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Mazzucco: dacci oggi il nostro anestetico quotidiano, il Tg
E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».Non è neppure il caso di demonizzare sempre i giornalisti, avverte Marcello Foa nel saggio “Gli stregoni della notizia”: per come è costruita oggi l’industria dell’informazione, dall’alto verso il basso, le redazioni non riescono a uscire dal “frame” imposto loro, a monte, dagli spin doctor governativi. Autocensura spontanea, preventiva e sistematica: «I primi a praticarla – ricorda Mazzucco – sono i direttori: non sarebbero su quelle poltrone, se uscissero dal seminato». In pratica, ogni notizia deve restare recintata nella sua precisa, rassicurante cornice tematica: inammissibile fare collegamenti trasversali, deduzioni, analisi vere e proprie. Un’omissione ormai storica, secondo il severo giudizio del Premio Pulitzer statunitense Seymour Hersh, che oggi licenzierebbe 9 colleghi su 10. Motivo: «Se non avessero smesso di fare il loro mestiere, in questi anni avremmo seppellito meno vittime innocenti: troppe guerre, protette da menzogne non smascherate dalla stampa». Bugie ufficiali, silenzi omertosi: le agenzie di informazione (giornali e Tv) vengono ormai chiamate “presstitutes”, con un gioco di parole, da un ex politico americano che nella “press” credeva, eccome: Paul Craig Roberts, sincero liberale, già viceministro dell’economia con Reagan.Dal canto suo, Mazzucco – fotografo con Toscani e video-reporter, per 15 anni al lavoro come regista e sceneggiatore a Hollywood – incarna la resistenza quotidiana contro l’impero delle favole in mondovisione: ha messo a nudo prima e meglio di altri la scomodissima verità sull’11 Settembre, finendo addirittura in prima serata su Canale 5 grazie a Mentana. Impresa che gli è valsa la patente di complottista, e la messa al bando dagli aventi diritto di parola: «La mia stessa pagina su Wikipedia è controllata dai “debunker”: sono loro a scrivere quello che vogliono, sul mio conto. Se provo a correggere le loro falsità, l’indomani ricompaiono». Indovinato: «Ho rinunciato a fare in modo che Wikipedia dica la verità, riguardo alla mia stessa biografia». Autore di video-inchieste imbarazzanti (sulle cure alternative per il cancro e sulla crociata dell’industria della plastica contro la marijuana, sul vero autore dell’omicidio di Bob Kennendy, sulla manipolazione terrestre dei filmati del mitico allunaggio), Mazzucco è l’ossessione dei disinformatori ufficiali. Contro di lui, hanno intrapreso una lunghissima battaglia mediatica i professori del Cicap e personaggi come Paolo Attivissimo, solerte megafono italiano della Nasa.Mazzucco non ha perso il gusto per il gioco: “Ulisse, il piacere della menzogna” era il titolo di un video realizzato per smascherare le “inesattezze” diffuse da Alberto Angela. La tesi: divulgazione scientifica parziale e tendenziosa, spesso addirittura basata su notizie false. «Ognuno è libero di dire quello che vuole, intendiamoci: a patto però – obietta Mazzucco – che non usi i soldi della Rai, cioè i nostri, per raccontare fandonie». E vogliamo parlare di Piero Angela? «Tempo fa fece un’intera puntata della sua trasmissione per sostenere che tutti gli avvistamenti Ufo fossero sempre spiegabili come fenomeni terrestri: a smentirlo ha ora provveduto ufficialmente la Us Navy. Gli italiani che pagano il canone Rai, sentitamente, ringraziano». Oggi, Mazzucco è seguito da una comunità di almeno cinquantamila cittadini, sulle pagine del blog “Luogo Comune”. Ha anche aperto una sua mini-televisione su web, “Contro Tv”, che non si avvale dello streaming su YouTube: «E’ sempre più sfrontata la censura su Internet che può oscurare pagine Facebook, “bannare” canali video e orientare i motori di ricerca in modo da rendere invisibili le voci scomode: per questo – dice Mazzucco – è meglio prepararsi al peggio, essendo autonomi anche nello streaming».L’esperimento di “Contro Tv” è stato lanciato insieme a Giulietto Chiesa, altra bestia nera dei “debunker”: il suo bestseller “La guerra infinita”, sull’11 Settembre, macinò 70.000 copie in pochi mesi. Non una recensione, sui giornali, nonostante fosse editato da Feltrinelli. «Di tutti i giornalisti italiani famosi – scrisse Paolo Barnard – Chiesa è stato l’unico a rinunciare ai suoi privilegi, mettendo a rischio tutto quello che si era guadagnato sul campo pur di restare fedele alla ricerca della verità». Per la cronaca: fondatore di “Report” con la Gabanelli, Barbard è finito fuori dalla Rai per la sua intransigenza: gli negarono un servizio sugli abusi di Big Pharma. Dopo anni di impegno solitario e titanico – la denuncia del “golpe” di Monti, il saggio “Il più grande crimine” e il lancio della Mmt in Italia con Warren Mosler – oggi Barnard (espulso dal sistema mediatico nazionale) è sparito anche dal web. Nel frattempo, la Exor di John Elkann s’è comprata il gruppo Espresso: un solo editore controlla il grosso della carta stampata, in Italia. L’altra voce (non esattamente alternativa) è quella di Urbano Cairo, patron del “Corriere” e de La7, la rete che affida a Lilli Gruber, Giovanni Floris e Corrado Formigli la guerra santa contro Matteo Salvini, mentre Enrico Mentana dal suo telegionale finge di essere ancora il Mentana di un tempo, simpaticamente indipendente.«Poteva essere il primo degli ultimi, invece ha scelto di essere l’ultimo dei primi», si rammarica Mazzucco, pensando alle recenti sortite del direttore del telegiornale di Cairo. L’accusa: si è allineato al peggiore mainstream. Ovvero: «Nelle sue comode invettive, associa cretinate assolute come la teoria della Terra Piatta a cose ben più serie, come le strane scie persistenti oggi rilasciate dagli aerei e naturalmente l’11 Settembre: la verità ufficiale è crollata, architetti e ingegneri negli Usa hanno dimostrato la demolizione controllata delle Torri e i pompieri di New York si sono rivolti alla magistratura chiedendo di far riaprire i processi, ma Mentana si rifiuta di prenderne atto». Peggio: nella scorsa primavera ha firmato (con Grillo e Renzi) lo sconcertante “Patto per la Scienza” promosso dal vaccinista Claudio Burioni, che di fatto propone che venga lasciata senza fondi la ricerca medica sugli effetti collaterali delle vaccinazioni. «Quello che Mentana evita di ricordare – sottolinea Mazzucco – è che la Puglia ha scoperto che 4 bambini su 10 hanno subito reazioni avverse anche gravi, dopo la somministrazione neonatale dei nuovi vaccini polivalenti». Non solo: «La7 non si premura di ricordare che gli Stati Uniti (dove la Corte Suprema ha dichiarato impossibile avere garanzie sulla sicurezza dei vaccini) hanno finora sborsato 4 miliardi di dollari per indennizzare i danneggiati da vaccino».Ovviamente, di fronte a queste osservazioni, il mainstream bolla come No-Vax (scellerato troglodita) chiunque sollevi dubbi, invocando il “prinicipio di precauzione” citato dalla Costituzione. Con questo risultato, negli Usa: i cittadini sono gli unici a pagare, anche due volte (come contribuenti, ed eventualmente anche come pazienti danneggiati dalle vaccinazioni), mentre Big Pharma è formalmente impunita, per legge, avendo messo le mani avanti. Obiezione: ma se sei certo che i tuoi vaccini siano “sicuri”, perché chiedi allo Stato di coprirti le spalle? Forse perché sai benissimo che le somministrazioni polivalenti – come dicono molti medici, alcuni prontamente radiati – non sono affatto privi di rischi, per neonati ancora sprovvisti dei necessari anticorpi? Mazzucco alza le mani: «Io non sono un medico, né un ricercatore. Non ho competenze scientifiche, non posso trarre conclusioni tecniche. Dico però che c’è un deficit, enorme, di trasparenza e informazione. Viene meno un diritto fondamentale: quello di essere decentemente informati, anche in questa delicata materia che preoccupa tante famiglie». Statistica: per