Archivio del Tag ‘danza’
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Jodorowsky: la nostra paura è “cibo” per chi ci terrorizza
Il loro errore più grande. Sapevano che il collettivo umano stava raggiungendo una vibrazione molto elevata. Ma non erano consapevoli della quantità di anime sveglie. Si sono accorti dell’errore di valutazione. E si sono spaventati. Ora non si nascondono più. Ora hanno fretta di lanciare ufficialmente un “nuovo ordine mondiale”. Ora i loro attacchi sono diretti e frontali. E gli attacchi aumenteranno. Cercheranno con tutti i mezzi di far sì che la gente non si svegli. Cercheranno con tutti i mezzi che gli “svegli” non possano comunicare per non svegliare gli altri. Cercheranno con tutti i mezzi che i risvegliati vengano visti come pazzi o delinquenti. Qualunque cosa facciano, non importa. Il salto quantico si è già verificato. È inarrestabile. L’umanità già contempla piante ed animali come anime che li animano. L’umanità già rispetta la madre terra. L’umanità già capisce che non c’è separazione. Le anime che ora si incarnano arrivano già come insegnanti. Non più a sperimentare. Si incarnano solo per insegnare ad amare.Potremmo essere testimoni del cambiamento totale o meno. La transizione potrebbe durare una settimana o 300 anni. Ma è inarrestabile. Qualunque cosa accada durante la transizione, ricordatevi una cosa: siete stati voi ad esservi offerti. Per stare qui e ora. Qualunque cosa accada. Qualunque cosa vediate. Siete voi i motori del cambiamento. Vi viene richiesta una sola cosa. Solo una. Non siate “cibo”. È l’unica cosa che dovete fare. Una cosa semplice. Non siate cibo. L’essere umano è uno dei generatori più potenti che esistano. Siamo vortici. A seconda della polarità verso cui ti allinei, crei alte o basse frequenze. Queste entità scure si nutrono di basse frequenze, le abbiamo nutrite per millenni. Il risveglio dell’umanità ha inclinato il vortice collettivo verso le alte frequenze. Per questo loro stanno attaccando con tale ferocia. Stanno morendo di fame.Connettiti con la tua anima. E osservati. Se la tua anima risuona a queste parole, non dare più un secondo della tua esistenza per essere cibo. Elimina le basse passioni della tua vita. Odio, rancore, invidia, paura, vizi, alimenti spazzatura, bugie, ambizione. Egoismo, tristezza, sfiducia. Tutto questo genera energia densa. Cibo per gli oscuri. Sii consapevole delle tue emozioni. Mettiti in ascolto. Di te. E se in qualche occasione ti senti in qualunque di queste basse vibrazioni, cambia ipso facto la tua energia. Metti una musica che ti sollevi. Canta. Balla. Respira. Accendi un incenso. Abbraccia i tuoi gatti. Abbraccia un amico. Abbraccia il tuo cane. Abbraccia tua mamma. Abbraccia la tua famiglia animale. Vai a passeggiare per la natura. Medita. Fai esercizio fisico. Fai tutto il necessario. Ma cambia immediatamente quell’energia. Perché stai servendo da cibo.Sii sempre consapevole. E l’unica cosa che ti viene chiesta è di non nutrire le orde oscure. Nutri la tua anima con tutto ciò che ti aiuta ad alzarti. Se ti abitui a vivere nella frequenza dell’amore, la tua realtà cambierà alla tua volontà senza sforzo. Sei un essere potente. Sei inarrestabile. Non temere nulla. Libera la tua mente dalla “matrix”. Focalizza la tua attenzione su ciò che desideri. Ma soprattutto, divertiti, sii felice, sorridi, canta, balla. Ama. Noi siamo vivi amando il tutto. E tu ne fai parte. Insieme alle stelle e al sole. E a tutti le galassie dell’universo. Tu sei amore.(Alejandro Jodorowski, “Ci sottovalutano”, messaggio lanciato su Facebook e ripreso in modo virale, sul web. Drammaturgo, regista, attore, compositore e scrittore cileno naturalizzato francese, Jodorowski – maestro massone e studioso dei tarocchi – è considerato un grande esperto di esoterismo).Il loro errore più grande. Sapevano che il collettivo umano stava raggiungendo una vibrazione molto elevata. Ma non erano consapevoli della quantità di anime sveglie. Si sono accorti dell’errore di valutazione. E si sono spaventati. Ora non si nascondono più. Ora hanno fretta di lanciare ufficialmente un “nuovo ordine mondiale”. Ora i loro attacchi sono diretti e frontali. E gli attacchi aumenteranno. Cercheranno con tutti i mezzi di far sì che la gente non si svegli. Cercheranno con tutti i mezzi che gli “svegli” non possano comunicare per non svegliare gli altri. Cercheranno con tutti i mezzi che i risvegliati vengano visti come pazzi o delinquenti. Qualunque cosa facciano, non importa. Il salto quantico si è già verificato. È inarrestabile. L’umanità già contempla piante ed animali come anime che li animano. L’umanità già rispetta la madre terra. L’umanità già capisce che non c’è separazione. Le anime che ora si incarnano arrivano già come insegnanti. Non più a sperimentare. Si incarnano solo per insegnare ad amare.
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Pietà per Michael Jackson, viveva come se fosse già morto
A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.Non era mai capitato ma ci fu un mercato nero per procurarsi a caro prezzo un invito ai suoi funerali; e mai espressione come mercato nero fu più azzeccata per indicare un traffico di soldi illeciti intorno al funerale di un nero pentito. Funerali rinviati per gestire la gigantesca dimensione del cordoglio, a più di dieci giorni dalla morte. Fu un’icona e un prototipo di chi si rivolge alla tecnica e ai farmaci per manipolare la vita e risolvere i problemi che un tempo affidava alla religione, alla filosofia e al mito. Non esprimo giudizi morali di condanna per la sua vita né giudizi musicali di celebrazione davanti al suo corpo irriconoscibile, al suo naso ridotto ad una presa elettrica, alle sue labbra simili alla fessura di un bancomat, a un viso sfigurato che perde quel che Lévinas riteneva essere l’inalterabile specificità di una persona: il volto. Non aveva volto, Jackson. Quel che gli era rimasto addosso era una specie di mascherina estetico-funeraria, un incrocio tra il visage dall’estetista e la cera mortuaria da obitorio. Non voglio soffermarmi sulle accuse di pedofilia che lo hanno accompagnato anche in vita e tantomeno abbracciare gli alibi dei suoi fan che ebbe un’infanzia difficile e da ricco finanziò opere benefiche in favore dell’infanzia.Sbianchettandosi in quel modo orrendo tradì la sua identità e quella di tutti i neri della terra. Offese la negritudine. Quel suo essere un Ogm umano, geneticamente modificato per sfuggire alla sua identità, quel suo razzismo biologico, masochista, contro la sua origine, suscita un’infinita, irredimibile pietà. Quel suo stuprarsi la vita, resettare l’origine e la memoria, rivelava pena e strazio di vivere. E la sua immensa ricchezza, la sua straordinaria fama, non alleviavano quella pena, semmai la ingigantivano, la facevano più clamorosa e cosmica, fino a renderlo il testimonial planetario della condizione umana che volta le spalle al cielo e alla terra, cioè alla vita e all’immortalità, per vivere una gloriosa parodia di morte prolungata, uno spettacolo di agonia anestetizzata. Alla sua morte pensarono di asportargli il cervello per capire di che era morto. Ma al di là del referto medico, chi studia l’animo umano in rapporto alla vita e al suo svanire già lo sa. Jackson è morto di rifiuto della condizione umana e terrena, rifiuto della realtà, del mondo, orrore della vita e dei suoi limiti, ricusazione del fato.È martire della società postumana, transgenica e transumana, che si illude di sopravvivere alla vita rinunciando a viverla, che si sottrae agli urti, all’invecchiamento e alla realtà per preservarsi pura e incontaminata in una surreale esistenza asettica che coincide con un’eutanasia. Fuori dall’età che avanza, fuori dal mondo. Terrore di contatti con gli umani. Odori umani troppo umani, schifo per le cose e per i cibi, cordone sanitario per ripararsi dalla vita e da quella rude e primitiva verità che è la natura. Figli nati senza incontro carnale, senza eros; della vita resta solo un’icona incorporea. E per sottrarsi alle passioni umane, analgesici e anoressia. Jackson era la proiezione su maxischermo di una condizione mentale diffusa tra chi vuol modificare la sua vita e allontanarsi dalla natura, dalla finitudine, dal declino: tatuaggi e chirurgie, pillole e lifting, alcol e droga, diete e radicali modifiche del proprio look, perché si soffre la propria identità, voglia di autocrearsi e di sottrarsi al carcere del proprio corpo. Antiche eresie, religioni gnostiche degenerate, paradisi artificiali che somigliano all’inferno. La cura di sé sfocia nell’imbalsamazione già da vivo.Il suo simulacro è quella cassa a ossigeno scelta per la toilette funeraria. E la sua location più appropriata era quella sua villa che si chiamava non a caso Neverland e che, non a caso, non riescono a vendere. La terra che non c’è per una vita che non c’era. Neverlife. Il simbolo più efferato di questa condizione postumana è il suo stomaco: era vuoto di cibi e pieno di pillole e sostanze contro il dolore, contro la depressione, contro l’ansia, contro i contagi. Nel suo stomaco si raccoglieva come un’urna il male occidentale, i suoi fantasmi, la sua paura di invecchiare, di morire, di soffrire, di contagiarsi, di finire in solitudine e di restare incarcerati nei limiti della condizione umana. Un rifiuto del destino, un odio del fato, che è stato fatale. Neverlife è l’epitaffio più sensato per titolare la compilation della sua vita. Ha speso la vita a organizzare il suo funerale. Non infierite ora a dieci anni dalla morte riesumando la sua vera o presunta pedofilia. Abbiate pietà di quell’uomo che si inflisse già da morto la pena di una vita sontuosa in fuga da se stesso, dal mondo, dagli umani.(Marcello Veneziani, “Michael Jackson, il nero pentito”, da “La Verità” del 17 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.
