di tempo durante il suo primo mandato». Brzezinski presenta «un piano razionale ma opportunista per fare marcia indietro, ridurre al minimo i conflitti futuri, evitare una conflagrazione nucleare e mantenere l’ordine globale, cioè il “sistema del dollaro”. Ma la sanguinaria Hillary seguirà il suo consiglio? Nemmeno per sogno».

    «L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina». Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su “The American Interest”, dal titolo “Towards a Global Realignment” (verso un riallineamento globale) è stato ampiamente ignorato dai media, «dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia», afferma Mike Whitney. Il super-massone reazionario Brzezinski, primo reclutatore di Osama Bin Laden in Afghanistan, «è stato il principale fautore di questa idea», l’espansione “imperiale”, già esposta nel 1997 nel libro “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. Ora «ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica». Infatti scrive che «gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale», dal momento che «finisce la loro epoca di dominio globale». Meglio sfruttare la residua potenza americana per affrontare in modo diverso, cioè pacifico, «l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente».

  • Perso l’Isis, gli Usa puntano sui curdi per restare in Siria

    Scritto il 03/9/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».
    E’ l’ennesima prova del vero volto della guerra siriana, dove l’Occidente ha sfruttato le prime proteste contro Assad, sul modello della “primavera araba”, per incunearsi in Siria – cioè a ridosso dell’Iran – con feroci milizie islamiste, finanziate e protette da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, nonché Arabia Saudita e Qatar, con il supporto occulto di Israele e lo sfrontato appoggio logistico della Turchia. Il modello operativo: lo stesso della Libia, da cui sono stati fatti affluire molti reparti impiegati contro Gheddafi. Variante: in Siria, dopo la prima versione della guerriglia, targata “Esercito Siriano Libero”, si è passati direttamente al regime terroristico dell’Isis, fino all’impiego di armi di distruzione di massa come il gas Sarin impiegato nella strage di civili alla periferia di Damasco nel settembre 2013. Sviluppi che hanno consentito a Putin di intervenire direttamente, coi bombardieri installati sul suolo siriano. Da qui l’abbattimento del Sukhoi-24 ad opera di un F-16 turco e, pochi mesi dopo, il fallito golpe ad Ankara che ha ribaltato i giochi: oggi, infatti, lo stesso Erdogan stringe la mano a Putin e annuncia che la Turchia si farà garante dell’integrità territoriale della Siria, cioè il paese che proprio i turchi – più di ogni altro – hanno contribuito a devastare, attraverso le armate dell’Isis.
    Il punto-chiave della svolta, riassume Blondet, sono i combattimenti ora in corso nel nord, ad Hasakah, tra le truppe siriane e la milizia curda dell’Ypg, spalleggiata da centinaia di commandos americani. Una situazione come quella di Aleppo, ma rovesciata: l’esercito siriano occupa la città, ma è circondato dalle milizie curde. Lo Ypg ha intimato ai “regolari” di abbandonare Hasakah, dove l’esercito di Assad è il solo protettore della grossa minoranza cristiana (assira), che teme di dover subire una pulizia etnica se i curdi avessero la meglio. Secondo Blondet, Hasakah potrebbe diventare una delle città del futuro Stato curdo, secondo un programma ben collaudato: “sfratto” delle minoranze e «plebiscito per l’appartenenza allo Stato curdo prossimo venturo, garantito da Usa e Sion». La milizia curda «è assistita dagli americani con la scusa che “combatte lo Stato Islamico” – che nella zona non c’è: combatte invece l’armata legittima di Damasco». I giochi si sono fatti pericolosi quando l’aviazione siriana – intervenuta per aprire vie di rifornimento al suo esercito assediato – ha quasi colpito i militari americani che sostengono l’assedio curdo.
    Gli aerei di Assad, scrive Blondet, hanno bombardato le posizioni Ypg: nel corso della missione aerea – accusa il Pentagono – poco è mancato che le truppe americane venissero colpite. Reazione immediata: caccia F-22 sono stati lanciati all’inseguimento dei bombardieri siriani. «Il Pentagono ha accusato Mosca, che ha risposto di non entrarci nel bombardamento di Hasakah». Ma, invece di appianare la situazione, «gli americani si sono impegnati in una gravissima escalation, di fatto minacciando di abbattere gli aerei che sorvolano Hasakah, russi o siriani che siano». In base al diritto internazionale, continua Blondet, non c’è alcuna base legale alla presenza di forze armate Usa in Siria. «Per questo, quando l’Air Force (dice) di aver cercato di contattare le forze siriane che stavano colpendo i militari americani sul terreno, Damasco ha ignorato il richiamo – altrimenti sarebbe stato ammettere che gli Usa sono un nemico occupante. Per tutta risposta, il Pentagono – invece di sloggiare le sue truppe da Hasakah, ne ha rafforzato il contingente».
    L’enormità della situazione, aggiunge Blondet, è stata rilevata dal giornalista tedesco Thomas Wiegold, che ha twittato: “Come? Ora gli Usa praticano il divieto di operare alle forze di un paese sul suo territorio?”. «Il punto è che il voltafaccia di Erdoğan ha messo in grave pericolo la promessa fatta da Usa e Israele ai curdi, di ritagliare per loro uno Stato indipendente (e loro satellite) nella zona tra Turchia, Siria, Iraq e Iran», osserva ancora Blondet. «Erdoğan si è recentemente pronunciato, in inaudita coordinazione con Teheran per “il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria”, di cui quindi Turchia e Iran si fanno garanti (insieme ai russi e a Pechino): quindi nessuno smembramento della Siria per linee etniche e religiose; capendo finalmente che la Turchia, dal progetto, ha solo da perdere – un terzo del suo territorio, abitato dai curdi». Lo ha ripetuto qualche giorno fa il nuovo primo ministro turco Yildirim: «Nei prossimi sei mesi giocheremo un ruolo più attivo in Siria, voglio dire non permetteremo che la Siria sia divisa secondo linee etniche: ci assicureremo che il suo governo non sia basato su etnie».
    Il fatto è che l’anno scorso, i rappresentanti della regione curda (già autonoma sotto la Costituzione siriana) hanno elevato un annuncio di federalizzazione: annuncio unilaterale, non concordato e incostituzionale – su aperta istigazione statunitense. Gli Usa hanno fornito ai secessionisti «addestramento, armi, munizioni e 350 milioni di dollari “per combattere l’Isis”». La traduzione di Blondet: «Ormai è chiaro che, per i neocon che hanno occupato la politica estera Usa, i trattati internazionali sono stracci di carta: la forza è la sola “ragione”», inlcusa la pulizia etnica. «Oltretutto, i folli sentono l’urgenza frenetica di contrastare i successi di Mosca nell’area, di “far pagare un prezzo a Putin e ad Assad”; recuperare il danno inferto ai loro progetti da Erdoğan e vendicarsi di lui». A questo servirebbe la promessa fatta ai curdi, che lottano da decenni – soprattutto in Iraq e in Turchia – per il loro diritto a esistere, come popolo. Washington oggi ne impugna la causa, in modo evidentemente strumentale. E pericoloso: dietro alla Siria ci sono Mosca, Teheran e Pechino. «L’orribile attentato di Gaziantep, che ha sterminato più di cinquanta curdi partecipanti al matrimonio di un capoccia locale, capo del partito curdo rappresentato ad Ankara, si deve situare in questo quadro», conclude Blondet. «Naturalmente Erdoğan ha accusato l’Isis (ha imparato dagli americani); i curdi presenti hanno accusato Erdoğan. Non senza ragione, credo. Nella gara all’escalation irresponsabile, i neocon non sono i soli».

    Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».

  • Sovragestione: i padrini dell’Isis erano a Yalta nel 1945

    Scritto il 02/9/16 • nella Categoria: idee • (2)