la prima volta nella storia, quest’anno 130.000 bambini italiani (nel dubbio, non vaccinati) sono stati esclusi dai nidi e dalle materne.In prima linea nell’informazione indipendente, con Mazzucco (insieme allo stesso Giulietto Chiesa e alla sua “Pandora Tv”) c’è un video-blogger come Claudio Messora, pionieristico creatore di “ByoBlu”, ora impegnato addirittura di una striscia pre-serale quotidiana: un talskow giornalistico davvero unico. In tandem con Francesco Maria Toscano, Messora riassume le notizie-chiave della giornata, sottoponendole sia alle migliori voci “eretiche” che a personaggi abitualmente televisivi, da Carlo Cottarelli a Edward Luttwak, per una volta alle prese con vere domande. Problema: benché “ByoBlu” sia seguito da una comunità di trecentomila iscritti, da quando ha esordito il suo freschissimo #TgTalk le visualizzazioni dei singoli video sono misteriosamente scese a cinquantamila, almeno stando al report ufficiale del gestore web. Per Mazzucco – che con Messora collabora – c’è il sospetto che sia in atto una censura-ombra, tecnologica, tendente appunto a minimizzare l’inidicizzazione dei contenuti politicamente problematici. Anni fa, l’area critica del web in Italia era quotata attorno ai due milioni di utenti. Oggi, la platea di chi usa Internet per informarsi è aumentata a dismisura. Anche per questo, forse, l’Ue è corsa ai ripari con la sua leggina-bavaglio, nascosta dietro il paravento della tutela del copyright.Nel frattempo, qualcosa sta cambiando in profondità: lo smartphone ti consente di ricevere news in tempo reale (incluse quelle diffuse da Messora, Mazzucco e Chiesa) e i quotidiani italiani sono al capolinea. John Elkann potrà pure comprarsi “Repubblica” e “l’Espresso”, ma intanto i quotidiani – tutti, messi assieme – ormai vendono meno di 600.000 copie. Vorrà pur dire qualcosa, sottolinea un veterano come Gigi Moncalvo, costretto a smerciare tramite il suo sito gli scottanti libri-inchiesta sulla dinastia Agnelli, letteralmente spariti dalle librerie. «Semplicemente – dice Moncalvo – i giornali hanno smesso di raccontare quello che succede, e i lettori se ne sono accorti». Tiene ancora banco il telegiornale, soprattutto come abitudine, ma la fiducia verso la categoria giornalistica è ai minimi storici. In Italia, del resto, vent’anni fa erano ancora in circolazione Biagi, Bocca, Montanelli e Zavoli, insieme a Gianni Minà e Oriana Fallaci. Lo stesso Barnard, per dire, scriveva sul “Corriere della Sera”. Giulietto Chiesa firmava corrispondenze da Mosca per il Tg5. Uno dei pochissimi reporter italiani scomodi, Gianni Lannes, è quasi scomparso dai radar. Siamo in un torbido Tempo di Mezzo, in cui niente è come sembra. La differenza la fanno quelli come Mazzucco: intanto, dicono tutto quello che sanno. E spesso poi il mainstream, sempre reticente, è costretto a tenerne conto, anche se affila le sue armi per silenziare il più possibile le voci che smontano e ridicolizzano la patetica verità ufficiale.E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».
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Nessuno legge più i quotidiani: solo 600.000 copie vendute
Seicentomila copie, appena. E’ quanto vendono, oggi, gli 11 quotidiani italiani a diffusione nazionale. Negli anni ‘80, attorno a quota 600.000 si davano battaglia le due “corazzate” del mainstream cartaceo, il “Corriere della Sera” e “Repubblica”. Oggi quei numeri impallidiscono: il “Corrierone” si deve accontare di 186.500 copie, mentre il quotidiano fondato da Scalfari è a quota 141.355. Sono impietosi i dati ufficiali, aggiornati al giugno 2019. Per i quotidiani italiani la crisi si è aggravata, scrive Sergio Carli su “Blitz Quotidiano”. «E nella crisi generale, ancora più acuta è la crisi del “Fatto”». Nel giugno scorso, il giornale di Travaglio ha venduto il 25% di copie in meno, rispetto all’anno scorso. «Mentre nell’insieme il mercato ha perso il 10%, dopo il -9 registrato in maggio e il -8 di gennaio e febbraio, il “Fatto” subisce un calo in progressione impressionante: del 10% in gennaio, del 13% in marzo, del 20% in aprile, del 23% in maggio, del 25 virgola in giugno». Malissimo anche il “Corriere”, che in giugno ha subito un crollo improvviso, preciptando al -10%. E “Repubblica”, dopo un -3% di maggio, si è allineata al -10% del concorrente, il peggior dato negativo da inizio anno.Impressiona la pochezza dei numeri: se “Corriere” e “Repubblica” sono abbondantemente al di sotto delle 200.000 copie vendute ogni giorno, la “Stampa” è sotto le centomila copie (95.398). Poi, l’abisso: il “Giornale” di Sallusti galleggia a quota 43.000 insieme al “Sole 24 Ore” (40.159), mentre il “Fatto” si deve accontentare di 27.959 copie (erano oltre 37.000 un anno fa). Seguono “Libero” di Feltri (quasi 24.000), “La Verità” di Belpietro (23.600), “Avvenire” della Cei (22.500) e “Italia Oggi” (20.000 copie). Fanalino di coda il “Manifesto”, con appena 7.000 copie vendute al giorno. Decisamente meglio fanno i quotidiani regionali: 80.000 copie il “Resto del Carlino” di Bologna, 70.000 il “Messaggero” di Roma, 60.000 “La Nazione” di Firenze. Attorno alle 30.000 copie resistono voci importanti dei territori italiani, come il “Gazzettio” di Venezia, il “Secolo XIX” di Genova, “Il Tirreno”, “L’Unione Sarda”. Una solidità, quella dell’editoria locale, basata in gran parte sulla cronaca provinciale. Dove invece a dominare è la politica nazionale – sull’ex “grande stampa” – il trend è in spaventoso calo.«Questi pochi numeri denunciano l’emergenza del settore», scrive Carli. «I governi cattivi di Andreotti e Craxi salvarono i giornali, mentre quelli che piacciono tanto ai giornalisti, targati Pd e M5S, li hanno massacrati». I conti confermano il declino: nei ricavi, Rcs passa da 503 a 475 milioni, il gruppo Gedi scivola da 321 a 303 milioni, mentre il fatturato di “Repubblica” scende da 124 a 116 milioni. Impressiona l’esiguità delle cifre, soprattutto riguardo alle copie vendute: solo mezzo milione di italiani legge le analisi degli editorialisti che la televisione propone a ciclo continuo, come se fossero veri opinion leader. Molti di loro hanno condotto una specie di crociata contro il grande concorrente – il web – colpito anche dalle disposizioni-bavaglio dell’Ue con l’alibi della tutela del copyright. Nel frattempo, crolla anche il prestigio professionale dei giornalisti, quasi sempre percepiti come faziosi co-protagonisti del gioco politico: la loro credibilità, come dimostrano le vendite, è ai minimi storici. Stando ai dati, quelli più in crisi sono gli alfieri del “Fatto”, vicini ai 5 Stelle, e i loro colleghi di “Repubblica”, sempre generosi con il Pd.Seicentomila copie, appena. E’ quanto vendono, oggi, gli 11 quotidiani italiani a diffusione nazionale. Negli anni ‘80, attorno a quota 600.000 si davano battaglia le due “corazzate” del mainstream cartaceo, il “Corriere della Sera” e “Repubblica”. Oggi quei numeri impallidiscono: il “Corrierone” si deve accontare di 186.500 copie, mentre il quotidiano fondato da Scalfari è a quota 141.355. Sono impietosi i dati ufficiali, aggiornati al giugno 2019. Per i quotidiani italiani la crisi si è aggravata, scrive Sergio Carli su “Blitz Quotidiano”. «E nella crisi generale, ancora più acuta è la crisi del “Fatto”». Nel giugno scorso, il giornale di Travaglio ha venduto il 25% di copie in meno, rispetto all’anno scorso. «Mentre nell’insieme il mercato ha perso il 10%, dopo il -9 registrato in maggio e il -8 di gennaio e febbraio, il “Fatto” subisce un calo in progressione impressionante: del 10% in gennaio, del 13% in marzo, del 20% in aprile, del 23% in maggio, del 25 virgola in giugno». Malissimo anche il “Corriere”, che in giugno ha subito un crollo improvviso, precipitando al -10%. E “Repubblica”, dopo un -3% di maggio, si è allineata al -10% del concorrente, il peggior dato negativo da inizio anno.