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La fantasia al potere, per davvero: cent’anni fa, a Fiume
Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.Il rituale politico-cameratesco annuncia il fascismo ma Mussolini è freddo e scettico sull’impresa fiumana perché la considera velleitaria; e il poeta lo attacca sul suo stesso “Popolo d’Italia”, lo accusa d’avere paura e di tradire la Vittoria. A Fiume arrivano un po’ tutti, Guglielmo Marconi a bordo del suo bianco yacht Elettra, e poi torna per divorziare, consigliato da Mussolini, perché a Fiume è facile separarsi: Toscanini con la sua orchestra fa concerti devolvendo gli incassi ai poveri; Filippo Tommaso Marinetti, accolto trionfalmente, si produce in vari discorsi show; arrivano ufficiali giapponesi, belgi e ungheresi che diventano legionari fiumani. Difende Fiume anche Gramsci da chi lo presenta come «un luogo di bestialità, prepotenza, possesso di donne»; anche Lenin è affascinato da Fiume. Per la prima volta partecipano all’impresa alcune donne, come Fiammetta, pseudonimo di una nobildonna milanese, Margherita Besozzi; o donna Ninetta, splendida moglie dell’aviatore Casagrande, bionda ed elegante contessa; ragazze in grigioverde e qualche prostituta. A Fiume si svolgono convegni suggestivi notturni al chiarore delle fiaccole, baccanali in spiaggia, feste dionisiache con vino, donne, sesso e cocaina, “la polvere folle” del Poeta.Battaglie simulate, orge in costume, soldati inghirlandati, che danzano e vestono in modo stravagante, si fanno crescere barba e capelli o se li rasano a zero, e fondano la Congregazione del Pelo. Lui guerrafondaio inventa lo slogan pacifista “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, infilando un fiore nel moschetto e parlando di fiori e libero amore. Ci sono gli animalisti, un ufficiale gira con una volpe al guinzaglio, Keller vive con un’aquila e si presenta alla mensa con un pappagallo sul petto; una volta carica sul velivolo un asino… Spopola a Fiume un romanzo futurista, “L’isola dei baci”, ambientato a Capri, di Corra e Marinetti, dove si immagina il primo gay pride, un congresso di omosessuali il cui motto è “raffinati di tutto il mondo unitevi”. Importanti sono i diari fiumani, come quello di Comisso che descrive Fiume come «una città in amore», in cui «tutti si diedero a un godimento irruente». Il Comandante rimprovera gli eccessi sessuali dei legionari, ma ha varie avventure erotiche a Fiume (si auto-definì “porco con le ali”, antesignano di Lidia Ravera).Da una porticina segreta faceva entrare una canzonettista chiamata Lilì di Montresor, che poi ripartiva con ben 500 lire in borsetta; o una donna sensuale e selvaggia chiamata Barbarella nei suoi Taccuini, una quindicenne per lui 53enne, “Bianca, la piccola”, “Gr, Bruna e molle”, una maestrina di Merano. Nella sala del comando, racconta Nino d’Aroma, passarono «molte donne di tutta Europa, vecchi amori, spente fiamme e nuove conquiste». Leggendaria la nascita del profilattico a Fiume battezzato Habemus Tutorem, poi noto come Hatù (ma un’altra versione attribuisce il nome nientemeno che al cardinal Nasalli Rocca). Arrivano a Ronchi pure i frati modernisti, che disobbediscono alla chiesa per seguire il patriottismo del Comandante, espongono alla finestra del monastero il motto dannunziano “Hic manebimus optime” e alla fine sette cappuccini abbandonano il saio. L’amministratore apostolico di Fiume, don Celso Costantini, accusa il poeta di paganesimo. La reggenza del Carnaro, col sindacalista Alceste de Ambris, dura sedici mesi, da settembre al Natale dell’anno dopo. Poi sarà cannoneggiata.Provano prima con le trattative e le promesse – c’è anche Badoglio, mandato dal presidente del consiglio Nitti, detto dal Poeta il “Cagoja” – poi sarà Giolitti a far bombardare Fiume e costringere alla resa. L’ultimo discorso del Comandante a Fiume si conclude con un Viva l’Amore. Quasi un promo del ’68, degli hippy e un riassunto delle rivoluzioni, da quella fascista a quella sovietica, che allora il Vate ammirava (sognava un comunismo senza dittatura, libertario, aristocratico, anarchico e nazionalista). Insomma un microcosmo-manicomio di utopisti, sognatori e velleitari. Un film d’immaginazione, ma la storia è vera, come il mitico Comandante-Poeta. Cent’anni fa la fantasia andò davvero al potere, ma non vi restò molto. Ps: il poeta in questione, l’avrete capito, è Gabriele d’Annunzio, su cui ieri si è aperta una mostra al Vittoriale. Sulla sua impresa fiumana uscirà tra un paio di settimane un’opera ponderosa di Giordano Bruno Guerri. Anni fa Tinto Brass e Pasquale Squitieri mi proposero di scrivere la sceneggiatura di un film dedicato a D’Annunzio a Fiume. Eccone l’abbozzo postumo…(Marcello Veneziani, “La fantasia al potere, cent’anni fa”, da “La Verità” del 10 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani. Nell’appendice storiografica del romanzo “Il volo del pellicano”, pubblicato da Melchisedek nel 2016, Gianfranco Carpeoro svela la profonda motivazione dell’impegno civile di D’Annunzio, grande poeta e fine letterato: è stato il terz’ultimo “Ormùs” – gran maestro – dei Rosa+Croce, leggendaria confraternita sapienziale di natura iniziatica; i successori di D’Annunzio sarebbero stati l’artista francese Jean Cocteau e poi il genio surrealista spagnolo Salvador Dalì; poi i Rosa+Croce si sarebbero eclissati, in realtà per effetto di una decisione programmata già dai tempi della conferenza di Yalta, dove emersero i germi della futura guerra fredda e del conflitto israelo-palestinese, concepito per colonizzare militarmente il Medio Oriente petrolifero. L’ispirazione “rosacrociana” è evidente nella Carta del Carnaro, in vigore nell’effimera reggenza dannunziana di Fiume: a detta degli storici resta la Costituzione più avanzata – la più moderna, democratica e rivoluzionariamente libertaria che sia mai stata varata, nel mondo. Non è strano, sottolinea Carpeoro: i Rosa+Croce sono i progenitori culturali del socialismo, avendo “firmato” già nel ‘600 opere come “Christianopolis” di Johann Valentin Andreae, “Utopia” di Tommaso Moro e “La Città del Sole” di Tommaso Campanella, tutte ispirate dal sogno di un mondo più giusto).Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.