    Si credono Dio, anziché ricercare la propria spiritualità. Non sono più degli iniziati, ma dei contro-iniziati. Per il massone Gianfranco Carpeoro, è questa la profonda motivazione psicologica che spinge gli uomini del vertice-ombra dell’Occidente a organizzare il terrorismo più spietato, ieri affidato ad Al-Qaeda e oggi all’Isis. L’obiettivo strategico non cambia: mantenere il potere in pochissime mani, a qualsiasi costo, utilizzando l’intelligence per “fabbricare” leader islamisti adatti a reclutare kamikaze, figli di un mondo devastato dai dominus occidentali. Carpeoro la chiama “sovragestione”, ed è la chiave per capire di che morte stiamo morendo. I boss occulti della “sovragestione”? Si tratta di «un ristretto numero di persone, che fanno parte della finanza e della politica internazionale». A loro volta, «manovrano pezzi di governi, di amministrazioni, di servizi segreti, logge massoniche o paramassoniche, strutture religiose di varia estrazione, istituzioni bancarie, esponenti dell’economia o dell’imprenditoria». La struttura ricorda quella della ‘ndrangheta: «Una rete ad anelli, dove la regola aurea viene ampiamente rispettata: ogni anello conosce solo e soltanto l’anello che gli è immediatamente superiore e quello che gli è immediatamente inferiore e nulla più».
    Perché siamo finiti tra le spire della “sovragestione”, che ultimamente ha preso di mira l’Europa con gli attentati di Parigi, Bruxelles e Nizza, regolarmente targati Isis? Per Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), non si può capire molto se non si legge tra le righe: l’origine del potere occidentale moderno è interamente massonico (democrazia, laicisimo). Ma nel dopoguerra la massoneria internazionale ha partorito 36 super-strutture segrete, chiamate Ur-Lodges (logge madri), che hanno intrapreso una gestione monopolistica della politica, dell’economia, della finanza. Alcune di queste hanno espresso una tendenza neo-conservatrice, aristocratica, neo-feudale. Fino all’eccesso: la strategia della tensione, i golpe in mezzo mondo. Avverte Magaldi: anche questo va interpretato; se sei consapevole di averla “inventata” tu, la modernità, mettendo fine all’assolutismo monarchico con la Rivoluzione Francese e all’oscurantismo vaticano con il Risorgimento italiano, può accadere che ti consideri il padrone del mondo, il nuovo mondo che hai contribuito in modo determinante a creare, abbattendo l’Ancien Régime.
    Il che è aberrante, ma aiuta a “vedere” come ragionano i capi supremi dell’élite mondiale reazionaria che dagli anni ‘80 ha preso il sopravvento, dichiarando guerra alla democrazia e imponendo la sua globalizzazione a mano armata, gestita dalle multinazionali finanziarie. E a questo disegno appartiene anche l’ultimissima stagione: quella del terrore, che ci sta investendo. Non a caso, nel mirino è finita anche l’Europa, terremotata dall’austerity. Se da qualche anno il terrore “islamista” si rivolge contro l’Europa, scrive Gianfranco Carpeoro sulla sua pagina Facebook, «non è certamente perchè il “sovragestore” vuole distruggerla». Al contrario: l’élite occidentale che organizza il terrorismo-kamikaze «ha interesse che rimanga così», questa Unione Europea interamente in mano a loro, gli oligarchi della finanza. Ergo: «Il neoterrorismo deve impedire che l’Europa si liberi dal giogo monetario delle banche e dalla soggezione al potere finanziario». Sono sempre “loro”, gli uomini al comando dietro le quinte: ieri col Trattato di Maastricht che ha rovinato l’Italia, poi con i diktat della Troika che hanno ridotto la Grecia alla fame. Gli europei cominciano a ribellarsi? Ed ecco gli attentati “islamici”. Il regno della paura serve a questo: impedire che si evada dal “lager”. La violenza terroristica è in aumento? Altro segnale, aggiunge Carpeoro: qualcuno, davanti a tanto sangue, si sta sfilando dall’élite criminale. E allora, forse, il super-vertice comincia ad avere paura, a sua volta. Per questo preme sull’acceleratore delle stragi.
    Secondo Carpeoro, il male viene da lontano: è figlio del sistema economico attuale. Il capitalismo finanziario mondializzato è feroce, disumano: perché qualcuno stia meglio, bisogna che qualcun altro stia peggio. Mors tua, via mea. Da lì in poi, “vale” tutto. Anche la guerra. Fino al neoterrorismo della “sovragestione”. Guai, infatti, se dovessero trionfare gli ideali proclamati all’Onu, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Erano il cardine della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, fortemene voluta dalla “libera muratrice” Eleanor Roosevelt, secondo la quale «nessun sistema, nessun regime politico, nessuna dottrina sociale può essere giusta se ogni individuo, fino all’ultimo pigmeo africano, fino al più sfruttato lavoratore cinese o coreano, non può vivere con dignità o senza poter aspirare alla sua porzione di spazio spirituale e vitale, cioè di felicità». E allora ecco il “terrorismo interno” di oggi, la nuova strategia della tensione, che «salda il rapporto tra il popolo e il potere con il collante della paura, com’era già accaduto ai tempi di Al-Qaeda e delle Torri Gemelle». Perché poi la manovalanza è islamica? Opera nostra, anche quella: a partire da Yalta, dalla scelta di non dare uno Stato ai palestinesi.
    Una decisione fatale, dice Carpeoro, che determinò il ritiro dalla scena della componente più ispirata del mondo esoterico occidentale, la “fratellanza” dei Rosacroce, delusa dal patto di spartizione mondiale firmato da Roosvelt, Churchill e Stalin. Attorno alla “leggenda storicamente accaduta” dei Rosacroce, di cui è un grande studioso, Carpeoro ha scritto anche un romanzo, “Il volo del Pellicano”, edito da Melchisedek. Avvocato e giornalista (all’anagrafe, Gianfranco Pecoraro), Carpeoro è stato gran maestro della massoneria più “indipendente” (33esimo grado del Rito Scozzese), a capo di una comunione massonica auto-scioltasi per scongiurare pericolose infiltrazioni di potere. Ai Rosacroce si sarebbero ispirate correnti “deviate” fino al satanismo e vicinissime alla super-élite del massimo potere, quella della “sovragestione” degli “uomini che si credono Dio”. Di ben altra caratura, invece, i veri Rosacroce, il cui ultimo “Ormùs” fu il pittore Salvador Dalì, con accanto personaggi come Picasso, Erik Satie, Jean Cocteau, il regista moldavo Emil Loteanu. Era stata proprio la “paramassoneria” di potere, scrive Carpeoro, a sabotare – a Yalta – il grande progetto rosacrociano per il dopoguerra: pace in Medio Oriente. Vinsero gli altri, i protagonisti delle future Ur-Lodges: niente pace, meglio la guerra. Opportuno, quindi, coltivare i focolai dell’odio, partendo proprio dalla Palestina, in mezzo agli emirati del petrolio.
    «Il tutto – scrive Carpeoro – si concluse con la istituzione del solo Stato di Israele». Sicché, «non risulta niente affatto avventato definire tale esito come la premessa del sorgere di un progenitore del neoterrorismo islamico, e cioè quello palestinese, nella prima versione dell’Olp». Dal Medio Oriente all’Italia: «Altrettanto accadde in occasione dell’omicidio del povero Enrico Mattei, reo di voler sottrarre il mondo del petrolio arabo alla gestione economica, ma anche culturale, della lobby delle Sette Sorelle, in nome della sua formazione socialista, scarsamente sensibile al perpetuarsi del potere di certi sceicchi e califfi». Tessere di un mosaico, nemico della democrazia, da sud a nord: «Il progetto europeo di caratura liberalsocialista veniva definitivamente sabotato tramite l’omicidio del suo leader politico e spirituale Olof Palme, mettendo le basi di questa disgraziata Europa attuale, burocratica e disumana, unione solo di banche e burocratica distruttrice di economie produttive a favore di una finanza ormai astratta, estranea da ogni legittima aspirazione di popoli e individui». E dopo la Svezia, la “sovragestione” colpì di nuovo in terra d’Israele con l’omicidio del leader ebreo Rabin, «protagonista di una pax massonica, stavolta nel senso autentico, in Medio Oriente, che tanto aveva preoccupato i Signori della Guerra e del Terrore».
    Come dire: solo gli sprovveduti possono pensare che il tragico carnevale dell’Isis nasca dal nulla. Passo su passo, di attentato in attentato, l’Occidente ha fabbricato «una polveriera che si chiama Islam», ma attenzione: «Darle questo nome è un abuso nei confronti della dottrina religiosa in questione», che infatti è stata «modificata, redatta, interpretata nell’ignoranza e nell’arretratezza, sponsorizzata dai satrapi del petrolio e dai potenti protetti dall’Occidente per incrementare odio e integralismo da utilizzare per la autoconservazione di un potere assoluto e cieco». Luoghi comuni: «Quando si dice Islam, automaticamente si pensa al mondo arabo, ma la logica delle divisioni etniche in questo caso non aiuta: il popolo turco non è arabo, quello afghano tanto meno, e neanche la quasi metà del popolo indiano islamico e di quello africano». In realtà, aggiunge Carpeoro, la grande religione islamica è stata «riadattata a strumento permanente di supporto a regimi politici integralisti e assoluti, neganti ogni diritto e ogni libertà democratica, fautori di sistemi sociali dove c’è chi ha tutto funzionalmente allo sfruttamento di chi non ha nulla». Solo così, quella religione «è diventata il collante di popolazioni quasi abbrutite dall’ignoranza e dal bisogno, tramite una rete di imam e presunti padri spirituali la cui presenza e la cui legittimazione era stata la prima cosa assolutamente proibita dal Profeta».
    I veri leader islamici sono stati emarginati, e la parte sana delle popolazioni travolte dal terremoto è «dormiente e passiva di fronte a questo scempio». E siamo ai giorni nostri: «Ecco che dalla disperazione del popolo palestinese, dai flagelli vari, siccità, malattie, povertà del popolo africano, dalle drammatiche divisioni tra popoli asiatici nasce e si diffonde una vera e propria figura antropologica: il terrorista». Al terrorista, per decine di anni, «viene offerta la prospettiva simbolica che gli ha consentito di accettare il rischio di sacrificare la sua vita: il riscatto sociale». E i terroristi di oggi, annidati nelle nostre città che si vantano si realizzare una vera integrazione? «Quella che noi chiamiamo “integrazione” è stata solo la trasmissione di schemi consumistici e disumanizzanti», sostiene Carpeoro. Questo processo, è vero, «ha soppiantato il potenziale esplosivo del vecchio terrorismo», ma ne ha anche fatto impallidire le motivazioni sociali e politiche, che almeno ne consentivano la comprensione, mantenendo «un minimo di possibilità di recupero umano e sociale».
    Ora è tardi: «Aiutata dalla sapiente diffusione di nuove droghe raffinate e di ulteriori adattamenti snaturanti della religione islamica, la mutazione antropologica del terrorista si è ulteriormente evoluta: da esseri comunque umani a macchine del terrore». L’Isis, appunto: uomini «addestrati e resi dipendenti da varie droghe in campi adeguatamente finanziati e organizzati». Questo esercito di neoterroristi «è oggi pronto a spargersi nelle nostre città come metastasi di un carcinoma, e noi siamo impotenti». Ma attenzione: «E’ un esercito “sovragestito”, anche se dubito molto che chi ne fa parte ne sia consapevole». Sono temi che lo stesso Carpeoro approfondirà in un saggio che si annuncia esplosivo, “Dalla massoneria al terrorismo”, che uscirà in autunno per i tipi di Uno Editori. Si scrive Isis, ma si legge “sovragestione”. Il problema siamo noi, il nostro sistema: che va radicalmente bonificato nella sua struttura occulta di potere. «La vera scommessa dell’Occidente è la nascita di un Neoumanesimo».

    Si credono Dio, anziché ricercare la propria spiritualità. Non sono più degli iniziati, ma dei contro-iniziati. Per il massone Gianfranco Carpeoro, è questa la profonda motivazione psicologica che spinge gli uomini del vertice-ombra dell’Occidente a organizzare il terrorismo più spietato, ieri affidato ad Al-Qaeda e oggi all’Isis. L’obiettivo strategico non cambia: mantenere il potere in pochissime mani, a qualsiasi costo, utilizzando l’intelligence per “fabbricare” leader islamisti adatti a reclutare kamikaze, figli di un mondo devastato dai dominus occidentali. Carpeoro la chiama “sovragestione”, ed è la chiave per capire di che morte stiamo morendo. I boss occulti della “sovragestione”? Si tratta di «un ristretto numero di persone, che fanno parte della finanza e della politica internazionale». A loro volta, «manovrano pezzi di governi, di amministrazioni, di servizi segreti, logge massoniche o paramassoniche, strutture religiose di varia estrazione, istituzioni bancarie, esponenti dell’economia o dell’imprenditoria». La struttura ricorda quella della ‘ndrangheta: «Una rete ad anelli, dove la regola aurea viene ampiamente rispettata: ogni anello conosce solo e soltanto l’anello che gli è immediatamente superiore e quello che gli è immediatamente inferiore e nulla più».