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Il peggiore dei mondi possibili, nutrito dalla nostra paura
Sembrava il migliore dei mondi possibili, quello che l’Europa aveva di fronte a sé fino al 2001, precisamente il 20 luglio, quando al G8 di Genova esplose la follia opaca della violenza e a lasciarci la pelle fu Carlo Giuliani, immortalato mentre col suo estintore minaccia i carabinieri intrappolati in un gippone. Ma Genova era solo l’antipasto dell’inferno: due mesi dopo, crollarono di colpo le Torri Gemelle di Manhattan. Tremila vittime l’11 settembre, e altre 12.000 negli anni seguenti a causa dei tumori provocati dalla nube d’amianto. Nel 2003, in Italia, le prime ipotesi sul possibile auto-attentato vennero avanzate da Giulietto Chiesa, nel bestseller “La guerra infinita”, ignorato dai media. Nel 2005, a “Matrix”, in prima serata su Canale 5, Enrico Mentana ebbe il coraggio di trasmettere “Inganno globale”, esplosivo documentario in cui Massimo Mazzucco dimostra che la versione ufficiale (terrorismo islamico) è integralmente falsa. Era già cominciata, la grande retromarcia dell’Occidente, ma pochissimi se n’erano accorti. Tra questi Bettino Craxi, che da Hammamet spiegò che l’euro-finanza avrebbe spolpato l’Italia. E prima ancora l’economista keynesiano Federico Caffè, sparito nel nulla nel 1987. E così Olof Palme, l’inventore del welfare svedese, ucciso l’anno prima a Stoccolma. Doveva aver capito tutto anche Aldo Moro, minacciato di morte da Henry Kissinger poco prima che di lui si occupassero, teoricamente, le Brigate Rosse.
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Magaldi oscurato su Facebook: “Spieghino, o li denuncio”
Gioele Magaldi oscurato da Facebook: «Da qualche giorno non posso più accedere alla mia pagina, da cui peraltro sono spariti tutti i contenuti. Nel caso ci fosse del dolo, a Facebook farò una causa coi fiocchi», avverte il presidente del Movimento Roosevelt, in web-streaming su YouTube il 13 maggio con Fabio Frabetti di “Border Nigths”. E aggiunge: «Mi auguro che sia solo un problema tecnico momentaneo, perché i miei contenuti (politico-culturali) non sono certo considerabili “inappropriati”, da Facebook». Magaldi è un personaggio pubblico piuttosto noto. «Anche nel caso si trattasse solo di un inconveniente – dice – resta comunque il danno: lo conferma una sentenza del tribunale di Pordenone, che – come ricorda l’Associazione Forense Emilio Conte – il 10 dicembre 2018 ha condannato Facebook a ripristinare il profilo di un utente arbitrariamente chiuso, infliggendo anche il pagamento di una penalità per ogni giorno di ritardo». Magaldi è perfettamente consapevole dell’occhiuta “sorveglianza” di Facebook alla vigilia delle elezioni europee: il social network ha appena chiuso 23 pagine italiane, con 2,4 milioni di follower, accusate di diffondere “fake news”.
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Ogni volta che la verità fa notizia, ma solo su Border Nights
Mentre ancora bruciava Notre-Dame, ci ha pensato l’avvocato Paolo Franceschetti a spiegare cosa significhi, davvero, dare alle fiamme la cattedrale francese: una chiesa-simbolo, cara ai Templari e consacrata segretamente al “divino femminile”, da parte dei monaci-guerrieri che per primi, nel medioevo, sognavano di unire l’Europa abbattendo frontiere e monarchie dispotiche, complici dell’oscurantismo vaticano, all’indomani del feroce sterminio dei Catari. Proprio a Parigi, nel 1314, fu arso vivo Jacques de Molay, ultimo gran maestro dei Cavalieri del Tempio. Alcuni superstiti ripararono in Scozia, da cui – si racconta – avrebbero impresso il loro marchio nella futura massoneria moderna. Ha provveduto il massone progressista Gioele Magaldi a confermare la chiave “anti-templarista” del rogo nella capitale francese: non un incidente, ma un attentato incendiario per colpire un simbolo della concordia europea per la quale lavorò (e lavora tuttora) il circuito massonico internazionale di segno democratico, oggi ostile ai massoni “contro-iniziati” come Angela Merkel, Mario Draghi ed Emmanuel Macron. Analizi, notizie, suggestioni e spiegazioni. Dove riceverle? Non tra le pagine del “Corriere della Sera” o del “Fatto Quotidiano”, e men che meno dai telegiornali.La fonte si chiama “Border Nights”, trasmissione web-radio in onda il martedì sera, con appendici in streaming su YouTube attorno al weekend. Una comunità di almeno 30.000 persone, in continua crescita e sempre in ascolto. Motivo: quello è il canale che spiega, in modo tempestivo, cosa ci sta succedendo. L’anima di “Border Nights” è il giovane conduttore Fabio Frabetti, giornalista di “Cronaca Vera”, grande appassionato di radiofonia. Accanto ai temi che esplorano tendenze, ricerche e curiosità culturali, scienze di confine e conoscenze non ufficiali – testimonianze affidate a medici coraggiosi e giornalisti indipendenti, saggisti, sociologi, esperti delle materie più disparate che ormai aggregano migliaia di persone, sul web e non solo – sta acquisendo grande rilevanza l’appuntamento web-radiofonico settimanale con ospiti fissi, a partire dalla trasmissione notturna: le segnalazioni di Tom Bosco sulla geopolitica e la storia “proibita”, le analisi politologiche in versione spiritualistica di Fausto Carotenuto e l’imperdibile “a ruota libera” con lo stesso Franceschetti. Un fenomeno in ascesa, quello delle voci settimanalmente chiamate a esprimersi sull’attualità, che esplode letteralmente nelle video-chat su YouTube: Massimo Mazzucco il sabato, Gianfranco Carpeoro la domenica e Gioele Magaldi il lunedì.Polifonia di accenti e vasto assortimento di sensibilità diversissime: vaccini, politica, giustizia, misteri italiani e crisi internazionali. Cosa offre, “Border Nights”? La possibilità di leggere quel che si muove dietro le quinte. E a innescare le rivelazioni più interessanti è proprio l’interazione col pubblico: domande a bruciapelo, a cui gli ospiti non si sottraggono. Così fa notizia, la piattaforma di Frabetti. Memorabile, l’estate scorsa, la “bomba” sparata dal saggista e simbologo Carpeoro sulla crisi in Rai, con l’improvviso veto di Berlusconi sulla presidenza Foa. Lo scoop: da Parigi, Jacques Attali (padrino di Macron) avrebbe telefonato addirittura a Napolitano, quindi a Tajani e a Berlusconi, per cercare di stoppare il candidato di Salvini, giornalista scomodo e autore del saggio “Gli stregoni della notizia”, che denuncia l’omertà dei media mainstream. Se poi Marcello Foa ce l’ha fatta, a diventare presidente della Rai, probabilmente lo si deve anche alla clamorosa esternazione di “Border Nights”, che ha messo allo scoperto il complotto e i suoi presunti autori. Sempre Carpeoro ha “sparato” contro la Francia anche di recente, accusando Parigi di aver protetto l’esilio brasiliano di Cesare Battisti, dopo averlo infiltrato in Italia – negli anni di piombo – per contribuire a manipolare il terrorismo italiano, indebolendo il nostro paese.Notizie esplosive, che avrebbero dovuto