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Macché scie chimiche, è l’arte di “dipingere” le nuvole
Il gran sacerdote li avrebbe chiamati “gargarismi di Dio”, i segni che il Cielo inviava periodicamente sulla Terra, prima che nascesse la suprema arte del “cloud painting”, basata sulla crezione pittorica en plain air, alleggerita dall’inimitabile leggerezza delle correnti atmosferiche che rendono la tavolozza dinamica e cangiante, specchio visibile dell’immenso divenire che alimenta l’orbitare incessante di universi. Gli stupidotti là in basso, sospettosi solo perché ignoranti, avevano cominciato a chiamarle “chemtrails”, le scie tracciate nell’azzurro già di prima mattina al passaggio degli aerei di linea, come se davvero gli aerei – di punto in bianco – avessero il potere di far sparire il sereno, imbrattandolo di bave bianche destinate a espandersi e abbassarsi lentamente, come fossero vere nuvole. A ben guardarlo, il “cloud painting” è diverso dal banale “cloud seeding” impiegato talvolta per ingravidare i nembi gonfiandoli di pioggia, come fanno notoriamente i tecnici cinesi con i loro velivoli, i loro cannoni e i loro razzi, con l’unico obiettivo di condizionare il clima e magari alleviare le sofferenze delle regioni più aride.Ultimamente le cronache degli esperimenti celesti – israealiani, sudafricani – si sono diradate, come se l’aerosol atmosferico (appetitosi cocktail a base di ioduro d’argento) avesse stancato, a lungo a andare, il palato fine del mondo di lassù, l’iperuranio blu scarabocchiato incessantemente da traiettorie disegnate da ingegneri senza volto. In compenso è salito il chiacchiericcio dei petulanti, i millenaristi per vocazione o per deformazione mentale, i mentecatti che l’autorevole stampa definisce come veri e propri fondatori del nuovissimo culto delle cosiddette scie chimiche, totem impalpabile del neo-dogma cui solo i bambini, o i soggetti psichiatrici, potrebbero prestare fede. Un segno evidente, l’ennesimo, dell’esecrabile imbarbarimento dei tempi – fenomeno altamente deprimente, che impedisce all’arte più autentica di essere percepita per quello che è, nella sua essenza volatile di pura rappresentazione aerea, simbolica, esteticamente codificata mediante linguaggi immediamente intuitivi, almeno per i soggetti normodotati.Per dire, solo uno sprovveduto potrebbe non riconoscere – in certe germinazioni mattutine davanti alla propria finestra – una magistrale citazione di Jackson Pollock, o di Jean-Michel Basquiat. Solo una mente ottenebrata potrebbe stentare a individuare, sopra la sua testa, la miracolosa evocazione delle creature angeliche del grande Chagall, in una danza alata che saluta ogni mattina, ormai, il glorioso destarsi del giorno. Scattando fotogrammi, il “cloud painting” si lascia ammirare anche mediante progressivi ingrandimenti, permettendo di scoprire la sottile filigrana che si estende, velando le trasparenze eteree, partendo dalla prima pennellata rettilinea. In pochi istanti l’intero arco celeste si trasforma, vive una sua mutazione intensamente emotiva: è il cielo stesso, con la sua sostanza chimica, a interagire con l’artista, contribuendo a interpretare e completare l’opera, arricchendola di senso. Chi ancora parla di scie chimiche non la riesce ad afferrare, la purezza di quell’altissima poesia scritta nel cielo di ora in ora, marchio indelebile e cangiante – impresso nell’immensamente grande – dai celestiali artisti che sorvolano i giorni quieti del pianeta, giocando con la luce per trarne sublimi arabeschi e cattedrali aeree di magnificenza.Il gran sacerdote li avrebbe chiamati “gargarismi di Dio”, i segni che il Cielo inviava periodicamente sulla Terra, prima che nascesse la suprema arte del “cloud painting”, basata sulla creazione pittorica en plain air, alleggerita dall’inimitabile lievità delle correnti atmosferiche che rendono la tavolozza dinamica e cangiante, specchio visibile dell’immenso divenire che alimenta l’orbitare incessante di universi. Gli stupidotti là in basso, sospettosi solo perché ignoranti, avevano cominciato a chiamarle “chemtrails”, le scie tracciate nell’azzurro già di prima mattina al passaggio degli aerei di linea, come se davvero gli aerei – di punto in bianco – avessero il potere di far sparire il sereno, imbrattandolo di bave bianche destinate a espandersi e abbassarsi lentamente, come fossero vere nuvole. A ben guardarlo, il “cloud painting” è diverso dal banale “cloud seeding” impiegato talvolta per ingravidare i nembi gonfiandoli di pioggia, come fanno notoriamente i tecnici cinesi con i loro velivoli, i loro cannoni e i loro razzi, con l’unico obiettivo di condizionare il clima e magari alleviare le sofferenze delle regioni più aride.
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Morte chimica dal cielo, Carpeoro: il Rosacroce Lucio Dalla
«Che cos’è che passa lì nel cielo? Un aereo o una meteora? C’è qualcosa che vien giù: è una neve metafisica, la morte chimica». Allarme: anche Lucio Dalla arruolato tra i cosiddetti complottisti, pronti a definire “scie chimiche” le misteriose strisce bianche rilasciate dagli aerei fino a velare il cielo? Il fenomeno è diventato sempre più vistoso negli ultimi anni, ma lo si è cominciato a notare solo dopo il Duemila. Secondo il giornalista investigativo Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, si tratta di un’operazione di irrorazione dei cieli pianificata da Bush nel 2001 durante l’incontro con Berlusconi al tragico G8 di Genova. Il piano sarebbe stato ratificato l’anno seguente, per divenire operativo dal 2003. Quando scrisse quella canzone, “Starter”, uscita come prezioso inedito nel 2018 (con il contributo di Tullio Ferro e Marco Alemanno), secondo “Repubblica” il cantautore bolognese stava lavorando con Francesco De Gregori, insieme a cui era impegnato nel tour “Work in progress”, del 2010. Il brano è ora disponibile nel ricco cofanetto “Duvudubà”: 70 tracce, con booklet fotografico. Ma attenzione: come decifrare quella “morte chimica” che “vien giù dal cielo”, sotto forma di “neve metafisica”, dopo il passaggio di “un aereo o una meteora”?La soluzione si troverebbe nell’Adriatico, di fronte al Gargano: per la precisione alle isole Tremiti, dove Lucio Dalla si trovava quando scrisse quegli enigmatici versi. Indovinello: «Cosa si vede dal cielo delle Tremiti?». L’autore del quiz è l’esoterista Gianfranco Carpeoro, autore del saggio in più volumi “Summa Symbolica”. Massone, già a capo della più antica obbedienza italiana del Rito Scozzese, l’avvocato milanese di origine cosentina (Pecoraro, all’anagrafe) anima la diretta settimanale web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un filo diretto con gli affezionati ascoltatori, ai quali lanciare anche sfide avvicenti, come quella che investe il Lucio Dalla meno conosciuto e decisamente insospettabile: «Era un iniziato», rivela Carpeoro, che conosceva personalmente l’autore di “Piazza grande” e “4 marzo 1943”. Di più: «Lucio Dalla era un Rosacroce: uno degli ultimi». Della misteriosa, leggendaria fratellanza iniziatica ribattezzata nel ‘600 con il nome Rosa+Croce, avrebbero fatto parte personaggi come Giorgione, Caravaggio e Leonardo nonché Giordano Bruno, quando il gruppo era denominato “Giordaniti”, e prima ancora il sommo Dante (Fidelis in Amore), per risalire fino a Gioacchino da Fiore, autore dell’Aquila Gigliata. A questa “leggenda realmente accaduta”, Carpeoro ha dedicato una trilogia di romanzi: “Il volo del pellicano” “Labirinti” e “Il Re Cristiano”.Proprio al sovrano dei Goti, Alarico, vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, l’autore attribuisce un’affiliazione iniziatica: la stessa che forse, secoli prima, legava Scipione l’Africano al mitico Annibale, il cui nome fenicio significa “mandato da Dio”, come tutti gli altri nomi derivati dalla medesima radice, declinata nell’italiano Giovanni e nel russo Ivan. Labirinti, appunto – nei quali però Carpeoro invita a non perdersi, tenendo d’occhio il filo d’Arianna (l’amore per la conoscenza) che volendo, assicura, può portare fino a Lucio Dalla, seguendo le tracce elusive di quella che il mondo esoterico chiama Tradizione Unica Primordiale: schegge di un sapere antico, archetipico, tramandato per via iniziatica e affidato all’eloquenza silenziosa dei simboli, vero e proprio alfabeto parallelo e senza tempo, con cui scrivere le tappe fondamentali della meta-storia dell’umanità, quella