  • Hillary o Trump, l’agenda del dopo-Obama la detta l’élite

    Scritto il 30/8/16 • nella Categoria: idee • (2)

    Sta’ a vedere che alla fine vince Trump. Ma non “da solo contro tutti”, bensì appoggiato da una poderosa quota di establishment, in base a un piano preciso: la rinascita industriale degli Usa, rimpatriando le imprese delocalizzate, e il patto con la Russia di Putin per il rialzo del prezzo del petrolio, che converrebbe a entrambi e ai loro alleati, a cominciare dai sauditi. Lo scrive Pepe Escobar, cogliendo informazioni riservate provenienti dallo staff elettorale di Trump. Punto di partenza, la crescente insofferenza (anche di parte dell’élite) nei confronti della Clinton, vista come “protesi” di Wall Street. «Potenti interessi economici che supportano con discrezione Trump – lontano dal circo mediatico – sono convinti che questi sia in possesso della mappa per giungere alla vittoria», scrive Escobar. Il messaggio vincente? La denuncia della distruzione del comparto industriale statunitense e il crollo dei salari dovuto all’importazione illegale di lavoro «da nazioni dove gli stipendi valgono una manciata di dollari». Di mezzo c’è anche l’industria bellica, esportata oltre il Pacifico, cioè in zone controllate da russi e cinesi. Industrie che «vanno rimpatriate immediatamente».
    Quindi, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Trump dovrebbe sfruttare il messaggio che il credito bancario vada legato alla ricostruzione della moribonda industria statunitense, «alzando i dazi o sfruttando i cambi di valuta». I sostenitori di Trump puntano il dito contro il credito bancario: «Non dovrebbe essere utilizzato per facilitare la manipolazione dei valori delle Borse. Non dovrebbe esserci credito per la speculazione e assolutamente per gli hedge fund. Bisogna sbarazzarsi di questi mezzi speculativi alzando le tasse sugli introiti a breve termine dati dal trading, interrompendo i vantaggi fiscali sui prestiti e bloccando il credito a favore della speculazione». Questo spiega bene l’avversione viscerale di Wall Street nei confronti di Trump, da Bloomberg a Lloyd Blankfein, il boss di Goldman Sachs. «Chiunque conosca Wall Street – scrive Escobar – sa bene che ogni mercato, ogni bene e ogni indice viene manipolato da grossi movimenti di fondi». I sostenitori di Trump insediati a New York indicano i veri avversari da abbattere: «Dovremmo fare in modo che i Carl Icahan e i George Soros si trovino un vero lavoro, ultratassando i loro profitti derivanti da speculazione».
    E insistono: «In questa nazione ci servono gli Henry Ford che creino industrie, non i saccheggiatori di Wall Street che si arricchiscono come hanno fatto nel 2008, per poi ritrovarsi a utilizzare il loro peso per far coprire i buchi alla politica, mentre milioni di cittadini venivano buttati fuori dalle loro case». Secondo questa tabella di marcia, la lotta all’immigrazione illegale e alle speculazioni finanziarie creerebbe un “rinascimento industriale” negli Usa, per ricostruire tutte le Detroit che stanno andando allo sfascio. La strategia: «Sostituire milioni di lavoratori immigrati con milioni di disoccupati statunitensi», che sarebbero almeno il 23% della popolazione adulta. Alcune di queste idee sono già entrate nel programma economico annunciato da Trump, aggiunge Escobar. Ce la farà? I sondaggi puntano ancora alla Clinton, ma i sostenitori di Trump non si fidano, dicono che sono manipolati. E poi c’è l’isteria anti-russa che ormai galoppa. Hillary ha paragonato Putin a Hitler, mentre Trump ripete di essere pronto a fare affari con Mosca, cominciando con un’azione congiunta per sbarazzarsi dell’Isis. Falso problema, la Russia: chiunque sarà alla Casa Bianca dopo Obama, farà davvero un accordo strategico coi russi.
    Lo afferma «una fonte vicina ai piani dei Veri Padroni dell’Universo», riferisce Escobar. Fonte che va dritta al punto: «Per quanto riguarda la Russia, la decisione viene dall’alto, dove è in corso la battaglia. La decisione viene presa sopra le teste di Hillary e Donald: se Hillary verrà eletta le verrà imposto di riprendere i contatti, in caso così venga deciso. Se vincerà Trump è semplice. In caso non venisse eletto, allora la mancata elezione verrà comunque utilizzata come catalizzatore per un cambio di politica nei confronti della Russia. La vera guerra è dietro le quinte». Così come per le manipolazioni sulle valute, che «verranno impedite», e per la fine della “guerra del petrolio”, venduto finora a prezzi stracciati per colpire la Russia. Come dicono i sostenitori di Trump, «è un obiettivo nazionale degli Usa, perché un valore di mercato più alto renderebbe gli Stati Uniti stessi indipendenti dal punto di vista energetico. Ciò è parte significativa della rivoluzione di Trump». Secondo fonti vicine alla leadership dell’Arabia Saudita, aggiunge Escobar, sauditi e russi hanno già avviato un pre-negoziato sulla crescita del prezzo del greggio fino ai 100 dollari al barile. Il Pentagono non potrebbe opporsi, perché, dice un sostenitore di Trump, «è negli interessi del complesso militare-industriale raggiungere l’obiettivo di una totale indipendenza energetica e rimpatriare tutte le industrie belliche sul territorio nazionale».
    Escobar non si sbilancia: «Non ci sono prove che questo programma tanto ambizioso e controverso possa essere venduto agli strateghi di Jp Morgan o ai fratelli Koch. Trump che crea un partito trasversale o addirittura un movimento che trascenda i partiti potrà funzionare solo se membri di peso delle élite di potere lo sosterranno, altrimenti è impossibile che ciò accada». Quello che invece continua senza sosta è «una campagna di disinformazione di massa, un bel remix delle valanghe antisovietiche della prima guerra fredda: la Macchina dei Media della Clinton sta addirittura attaccando Michael Flynn, ex capo della Dia, che supporta Trump», dopo aver sostenuto che Obama e la Clinton erano fondatore e co-fondatrice dell’Isis. La situazione, oggi: «Trump non sta raccogliendo abbastanza denaro per controbilanciare l’incredibile macchina dei soldi della Clinton». Se invece vincerà “The Donald”, vorrà dire che “qualcuno” l’avrà aiutato in modo determinante. Il vero potere, quello a cui il premier britannico Benjamin Disraeli alluse parlando con il nipote: «Vedi, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto differenti da quelli che si immagina chi non sta dietro le quinte».

    Sta’ a vedere che alla fine vince Trump. Ma non “da solo contro tutti”, bensì appoggiato da una poderosa quota di establishment, in base a un piano preciso: la rinascita industriale degli Usa, rimpatriando le imprese delocalizzate, e il patto con la Russia di Putin per il rialzo del prezzo del petrolio, che converrebbe a entrambi e ai loro alleati, a cominciare dai sauditi. Lo scrive Pepe Escobar, cogliendo informazioni riservate provenienti dallo staff elettorale di Trump. Punto di partenza, la crescente insofferenza (anche di parte dell’élite) nei confronti della Clinton, vista come “protesi” di Wall Street. «Potenti interessi economici che supportano con discrezione Trump – lontano dal circo mediatico – sono convinti che questi sia in possesso della mappa per giungere alla vittoria», scrive Escobar. Il messaggio vincente? La denuncia della distruzione del comparto industriale statunitense e il crollo dei salari dovuto all’importazione illegale di lavoro «da nazioni dove gli stipendi valgono una manciata di dollari». Di mezzo c’è anche l’industria bellica, esportata oltre il Pacifico, cioè in zone controllate da russi e cinesi. Industrie che «vanno rimpatriate immediatamente».