scatenare i media – rimasti invece silenziosi, come sempre. Rarissimi i casi in cui “Border Nights” riesce a perforare il muro di gomma: è successo di recente, quando Magaldi ha svelato l’identità massonica di Gianroberto Casaleggio. Immediata la replica del figlio, Davide: «Mio padre non era massone». A strettissimo giro la contro-replica di Magaldi: «Accetti un pubblico confronto con me, e gli spiegherò perché suo padre non voleva si sapesse che fosse massone». E’ importante, il dettaglio? Eccome: è lo stesso Luigi Di Maio (che poi in segreto bussa alla porta della massoneria internazionale, secondo Magaldi) a pretendere che gli aderenti alle logge non possano accostarsi ai 5 Stelle: bell’ipocrisia, visto che il divieto colpisce solo i massoni manifesti (non gli iniziati occulti). Ma il “rumor” su Casaleggio – da “Border Nights” ai grandi media – è davvero un’eccezione. Silenzio di tomba, per esempio, quando Mazzucco ha chiesto alla Procura di Genova di rendere pubblico il video del crollo del viadotto Morandi, visionato a quanto pare soltanto dai giornalisti del “New York Times” e non dai colleghi italiani, poco propensi a maltrattare la famiglia Benetton: nessuno di loro ha fiatato, neppure dopo la denuncia di Mazzucco.Siamo ammorbati da un mainstream di regime, reticente, distratto, pronto all’autocensura. Un caso clamoroso? Lo racconta il giornalista Gigi Moncalvo, autore dei saggi “Agnelli segreti” e “I lupi e gli Agnelli”, misteriosamente spariti dalle librerie. Quando uscì il film-capolavoro “The silence of the lambs”, solo in Italia alla traduzione letterale – il silenzio degli agnelli – si preferì il meno rischioso “Il silenzio degli innocenti”, giusto per non correre il pericolo di turbare la corte torinese dell’Avvocato. Nella trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, quasi gemella di “Border Nights” (condotta da Rudy Seery e Stefania Nicoletti) lo stesso Moncalvo si sfoga: Margherita Agnelli, figlia dello storico patron della Fiat, ha sottratto due bambini a una delle sue figlie, ridotta in miseria, e la stampa italiana preferisce tacere. Non solo: la figlia dell’Avvocato ha appena riaperto la devastante guerra per l’eredità, facendo emergere – dalle carte giudiziarie – un autentico giacimento di denaro trafugato dall’Italia e nascosto all’estero. Un tesoro che era rimasto nascosto, alla morte dell’Avvocato: cinque miliardi di euro in Svizzera più altri cinque a Panama, saltati fuori dallo scandalo “Panama Papers”, senza contare i 9 miliardi di euro – in lingotti d’oro – stipati dalla famiglia Agnelli al Freeport, il bunker super-sorvegliato allo scalo aeroportuale di Ginevra, che custodisce il denaro sporco dei narcotrafficanti colombiani e degli oligarchi russi.Tuona Moncalvo: sono tutti soldi sottratti al fisco italiano, nonostante il fiume di denaro statale elargito alla Fiat. Ma i media – giornali e televisioni – non se ne occupano minimanente: scelgono invece di rintronare il pubblico con il gossip più frivolo, come quello sulle finte nozze della starlette Pamela Prati. Perché “Chi l’ha visto” non parla della stranissima sparizione (e morte) di Edoardo Agnelli, il figlio “eretico” dell’Avvocato che si era permesso di contestare la designazione di John Elkann? Viviamo in una bolla mediatica, dice Magaldi a “Border Nights”: persino una fonte brillante come “Dagospia”, in fondo, non va oltre il chiacchiericcio e lo scandalismo innocuo. Mai che si sbilanci, il newsmagazine di Roberto D’Agostino, nel denunciare i micidiali complotti dell’unica, vera massoneria di potere. Un caso esemplare? Quello di Pino Cabras, deputato 5 Stelle: in un convegno promosso a Londra dal Movimento Roosevelt, ha detto chiaro e tondo che leghisti e grillini sono divisi su tutto, ma tengono duro per resistere al Deep State che condiziona il governo gialloverde fin dall’inizio, quando Sergio Mattarella si oppose alla nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia. Cabras è un parlamentare autorevole, vicino a Di Maio. Vista la fonte, la notizia era più che solida. Ma nessuno l’ha raccolta.Vietato scandalizzarsi, naturalmente, anche se ce ne sarebbe motivo. Altro capitolo, l’obbligo vaccinale (i media: latitanti). Primo atto: a fine 2017, la commissione parlamentare difesa parla di 5.000 militari italiani, di cui 1.000 già morti, colpiti da gravissime malattie (al 50% causate, secondo i medici, da vaccinazioni somministrate in modo incauto). Poi: la Regione Puglia – l’unica a istituire la farmacovigilanza attiva – rivela che, su 10 bambini pugliesi vaccinati, ben 4 hanno sofferto reazioni avverse. Terza notizia: l’ordine dei biologi scopre vaccini “sporchi”, con tracce di diserbanti tossici nelle dosi, nonché vaccini privi degli agenti immunizzanti. Qualche eco di queste notizie affiora, in sordina, sul “Fatto”, su “Libero” e su “La Verità”, mentre è solo “Il Tempo” di Franco Bechis a sparare con decisione sullo scandalo dei vaccini inquinati. Silenzio assoluto, dalle grandi testate cartacee e radiotelevisive. Per questo ormai conquista audience la super-nicchia del web informativo: un video di “ByoBlu” può far registrare anche 200.000 visualizzazioni, mentre molte testate considerate autorevoli – i cui direttori bivaccano nei talkshow – spesso non superano le decina di migliaia di copie vendute. Non è un caso che l’Ue abbia imposto un bavaglio di sapore medievale, al web, con la scusa del copyright. Né è casuale il successo crescente di “Border Nights”, dove a innescare le rivelazioni più clamorose, molto spesso, sono proprio le domande del pubblico, direttamente in chat. Voglia di esserci, di partecipare, di sapere: c’è un’Italia in movimento, che non ne può più di omissioni e bugie.Mentre ancora bruciava Notre-Dame, ci ha pensato l’avvocato Paolo Franceschetti a spiegare cosa significhi, davvero, dare alle fiamme la cattedrale francese: una chiesa-simbolo, cara ai Templari e consacrata segretamente al “divino femminile”, da parte dei monaci-guerrieri che per primi, nel medioevo, sognavano di unire l’Europa abbattendo frontiere e monarchie dispotiche, complici dell’oscurantismo vaticano, all’indomani del feroce sterminio dei Catari. Proprio a Parigi, nel 1314, fu arso vivo Jacques de Molay, ultimo gran maestro dei Cavalieri del Tempio. Alcuni superstiti ripararono in Scozia, da cui – si racconta – avrebbero impresso il loro marchio sulla futura massoneria moderna. Ha provveduto il massone progressista Gioele Magaldi a confermare la chiave “anti-templarista” del rogo nella capitale francese: non un incidente, ma un attentato incendiario per colpire un simbolo della concordia europea per la quale lavorò (e lavora tuttora) il circuito massonico internazionale di segno democratico, oggi ostile ai massoni “contro-iniziati” come Angela Merkel, Mario Draghi ed Emmanuel Macron. Analizi, notizie, suggestioni e spiegazioni. Dove riceverle? Non dalle pagine del “Corriere della Sera” o del “Fatto Quotidiano”, e men che meno dai telegiornali.