del pensiero. Lucio Dalla esoterico? Assolutamente sì, conferma Carpeoro, ma alla maniera dei Rosacroce: specialità, metterti la verità sotto il naso, senza però che nessuno se ne accorga, a prima vista. Le scie chimiche nei cieli delle Tremiti? Forse. Ma anche la strage di Ustica, del 1980: «A quel tragico evento Lucio Dalla dedicò una canzone: sfido chiunque a scoprire quale sia».Nello stesso anno saltò per aria la stazione di Bologna, città vicinissima alla località (San Benedetto Val di Sambro) dove nel ‘74 era esploso un ordigno a bordo del treno Italicus, partito da Roma e diretto a Monaco di Baviera. «Pensava proprio alla tragedia dell’Italicus, Lucio Dalla, quando compose la canzone “Balla balla ballerino”», uscita nel 1980 in un’Italia scossa dalla carneficina di Bologna. Avverte Carpeoro: quella canzone, che sembra solo un inno all’umanità irriducibile che sa resistere alla violenza, è intrisa di contenuti esoterici e contiene indizi, cifrati e minuziosi, sulla cupa attualità di quegli anni. «Per esempio: il citato ballerino non è un danzatore qualsiasi, ma un individuo ben preciso». La mente corre al più noto ballerino degli anni di piombo, l’anarchico Pietro Valpreda, ingiustamente incarcerato per la strage milanese di piazza Fontana. Messaggi sottotraccia, tra i versi più o meno innocui di una canzone? «E’ la modalità comunicativa dei veri inziati», sostiene Carpeoro: «Prevede che l’ascoltatore non abbia “la pappa fatta”, ma si faccia domande e impari a usare il cervello». Beninteso: non perde valore la percezione più immediata e accessibile della lirica, quella a cui il pubblico infatti si affeziona subito.E’ il medesimo meccanismo dell’allegoria dantesca, nella quale coesistono le due verità, quella evidente e quella nascosta. Idem per la “doppia denotazione” adottata da un altro immenso poeta, Eugenio Montale: ti racconto una storia che ne illumina un’altra, senza che la seconda oscuri la bellezza della prima. Nel caso di Dalla, l’intento sarebbe classicamente “rosacrociano”: inserisco inidizi strani e anomali (il treno Palermo-Francoforte) in modo che qualcosa si faccia strada in chi ascolta, avvinto dalla gradevolezza pop della canzone, scritta e cantata per farsi ricordare nel modo più facile e orecchiabile. Ma in attesa che Carpeoro e la sua “scolaresca” chiariscano i retroscena più intimi del famoso “ballerino”, invitato a danzare “anche per i violenti”, che sono “morti da sempre, anche se possono respirare”, l’ex sovrano gran maestro del Rito Scozzese italiano aggiunge, per inciso, che lo stesso Lucio Dalla caricò di significati intensamente iniziatici uno dei suoi capolavori, “Com’è profondo il mare”, brano straordinariamente poetico (e profetico) almeno quanto “L’ultima luna”, che – sempre secondo Carpeoro – è ispirato direttamente al filosofo ed esoterista francese Édouard Schuré: come il suo saggio “I grandi iniziati”, che Dalla amava moltissimo, “L’ultima luna” ripropone la storia dell’umanità suddivisa per epoche evolutive, sulla scorta dell’intuizione di Giambattista Vico.L’ultima luna, canta Lucio Dalla, la vide solo un bimbo appena nato: aveva occhi tondi e neri e fondi, e non piangeva. Con grandi ali, aggiunge, prese la luna tra le mani. “E volò via: era l’uomo di domani”. Visione: il neonato è alato come l’uomo-Dio raffigurato in mille modi da Leonardo, a cominciare dall’immortale icona dedicata a Vitruvio, codificatore latino dell’architettura sacra. Ma quello su cui Carpeoro invita a indagare è lo stesso Lucio Dalla che ha fatto innamorare milioni di italiani sulle note di “Caruso”, de “L’anno che verrà”. E’ il Dalla coltissimo, spiazzante e geniale, in soldalizio col poeta Roberto Roversi, da cui i giacimenti lirici di “Anidride solforosa” e poi di “Automobili”, con la magistrale evocazione post-futurista e straordinariamente epica dell’eroe italiano Tazio Nuvolari, che “ha cinquanta chili d’ossa, le mani come artigli, un talismano contro i mali”. Pensava in grande, Lucio Dalla, anche quando “scendeva” tra le semplificazioni della cosiddetta musica leggera. Stesso stile di quelli che Carpeoro descrive come gli ultimi, grandi esponenti della fratellanza rosacrociana: il musicista venezuelano Aldemaro Romero e il regista moldavo Emil Loteanu, l’autore de “I lautari”, nomadi dell’Est come i tanti gitani che affollano i testi di Dalla, coi loro “denti di ferro e gli occhi neri, puntati nel cielo per capirne i misteri”.E’ il caso dello struggente Sonni Boi, piccolo cavaliere con la “mappa delle stelle” disegnata sul braccio: lo zingaro avvistato nel “Parco della Luna” con la sua donna Fortuna, “a metà strada tra Ferrara e la luna”. Rosacroce, Lucio Dalla? Ebbene sì, ammette Carpeoro: solo che, spiega, era una specie di superstite. A Yalta, di fronte alla desolante spartizione del mondo decisa dalle superpotenze, la confraternita preferì ritirarsi dalla scena intuendo che l’umanità non sarebbe “guarita” dall’odio che aveva scatenato la Seconda Guerra Mondiale. Motivo ulteriore di sconforto: la rinuncia a impegnarsi per uno Stato palestinese, accanto a quello progettato per gli ebrei reduci dalla Shoah. «I Rosacroce erano a Yalta – dice Carpeoro – nell’entourage dei massoni Rooseevelt e Churchill». Speravano di incidere, nel senso dell’evoluzione dell’umanità: rottamare il vecchio schema del potere, concepito come forma di dominio. Utopia? Naturalmente: proprio di utopia parla il capolavoro di Tommaso Moro, consonante con “La città del sole” di Campanella e “Christianopolis” di Johannes Valentin Andreae: «Letteratura politica, alla quale i Rosacroce – veri padri del socialismo – fecero ricorso tra ‘500 e ‘600, dopo la diffusione di un formidabile strumento come la stampa moderna creata da Gutenberg».Missione: comunicare e parlare anche al grande pubblico, pur restando in incognito come soggetto collettivo di matrice iniziatica. Strategia: produrre capolavori artistici, entro i quali concentrare messaggi cifrati, a cominciare dalla musica. Esempi storici clamorosi: dal Bach del “Canone inverso”, che svela la potenza armonica della complementarità, al rivoluzionario Mozart del “Flauto magico”. Fino al secondo ‘900, con artisti pop del calibro di James Brown e Freddy Mercury dei Queen. Anche il nostro Lucio Dalla, assicura Carpeoro, faceva parte di quel cenacolo clandestino di “cospiratori bianchi”, impegnati ad aiutare l’umanità a tirar fuori il meglio di sé. Purtroppo, aggiunge, dopo Yalta i Rosa+Croce entrarono in una fase di acquiescenza. Stabilirono che alla morte del loro ultimo Ormùs, il geniale pittore Salvador Dalì, la catena iniziatica si sarebbe interrotta: nessun maestro avrebbe più potuto “iniziare” altri adepti. Lo sapeva quindi anche Lucio Dalla, morto improvvisamente a Montreux, in Svizzera, il 1° marzo 2012, sicuro di aver abbondantemente infiammato, per tutta la vita, i sentimenti degli italiani. E altrettanto certo, probabilmente – per dirla con Carpeoro – di aver fatto anche il suo “dovere” di Rosacroce: parlare al cuore, per svegliare il cervello e tentare di rendere l’umanità più consapevole, dunque più libera.«Che cos’è che passa lì nel cielo? Un aereo o una meteora? C’è qualcosa che vien giù: è una neve metafisica, la morte chimica». Allarme: anche Lucio Dalla arruolato tra i cosiddetti complottisti, pronti a definire “scie chimiche” le misteriose strisce bianche rilasciate dagli aerei fino a velare il cielo? Il fenomeno è diventato sempre più vistoso negli ultimi anni, ma lo si è cominciato a notare solo dopo il Duemila. Secondo il giornalista investigativo Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, si tratta di un’operazione di irrorazione dei cieli pianificata da Bush nel 2001 durante l’incontro con Berlusconi al tragico G8 di Genova. Il piano sarebbe stato ratificato l’anno seguente, per divenire operativo dal 2003. Quando scrisse quella canzone, “Starter”, uscita come prezioso inedito nel 2018 (con il contributo di Tullio Ferro e Marco Alemanno), secondo “Repubblica” il cantautore bolognese stava lavorando con Francesco De Gregori, insieme a cui era impegnato nel tour “Work in progress”, del 2010. Il brano è ora disponibile nel ricco cofanetto “Duvudubà”: 70 tracce, con booklet fotografico. Ma attenzione: come decifrare quella “morte chimica” che “vien giù dal cielo”, sotto forma di “neve metafisica”, dopo il passaggio di “un aereo o una meteora”?
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.