  • Hitlery Clinton, dalla guerra fredda all’ecatombe atomica

    Scritto il 26/8/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile. La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo – la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la Nato nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato Abm (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino. La Guerra Fredda fu una creazione di Washington. È stato il lavoro dei fratelli Dulles. Allen era a capo della Cia, John Foster era Segretario di Stato, posizioni che essi detennero per lungo tempo.
    I fratelli Dulles avevano degli interessi personali nella Guerra Fredda. Usarono la Guerra Fredda per difendere gli interessi dei clienti del loro studio legale e per aumentare il potere e il bilancio legato alle loro posizioni all’interno del governo. È decisamente interessante essere gli incaricati della politica estera e delle attività segrete durante periodi pericolosi. Ogni volta che un governo democratico riformista appariva in America Latina, i fratelli Dulles lo vedevano come una minaccia alle partecipazioni azionarie che i clienti del loro studio legale avevano in quel dato paese. Queste partecipazioni, talvolta acquisite tramite tangenti versate a governi non democratici, dirottavano le ricchezze e le risorse dei diversi paesi verso mani americane, e l’obiettivo dei fratelli Dulles era proprio di continuare a fare in modo che fosse così. Il governo riformista veniva a quel punto definito marxista o comunista, e la Cia e il Dipartimento di Stato collaboravano per rovesciarlo e riportare al potere qualche dittatore compiacente a Washington. La Guerra Fredda era insensata, eccetto che per gli interessi dei Dulles e del complesso militare.
    Il governo sovietico, al contrario del governo americano di oggi, non aveva aspirazioni all’egemonia globale. Stalin aveva dichiarato la dottrina del “socialismo in un solo paese” e si era liberato dei trotskysti, che volevano una rivoluzione a livello mondiale. Il comunismo in Cina e nell’Europa dell’est non erano prodotti dal comunismo internazionale sovietico. Mao era il padrone di se stesso, e l’Unione Sovietica mantenne l’Europa dell’est, che l’Armata Rossa aveva liberato dai nazisti, come zona cuscinetto contro un Occidente ostile. A quei tempi il termine “red scare” [“paura rossa”] era usata un po’ come la “paura del terrorismo musulmano” oggi – per spingere l’opinione pubblica ad allinearsi a un certo programma che non capisce, e senza che ci sia un dibattito. Considerate la costosa guerra in Vietnam, per esempio. Ho Chi Minh era un anticolonialista che guidava un movimento nazionalista. Non era un agente del comunismo internazionale, ma John Foster Dulles lo rese tale e disse che Ho Chi Minh doveva essere fermato o ci sarebbe stato un “effetto domino” che avrebbe portato alla caduta di tutto il sud-est asiatico verso il comunismo. Il Vietnam vinse la guerra e non lanciò affatto l’aggressione al sud-est asiatico che Dulles aveva previsto.
    Ho Chi Minh aveva implorato sostegno dal governo Usa contro il potere coloniale francese che dominava l’Indocina. Di fronte ad un rifiuto, Ho Chi Minh si rivolse alla Russia. Se Washington avesse semplicemente fatto presente al governo francese che il tempo del colonialismo era finito e la Francia doveva andarsene dall’Indocina, si sarebbe evitato il disastro della guerra in Vietnam. Ma gli spauracchi delle minacce inventate servivano ai gruppi d’interesse ieri come oggi, e Washington, come molti altri, fu succube dei propri mostri immaginari. La Nato non serviva perché non c’era nessun pericolo di un’invasione dell’Armata Rossa verso l’Europa occidentale. Il governo sovietico aveva già abbastanza problemi ad occuparsi dell’Europa dell’est e delle sue popolazioni ribelli. L’Unione Sovietica si trovò alle prese con una sollevazione nella Germania dell’Est nel 1953, poi in Polonia e Ungheria nel 1956, e poi da parte dello stesso partito comunista in Cecoslovacchia nel 1968. L’Unione Sovietica aveva sofferto un’enorme perdita demografica nella Seconda Guerra Mondiale e aveva bisogno di tutta la forza lavoro che le restava per la ricostruzione post-bellica. Era ben oltre le capacità sovietiche occupare l’Europa occidentale dopo avere occupato quella orientale.
    I partiti comunisti in Francia e in Italia erano forti nel periodo post-bellico, e Stalin poteva sperare che un governo comunista in Francia o in Italia spezzasse l’impero europeo stabilito da Washington. Questa speranza fu cancellata dalla Operazione Gladio. La Guerra Fredda ci fu perché serviva agli interessi dei fratelli Dulles e al potere e ai profitti del complesso militare. Non c’erano altre ragioni per la Guerra Fredda. La nuova Guerra Fredda è ancora più insensata della precedente. La Russia stava cooperando con l’Occidente, l’economia russa è integrata con quella occidentale come fornitore di materie prime. La politica economica neoliberale che Washington è riuscita a far implementare al governo russo era orientata a mantenere l’economia russa nel ruolo di fornitore di materie prime verso l’Occidente. La Russia non aveva espresso alcuna ambizione di ampliamento territoriale e aveva investito molto poco in spese militari. La nuova Guerra Fredda è il prodotto di una manciata di fanatici neoconservatori che credono che la storia abbia scelto gli Stati Uniti come potere egemone sul mondo intero. Alcuni di questi neocon sono figli di ex-trotskysti che hanno la stessa idea romantica di rivoluzione mondiale, solo che questa volta sarebbe una rivoluzione “democratico-capitalista” e non comunista.
    La nuova Guerra Fredda è ben più pericolosa della precedente, perché le rispettive dottrine di guerra delle potenze nucleari sono cambiate. La funzione delle armi nucleari non è più quella di rappresaglia. La certezza di una distruzione reciproca era la garanzia che quelle armi non sarebbero state usate. Nella nuova dottriva di guerra, le armi nucleari sono state elevate a strumento di attacco preventivo. Washington ha fatto questo passo per prima, costringendo la Russia e la Cina a seguirla. La nuova Guerra Fredda è ancora più pericolosa per un altro motivo. Durante la prima Guerra Fredda, i presidenti americani si concentravano sulla riduzione delle tensioni tra le potenze nucleari. Ma oggi Clinton, George W. Bush e Obama hanno fatto aumentare drammaticamente le tensioni. William Perry, segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton, ha parlato recentemente di pericoli di guerre nucleari lanciate per errore a causa di difetti nei circuiti dei computer.
    Per fortuna, quando situazioni di questo genere si sono verificate in passato, l’assenza di tensioni nelle relazioni tra potenze nucleari ha fatto in modo che le autorità delle due parti riconoscessero i falsi allarmi. Oggi però, con le continue accuse di imminenti invasioni russe, la demonizzazione di Putin come “nuovo Hitler”, e l’incremento delle forze militari Usa e Nato attorno ai confini russi, i falsi allarmi rischiano di essere creduti. La Nato ha cessato il suo scopo quando è crollata l’Unione Sovietica. Però ormai troppe carriere, troppi soldi a bilancio e troppi profitti sugli armamenti dipendenvano dalla Nato. I neoconservatori allora presero la Nato come un pretesto politico e un ausilio militare per le proprie ambizioni egemoniche. Lo scopo della Nato oggi è di coinvolgere tutta l’Europa nei crimini di guerra statunitensi. Dato che sono tutti colpevoli, i governi europei non possono più rivoltarsi contro Washington e accusare gli americani di crimini di guerra.
    Le altre voci in campo sono troppo deboli per avere delle conseguenze. Nonostante i suoi tanti crimini contro l’umanità, l’Occidente è ancora nella posizione di “luce del mondo”, difensore della verità, della giustizia, dei diritti umani, della democrazia e delle libertà individuali. Questa reputazione resiste nonostante la distruzione della Dichiarazione dei Diritti Usa e la repressione dello stato di polizia. L’Occidente non rappresenta affatto i valori che il mondo è stato forzato (col lavaggio del cervello) a credere che siano associati all’Occidente. Per dirne una, non c’era alcun motivo di attaccare con le armi atomiche i civili nelle città giapponesi, nel 1945. Il Giappone stava cercando di arrendersi e stava solo resistendo alla richiesta Usa di una resa incondizionata al fine di salvare il proprio imperatore dall’esecuzione per crimini di guerra, sui quali egli non aveva controllo. Come i sovrani britannici oggi, l’imperatore del Giappone non aveva potere politico ed era solo simbolo di unità nazionale. I condottieri giapponesi avevano paura che l’unità giapponese si sarebbe dissolta se l’imperatore, simbolo di quell’unità, fosse stato deposto.
    Certo, gli americani erano troppo ignoranti per capire la situazione, e così il piccolo Truman, che per tutta la vita era stato canzonato come una nullità, si glorificò del proprio potere e fece sganciare le bombe. Le bombe atomiche gettate sul Giappone erano potenti. Ma le bombe all’idrogeno che sono venute dopo sono ancora più potenti. L’uso di tali armi potrebbe distruggere la vita sulla Terra. Donald Trump ha detto ha detto l’unica cosa su cui sperare in tutta la campagna presidenziale. Ha messo in discussione la Nato e il conflitto orchestrato con la Russia. Non sappiamo se possiamo credergli e se un suo eventuale governo seguirebbe questa direzione. Ma sappiamo che “Hitlery” [neologismo che unisce il nome di Hillary Clinton a Hitler, NdT] è una guerrafondaia, un agente dei neoconservatori, del complesso militare, della lobby israeliana, delle banche “troppo grandi per fallire”, di Wall Street, e di qualsiasi interesse estero che dà mega-milioni di dollari di donazioni alla fondazione Clinton o un quarto di milione di dollari per un suo discorso.
    “Hitlery” ha dichiarato che il presidente russo è la più grande minaccia – il “nuovo Hitler”. Si potrebbe essere più chiari di così? Un voto a “Hitlery” è un voto per la guerra. Nonostante questo sia più che ovvio, i media statunitensi, a reti unificate, stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per abbattere Trump e far eleggere “Hitlery”. Tutto ciò cosa ci dice sull’intelligenza del “Unipower”, “l’unica superpotenza del mondo”, il “popolo indispensabile”, la “nazione eccezionale”? Ci dice che sono scemi come la m**da. Gli americani, creature della “Matrix” creata dai loro propagandisti, vedono minacce immaginarie e non vedono quelle reali. Ciò che i russi e i cinesi vedono è un popolo troppo indottrinato e ignorante per essere di alcun aiuto nella pace. Vedono la guerra che arriva e si stanno preparando.
    (Paul Craig Roberts, “Ripensare la guerra fredda”, dal blog di Craig Roberts dell’11 agosto 2016, tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Economista e autorevole editorialista statunitense, Roberts è stato sottosegretario al Tesoro di Ronald Reagan).

    La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile. La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo – la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la Nato nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato Abm (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino. La Guerra Fredda fu una creazione di Washington. È stato il lavoro dei fratelli Dulles. Allen era a capo della Cia, John Foster era Segretario di Stato, posizioni che essi detennero per lungo tempo.