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Rosselli, Palme e Sankara: rivoluzione, se oggi fossero qui
Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.Per far uscire Thomas Sankara dalle catacombe della memoria collettiva c’è stato bisogno dell’11 Settembre, lo choc che ha costretto gradualmente milioni di persone a interrogarsi sulla natura del cosiddetto Deep State. Strana nebulosa, a geometria variabile: domina il pianeta manipolando i governi o scavalcandoli, al limite azzerandone i leader più scomodi – già rarissimi ieri, e oggi pressoché introvabili. Tuttora, comunque, vastissimi strati dell’opinione pubblica continuano a restare scettici di fronte alla denuncia della manipolazione della storia e dell’attualità: tendono ad allinearsi al mainstream che reputa fantasiosa la teoria del complotto, boccia le verità alternative sull’11 Settembre, si rassegna alle campagne sanitarie di massa come il Tso infantile dei vaccini imposti senza spiegazioni. E ovviamente deride chi “crede alle scie chimiche”, preferendo non domandarsi per quale ragione il cielo non sia più blu, ma vistosamente rigato, ogni giorno, dalle tracce persistenti rilasciate dagli aerei. Ci si rifugia dietro comodi neologismi (complottismo, cospirazionismo) per liquidare domande fastidiose, anche col provvidenziale contributo degli stessi “complottisti”, spesso prontissimi a sfornare risposte grottesche, surreali e sensazionalistiche.A monte, però, le domande restano sempre inevase: e questo spiega il fiorire delle narrazioni recenti, anche le più improbabili. Cosa sta succedendo, davvero? Nessuno può garantire di saperlo con precisione. Molti si rendono conto, onestamente, di esserne all’oscuro. Per questo smettono di seguire i telegiornali – tempestivi nel dar conto degli eventi, ma senza mai spiegarli. Se oggi riapparisse in televisione Thomas Sankara, quale anchorman sarebbe in grado di intervistarlo? Vespa e Floris, Formigli e Gruber: da che parte comincerebbero, dovendo fare domande all’avatar di Olof Palme? La nostra attuale comunicazione – smart, ultra-semplificata, a risposta immediata – non prevede più il modulo dell’analisi: ce ne manca il tempo. Nel mainstream risulterebbe semplicemente favolistico il racconto sul Memorandum di Lewis Powell, a cui l’élite occidentale chiese – nel remoto 1971 – un vademecum per “riprendersi tutto”, sbaraccando la democrazia dei diritti sociali. Facile: dall’altra parte del mondo c’era ancora il gigantesco freezer dell’Unione Sovietica, e di lì a poco i neoliberisti avrebbero potuto agevolmente indossare la maschera reaganiana dei liberatori, dei vincitori definitivi, ritagliandosi persino il ruolo di tronfi celebranti della “fine dalla storia”.Da dove ricomincia, la storia? Dall’alfabetizzazione politica di massa, probabilmente. In parte sta avvenendo, nella macro-nicchia del web (che infatti l’Unione Europea si è affrettata ad arginare, con la legge-bavaglio sul copyright a cui nessun governo si è finora opposto). La buona notizia, forse, è che l’invisibile Deep State in fondo ha paura dei sudditi, visto che si affanna a mantenerli nella quiete apparente della false certezze, nonostante i colpi mortali di una crisi che sta letteralmente cancellando la classe media in Europa, al punto da riempire le strade francesi di gilet gialli. Economia, moneta, guerre, energia, clima, crisi regionali. Scampoli di verità? Su qualche libro, nei risvolti del web, in mezzo alle smancerie dei social. Per gli ottimisti, l’umanità si starebbe risvegliando da una sorta di letargo. Non che manchino segnali di consapevolezza, ma sono sovrastati dal fragore del mainstream. Oggi finalmente si ascoltano relazioni acutissime da economisti onesti, che però non saranno mai ospitati in prima serata, con piena facoltà di parola. Si saranno divertiti, gli arconti impalpabili, nel vedere che l’Italia della gloriosa rivoluzione gialloverde non si è nemmeno ribellata al diktat medievale di Bruxelles sul piccolo deficit invocato per il 2019. Il potere imperiale, neo-feudale, ha incassato una vittoria piena. E si è persino goduto le passeggiate di Macron e Juncker sui teleschermi della Rai, tra gli inchini dello sconcertante anti-italiano Fabio Fazio.Ha davvero paura della maggioranza, il famoso 1% contro cui naufragò la pletorica protesta di Occupy Wall Street? Di certo, scrive Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”, aveva una paura matta dei NoGlobal, il cui sanguinoso funerale fu organizzato a Genova nel 2001, due mesi prima della mattanza di Manhattan (3.000 morti nelle Torri Gemelle e altri 12.000 americani uccisi dal cancro, poco dopo, a causa dell’immensa nube d’amianto). A dire che le maggiori multinazionali planetarie temessero così tanto i NoGlobal è Wayne Madsen, all’epoca dirigente dell’intelligence Usa: racconta di 1500 agenti della Nsa, più 700 dell’Fbi, al lavoro per essere certi che nel capoluogo ligure tutto andasse secondo i piani, cioè malissimo. Deep State, appunto. All’occorrenza, la legge del terrore: Al-Qaeda e poi l’Isis, dalla Siria all’Europa. Di fronte a questo cos’hanno da dire, i novelli sovranisti? Come se la caverebbero, Salvini e Di Maio, al cospetto di personaggi come Rosselli, Palme e Sankara? Cosa inventerebbero, il leader della Lega e quello dei 5 Stelle, per tentare di spiegare come riesumare il socialismo liberale nell’Europa di oggi? Che figura farebbe, Di Maio, nel presentare il suo reddito di cittadinanza al gigante Olof Palme, inventore del miglior welfare europeo? E cosa racconterebbe, il mini-sceriffo Salvini, al sorriso luminoso dello stratega che sapeva di giocarsi la pelle nell’eroico tentativo di metter fine alla razzia bianca a spese del continente nero, da cui l’esodo tanto spettacolarizzato dalle opposte tifoserie odierne?Davvero è inquieto, il mitico 1%, nel dubbio che i popoli si sveglino? Ammesso che sia vero, sembra che gli ultimi a saperlo siano proprio gli abitanti dell’umanità sottostante, il 99%. Al massimo, votiamo per l’ultima protesta offerta dal supermarket della politica, una specie di discount ingombro di sottomarche low cost. Per ora ha stravinto l’impeccabile Lewis Powell: il suo Memorandum è stato applicato alla lettera. I pochi dominano sui molti, che infatti non sanno nemmeno chi fosse, quell’avvocato di Wall Street. Il pericolo, semmai, siamo abituati a riconoscerlo nel sorriso sornione di personaggi come l’anziano Kissinger, l’architetto del golpe cileno, l’uomo che minacciò di morte Aldo Moro. Che sospiro di sollievo, quando il fenomenale Obama prese il posto di Bush. Ennesima illusione, durata lo spazio di un mattino: quasi solo teatro, ancora e sempre Deep State. Da dove ricominciare? Da ciascuno di noi, verrebbe da dire, nel dubbio che l’ipotetico “mostro” tema, sul serio, il risveglio dei dormienti. Primo passo, scovare idee che possano camminare. E poi raccontarle, in modo semplice: il Memorandum Powell, che ha cambiato la faccia della Terra, era lungo appena 11 paginette. Parlava chiaro anche Rosselli, così come Palme e Sankara: nessuno deve restare indietro, mai. L’italiano, lo svedese, il burkinabè: veri e propri monumenti, postumi, all’umanità che non si volle far nascere. Li si potrà riascoltare a Milano il 3 maggio, a patto però di non dimenticarli più. Morirono, tutti e tre, perché il 99% non era al loro fianco. E non è un testamento, quello che ci hanno lasciato: è un programma politico, e sembra scritto oggi.(Giorgio Cattaneo, “Una rivoluzione della verità: nel nome di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 aprile 2019. Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”, in programma il 3 maggio 2019 a Milano, Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23, dalle ore 10 alle 17.30, sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale).Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.