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Leonardo, Jung, Cartesio: la verità ci raggiunge in sogno
Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle «cose confuse», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Nel tedesco corrente, gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente.Nella weltanshaung junghiana infatti, l’abbandono insito nel geshehenlassen (“lasciar accadere”) assume una valenza-chiave: lasciare che tutto avvenga e tuttavia conservare intatta una vigilanza etica ed intellettuale sono le condizioni dell’individuazione, di una prova totale di sé stessi… Da note biografiche apprendiamo che Jung maturò personalmente tale concetto in seguito ad un momento che molti conoscono: l’assenza di riferimenti. Al termine di un periodo di enorme sofferenza (1912-1919) ci rende partecipi della sua estenuante esperienza personale: «Mi sentivo letteralmente sospeso. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di divenire preda dell’inconscio, e quale psichiatra sapevo fin troppo bene che cosa ciò volesse dire. Le tempeste si susseguivano, e, che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta».Invece di riagganciarsi a idee o ad una situazione sociale, Jung decise di “lasciar accadere”, di abbandonarsi (dal francese à ban donner: mettere a disposizione di chiunque) (mettre à bandon – “laisser au pouvoir de”, NdC), di mettersi a disposizione delle immagini interiori che l’inconscio gli forniva. Possiamo supporre che in un simile contesto non basti scartare le resistenze e lasciar accadere, e che sia necessario un doppio ancoraggio. Da una parte la cura del corpo, la regolarità dell’attività professionale, dall’altra lo sforzo costante per obbligare le emozioni a prendere forma. «Perché altrimenti – scrive – correvo il rischio che fossero esse ad impadronirsi di me. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni. Dopo sei anni al limite della dissociazione, cominciarono a presentarsi forme nuove». Jung le dipinse senza sapere che cosa fossero.Notò che l’oscurità interiore si dissipava e che si stabiliva da sé una solidità: «Quando cominciai a disegnare i mandala vidi che tutto, tutte le strade che avevo seguito, tutti i passi intrapresi, riportavano ad un solo punto, cioè nel mezzo. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è il centro (…). Cominciai a capire che lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé». E nel passaggio dalla pittura all’idea si creò lo spazio che gli consentì l’elaborazione. Jung considerò il simbolismo del mandala come una fenomenologia del Sè e definirà l’archetipo del Sè come la totalità della psiche, l’integrazione compiuta tra conscio e inconscio, quello stato psichico che scaturisce dal superamento della dissociazione, dei poli conflittuali, il centro. Quindi, alcuni anni dopo chiamò funzione trascendente la cooperazione tra dati consci e dati inconsci, di immagini ed idee, al fine dell’integrazione di contenuti precedentemente non noti.Probabilmente anche basandosi sulle esperienze personali descritte postulò che le strade per conoscere l’inconscio fossero sostanzialmente due: una procede nella direzione della raffigurazione (la cui manifestazione più immediata è l’attività onirica e quelle più “mediate”, se così si può dire, sono, nella psicologia analitica, l’immaginazione attiva e la sandplay), l’altra della comprensione. Ed affermò: «Le due strade sembrano essere l’una il principio regolatore dell’altra, entrambe sono legate da un rapporto di compensazione. La raffigurazione estetica ha bisogno della comprensione del significato, e la comprensione ha bisogno della figurazione estetica». Le due tendenze s’integrano in quella che appunto denominò funzione trascendente. Piace a questo punto ricordare l’esortazione di Hillman sul “fare anima”, cioè: “fare anima attraverso l’immaginazione delle parole”. Bisogna notare che la capacità di abbandonarsi consapevolmente alle proprie immagini interiori, in una condizione di sospensione della quotidianità, non è solo foriera di insight rispetto agli strati profondi della psiche. Tale stato di liminalità è, infatti, anche fonte di intuizioni ed ispirazioni che consentono di allentare la struttura normativa personale e sociale, di affrontare gli ostacoli incontrati dalla mente conscia, e talora di superarli col sorgere di modelli e simboli nuovi.Riflettendoci, è strano che le origini oniriche del pensiero moderno non siano altro che una nota in calce alla storia: mentre le idee più utili di Cartesio furono accolte a braccia aperte, la reazione alla loro origine fu violentemente negativa. Cartesio stesso fece notare la profonda importanza sia delle sue immagini oniriche, sia dei suoi calcoli e operazioni logiche per costruire il suo metodo. Ma pochi dei suoi contemporanei vollero accettare l’anomalia della conoscenza fondata sul sogno e, di conseguenza, sulle immagini. La conoscenza degli archetipi della mente (i mandala dipinti da Jung e quelli della tradizione alchemica ed orientale raffigurano l’archetipo del Sé) è in effetti difficile a chi crede nella sola forza denotativa delle parole: una definizione solitamente indica il punto di intersezione di una tassonomia, mentre un archetipo è ciò che proietta la tassonomia stessa. Il logos dell’anima predilige il linguaggio immaginale dell’intuizione e dell’evocazione, così come si manifesta nella durata di una psicoterapia analitica. L’individuazione degli archetipi è più agevole quando una parte della psiche si traspone in simboli e, in definitiva, in immagini, come avviene normalmente in sogno. Di tale trasposizione è inoltre capace il poeta, il pittore, lo scultore, un mimo sacro, o il danzatore che traccia spirali attorno al cuore, mostrando la vita che ne procede come un filo dal gomitolo…(Max Lanzaro, “Jung, Leonardo e le immagini dell’inconscio”, dal blog di Gabriele La Porta del 4 marzo 2013. Il professor Lanzaro è uno psichiatra attualmente attivo a Londra, Verona e Napoli).Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle «cose confuse», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Nel tedesco corrente, gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente.
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Italiani analfabeti, 7 su 10 non capiscono quel che leggono
Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c’è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti “funzionali”, si trovano cioè in un’area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto. Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l’”analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di “cittadino” – di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali.E’ sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica. Non é un problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po’ dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un’ampia America profonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all’Italia, e alla Spagna.Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio – per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più della metà dei paesi più sviluppati.)Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace di una comprensione appena basilare.Un dato impressionante ce l’ha fatto conoscere ieri l’Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell’80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l’informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant’altro che ben si comprende. E’ il “discorso”.Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c’é un “discorso” da riconsiderare. (Questo testo é un omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la linguistica fuori dalle aule dell’accademia, e l’ha resa uno degli strumenti fondamentali di analisi di una società) .(Mimmo Càndito, “Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce”, da “La Stampa” del 10 gennaio 2017).Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.
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Osho: siamo unici e liberi, diversi da come ci vorrebbero
La più grande avventura che possa accadere all’essere umano è il passaggio tra lo stato di mente a quello di non-mente, dalla personalità all’individualità. Lo stato di non-mente ha un’individualità, la mente invece è uno stato sociale. Tutte le personalità sono assolute maschere che nascondono la tua individualità. Io sono qui per distruggere la vostra personalità, e per darvi la nascita dell’individualità. Andare dal maestro significa andare alla ricerca della tua innocenza, in cerca della tua infanzia perduta, in cerca della tua originalità… in cerca della tua individualità, in cerca della libertà. Ricordate: nessun attaccamento potrà farvi crescere, nessun attaccamento cresce. Essi sono tutti contro la vostra indipendenza, la vostra libertà e la vostra individualità. Amare l’uomo e rispettarlo, rispettarne l’individualità e le sue differenze, è possibile, ma solo se prima hai rispetto per la tua individualità. Tutto ciò è possibile solo se tu hai consolidato le radici del tuo essere individuale senza temerlo.L’amore con i suoi occhi sa quando dire di sì e quando dire di no. L’amore non è soggetto a interferenze dalle vite degli altri, e non permette che nessuno interferisca con la sua esistenza. L’amore dona l’individualità agli altri, senza però togliere l’individualità a sé stesso. Prova a cercare la tua individualità, la tua integrità, e prova a farlo senza compromessi. Perché più cercherai di ottenere l’individualità con i compromessi e meno sarai individuale. In quel caso diverrai solo una parte della ruota, un