  • Nucleare-fantasma: bombe in 7 paesi europei, Italia inclusa

    Scritto il 24/8/16 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Ampiamente documentato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia sono in possesso di armi nucleari che sono dispiegate contro la Russia, l’Iran e altri paesi del Medio Oriente. Lo scrive, su “Global Research”, il professor Michael Chossudovsky, economista dell’università canadese di Ottawa e prezioso osservatore internazionale. Durante i recenti sviluppi, a seguito del fallito colpo di Stato turco del luglio 2016, i media hanno riportato la notizia di armi atomiche, stoccate nella base di Incirlik. La difesa statunitense ha confermato il dispiegamento di 90 cosiddette armi tattiche B61, alcune delle quali sono state poi “decomissionate”. Lo stoccaggio e il dispiegamento delle bombe B61 in questi 5 paesi “non nucleari” ha come obiettivo il Medio Oriente, afferma Chossudovsky. Inoltre, in accordo con il “piano di attacco” predisposto dalla Nato, queste bombe termonucleari (capaci di penetrare e distruggere bunker sotterranei) possono essere lanciate «contro obiettivi come la Russia o nazioni del Medio Oriente, come Iran e Siria», scrive il National Resources Defense Council, nel rapporto “Nuclear Weapons in Europe”.
    Durante i recenti avvenimenti – scrive sempre Chossudovsky in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte” – la stampa europea, inclusa “Deutsche Welle”, ha confermato il dispiegamento di 50 testate B61 nella base di Incirlik. Ma questo è risaputo moltissimo tempo. «Ci sono voluti 10 anni affinché i media riconoscessero che la Turchia (stato ufficialmente “non nucleare”) possedesse un numero non indifferente di testate nucleari». Le B61 stoccate a Incirlik sono “bombe a gravità” con testate nucleari di una capacità esplosiva di 170 chilotoni, cioè fino a 12 volte la potenza di quella di Hiroshima. «L’accuratezza sul numero esatto di bombe riportate dai media deve essere ancora verificata. Come sappiamo per certo, alcune bombe sono state decommissionate durante gli anni e altre sono state rimpiazzate da una loro versione più recente, tra cui i B61-11. Deve essere sottolineato il fatto che negli ultimi anni il Pentagono ha sviluppato una versione più avanzata del B61, chiamata B61-12, che è in linea per rimpiazzare le versioni vecchie attualmente stoccate in Europa e Turchia. Altre armi nucleari sono in progetto: una testata da un trilione di dollari viene in questo momento contemplata dal Pentagono».
    Addio al principio di deterrenza, dice Chossudovsky: «Queste cosiddette mini-bombe nucleari esistono per essere usate. Sotto il programma del Pentagono chiamato “Life Extension”, le B61 sono programmate per rimanere operative fino al 2025». Quindi la Turchia è a tutti gli effetti una potenza nucleare non dichiarata? «La risposta è sì, ma ciò si può dire anche di altre quattro nazioni europee: Belgio, Olanda, Germania e Italia, in quanto posseggono bombe B61 dispiegate sotto ordine governativo e aventi come obiettivo la Russia, il Medio Oriente e l’Iran», scrive sempre l’analista canadese. «Lontano dal rendere l’Europa più sicura e meno dipendente da armi nucleari, questo programma rischia di portare più armi nucleari sul suolo europeo e rendere più complicati i tentativi di disarmo multilaterale». Lo ha dichiarato persino l’ex segretario generale della Nato, George Robertson, in una dichiarazione ripresa da “Global Security” già nel 2010. Domande inevitabili: potrebbe l’Italia lanciare un attacco termonucleare? Possono i belgi e olandesi sganciare bombe all’idrogeno su obiettivi nemici? E ancora: può l’aviazione tedesca aver ricevuto un training per effettuare attacchi con bombe 13 volte più potenti di quella di Hiroshima?
    «Bombe nucleari sono conservate in basi aree in Italia, Belgio, Germania e Olanda», tutti paesi «dotati di forze aeree in grado di usarle», anche secondo “Time Magazine”. Potenze nucleari “fantasma”, accanto alle 5 ufficialmente riconosciute: gli Usa, in Europa la Gran Bretagna e la Francia, quindi la Russia e la Cina. Hanno tutte sottoscritto un trattato di non-proliferazione nucleare. Lo rispettano? Non sembra. Accanto a questi paesi, altre potenze – India e Pakistan, più la Corea del Nord (fuori dal trattato di non-proliferazione) sono state identificate come in possesso di armi nucleari. Tra i “fantasmi”, poi, Chossudovsky annovera anche Israele, «identificato come “Stato nucleare non-dichiarato”». In realtà, scrive il professore, Tel Aviv «produce e dispiega testate nucleari dirette contro obiettivi e militari nel Medio Oriente, inclusa Teheran». Ma, mentre il potenziale iraniano rimane non confermato, quello delle superpotenze atomiche è ben riconosciuto. E gli Usa, aggiunge Chossudovsky, «hanno fornito qualcosa come 480 B61, testate termonucleari», alle nazioni “amiche” e «ufficialmente “non nucleari”».
    Tra le cinque nazioni nucleari “fantasma”, poi, «la Germania rimane quella in assoluto più nuclearizzata, con tre basi (due delle quali pienamente operative) che potrebbero stoccare fino a 150 testate B61». In accordo con la Nato, queste armi tattiche sono puntate anche in Medio Oriente, scrive Chossudovsky. E la Germania – altra notizia – non è solo un vettore nucleare non dichiarato, ma «produce testate nucleari per la Marina francese». Oltre a ciò, la European Aeronautic Defense and Space Company (Eads) una joint venture franco-ispanico-tedesca controllata dalla Deutsche Aerospace e dal potente gruppo Daimler, «è il secondo più grande produttore di armi europeo, e vende i famosi missili nucleari francesi M51».  Tutto questo, naturalmente, con il placet degli Stati Uniti.
    In altre parole, ignorando le regole dell’Aiea – l’agenzia nucleare delle Nazioni Unite – gli Usa «hanno attivamente contribuito alla proliferazione di armi nucleari». Tant’è vero che «parte integrante dell’arsenale europeo è la Turchia», con le sue 90 testate a Incirlik. Tutto questo – si domanda Chossudovsky – significa che Iran e Russia, potenziali obiettivi di attacco nucleare occidentale, dovrebbero contemplare un “contrattacco nucleare difensivo” contro Belgio, Germania, Olanda, Turchia e Italia? «La risposta è no, neanche ad immaginarlo». Il pericolo viene da una sola parte, la nostra, ribadisce il professore: le potenze nucleari non-dichiarate dell’Europa occidentale hanno continuato per anni a lanciare accuse di vario genere contro Teheran, senza alcuna prova documentata sul “nucleare iraniano”, quando inveve sono loro ad avere la capacità di lanciare un attacco nucleare contro l’Iran. Lo stesso dicasi per le continue minacce nei confronti della Russia di Putin. «Dire che questo è un chiaro esempio di “due pesi e due misure” da parte dell’Aiea e della solita “comunità internazionale” è dire poco».

    Ampiamente documentato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia sono in possesso di armi nucleari che sono dispiegate contro la Russia, l’Iran e altri paesi del Medio Oriente. Lo scrive, su “Global Research”, il professor Michael Chossudovsky, economista dell’università canadese di Ottawa e prezioso osservatore internazionale. Durante i recenti sviluppi, a seguito del fallito colpo di Stato turco del luglio 2016, i media hanno riportato la notizia di armi atomiche, stoccate nella base di Incirlik. La difesa statunitense ha confermato il dispiegamento di 90 cosiddette armi tattiche B61, alcune delle quali sono state poi “decomissionate”. Lo stoccaggio e il dispiegamento delle bombe B61 in questi 5 paesi “non nucleari” ha come obiettivo il Medio Oriente, afferma Chossudovsky. Inoltre, in accordo con il “piano di attacco” predisposto dalla Nato, queste bombe termonucleari (capaci di penetrare e distruggere bunker sotterranei) possono essere lanciate «contro obiettivi come la Russia o nazioni del Medio Oriente, come Iran e Siria», scrive il National Resources Defense Council, nel rapporto “Nuclear Weapons in Europe”.

  • Isis, cioè turchi e sauditi: guerra in Siria per un gasdotto

    Scritto il 22/8/16 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Lo sapevate che Steve Jobs, il guru della Apple, era figlio di un siriano immigrato negli Usa negli anni ‘50? E che il presidente Assad ha un consenso democratico superiore a quello di Obama? E ancora: chi sapeva che la principale fonte dei media occidentali sul conflitto siriano è un negozio di magliette in Inghilterra? «Non è uno scherzo», assicura “TheAntiMedia.org”. «Se seguite le notizie è probabile che abbiate sentito i media parlare di un’entità grandiosamente definita “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani” (“Syrian Observatory for Human Rights”, Sohr)». Ebbene, questo cosiddetto “osservatorio” è gestito da una sola persona nella propria casa, a Coventry, a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto siriano. «Eppure è definito come la fonte più rispettata dai media occidentali: “Bbc”, “Reuters”, “Guardian”». Le credenziali di questa persona? «Consistono nell’essere proprietario di un negozio di magliette nella stessa via della propria casa, nonché di essere un noto dissidente dell’attuale presidente siriano». E questa è solo una delle tante cose che i media mainstream non raccontano, del conflitto in Siria. Dove, a innescare la guerra, è stato il rifiuto di Assad di concedere il proprio territorio per un gasdotto che avrebbe collegato Arabia Saudita e Turchia.
    Lo scrive Darius Shahtahmasebi, in un post ripreso da “Zero Hedge” e rilanciato da “Voci dall’Estero” per illuminare le clamorose falle della narrazione ufficiale sulla guerra in Siria. Una notizia decisamente irrintracciabile, su giornali e televisioni, è il tasso di popolarità di Bashar Assad: «Dall’inizio del conflitto nel 2011 – scrove Shahtahmasebi – Assad ha sempre mantenuto il sostegno della maggioranza del suo popolo. Le elezioni del 2014 – dove Assad ha ottenuto una vittoria schiacciante, e osservatori internazionali hanno dichiarato che non ci sono stati brogli – è la prova del fatto che, sebbene Assad sia stato accusato di gravi violazioni dei diritti umani, continua a mantenere un’ampia popolarità presso il popolo siriano». Obama, dal canto suo, ha vinto le elezioni del 2012 con una maggioranza di appena il 53,6%, e con solo 129 milioni di cittadini recatisi alle urne. «Questo significa che circa 189,8 miliori di americani non hanno votato Obama». Il suo attuale tasso di approvazione è quindi attorno al 50%, inferiore a quello del “dittatore” Assad.
    Un’autentica barzelletta, continua  Shahtahmasebi su “TheAntiMedia.org”, riguarda la famosa “opposizione moderata”: se mai c’è stata, non esiste più. «Il cosiddetto Libero Esercito Siriano sostenuto dall’Occidente è dominato da anni dalle forze estremiste. Gli Usa lo sanno già, eppure hanno continuato a sostenere l’opposizione siriana. Il “New York Times” nel 2012 ha riportato che la maggior parte degli armamenti spediti in Siria finivano nelle mani degli jihadisti». Un report riservato della Dia prediceva l’ascesa dell’Isis nel 2012: «Se la situazione si dipana – recitava testualmente il documento – è possibile che si stabilisca un principato Salafita, sia esso dichiarato o meno, nella Siria orientale. Questo è esattamente ciò che vogliono attualmente le forze dell’opposizione, per isolare il regime siriano». Inoltre, una testimonianza di un comandante del Libero Esercito Siriano mostra non solo l’ammissione che i suoi combattenti partecipano regolarmente ad azioni congiunte con al-Nusra (il braccio siriano di Al-Qaeda), ma anche che lui stesso spera di vedere la Siria governata dalla legge della Sharia.
    Altra super-montatura, quella dell’uso di armi chimiche da parte del regime nell’agosto 2013, che rischiò di innescare bombardamenti Nato: tra gli altri, un giornalista Premio Pulitzer come Seymour Hersh dimostrò che l’intelligence Usa era perfettamente al corrente dell’uso del gas Sarin da parte dei “ribelli”. Darius Shahtahmasebi ricorda che lo stesso generale Wesley Clark rivelò che, all’indomani dell’11 Settembre, il Pentagono aveva sviluppato un piano per rovesciare, in cinque anni, i governi di sette paesi: oltre alla Siria l’Iraq (invaso nel 2003), il Libano (attaccato da Israele nel 2006), la Libia (distrutta nel 2011), la Somalia (oggi sorvolata dai droni Usa) e il Sudan, smembrato nel 2011 al termine di una sanguinosa guerra civile. Nell’elenco degli Stati da abbattere era compreso anche l’Iran, che con la Siria ha un accordo di reciproca difesa stipulato nel 2005. Gioco pericoloso: con l’Iran sono schierate Russia e Cina. E l’intervento militare russo in Siria «dimostra che queste non sono vane minacce: il loro impegno ha seguito le loro parole».
    I media raccontano che l’Isis è nato in Siria? Sbagliato: il Califfato è nato come conseguenza dell’invasione statunitense in Iraq, dice Shahtahmasebi. Prima, l’Isis era noto come “Al-Qaeda in Iraq”, ed è diventato importante in seguito all’invasione Nato del 2003. «È ben noto che non c’era alcuna traccia tangibile di Al-Qaeda in Iraq prima di quella invasione, e per un motivo ben preciso: quando Paul Bremer ricevette il ruolo di inviato presidenziale in Iraq nel maggio 2003, dissolse le forze di polizia e l’esercito. Bremer licenziò quasi 400.000 uomini in servizio, tra cui ufficiali militari di alto rango che avevano combattuto nella guerra Iran-Iraq negli anni ’80. Questi ufficiali oggi detengono importanti posizioni all’interno dell’Isis. Se non fosse stato per l’azione statunitense, l’Isis probabilmente non sarebbe mai esistito». I suoi tagliagole oggi «sono diventati fondamentali nel programma occidentale di rovesciamento dei regimi in Libia e in Siria. Quando i vari gruppi iracheni e siriani affiliati ad al-Qaeda si sono uniti lungo il confine siriano nel 2014, ci siamo trovati con il gruppo terroristico che conosciamo oggi».
    Oltre al ruolo della Turchia di Erdogan nel fornire assistenza di ogni genere all’Isis in Siria, c’è poi un altro fondamentale retroscena: «Turchia, Qatar e Arabia Saudita volevano costruire un gasdotto lungo la Siria, ma Assad ha rifiutato». Ed ecco i guai. La storia comincia nel 2009, quando il Qatar propose di costruire una conduttura lungo la Siria e la Turchia per esportare il gas saudita, scrive Shahtahmasebi. «Assad rifiutò la proposta e formò al contrario un accordo con l’Iran e l’Iraq per costruire una conduttura verso il mercato europeo, che avrebbe tagliato fuori Turchia, Arabia Saudita e Qatar». Da allora, prosegue “TheAntiMedia.org”, questi paesi sono diventati forti sostenitori dell’opposizione siriana che voleva rovesciare Assad. «Complessivamente, hanno investito miliardi di dollari, prestato armamenti, incoraggiato la diffusione del fanatismo ideologico e hanno permesso il passaggio dei combattenti lungo i propri confini». Grazie alla resistenza di Assad sostenuto da Putin, la conduttura Iran-Iraq «rafforzerà l’influenza iraniana nella regione e minerà il suo rivale, l’Arabia Saudita, l’altro grande produttore Opec. Se avrà la capacità di trasportare gas verso l’Europa senza dover passare per gli alleati di Washington, l’Iran guadagnerà potere contrattuale e potrà negoziare accordi di escludano completamente gli Usa e il dollaro». Un mare di soldi: e questo, più di qualunque altro argomento, aiuta a capire meglio lo strano accanimento contro il governo di Damasco.