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Così l’Unione Europea ha soffocato la libertà di Internet
Addio link facili, fine della libertà di circolazione dei contenuti sul web. Il Parlamento Ue ha infatti approvato la direttiva europea sul copyright. Con 348 voti a favore e 274 contrari, gli articoli 11 e 13 sono diventati realtà. «Non vi è stata nemmeno la possibilità di votare per gli emendamenti che avrebbero proposto la rimozione dei singoli articoli – possibilità persa per soli 5 voti contrari», scrive Riccardo Coluccini su “Motherboad”. Gli sforzi dei cittadini, degli attivisti e degli esperti di Internet – culminati con la pubblicazione di una lettera contraria agli articoli 11 e 13, firmata dagli accademici di tutta Europa che si occupano di diritto informatico e proprietà intellettuale – non sono bastati a convincere la maggioranza degli europarlamentari a votare contro una direttiva «che introduce una macchina della censura preventiva, che dovrà filtrare ogni contenuto caricato online». Alcuni politici, aggiunge Coluccini, hanno intenzionalmente avvitato la discussione sulla direttiva copyright intorno alle sole posizioni delle grandi poattaforme e dei detentori dei diritti d’autore, «che non sempre combaciano con gli autori e i creatori dell’opera». Ignorate «le richieste dei cittadini, degli artisti e dei creatori di contenuti». Per “Motherboard”, «i colpi bassi in questi mesi hanno ricordato più una stagione di Game of Thrones che un processo democratico».Come sottolineato dalla parlamentare tedesca Julia Reda, del Partito dei Pirati, abbiamo assistito probabilmente a una delle più grandi mobilitazioni cittadine degli ultimi anni su un tema digitale. «Dall’altra parte, però – scrive Coluccini – alcuni europarlamentari si sono ostinati a svilire ogni critica liquidandola come “fake news”, bollando i cittadini come “bot”, o persino alludendo alla possibilità che i critici fossero stati assoldati dai colossi digitali». Tutto questo, «tacendo completamente, però, le pressioni portate avanti dalle lobby editoriali e del mondo della musica». Alla vigilia del voto, quasi 200.000 persone hanno manifestato in diverse città europee. «La petizione online che chiedeva la rimozione dei due articoli ha raggiunto il record di oltre 5 milioni di firme», aggiunge Coluccini. «Migliaia di cittadini hanno contattato telefonicamente i propri rappresentanti per chiedere di opporsi agli articoli 11 e 13». Inoltre, il 21 marzo Wikipedia ha oscurato completamente il proprio sito web in Estonia, Danimarca, Germania, e Slovacchia. Wikipedia in italiano si è unita al blackout il 25 marzo.Di cos’è fatto, il dispositivo ammazza-web? L’articolo 13 prevede che tutti i siti e le app che permettono l’accesso o la condivisione di materiali protetti dal diritto d’autore – e ne traggono una qualche forma di profitto economico – siano considerati responsabili per eventuali violazioni. Ogni piattaforma, spiega sempre “Motherboard”, sarà quindi obbligata a stringere accordi con tutti i detentori dei diritti. E dovrà garantire che queste licenze siano rispettate, prevedendo quindi sistemi e meccanismi per evitare che vengano caricati nuovamente contenuti vietati. Secondo molti esperti, tale richiesta può essere soddisfatta solo introducendo dei filtri per gli upload, già ampiamente criticati. David Kaye, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione e di espressione, sottolinea come «una fiducia mal riposta nelle tecnologie di filtraggio aumenterebbe il rischio di errore e censura». Purtroppo i parlamentari europei hanno deciso di far finta di nulla. «L’articolo 13 – riassume Coluccini – esclude solamente una piccola categoria di aziende: quelle che hanno meno di tre anni di attività in Europa, un fatturato minore di 10 milioni di euro e meno di 5 milioni di visitatori unici al mese».L’articolo 11, invece, prevede il diritto per gli editori di obbligare tutte le aziende che operano su Internet a stringere accordi per pubblicare brevi estratti degli articoli e notizie – i cosiddetti snippet, che sono oramai diventati onnipresenti nella nostra navigazione quotidiana. Sono esclusi unicamente “l’utilizzo di singole parole e brevi estratti” (definizione alquanto vaga). «Così com’è, la nuova legge sul copyright minaccia la libertà di Internet per come la conosciamo: gli algoritmi non sono in grado di distinguere tra effettive violazioni del copyright e riusi perfettamente legali come nel caso delle parodie», commenta Julia Reda: «Obbligare le piattaforme a usare i filtri di caricamento implicherà un maggior numero di blocchi di contenuti legali e renderà più difficile la vita delle piattaforme più piccole che non possono concedersi costosi software per filtrare». Aggiunge la parlamentare tedesca: «Il relatore dell’Unione Cristiano-Democratica di Germania (Cdu) Axel Voss e la maggioranza dei parlamentari europei hanno perso l’opportunità di garantire all’Unione Europea una legge sul copyright moderna che protegge sia gli artisti che gli utenti». Oggi è davvero un giorno buio per la libertà di Internet, scrive la stessa Reda su Twitter. E avverte: «Continueremo la battaglia, contro i filtri di caricamento e contro questa nuova legge europea».Addio link facili, fine della libertà di circolazione dei contenuti sul web. Il Parlamento Ue ha infatti approvato la direttiva europea sul copyright. Con 348 voti a favore e 274 contrari, gli articoli 11 e 13 sono diventati realtà. «Non vi è stata nemmeno la possibilità di votare per gli emendamenti che avrebbero proposto la rimozione dei singoli articoli – possibilità persa per soli 5 voti contrari», scrive Riccardo Coluccini su “Motherboad”. Gli sforzi dei cittadini, degli attivisti e degli esperti di Internet – culminati con la pubblicazione di una lettera contraria agli articoli 11 e 13, firmata dagli accademici di tutta Europa che si occupano di diritto informatico e proprietà intellettuale – non sono bastati a convincere la maggioranza degli europarlamentari a votare contro una direttiva «che introduce una macchina della censura preventiva, che dovrà filtrare ogni contenuto caricato online». Alcuni politici, aggiunge Coluccini, hanno intenzionalmente avvitato la discussione sulla direttiva copyright intorno alle sole posizioni delle grandi piattaforme e dei detentori dei diritti d’autore, «che non sempre combaciano con gli autori e i creatori dell’opera». Ignorate «le richieste dei cittadini, degli artisti e dei creatori di contenuti». Per “Motherboard”, «i colpi bassi in questi mesi hanno ricordato più una stagione di Game of Thrones che un processo democratico».