ingranaggio di un vasto meccanismo, e quindi non un essere individuale nella tua bellezza, nella tua verità… Io sono assolutamente contro il compromesso. La morte è lungi meglio di una vita di compromessi. Una cosa è certa: non potrai divenire nulla, nella vita, se non te stesso. E meno sarai te stesso e più sarai infelice. La felicità accade solo quando da un roseto cresceranno delle rose; quando fioriscono? Quando hanno la loro individualità.Il fatto che da un roseto ne cresca un fior di loto è creare qualcosa di insano. Vuota la mente, cancellala. La Via della non-mente non è la Via del conflitto: la Via della non-mente è la Via della Consapevolezza. La sparizione della tua personalità non è la sparizione di te stesso, ricordalo; invero, è la tua manifestazione. Come la tua persona svanisce, così svanisce la tua personalità; la tua individualità, è lei che ascende. Avere una personalità è ipocrita, avere la propria individualità è la tua essenza primordiale. Ogni uomo nasce con un’unica individualità, ed ogni uomo ha un suo destino. L’imitazione è un crimine, è criminale. Se tenterai di diventare un Buddha, diverrai un’imitazione di Buddha. Sarai simile a Buddha, camminerai come lui, parlerai come lui, ma ti perderai. Perderai tutto ciò che la vita ha da offrirti. Perché Buddha è vissuto una volta sola. Non è nella natura delle cose ripetersi. Dio è così creativo che non ripete mai nulla.Non troverai mai un essere umano nel presente, nel passato o nel futuro che apparirà esattamente come te. Non è mai successo. L’uomo non è un meccanismo. Non è come le auto della Ford in una via d’assemblaggio sistematica; potrai produrre milioni di copie, esattamente uguali. L’uomo è la sua anima, egli è individuale per natura, l’imitazione è velenosa. Non imitare mai nessuno. Essere un individuo è la cosa più difficile del mondo, perché nessuno desidera tu diventi individuale. Tutti desiderano uccidere la tua individualità e farti diventare una pecora. Nessuno desidera tu sia te stesso. Ogni singolo individuo è unico nel suo genere. L’unicità diventa qualcosa di più intelligente e chiaro, cristallino, quando la persona diventa un’illuminato, perché solo col suo puro genio, la sua pura individualità, incontaminata, immacolata, sarà rivelato. Il primo passo è accettare noi stessi, ognuno di noi. Non adempiere a nessun dovere fuorché a quello del cuore! Non devi diventare qualcun altro.Non è previsto dalla natura delle cose che tu faccia qualcosa che non segua la Via di te stesso, tu sei solo per te stesso. Rilassati! E sii solamente te stesso. Abbi rispetto della tua individualità e sii coraggioso di firmarti con la tua firma, non copiare quella degli altri. E’ importante. Di vitale importanza. Non avere interesse nel fatto di diventare un artista celebre a livello mondiale, non è quella la cosa importante. Piuttosto pensa a creare qualcosa, come una bella canzone, un piccolo motivo musicale, una danza, un quadro, un giardino… e fa crescere le rose… non puoi affermare che la vita sia una striscia dove molte rose crescono. Non puoi affermare che la vita sia una striscia di rose, perché il quadro sarà creato per la prima volta nel mondo e per l’ultima volta. Nessuno l’ha mai fatto prima, e nessuno lo farà nuovamente; solo tu sarai in grado di farlo. Esprimi la tua unicità in tutto ciò che fai. Esprimi la tua individualità. Lascia che la vita sia fiera di te. La vita non sarà mai una striscia di rose, ma diverrà unicamente una fragranza.Fintanto che una persona deciderà che: “A qualsiasi costo, desidero essere me stesso! Condannatemi, non accettatemi, fatemi perdere la rispettabilità… ma non posso più fingere di essere qualcun altro”. Questa decisione è una dichiarazione di libertà che trascende l’essere parte di una massa. Questo dà nascita alla tua naturalità, alla tua individualità. Dopo non avrai bisogno di alcuna maschera. Dopo tu sarai semplicemente te stesso, semplicemente come sei. E nel momento in cui sarai come sei, proverai una tale pace che sorpassa la comprensione della mente. L’ordinario, l’inconsapevole essere umano non ha un’individualità. Ha solo una personalità. La personalità è ciò che gli altri ti danno: i parenti, gli insegnanti, i preti, la società, tutto ciò che hanno detto di te. E tu desideri essere rispettabile, essere rispettato, per fare cose che vengano apprezzate, in modo che la società ti sia riconoscente, e che ti rispetti ancora e ancora. Questo è il loro modo di creare una personalità. Ma la personalità è una cosa molto sottile, superficiale. Non è la tua natura.Il bambino nasce senz’alcuna personalità, ma nasce con una potenziale individualità. La sua potenziale individualità semplicemente sta ad indicare la sua unicità fuori da ogni altro, lo rende differente dagli altri, lo rende unico. La gente è parecchio confusa a proposito della personalità e dell’individualità. Credono che la personalità sia l’individualità. Non è così, difatti c’è una barriera. Non raggiungerai mai l’individualità se non sarai pronto a frantumare la tua personalità. Ci sono molte terapie, meditazioni, lavori interiori… tutto è stato ideato come Vie per la distruzione della tua personalità, l’artificiale Sé, e cercano di riportarti indietro alla tua individualità primordiale. L’individualità è nata con te, è il tuo Essere. La personalità è un fenomeno sociale, ti è stata data. Quando sei seduto in una caverna sull’Himalaya non hai alcuna personalità, ma hai la tua individualità. La personalità esiste solo in relazione agli altri. Più gente ti conosce e più personalità hai, quindi desideri avere un nome e fama. Più gente ti rispetterà, più accrescerai la tua personalità, a tal punto da rafforzarla continuamente. Ma ciò non corrisponderà con la tua individualità.(Osho Rajneesh, “La ricerca dell’individualità”, riflessione ripresa dal blog “La Crepa nel Muro” il 29 dicembre 2016).La più grande avventura che possa accadere all’essere umano è il passaggio tra lo stato di mente a quello di non-mente, dalla personalità all’individualità. Lo stato di non-mente ha un’individualità, la mente invece è uno stato sociale. Tutte le personalità sono assolute maschere che nascondono la tua individualità. Io sono qui per distruggere la vostra personalità, e per darvi la nascita dell’individualità. Andare dal maestro significa andare alla ricerca della tua innocenza, in cerca della tua infanzia perduta, in cerca della tua originalità… in cerca della tua individualità, in cerca della libertà. Ricordate: nessun attaccamento potrà farvi crescere, nessun attaccamento cresce. Essi sono tutti contro la vostra indipendenza, la vostra libertà e la vostra individualità. Amare l’uomo e rispettarlo, rispettarne l’individualità e le sue differenze, è possibile, ma solo se prima hai rispetto per la tua individualità. Tutto ciò è possibile solo se tu hai consolidato le radici del tuo essere individuale senza temerlo.
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Odio, nemico, guerra: potere cannibale, siamo tutti soldati
1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico. A contestare l’empatia, interviene però quella prescrizione imposta dal beato Sigmund da Vienna laddove categorizza: “Wo Es war, soll Ich werden”, cioè al posto dell’Es è necessaria l’instaurazione dell’Io e, va da sé, del super-Io. Ed è la messa in mora della poiesis, la dichiarazione della sudditanza al discorso. Interviene insomma il potere, metaforizzato dal super-Io fallico nelle metastasi del dominio, che sono potere politico, potere religioso e potere di preparare e condurre la guerra.2. Dominio. Perché il dominio, per perdurare in ciascuna delle sue manifestazioni, ha bisogno di nemici che lo giustifichino. E non c’è differenza effettiva tra l’una delle metastasi in questione. Il potere politico si fonda e si replica in quello religioso e in quello bellico. E ciò fin dalla sua invenzione e introduzione nel mondo, risalente a circa quindicimila anni fa. E per la persistenza delle metastasi e dunque del Dominio stesso, è sempre indispensabile una forma o l’altra di mobilitazione. Necessaria per garantire il funzionamento degli stabilimenti industriali e degli uffici, perché occorre persuadere i dipendenti, operai o impiegati dell’opportunità di non opporsi alle rigide norme della produttività. Così, per riaffermare la fede dei credenti occorrono, certo, processioni, encicliche, corali, altre prediche e altre parafernalia, ma in primo luogo quella componente selettivamente mobilitatoria, persuasiva, che è la messa o il suo equivalente, la quale comporta l’inghiottimento del dio fatto particola o pane, di solito con accompagnamento del vino sacramentale riservato al sacerdote.In tutti i casi, la mobilitazione si basa sull’asserto che senza l’obbedienza ai superiori – manager, ministri del culto, gerarchie ecclesiastiche, comandanti militari – i nemici sempre in agguato (concorrenza nazionale e internazionale, crisi finanziarie causate da incompetenza o più spesso da malafede, eccetera) il sistema correrebbe seri pericoli. La funzionalità della mobilitazione si rivela, e anzi salta agli occhi anche di chi, operaio o impiegato, la vive o la subisce, sia pure in maniera meno palese, e anzi spesso senza che gli uni e gli altri si rendano conto della sua astanza. Ben più esplicita è la mobilitazione militare che riguarda tutti, intendo per tutti gli appartenenti alla Patria o alle strutture che parzialmente o totalmente l’hanno effettivamente o presuntamente vicariata. A questo punto, per i reggitori del sistema, padroni, uomini politici, dirigenti militari, si pone il problema, di fondamentalissima