    Lo sapevate che Steve Jobs, il guru della Apple, era figlio di un siriano immigrato negli Usa negli anni ‘50? E che il presidente Assad ha un consenso democratico superiore a quello di Obama? E ancora: chi sapeva che la principale fonte dei media occidentali sul conflitto siriano è un negozio di magliette in Inghilterra? «Non è uno scherzo», assicura “TheAntiMedia.org”. «Se seguite le notizie è probabile che abbiate sentito i media parlare di un’entità grandiosamente definita “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani” (“Syrian Observatory for Human Rights”, Sohr)». Ebbene, questo cosiddetto “osservatorio” è gestito da una sola persona nella propria casa, a Coventry, a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto siriano. «Eppure è definito come la fonte più rispettata dai media occidentali: “Bbc”, “Reuters”, “Guardian”». Le credenziali di questa persona? «Consistono nell’essere proprietario di un negozio di magliette nella stessa via della propria casa, nonché di essere un noto dissidente dell’attuale presidente siriano». E questa è solo una delle tante cose che i media mainstream non raccontano, del conflitto in Siria. Dove, a innescare la guerra, è stato il rifiuto di Assad di concedere il proprio territorio per un gasdotto che avrebbe collegato Arabia Saudita e Turchia.

  • Perché gli strateghi dell’orrore hanno tanta paura di Trump

    Scritto il 19/8/16 • nella Categoria: idee • (3)

    Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria. «Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton. Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale,  Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80. Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore. «Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary. L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».
    Il tycoon col parrucchino ha definito la Nato “obsoleta”? Certo: infatti «può tentare di normalizzare i legami con la Russia». Donald Trump «non è un pacifista, ma difficilmente inizierebbe la Terza Guerra Mondiale», scrive Lendman, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Comparato alla Clinton, è la minore di due forze oscure. Bisogna dargli merito di volere un riavvicinamento con la Russia e non lo scontro, a condizione che riesca ad andare fino in fondo se eletto presidente». Il suo potenziale spostamento geopolitico, continua Lendman, ha avversari come l’ex direttore Cia, Michael Morell, che lo definisce «un agente inconsapevole della Federazione Russa», e quindi costituisce «una minaccia per la sicurezza nazionale». Aggiunge Lendman: «I neoconservatori come Morell, la Clinton e molti altri che infestano Washington, credono che le iniziative di pace che guadagnano forza rappresentino la più grande minaccia geopolitica all’America – soprattutto se pongono fine agli annosi rapporti contraddittori con la Russia».
    Per Morell e soci, “The Donald” non è qualificato per gestire la politica estera: «Sarebbe un presidente pericoloso e metterebbe a rischio la sicurezza e il benessere del nostro paese». Secondo i 50 firmatari dell’ultra-destra, autori del manifesto anti-Trump, l’avversario della Clinton «indebolirebbe l’autorità morale degli Stati Uniti come leader del mondo libero», anche prché «ha poca comprensione degli interessi nazionali dell’America, le sue complesse sfide diplomatiche, le sue indispensabili alleanze e dei valori democratici su cui deve basarsi la politica estera degli Stati Uniti». Peggio ancora: «Si complimenta insistentemente con i nostri avversari e minaccia i nostri alleati ed amici». Ergo: «Se arrivasse allo Studio Ovale sarebbe il presidente più sconsiderato della storia americana». Tutto questo, perché crede che la Nato sia “obsoleta” e perchè favorisce la normalizzazione delle relazioni con la Russia. «La massima priorità dell’umanità è di evitare un’altra guerra globale», osserva Lendman. Guerra che, se scoppiasse, «probabilmente sarebbe con armi nucleari e minaccierebbe la sopravvivenza del genere umano».
    Non è un’ipotesi remotissima: «Le probabilità per l’impensabile sono fin troppo alte per rischiare sotto Hillary, se dovesse succedere ad Obama. Fin dagli anni ‘90 i suoi pessimi primati dimostrano quanto sia una guerrafondaia pazza scatenata, estremamente ostile alla Russia, alla Cina e a tutti gli altri Stati sovrani indipendenti». La conosciamo, Hillary Clinton: «La sua strategia geopolitica preferita è la guerra. È favorevole all’uso di armi nucleari e alle aggressioni della Nato, guidata dagli Stati Uniti, “per preservare il nostro stile di vita”». E Trump? Ha risposto ai firmatari della lettera dicendo che sono «quelli a cui il popolo americano dovrebbe chiedere le risposte sul perché il mondo sia un disastro». Li ringraziamo per essersi fatti avanti, aggiunge Trump, così almeno «chiunque, nel paese, sa a chi dare la colpa di rendere il mondo un posto così pericoloso». Non sono «nient’altro che le élite fallite di Washington che cercano di aggrapparsi al proprio potere».
    Ha ragione, scrive Lendman: «Molti di loro sono responsabili delle guerre di aggressione pre-e-post 11 Settembre – estremisti anti-pace che dovremmo denunciare tutti». La Clinton? «E’ la scelta dell’establishment come presidente. Probabilmente succederà ad Obama con mezzi leciti o illeciti». Se invece vincesse Trump, a sorpresa, «probabilmente non si discosterà molto dalle tradizionali politiche interne ed estere degli Stati Uniti». Inutile illudersi: «I candidati dicono qualsiasi cosa per farsi eleggere». Ma poi, «una volta in carica, continuano i loro affari sporchi come al solito». Eppure, conclude Lendman, «un’inconcepibile guerra globale è molto più probabile sotto la Clinton che sotto di lui». Ecco perché «è fondamentale contrastare la sua candidatura alla più alta carica della nazione o a qualsiasi altra carica pubblica».

    Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria. «Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton. Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale,  Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80. Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore. «Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary. L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».