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Moiso: ecco perché l’Italia è in coda, nella libertà di stampa
Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?Nel suo articolo, Forti rinfaccia a Rinaldi il fatto di aver criticato la gestione dell’obbligo vaccinale introdotta in Italia – quasi che di certi argomenti non ci si potesse occupare, come cittadini. Mi chiedo allora come mai, dalle pagine di “Rolling Stone”, che è una rivista di musica, ci si debba occupare di politica in maniera così superficiale. In realtà deve essere sempre possibile pronunciarsi liberamente su ambiti che non siano di specifica pertinenza professionale: si può parlare di vaccini, eccome, pur non essendo dei medici. E grazie a Dio, in Italia viene ancora data un’educazione che permette ai ragazzi di spaziare su diversi temi. Mi sembra che l’articolo di “Rolling Stone” sia frutto della solita incoerenza di un mondo, quello della sedicente sinistra, che ha smesso di avere senso critico. E ha smesso di avere la capacità di districarsi nella complessità del mondo attuale. Lo si vede sul tema dell’Europa, dove oggi chi si sente europeista non può che condannare delle istituzioni assolutamente tecnocratiche, economicistiche e antidemocratiche. Chi crede nell’Europa dei popoli non può non criticare questa Unione Europea. Idem come sopra: chi crede nella democrazia non può non rivendicare la sovranità del popolo.A luglio, in Europa, sembrò sventato il tentativo del commissario Oettinger di mettere un bavaglio al web con la scusa del copyright. In realtà poi a settembre – sempre con l’alibi della riforma del copyright – il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato una sorta di censura preventiva (con l’introduzione della cosiddetta “link tax” e della responsabilità assoluta per le piattaforme come YouTube e Facebook, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti). C’è chi ha considerato questo intervento una vera e propria pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini, dal punto di vista dell’informazione. A livello europeo c’è quindi una vera e propria stretta, sul web. Quanto all’Italia, il nostro paese continua a non godere di una posizione privilegiata per ciò che riguarda la libertà d’informazione. Quest’anno si è attestata al 46° posto, su 180 paesi esaminati. E quando si parla di libertà di informazione non si parla solo di divieti come quelli imposti dall’Europa, ma anche di libertà di esprimere delle idee, uscendo da alcune linee editoriali.La settimana scorsa un parlamentare di spicco del Movimento 5 Stelle, Pino Cabras, faceva notare – dalla sua pagina Facebook – come alcune notizie, che pure susciterebbero grande interesse, non vengano assolutamente trattate. Un esempio: è stato dedicato pochissimo spazio al recente sbarco della Cina sul “lato oscuro” della Luna. Altra notizia: pare che degli hacker siano riusciti a entrare nel sito dell Fbi, abbiamo rubato dei documenti e li stiano pian piano divulgando (per quanto non contengano, al momento, grandi novità). Però sono tutte notizie delle quali non si parla minimamente. Come a dire che, comunque, ci sono dei temi più graditi. C’è da chiedersi in che stato sia, l’informazione italiana ed europea, di fronte ad articoli come quello di Steven Forti, che – parlando su “Rolling Stone” di Antonio Maria Rinaldi – denuncia il decadimento della politica italiana, in mano da una parte al sovranismo, e dall’altra al qualunquismo di chi, per esempio, si sente di criticare i vaccini senza avere alcuna competenza medica. Lo stesso Forti cita anche il “partito che serve all’Italia”, definendo Gioele Magaldi “complottista” e “fissato col pericolo massonico”, addirittura un vittimista convinto di essere censurato dai media. Ci sono tanti cortocircuiti, nella narrativa mediatica odierna. Davvero per Steven Forti non c’è un veto mediatico, nei confronti del Movimento Roosevelt e di Gioele Magaldi? Lo invito a fare un’intervista con noi: forse ci sono cose che scoprirebbe, che non si aspetta, e che meritano di essere considerate.(Marco Moiso, dichiarazioni pronunciate nella diretta web-streaming su YouTube con Gioele Magaldi il 19 gennaio 2019, dal titolo “Steven Forti e la scorrettezza dell’informazione”. Moiso è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?
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Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio
«E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto.Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler).«Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate.Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli.Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social media e motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.«E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.
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Magaldi: democrazia, non “sovranismo”. O rivince l’élite
Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.Autore del bestseller “Massoni”, che rivela il grande potere di 36 superlogge sovranazionali nella cabina di regia della globalizzazione imposta “a mano armata”, senza diritti, Magaldi – massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt – fornisce la sua personale lettura dell’attualità ai microfoni di “Colors Radio”: lo stesso Isis, sostiene, è un progetto criminale coltivato dalla parte peggiore di quei cenacoli occulti, pronti a ricorrere persino all’orrore del terrorismo stragista per alimentare la guerra globale cui stiamo assistendo, gestita da interessi economici che si riparano dietro il paravento delle nazioni. Supermassoni reazionari, che sono riusciti a far rimangiare, all’Occidente, le conquiste inaugurate proprio da Roosevelt – l’economia espansiva fondata sul deficit positivo, secondo la ricetta del massone progressista Keynes – e la “Great Society” dello stesso Lyndon Johnson, alimentata dalle idee e dal coraggio di Bob Kennedy e Martin Luther King. L’Unione Europea? Capolavoro dell’élite neo-aristocratica, il più subdolo dei poteri: finto-progressista e finto-democratico. Pronto, oggi, anche a liquidare la nascente opposizione con la più comoda delle etichette, il “sovranismo”, che di fatto «è una falsa moneta», liberamente circolante – anche nell’Italia gialloverde – grazie a quegli stessi democratici che accettano di farsi chiamare “sovranisti”.«E a proposito di false monete», Magaldi ricorda di esser stato il primo, in tempi non sospetti, ad anticipare la “profezia” oggi rilanciata da Steve Bannon: l’Italia come unico punto di partenza possibile, in Europa, per una grande riscossa popolare. «Ma la riscossa che ha in mente Bannon – precisa Magaldi – non è quella di cui parlo io e di cui parlano i massoni limpidamente democratici: quella che abbiamo in mente noi è una rivoluzione democratica che vada a risvegliare la democrazia sostanziale, non soltanto in un paese ma in istituzioni sovranazionali che devono essere funzionanti per contrastare poteri privati altrettanto sovranazionali». Attenti alle “monete fasulle”, insiste Magaldi: in fondo, fanno comodo «a quelle élite apolidi e post-democratiche, anzi antidemocratiche, che poi sono le élite di natura massonica contro-iniziatica che si dicono europeiste ma invece hanno distrutto il sogno degli Stati Uniti d’Europa». Equivoci a reti unificate, sui media mainstream: «Adesso sembra che la contrapposizione sia, da una parte, tra tutti coloro che amano i valori democratici e progressisti, liberali, “politically correct”, e dall’altra i “sovranisti”, che sarebbero dei nazionalisti un po’ beceri e un po’ xenofobi, ripiegati su se stessi e incapaci di cogliere l’importanza delle costruzioni sovranazionali».«Quando in tanti accettano di farsi definire “sovranisti” sembra che le cose stiano così, ma non è vero», sostiene Magaldi: «Ciò che conta è la sovranità del popolo, che significa democrazia. E si può declinare tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale o sovranazionale. Anzi: per contrastare questo tipo di globalizzazione, di segno post-democratico e neo-aristocratico, servono strutture pubbliche, politiche, legittimate dal popolo». Strutture di caratura anche sovranazionale, ribadisce Magaldi, «perché a chi possiede le armi atomiche non si fa la guerra con archi e frecce, da un avamposto locale o nazionale», per di più «in un contesto nel quale si muovono forze che penetrano le nazioni e riescono addirittura, dentro le nazioni, a creare dei cavalli di Troia o delle quinte colonne che poi ti levano la sedia da sotto il sedere». La parola da usare, oggi, è un’altra – sovranità popolare – declinata in Italia e nel resto del mondo, senza frontiere. «E a tutti coloro che tacciano i loro nemici di “sovranismo”, chiederei: ma perché, voi non siete per la sovranità popolare? Siete per la sovranità di gruppi oligarchici apolidi e sovranazionali?».Meglio essere chiari, dice sempre Magaldi: «Chi si schiera tra i conservatori e contro la sovranità popolare evidentemente ha in mente una idea di governance (locale, globale, nazionale) di tipo neo-aristocratico: ed è proprio nel passato conservatore, tradizionalista, che le pulsioni democratiche si sono dovute affermare con fatica». D’ora in avanti, annuncia l’autore di “Massoni”, il Movimento Roosevelt «farà una campagna politico-pedagogica proprio su questi temi, e anche sul termine “sovranista”». E insiste: «È un equivoco, il sovranismo: il rispetto per la sovranità popolare dovrebbe essere patrimonio condiviso di tutti». La prima a calpestarla, la nostra sovranità, è proprio l’antidemocratica Unione Europea, «gestita da personaggi impresentabili come frontman delle istituzioni: personaggi screditati e davvero indegni di rappresentare il grande sogno europeo». Punto primo: bocciare un’Europa «dove la Bce è l’organo più potente di comando», e dove il