incidenza, consistente nel mascherare le esigenze e le pretese della patria o dei suoi equivalenti. Che hanno in comune i denti lunghi che sono un’eredità del cannibalismo degli antichi tempi e dei superstiti selvaggi.La Patria, voglio dire, imperversa, esige, pretende, impone – s ìenza proporre giustificazioni – il supremo sacrificio, considerandolo aprioristicamente un dovere al quale nessun mobilitato può sottrarsi. Con l’avvertenza che la preparazione alla guerra, che è perenne in tutti gli stati, non si traduce necessariamente nel richiamo immediato, urgente, alle armi. Ma è, ripeto e sottolineo, presente a tutti i livelli produttivi, persino alle attività di svago e riposo. Le quali sono appunto attività, dal momento che la consumazione esige la preventiva creazione dei mezzi, finanziari ma anche e soprattutto psicologici, che permettono lo spreco festoso. Quella che diciamo Patria, e quale che ne sia la struttura, è cannibale, pronta all’occorrenza a divorare i suoi figli, insensibile alle angosce e alle paure dei singoli mobilitati. La Patria-cannibale imperversa e a nulla serva implorare dal fondo di una trincea che si astenga dall’impiego e dall’essere il bersaglio di letali proiettili, razzi, gas tossici, assalti e distruttive manovre. La patria va però opportunamente mascherata, le sue pretese vanno attenuate, i suoi denti e le sue unghie limati. Non è bene inteso una giustificazione: è solo un sipario calato di fronte agli attori e spettatori. E lo si cala rendendo accettabile, addirittura affabile l’eventualità della morte che è lo scotto aprioristicamente imposto a chi si sia messo volontariamente o obbligatoriamente al suo servizio.3. La mobilitazione. Che, ripeto, ha luogo a tutti i livelli, compreso quelli scolastici, accademici, di produzione culturale e nell’ambito di tutte le attività economiche e produttive, comporta anche un’altra forma di persuasione, non meno importante, del richiamo del dovere verso la Madre, ed è la denigrazione sistematica del nemico. Occorre infatti che il nemico venga descritto come pericoloso, spietato, implacabile, proditorio, assetato di sangue, ma alla fin fine superabile dalle nostre armi e più ancora dal fegato e dal cuore dei nostri militi. Allo stesso modo il concorrente industriale, l’appartenente a un altro esercito produttivo che in ogni momento possa diventare ostile, sarà anch’esso necessariamente calunniato, fatto prescrittivamente oggetto di sospetto, deprecazione, finanche odio. Solo così la mobilitazione sarà effettiva ed efficace.L’operazione – odio del nemico – implica di necessità che il potenziale o attuale avversario, e in primo il nemico per antonomasia della società, il criminale comune o politico, giudicato, condannato e variamente isolato dal resto dei componenti la società mediante chiusura in carcere, detenzione in un campo di concentramento, esilio o internamento di altro genere, non sia oggetto di simpatie o anche solo di commiserazione. La punizione che gli viene inflitta deve essere pertanto resa nota, sottolineata, giustificata, spesso anzi proclamata. Il nemico interno della società deve essere cioè oggetto di disprezzo, deve essere calunniato, fatto segno di riprovazione e odio, esattamente come il nemico esterno. È quanto si è visto accadere nel caso dei campi di concentramento tedeschi, ma anche nei campi di lavoro, i gulag dei deportati sovietici. Nulla di nascosto: anzi, tutto dichiarato, esposto del ludibrio della parte “sana” delle popolazioni.4. L’Odio. Ma come si suscita ostilità e odio totale nei confronti del nemico esterno e ostilità e disprezzo di quello interno, il criminale comune o politico che sia? Va premesso che l’odio totale o l’odio temperato dal disprezzo, comunque l’ostilità, cresce – e si vuole appunto che accada – su se stessa. Una volta che il dominio sia riuscito ad avviare il meccanismo, di importanza fondamentale per al sua stessa sopravvivenza, chi se ne fa interprete o strumento andrà come alla scoperta di un continente, l’oscura, torbida regione della negatività. Io, l’odiatore, colui che ha fatto propria l’ostilità, divengo il mezzo per cui l’altro si è rivelato, si è attuato come oggetto della mia insopportabilità. Io, l’odiatore, sono l’arnese che serve ad attuare uno scopo specifico. Che è la dichiarata superiorità della mia parte – la patria o la parte sana della società. Scopro l’insopportabilità di ogni gesto, pensiero, azione del nemico dichiarato tale. Non posso – non devo – ignorare la presenza del nero accanto a me; buon cittadino di uno stato razzista, dovrò nutrire paura nei confronti dello zingaro; e, apertamente o meno, debitamente, desiderare di fargli del male, di perseguitarlo, di appenderlo a un ramo.E sono atteggiamenti emozionali in cui si riassume il desiderio di distruggere, o almeno di mettere in condizione di non nuocere, tutti i simili a lui, il nero o lo zingaro, cioè tutti quelli che stanno al di là, oltre la barricata: nei confronti dei quali, chiunque vi si trovi o corra il rischio di collocarvisi, l’odio dev’essere sempre pronto a scattare. E nell’odio, l’odiatore simboleggerà la volontà di affermare il proprio assoluto valore, la propria indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli è propria una indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli altri, oggetto prima del suo disprezzo (dal momento che la scuola dell’odio procede per crescenti fasi: disprezzo determinato dal fatto di detestare, via via, una, poi molte delle sue qualità) saranno al termine il bersaglio della negativa globalità dell’ostilità e dell’odio.5. Inutilità dell’Odio. Ma anche inutilità dell’odio. Per il fatto stesso di esistere, l’altro, l’odiato, costituisce un pericolo e una minaccia, ma l’odio non può sopprimere il fatto primordiale dell’esistenza altrui. L’odio è così minato da se stesso: non può impedire all’altro di rivelarsi quale presenza indispensabile. Qualcosa dell’altro mi sfugge sempre, o lo distruggo, e porto a compimento l’odio, ma in pari tempo nullifico l’odio (l’altro è esistito, l’altro fu una presenza: dell’altro aleggia il ricordo, i suoi occhi, il suo sguardo, la certezza che per questo spiraglio di luce che qualcosa mi è sfuggito) oppure gli do modo di crearsi una zona sua, non più grande di un’unghia ma imprendibile: l’odiato mi odia a sua volta, è me stesso in carne d’altri; e, a questa stregua, il mio odio non tocca il culmine, è un meccanismo che gira a vuoto. Con l’odio, la mia sconfitta è certa.Infatti, se odio faccio un ricorso come ultima istanza… che cosa mi resterebbe, che cosa ho concluso, una volta salito su un monte di cadaveri? La guerra – ogni guerra – finisce; poniamo che io, qualunque sia la nazione di mia appartenenza, abbia vinto, che guardiano di un campo di concentramento e di sterminio, abbia celebrato quella che allora è diventata la mia vittoria: ecco che mi ritrovo davanti a una folla di schiavi, che non ho più né scopo né ragione di odiare, dal momento che hanno cessato di costituire un pericolo. Ma riconquistare la propria integrità – ed è ciò che avviene al termine di ogni guerra, per quanto catastrofica sia stata – sarà tanto più difficile quanto più è avanzato il processo di decomposizione, di semplificazione, di riduzione: insomma, quanto più vasta è stata l’abiura alla mia umanità.6. Guerra. L’altra faccia della medaglia: guerra. Il problema, si è visto, è rappresentato dalle modalità usate per rendere il soldato invulnerabile alla pietà. Che il soldato possa diventare da semplice cittadino un carnefice, colui cioè che è incaricato di distruggere carne umana, è dimostrato dai campi di concentramento della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. I guardiani dei detenuti erano perlopiù SS che dopo aver combattuto su vari fronti, erano stati ritirati dal servizio attivo perché feriti o perché troppo usurati per venire impiegati in prima linea. Assurto alla figura di eroe, di collerico semidio incaricato di combattere e all’occorrenza eliminare, i nemici della “patria” e del sistema politico dominante: trasfigurato come tutti i guerrieri in incarnazione della violenza, dell’aldilà incontrollabile, l’SS ne reca addosso la maschera e il paludamento.Il soldato ridotto a stizzoso guardiano è anch’egli un masochista, anzi un sadomasochista. In quanto masochista, pronto a pagare uno scotto prima di commettere l’azione che sa o sospetta riprovevole. In quanto sadico, non è esattamente il beccaio: è un carnefice che deve riuscire a rendere masochista la vittima. Il suo proposito sarà dunque quello di escogitare tormenti tali da tappare la bocca del martire le cui lamentele lo irritano e incattiviscono. E martire e carnefice si vedranno così impegnati in un duello che non potrà, a un certo punto, non assumere l’apparenza della lealtà, dello scontro aperto, dichiaratamente senza esclusione di colpi. Col carnefice che dovrà, almeno con se stesso, ammettere la propria sconfitta, quando la vittima non si sia trasformata in oscurità rantolante, in annebbiamento e abiura, ma anche qualora il rantolo sia diventato irreversibilmente agonico.Supremo ideale del sadico: riuscire a trasformare l’altro in carne senza che costui cessi di essere strumento. Gli basta, per convincerlo di avere toccato la propria meta, l’implorazione della vittima? No, poiché anche nelle grida di terrore può celarsi la soperchieria. E l’atteggiamento del sadico, in questo caso soldato – carnefice, è dettato da volontà di potenza. Definizione che è una mera tautologia: resta da spiegare, infatti, il perché del gusto di dominare gli altri. E se il sadico questo impulso lo prova, è perché vede in esso