  • Quelle strane morti nella campagna elettorale della Clinton

    Scritto il 17/8/16 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    La campagna della Clinton è lastricata di morti sospette: gente che avrebbe potuto parlare contro di lei? In più, Hillary è regolarmente accompagnata da un uomo obeso che sembra il suo assistente medico. In una foto, l’obeso tiene in mano un auto-iniettore di Diazepam: nome commerciale “Valium”, è un farmaco indicato nel trattamento di ansia, insonnia, paranoie, persino allucinazioni e spasmi muscolari di varia gravità, fino alla sclerosi multipla. La candidata democratica, scrive Maurizio Blondet, ha subito un ictus nel 2013, per il quale sembra venga trattata con anticoagulanti. Il web s’è scatenato in diagnosi ipotetiche, che vanno dall’epilessia ad altre malattie neurologiche o cardiovascolari (fino alla sifilide, che avrebbe contratto dal marito). «Spesso la signora è confusa e si abbandona a movimenti spastici del capo; fa fatica a salire una piccola rampa di scale e inciampa spesso; ha talora una tosse convulsa o nervosa: che la candidata abbia problemi di salute che si aggravano, non pare dubbio», anche se i media fingono di non accorgersene. La cosa però non è sfuggita a Donald Trump, che ripete: “low energy”, Hillary è troppo debole per reggere una semplice conferenza stampa. Non ne tiene più da ben 7 mesi, infatti.
    Letteralmente, continua Blondet nel suo blog, Hillary non fa che dormire. E ha un dottore che la segue continuamente. Si chiama Oladotun Okunola, è un afroamericano corpulento. L’hanno ripreso mentre le mette una mano sulla spalla e le dice: “keep talking”, inizia pure a parlare. Un uomo dei servizi? Quella volta, «la Clinton si è ripresa e ha detto in tono semi-isterico, a voce molto alta, “here we are, I keep talking”, eccoci, ora parlo. Una candidata solo in parte padrona di sé? Ma il peggio, scrive Blondet, è quella che definisce la «inquietante lista di morti attorno alla campagna di Hillary: persone che per qualche motivo potevano rovinargliela». Il primo era l’avvocato Shawn Lucas, incaricato dai sostenitori di Bernie Sanders di querelare Debbie Wasserman Schultz, presidente della Convention democratica, dopo la fuga delle email in cui costei mostrava di favorire Hillary sul candidato Sanders – ragion per cui la Wasserman Schultz ha dovuto dimettersi. Il 2 agosto, l’avvocato Lucas è stato trovato morto nel bagno di casa dalla sua fidanzata. Sulle cause della morte le autorità non hanno dichiarato nulla.
    Il secondo uomo si chiama Seth Rich. Era direttore del Voter Expansion Data dei democratici. E’ stato ucciso da vari colpi di pistola alla schiena a due passi da casa. L’omicidio, annota Blondet, è avvenuto dopo che Wikileaks aveva spifferato le 20.000 email che provano che il Dnc, la struttura elettorale democratica, stava favorendo Hillary contro Sanders: e Seth Rich, per le sue mansioni, poteva essere lo spifferatore. Per la polizia è stato un tentativo di rapina finito tragicamente. Ma sul corpo della vittima c’erano ancora portafoglio e orologio. C’è poi il caso di Victor Thorn, giornalista, che sulla “American Free Press” (un periodico di destra estremamente ben informato) ha firmato decine di articoli-inchiesta contro il clan Clinton e i suoi segreti più oscuri; tre suoi saggi – una trilogia, “Crowning Clinton: Why Hillary Shouldn’t Be in the White House” – stavano per essere tradotti all’estero. Ma il 1° agosto Thorn è stato trovato morto, anche lui ucciso da un colpo di pistola presso casa. Suicidio, ha decretato la polizia.
    E poi Joe Montano, presidente del Dnc prima di Debbie Wasserman Schultz. Dopo che Wikileaks a diffuso le 20.000 email dello scandalo – scrive Blondet – Montano è morto improvvisamente il 25 luglio scorso. «Attacco cardiaco, è stato decretato: a 47 anni e nessuna storia di malattie». Infine la lista delle strani morti si completa con John Ashe, già presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: stava per essere sottoposto a un processo per aver accettato mazzette da un ricco cinese, Ng Lap Seng, nel 1996. «Seng aveva fatto donazioni illegali per la rielezione di Bill Clinton; Ashe avrebbe certamente dovuto testimoniare sui legami tra il cinese e i Clinton». E’ morto il 23 giugno scorso, il giorno stesso in cui avrebbe testimoniato. Secondo la polizia, stava sollevando un pesante bilancere da ginnastica ma se l’è fatto cadere addosso, e – sfortuna – l’attrezzo gli ha schiacciato la gola. «Cose che succedono», commenta Blondet, sarcastico. Che aggiunge: ad un comizio di Hillary vicino a Orlando, è apparso al suo fianco Seddique Mateen, il padre di Omar Mateen, protagonista della strage del 12 giugno in quella città. Ai giornalisti che gli hanno domandato come mai fosse al comizio, a soli due mesi dalla tragedia, papà Mateen ha risposto: «Hillary Clinton è buona per gli Stati Uniti, al contrario di Trump che non offre soluzioni».

    La campagna della Clinton è lastricata di morti sospette: gente che avrebbe potuto parlare contro di lei? In più, Hillary è regolarmente accompagnata da un uomo obeso che sembra il suo assistente medico. In una foto, l’obeso tiene in mano un auto-iniettore di Diazepam: nome commerciale “Valium”, è un farmaco indicato nel trattamento di ansia, insonnia, paranoie, persino allucinazioni e spasmi muscolari di varia gravità, fino alla sclerosi multipla. La candidata democratica, scrive Maurizio Blondet, ha subito un ictus nel 2013, per il quale sembra venga trattata con anticoagulanti. Il web s’è scatenato in diagnosi ipotetiche, che vanno dall’epilessia ad altre malattie neurologiche o cardiovascolari (fino alla sifilide, che avrebbe contratto dal marito). «Spesso la signora è confusa e si abbandona a movimenti spastici del capo; fa fatica a salire una piccola rampa di scale e inciampa spesso; ha talora una tosse convulsa o nervosa: che la candidata abbia problemi di salute che si aggravano, non pare dubbio», anche se i media fingono di non accorgersene. La cosa però non è sfuggita a Donald Trump, che ripete: “low energy”, Hillary è troppo debole per reggere una semplice conferenza stampa. Non ne tiene più da ben 7 mesi, infatti.

  • L’auto-golpe del boia Erdogan, ladrone e super-terrorista

    Scritto il 23/7/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    “La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.
    Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia. Ci possono essere dissapori, tra il maniaco criminale di Ankara e quelli di Washington. Che so, sui curdi, sulla gestione del califfo, su pace o guerra con Mosca o Iran, ma mettere in discussione un pilastro Nato piantato in mezzo a Medioriente e Asia, ai confini della Russia che delenda est, una forza militare che è la seconda dell’Occidente dopo gli Usa, un regime che tiene appesa al gancio del collasso da migrazioni l’Unione Europea, ecchè, vogliamo metterlo in discussione?
    E allora tutti, da Obama al “Manifesto”, lungo l’intero arco atlantico da destra a sinistra, a inneggiare alla preservazione delle istituzioni, dei diritti civili e del governo democraticamente (sic!) eletto, con qualcuno dal sottofondo che flauteggia l’auspicio che Erdogan si ravveda e non ne combini più delle sue. Non se ne preoccupa più di tanto Tommaso De Francesco, del quotidiano cripto-Nato, ma con etichetta comunista, il quale non fa che inanellare scemenze e insipienze da quando attribuì a Milosevic despotismo e pulizie etniche e in questo caso, con una Turchia chiaramente spaccata a metà tra affascinati dalla Sharìa e resistenti umani, individua un “Erdogan ferito”, ma anche un “popolo turco”, tutto intero, sdraiatosi davanti ai carri armati come a Tien An Men, in difesa del suo presidente, “democraticamente eletto”. Già gli erano svaporati dalle malferme sinapsi i milioni che negli anni si sono ritrovati nelle piazze, da Dyiarbakir a Istanbul, per farsi sparare addosso dagli sgherri del democraticamente eletto.
    Divertente poi la linea a balzelloni del giornaletto restituito a malavita (lo ha annunciato l’altro giorno) e alla sua cooperativa più che da lettori fedeli, dai paginoni dei compagni di Eni, Enrel, Telecom, Enav, Coop. Come quando con il suo responsabile esteri sentenzia un Erdogan fragile e indebolito dall’emergere di un elemento di contrasto capace di tenerlo sulla corda per ben tre ore di golpe, nientemeno, mentre l’altro redattore si piega alla realtà di un presidente tornato in grande spolvero e ora in grado spazzare via ogni residuo di opposizione. Ma che riunioni di redazione fanno? Torniamo al “golpe”, auto. Quello sul cui fallimento il “Manifesto” e tanta stampa (un po’ meno lo scaltro “Il Fatto”) si azzarda a ricostruire la «centralità del Parlamento e del ruolo fondamentale dei partiti politici nel gioco democratico» (sic!): esattamente, ed è naturale, i termini in cui hanno salutato il salvataggio della democrazia da parte del più turpe energumeno nazista dell’area gli zii della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Pentagono e, scendendo molto in basso per li rami, pure Matteo Renzi e – qui ci scappelliamo – l’eurodama Mogherini.
    Ebbene qualcuno si ricorda dei colpi di Stato effettuati dai militari turchi ogni qualvolta sospettavano che l’eredità nazionale e laica di Ataturk fosse posta a repentaglio da destra o sinistra? E qualcuno gli ha messo a confronto quiell’aborto di colpetto di Stato della notte tra il 15 e il 16 luglio 2016? Hanno occupato la tv di Stato, ma non le tv private, tutte infeudate a Erdogan, non la Cnn turca (braccio mediatico Nato e Usa) dalla quale è difatti ripartito il controgolpe, cioè il colpo di Stato vero, con la trasmissione da smartphone dell’appello di Erdogan al pogrom antimilitare. Non hanno fatto nessuna delle cose che potevano assicurare il successo di una liberazione militare del popolo turco dalla Vergine di Norimberga  in cui progressivamente lo ha rinchiuso il suo Torquemada. Non hanno spento i ripetitori delle telecomunicazioni, i cellulari, internet, non hanno ordinato il coprifuoco e proclamato la legge marziale, non hanno occupato i ministeri, appena qualche tank sui ponti sul Bosforo, di grande visibilità e dove sarebbero potuti arrivare in poco tempo e in tanti a “difendere la democrazia”.
    Non hanno occupato alcuna via di comunicazione strategica nel paese e tra il paese e i vicini, non hanno occupato le prefetture, presidiato i nodi ferroviari, bloccato gli aeroporti (solo per finta quello di Istanbul dove Erdogan è potuto subito arrivare dal suo luogo di vacanze, a Marmaris, che nessuno si è sognato di bombardare o occupare). Nel tempo delle immagini e dei leaderismi che ne scaturiscono non hanno saputo produrre un nome e una figura carismatica di riferimento, non hanno usato i social network. Dilettantismo di quattro sprovveduti, per quanto bene intenzionati, che non hanno neanche ricordato che i colpi di Stato si fanno a notte fonda, prima dell’alba, quando non si corre l’inconveniente di gente sveglia e per strada. E così le Cnn e le tv associate al disegno del despota hanno potuto riprendere strade e piazze  con qualche centinaio di persone, emerse da discoteche e trattorie e poi moltiplicati dagli accorsi agli appelli di Erdogan liberamente trasmessi, simulando una rivolta di massa contro i carri.
    Poi è finito tutto. Salvo per i 300 morti, per ora, i 6000 arrestati, per ora, i 3000 magistrati dimessi e poi incarcerati, la campagna di linciaggi lanciata contro i soldati “traviati”, piazza pulita di tutti i critici e irriverenti, l’immaginabilissima ulteriore stretta sui diritti politici, civili, operai, la continuità del doppio forno antisiriano (alleanza con Isis, finto guerra all’Isis), lo sprofondare del paese in un abisso di regressione politica e culturale. Una Turchia degna dell’ingresso nell’Ue,vero modello avanzato di quanto si ha in mente a Bruxelles, Washington e tra coloro che brandiscono Nato e Ttip, tanto per assicurarci sulla «centralità del Parlamento turco e dei partiti come attori fondamentali del gioco democratico», come titola il foglio cripto-Nato su un pezzo davvero turco di tale Mariano Giustino. Cosa può essere successo?
    Che gli attentati finalizzati, come in Francia, come ovunque, ad accelerare la marcia verso lo Stato con gli stivali chiodati e a passo dell’oca non erano riusciti a far ingranare la quarta. Che nell’esercito, per quanto epurato, sopravvivevano fermenti laici, nazionalisti, in disaccordo con le catastrofiche imprese esterne e interne di un regime che andava isolandosi da tutti. Che si è lasciato che i portatori di questi fermenti, nei gradi medio-alti, congiurassero, che magari con agenti provocatori li si incoraggiasse, che addirittura gli si facesse balenare un appoggio euro-atlantico, che poi li si inducesse a commettere le ingenuità, gli errori clamorosi che si sono visti, nell’illusione, loro, che si sarebbero tirati dietro popolo e armate.
    Tutti a sottolineare il silenzio delle cancellerie occidentali, Obama, Merkel, Juncker, May, Hollande e Renzi (per quel che conta), nelle tre ore del golpe, interpretato e biasimato come un barcamenarsi in attesa di sapere chi avrebbe vinto. Balle! Sapevano benissimo chi avrebbe vinto, ma, davanti all’immagine del golem turco insediatasi ormai nella percezione della gente pensante in tutta la sua orripilante identità di padrino del terrorismo jihadista, massacratore del suo e di altri popoli, corrotto ladrone e capo di un clan di malfattori senza scrupoli, conveniva mostrare qualche disponibilità a chi aveva proclamato nel suo comunicato il «ritorno alla democrazia e al rispetto dei dirtti umani e la pace e amicizia con tutti i popoli vicini». Ovviamente anatema per la Nato e per un’Europa che si muove, per ora con mocassini e tacchi a spillo, nella stessa direzione.
    Pensate se avesse vinto il colpo di Stato. Via i Fratelli Musulmani, quelli tanto cari al “Manifesto”, ormai nettamene minoritari nella regione (Tunisia, Qatar e Turchia). Cioè via la forza sociale, militare e culturale ideata e nutrita dai colonialismi vecchi e nuovi a garanzia dei propri modelli di sviluppo e di sfruttamento, del proprio ordine mondiale. Al suo posto una realtà imprevedibile e incalcolabile, con rigurgiti nazionalisti e statalisti suscettibili di guardare oltre il soffocante perimetro delle alleanze e dipendenze occidentali, sicuramente laica e, dunque, ostica ai processi di decerebramento religioso che servono a neutralizzare nostalgie di autodeterminazione popolare e nazionale. Quelle che hanno animato alla rivolta alcune decine di milioni di egiziani, dopo aver assaporato la medicina dei Fratelli Musulmani e dei loro surrogati terroristici, sotto un presidente eletto “democraticamente” dal 17% della popolazione in un voto boicottato dalla maggioranza, che aveva imposto la sharìa, sparato sui manifestanti, incarcerato gli oppositori, bruciato le chiese cristiane, trasferito tagliagole in Siria e i cui seguaci ora assassinano civili, funzionari e poliziotti in una guerra terroristica che tutti preferiscono nascondere sotto le presunte infamie di Abdelfatah Al Sisi.
    Avessero vinto in Turchia i militari, ontologicamente fascisti secondo un’aporia di sinistra, a dispetto di dimostrazioni storiche contrarie, ci saremmo giocati «la centralità del Parlamento turco e dei partiti nel loro ruolo di attori fondamentali del gioco democratico», come temeva il “Manifesto” e tutto il cucuzzaro destro-sinistro dell’atlantismo? Chi lo sa. Di sicuro c’è che, come Al Sisi è meglio di Morsi per gli egiziani, gli arabi, il Medioriente, il movimento delle cellule cerebrali dell’essere umano, difficilmente qualcuno di quelli che si sono agitati l’altra notte a Istanbul avrebbe potuto essere peggio di Erdogan, il padrino degli squartatori del popolo iracheno, libico e siriano. Certo che la Nato, John Negroponte, l’Mi6, la Cia, Oxford Analytica e il “manifesto”, a questo qualcuno non avrebbero esitato un attimo a spedigli un Giulio Regeni, poveretto.
    (Fulvio Grimaldi, “Turchia, fanno tutto da soli e sono capaci di tutto”, da “Mondocane” del 17 luglio 2016).