Parlamento Europeo non conta quasi niente eppure «si esprime in modo vergognoso, come ha appena fatto nel caso della legge sul copyright, la censura sul web». Il punto di svolta? «Una Costituzione politica europea, che imponga di usare l’euro per favorire il benessere collettivo». Sarebbe la fine della speculazione contro gli Stati, la fine del ricatto dello spread. Ora più che mai, servirebbe «una coesione europea in grado di avere anche una politica estera comune», e invece «oggi non c’è nessuna Europa».Il recupero della democrazia, riconosce Magadi, passa certamente per il ritorno alla sovranità monetaria: «La moneta – europea o nazionale, non importa – deve essere amministrata dai rappresentanti del popolo». Le banche centrali? Già prima dell’Eurozona erano «degenerate in un potere autonomo, un potere che poi è diventato sovraordinato addirittura a quello delle istituzioni politiche democratiche». Così le banche centrali hanno tradito il loro mandato: «Dovevano invece, in ultima istanza, rispondere alle esigenze dei popoli sovrani». Rivendicare un ritorno alla lira? Inutile, se poi la moneta nazionale non viene gestita in termini democratici. Magaldi ricorda «il famigerato divorzio tra Bankitalia e ministero del Tesoro del 1981, favorito dai massoni Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, che agivano per conto di circuiti massonici non progressisti bensì neo-aristocratici». Quello strappo determinò già negli anni ‘80 «un aggravio enorme per le casse dello Stato, in termini di interessi sul debito pubblico», visto che la banca centrale «smetteva, in fondo, di garantire l’acquisto dei titoli di Stato italiani». Già quello, osserva Magaldi, era un modo per mettere la lira in difficoltà.Quindi, più che tornare alla valuta nazionale, «bisognerebbe preoccuparsi di rendere l’euro una moneta che dipenda da un potere politico democraticamente legittimato». E cioè: bisogna smettere di avere un euro «che viene gestito a discrezione della Bce, senza che nessun potere politico democraticamente legittimato possa intervenire». La Banca Cebntrale Europea? Lo sappiamo: «Pur essendo un istituto di diritto pubblico è proprietà anche di privati e risponde a logiche del tutto apolidi, sovranazionali, sganciate da qualunque livello politico democratico: questo è il problema. Finora, l’euro è stato governato da «quel funesto personaggio di Mario Draghi, che ha utilizzato la moneta europea per favorire sostanzialmente banche e interessi finanziari». Ha grandi colpe, il “venerabile” Draghi, spesso spacciato come paladino dell’Italia. Niente di più falso. Non c’era affatto il benessere del Balpaese, nella “mission” del super-tecnocrate di Francoforte, “regista” delle privatizzazioni italiane dall’epoca del Britannia, poi passato dal Tesoro a Bankitalia, alla Goldman Sachs, alla Bce. «Draghi non ha mai pensato di fare in modo che da questa moneta potesse venire un rilancio economico sociale del continente stesso. E allora, poi, si capisce perché la gente abbia vagheggiato il ritorno alla lira».La moneta, però, resta un mezzo. Il problema vero? E’ il timone politico: «Una Costituzione europea democratica, e un Parlamento Europeo che emani democraticamente un Consiglio dei ministri, mettendo fine a queste farlocche Commissioni Europee, che sono degli ibridi che non dicono nulla». Il vero obiettivo, chiarisce Magaldi, è un governo europeo finalmente legittimato dal voto popolare. Un euro-governo democratico, «che abbia il potere di indirizzare le strategie della Bce e di utilizzare la moneta euro a favore dei popoli, e non contro i popoli». Come arrivarci? Magaldi, nonostante tutto, si mostra fiducioso nelle piccole crepe che il governo gialloverde sta aprendo, nel Muro di Bruxelles. E saluta con favore il possibile avvento di Marcello Foa alla presidenza della Rai: «Non condivido alcune sue idee, ma mi risulta che sia un uomo libero: come presidente Rai sarebbe di gran lunga migliore dei suoi predecessori». Da giornalista indipendente, Foa è stato tra i primi a dare il benvenuto alla speranza gialloverde, intesa come possibile recupero di sovranità democratica. Tutto giusto, secondo Magaldi, a patto che si abbia ben chiaro il fatto che l’establishment italiano ha adottato gli stessi metodi dell’aborrita oligarchia europea: «Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si permette il lusso di dire che non bisogna sforare i parametri di spesa, del tutto irrazionali e vessatori, stabiliti dagli euro-burocrati. La Banca d’Italia che detta le regole al governo? Deve accadere esattamente il contrario».Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.
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Vietato diffondere i post dei blog: il bavaglio al web dall’Ue
Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a presevare il diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”. Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati “snippet”). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntulamente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremmo a cavallo. Anzi, messa giù così, l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perchè le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari “Espresso”, “Repubblica”, “Corriere, “Sole 24 Ore”, “Huffington Post”, ecc. Per i blog, i canali privati di YouTube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.Siccome le lobby degli editori, invece, hanno fatto pressione proprio nel senso opposto a quello sopra descritto, occorre allora chiedersi che diamine nasconda questa legge. Il trucco sta tutto negli algoritmi che Facebook e Google News dovranno implementare per difendere il diritto d’autore. Con ogni probabilità, Zuckerberg e amici dovranno pagare costosissimi algoritmi allo scopo di individuare tutti quei siti e post che non pagano gli editori per avere il diritto di pubblicare un loro link nella forma evoluta dello “snippet”. In altri termini, se possiedi un sito web che divulga informazioni, alla fine dell’iter attuativo della legge, potresti trovarti bloccato da Facebook o da qualsiasi piattaforma internet. Perché? Per il semplice fatto che queste piattaforme si saranno dotate di un algoritmo che individua i siti dotati di licenza, li lascia scaricare i contenuti, e al contempo blocca tutti quelli che non hanno la licenza, cioè quelli che non si fanno pagare, come i piccoli blog o le piccole testate giornalistiche. Sembra non aver nulla a che fare col diritto d’autore, e infatti non ce l’ha; quello è solo il pretesto per fermare la libera informazione col trucchetto sorosiano della burocrazia.Lo scenario peggiore è quello per il quale le grandi case editoriali, tipo “L’Espresso”, pagano una licenza ridicola e l’algoritmo facebookiano le intercetta e le accomoda sulla piattaforma con i loro link, le immagini e tutta la compagnia cantando. Gli altri che non pagano alcuna licenza, ma che lasciano accedere gratuitamente ai contenuti da essi prodotti, potrebbero però trovarsi bloccati perchè un algoritmo così elaborato da ricercare ogni singola foto, ogni musichetta da 5 secondi, ogni citazione ipertestuale, magari da Wikipedia, richiede un processso troppo complicato e, al più, esageratamente costoso. Insomma, per semplificare e abbattere i costi, Facebook e Google potrebbero bloccare tutta l’informazione non-mainstream, cioè, e guarda caso, tutta l’informazione che ha sconfitto il clan dei Clinton in America, che ha favorito la Brexit e ha consentito l’avanzata dei sovranisti nell’Europa Continentale (Italia in primis). Anche qualora un sito web di news riuscisse a rivedere la propria produzione evitando le rassegne stampa, i link e le citazioni, basterà una foto di qualche politico o di qualche incontro pubblico, magari postato agli albori del sito, per vedersi il blocco perenne delle piattaforme internazionali.Hai voglia, dopo, con l’avvocatucolo di Vergate sul Membro, a farsi ripristinare il diritto a postare su Facebook avendo a che fare con interlocutori che hanno sede legale a Menlo Park in California… Molti attivisti ripongono fiducia sull’abilità delle piattaforme di adeguare gli algoritmi in modo da rispettare solo gli “snippet”, oppure sulla concretezza legislativa delle singole nazioni. Oppure, ancora, su un cambio di leadership al Parlamento Europeo, visto che verrà rinnovato nel 2019. Comunque vada a finire questa complicata vicenda, una cosa è già appurata: non c’è nessuno di più smaccatamente illiberale dei liberisti che hanno preso le redini di questo continente, oramai troppo vecchio e stupido per poter pensare a qualsivoglia unificazione, trincerato in battaglie di retroguardia e incapace di proporre un valido modello alternativo a quello dei satrapi orientali alla Xi Jinping o al bellafighismo hollywoodiano d’oltreoceano (ps: quello della foto sono io. Ho già cominciato a tutelarmi, e sono anche più bello di Juncker).(Massimo Bordin, “Ecco cosa di nasconde dietro la legge sul copyright”, dal blog “Micidial” del 13 settembre 2018).Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a presevare il diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”. Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati “snippet”). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntulamente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremmo a cavallo. Anzi, messa giù così, l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perchè le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari “Espresso”, “Repubblica”, “Corriere, “Sole 24 Ore”, “Huffington Post”, ecc. Per i blog, i canali privati di YouTube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.
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Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge
Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.«Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.