    “La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.

  • Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe in Turchia

    Scritto il 20/7/16 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.
    L’abbattimento del velivolo provocò la rottura delle relazioni tra Ankara e Mosca e generò una crisi diplomatica profonda che si è conclusa solo dopo circa otto mesi, nel giugno scorso, quando il Cremlino ha ricevuto le scuse formali per l’abbattimento del jet da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Fino a quel momento, infatti, Ankara aveva sempre rifiutato di assumersi le responsabilità dell’accaduto. Il fatto, però, che i due piloti che obbedirono all’ordine di abbattere il jet russo, figurino ora tra le file dei militari golpisti e oppositori di Erdogan, spinge a ripensare gli eventi del 24 novembre alla luce degli accadimenti dello scorso fine settimana. La spaccatura fra Erdogan ed una parte dei militari, del resto, non è cosa nuova, ma vecchia di almeno dieci anni, e il golpe fallito messo in atto nella giornata di venerdì viene considerato da molti analisti solo l’apice di un processo che va avanti da tempo.
    C’è quindi chi già pensa che forse, dietro l’abbattimento del caccia di Mosca, impegnato nelle operazioni contro lo Stato Islamico nel nord della Siria, potrebbe non esserci stato un ordine diretto di Erdogan, ma che forse l’iniziativa partì da quegli stessi generali dell’aviazione turca, che risultano, secondo le controverse informazioni a disposizione finora, essere stati alla base dell’organizzazione del tentativo colpo di Stato. «All’epoca dell’incidente fu l’allora premier Ahmet Davutoglu a prendersi la responsabilità di quello che successe e non Erdogan», spiega a “Gli Occhi della Guerra” Alexander Sotnichenko, professore di relazioni internazionali all’Università di San Pietroburgo ed esperto di relazioni russo-turche, «ora Erdogan sta cercando di dimostrare che non fu lui il colpevole di quella vicenda, ma i sostenitori di Gulen».
    In più, il tentativo di golpe, che avrebbe potuto essere messo in atto in diverse occasioni, ultima quella delle contestate elezioni del 2015, avviene proprio in un momento in cui le relazioni tra Ankara e Washington sono ai minimi storici e mentre è iniziato un percorso di normalizzazione delle relazioni con la Russa. Percorso che ha aperto anche un’ulteriore strada, quella che porta verso una composizione diplomatica della crisi siriana. Le prime tappe di questo percorso sono state la rimozione delle sanzioni, gli incontri al vertice tra i ministri degli esteri dei due paesi e la ripresa del dialogo in diversi settori. Un incontro tra Erdogan e Putin è previsto, inoltre, per la prima settimana di agosto, e secondo alcune indiscrezioni, il bilaterale tra i due leader, che si sarebbe dovuto tenere a settembre, al G20 di Guangzhou, in Cina, sarebbe stato anticipato proprio durante una telefonata tra i due, avvenuta a seguito degli eventi degli ultimi giorni, in cui Mosca si è detta preoccupata della instabilità nell’area, augurando ad Erdogan un «veloce ripristino di un robusto ordine costituzionale e della stabilità».
    Se le relazioni con la Russia sono tornate buone, quelle tra Washington e Ankara, invece, continuano a precipitare dopo il tentato golpe. La Turchia sta accusando gli Stati Uniti di proteggere l’imam Fethullah Gulen, considerato da Erdogan la mente del golpe fallito in Turchia. Ankara sta chiedendo l’estradizione del dissidente turco che da 15 anni risiede negli Stati Uniti, ma Washington non vuole concederla se non a fronte di prove legali e dell’apertura di un processo formale. Una figura, quella di Gulen, che divide anche gli stessi vertici statunitensi. All’interno dell’amministrazione Obama, svela infatti il “Wall Street Journal”, c’è chi lo considera un settantenne innocuo, e chi ammette che i “gulenisti” abbiano giocato negli ultimi anni, un ruolo di primo piano nel cercare di indebolire l’esecutivo dell’Akp. Proprio Gulen, intanto, da oltreoceano, esclude di avere a che fare con gli esecutori del colpo di Stato e, al contrario, accusa Erdogan di essersi organizzato il golpe da solo, per operare la tanto attesa svolta islamista ed autocratica, dichiarandosi, quindi, sicuro, che la richiesta di estradizione della Turchia agli Usa non andrà a buon fine. Richiesta che Ankara ha inviato nella giornata di martedì.
    Forse per questo motivo la Turchia continua ad accusare gli Stati Uniti di aver avuto un ruolo, anche se indiretto nel tentativo da parte dei militari di prendere il potere. Il comandante della base aerea di Incirlik, quella messa a disposizione dalla Turchia agli Stati Uniti per i raid contro lo Stato Islamico, il generale Bekir Ercan Van, ed altri dieci militari sono stati arrestati domenica per complicità nel colpo di Stato, e le autorità turche hanno eseguito delle perquisizioni nella base aerea nei pressi del confine siriano per raccogliere prove dell’utilizzo della base da parte dei militari golpisti. I caccia che si sono alzati in volo su Ankara e Istanbul, infatti, si sono riforniti grazie alle 10 cisterne di carburante presenti nel complesso concesso in uso agli americani, che guidano la coalizione internazionale anti-Isis. La Turchia, paese membro della Nato, ha lanciato così una provocazione neanche troppo velata agli alleati di oltreoceano. Provocazione che si era già concretizzata nell’accusa diretta del ministro del lavoro di Ankara, Suleyman Soylu, il quale aveva dichiarato lo scorso 16 luglio che “gli istigatori di questo colpo di stato sono gli Stati Uniti”. Accuse subito definite “false” e “dannose” dal Dipartimento di Stato.
    (Alessandra Benignetti, “Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe”, da “Il Giornale” del 19 luglio 2016).

    I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.

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