la possibilità di avere la rivelazione dell’altro, – e di sé per riflesso – attraverso l’oppressione. Ma l’accettazione a cui l’altro si obbliga deve essere senza residui; e non basta neppure che la vittima rinneghi e abiuri, che strisci e urli. Occorre che quegli urli siano per così dire assoluti. In un certo senso, frutto di una libera scelta, e che tuttavia codesta scelta non lasci residui, ombre, ambiguità. La vittima dovrà interamente trasferirsi in quest’esito, senza avere più un secondo fine, soprattutto quello di convincere il sadico-carnefice di avere già pagato abbastanza e pertanto di persuaderlo a rinunciare alla continuazione della tortura. E allora?La tortura cessa: o la vittima è un freddo cadavere, o è tornata coscienza, astuzia, gioco, inganno. Il sadico-carnefice si sente defraudato nell’uno come nell’altro caso. Deve pertanto impedire che venga superata una linea di confine non oggettivamente determinabile, una soglia solo probabilisticamente fissabile. La sua è quindi la condanna alla tortura perenne: in ogni istante dovrà essere circondato almeno dagli emblemi del suo potere, e come un Dracula banchettare tra i cadaveri, o come i quattro signori delle Centoventi giornate di Sodoma, prescriversi un rigido rituale, un crescendo dell’orrore. Il sadismo diviene pertanto consumazione e autofagia: il sadismo perciò stesso si rifà al suo contrario, gli estremi finiscono per toccarsi. Il sadico può scoprire la possibilità che venga applicata a lui stesso l’impresa tentata a spese degli altri. Può allora accadere che il masochismo prevalga. Che il combattente veda, nel suo avversario, il nemico che dovrebbe odiare senza remissione, ed è ormai vano farlo; che scopra, nell’uomo dell’opposta trincea, il suo simile. Può accadere dunque che si verifichi un istante di empatia, quasi un ritorno a un’origine mai dimenticata, perché indimenticabile, un vuoto di memoria che può all’improvviso colmarsi. È accaduto tante volte, durante le stragi della prima e della seconda guerra mondiale.Può accadere, in qualunque guerra, che questa divenga ritualistica – che a prevalere sia la stanchezza e che ne derivi compassione per il nemico, e che dia luogo alla rassegnazione (di chi, sepolto nel rifugio, sperimenti, cieco, l’ossessione dei bombardamenti) e alla stanchezza dei disertori e addirittura degli ammutinati. Gli eserciti zaristi, nel 1917, proprio per questo si sono disfatti. È come se la vittima, anziché semplicemente soccombere – e pur restando condannata – sia entrata nel seno della sacralità. Che divenga intoccabile, ancorché si continui a toccarla, a disfarla. Si constata allora che il gioco dell’angoscia sia sempre lo stesso, angoscia fino alla morte, al sudore di sangue. E al di là della morte e della rovina, il superamento dell’angoscia, quello che ha popolato la terra di eroi e taumaturghi, di figli del sole e nati da vergini minacciati e invincibili come il sogno dell’uomo. Viene allora fatto di chiedersi: può allora l’uomo rinunciare ai sacrifici, concreti o simbolici? Può fare a meno di vittime a carnefici? Ed è legittimo il dubbio che anche tra i nostri progenitori paleolitici – e tra gli ultimi selvaggi – superstiti della civiltà – si desse e si dia la nostra stessa, attualissima suddivisione tra sofferenti e apportatori di sofferenza? In altre parole: l’uomo poteva allora, e può ancora, rinunciare all’angoscia? O l’angoscia è costitutiva dell’umanità?7. Beltran de Born. Dante lo incontra nel suo XXVIII dell’Inferno, ai versi 118 – 149. Nona Bolgia riservata ai seminatori di scandalo e scisma, e dunque «mali consiglieri». Dove i dannati girano perennemente tutt’attorno e vengono feriti di spada dal Diavolo. Le loro ferite si rimarginano prima che gli ripassino davanti. «Io vidi certo… / un busto senza capo andar…// e il capo tronco tenea per le chiome, / presol con mano a guisa di lanterna…». È Bertram de Born (per Dante, dal Bormio) trovatore (ca.1140-1215) signore del Castello di Hautefort tra il Périgord e il Limosino, coinvolto – si dice – in dispute feudali tra Francia e Inghilterra e suscitatore, forse, di discordia tra Enrico di Inghilterra e il padre, re Enrico II. Gli si devono una trentina di sirventesi in cui celebra le virtù cavalleresche, esalta la guerra come unica fonte di gloria, la morte in battaglia come liberazione dalle miserie terrene. La più celebre di tali composizioni è stata tradotta in toscano nel XV da un poeta di cui mi sfugge il nome. Dopo aver celebrato la primavera, la bella fioritura, i dolci canti degli uccelli, Bertram cambia di colpo registro: “Ma più mi piace veder per li prati alzar le tende e stendardi piantare. / E per i campi cavalieri andare. Tutti in ischieri su cavalli armati. / E piacemi se vedo scorridori, molti ed armati a tumulto venienti. / E piacemi se vedo inseguitori. Che fan fuggire con loro robe el genti. / Et ho allegrezza assai grande mirando. Forti castelli assaltati e crollare muri abbattuti / E le schiere ristare presso le fosse steccati innalzando”.Mi si farà notare che la guerra può eccitare con l’allucinazione del potere che conferisce, con la speranza di premi e ricompense, con la liceità di “perversioni” giudicate ammissibili e anzi consigliabili; e tuttavia potrebbe in ultima analisi esercitare un fascino solo per chi attribuisce scarso e nullo significato alla propria esistenza, e dunque per quelli che ci si ostina a chiamare «dannati della terra,» o a giovani incapaci di trovare una nobile ragione per vivere. Ma mi si farà anche notare che la guerra, ogni guerra, rappresenta la prosecuzione di un clima di festa, di messa in mora delle norme consuete. Di sospensione della separazione tra realtà e sogno, tra quotidianità e avventura. Né si mancherà di ricordarmi che la guerra è necrofila, in quanto esige dal combattente familiarità con la morte propria e altrui. Un fascino oscuro, quello esercitato dalla guerra: ma sono tutte considerazioni di accento negativo, laddove la celebrazione di Bertran de Born è una affermazione di vitalità spinta ai limiti.Gli è che la guerra ha una sua intrinseca bellezza, e lo comprovano i molti, celeberrimi dipinti di ogni secolo – a partire, facile notarlo, dal Neolitico, e più avanti dirò perché – i quali illustrano fatti d’armi, si tratti delle Termopili, della carica della cavalleria scozzese alla battaglia di Waterloo, o dell’enorme numero di film che continuano ad esaltarne l’importanza, la torbida bellezza, insomma l’incidenza enorme che le guerre, e soprattutto certe battaglie conclusive, hanno avuto e hanno sulle vicende sociali. Persino sulla delimitazione dei periodi che usiamo chiamare storici. L’Inghilterra è nata dalla conquista normanna del 1166. Cos’è dunque la guerra? Risposta di Karl von Clausewitz: «Limitiamoci alla sua essenza, il duello». Dove il grande teorico della guerra rischia la confusione tra violenza e guerra, come se fossero un’unica cosa. L’errore di Clausewitz è consistito nell’aver equiparato la guerra a un atto, o una serie di atti, istintuali. Quasi si trattasse di un litigio da osteria che finisca a coltellate.Ma la guerra non è l’istintuale. Non si guerreggia obbedendo a impulsi prerazionali. No, perché le guerra sono proprie, ed esclusivamente, di società gerarchiche, strutturate in piramidi formate da un vertice autorevole e da una successione di sudditi convinti all’obbedienza. Senza questa struttura, eminentemente razionale, e di ascendenza neolitica (e come tale furto dello stanziamento, della produzione agricola, dell’allevamento del bestiame, dell’invenzione della divinità, del dominio nella sua triplice articolazione, dell’invenzione della macchina, della proprietà privata – in una parola dell’epoca, appunto il Neolitico, di cui siamo gli eredi, e anzi i continuatori). Clausewitz, celebre autore del suo celeberrimo “Della guerra”, 1832-34, si è reso conto del suo errore. Dicendo che per il militare non esiste «la pace»: esiste solo la non-guerra, la tregua armata. E alludendo dunque alla perennità della mobilitazione continua a tutti i livelli della società e di conseguenza alla condanna del militarismo inteso quale politica che abbia a propria finalità e conclusione la guerra. Della politica, infatti, la guerra è, al più, la forma suprema, il culmine. E soltanto una politica stupida (e ne abbiamo avuto nel secolo scorso esempi clamorosi, Vietnam, Iraq, Afganistan…) si tramuta senz’altro in guerra, al di là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico.8. Meccanismo della Persuasione. Sì, perché esiste una tecnoscienza, ripetuta di generazione in generazione, della mobilitazione. Ed è quella che da altri, in particolare Clyde Miller, è stata chiamata Meccanismo della Persuasione. Né è certo una novità l’intervento di «persuasori occulti,» cioè di appelli all’irrazionale nella vita delle nazione: irrazionale camuffato, sia chiaro, da richiami ai principi di realtà. Elaborata da secoli a scopi mobilitatori, la propaganda politica nella fase attuale dello sviluppo civile ha investito la società in maniera un tempo sconosciuta. Le forme di propaganda rispecchiano i fondamenti economici della società che la usa, nonché gli intenti della sua classe dirigente; e, per ciò che riguarda le società odierne – tutte borghesi seppure con varie connotazioni, che siano o meno sottoposte al controllo di un partito unico – il modulo, l’insieme di tecniche impiegate allo scopo, è sempre lo stesso, che si tratti di agire nell’ambito della caserma o del supermercato, quale che sia la merce da indurre ad apprezzare, ad accettare, ad acquistare, formaggi o ideologie.Perché i problemi della persuasione si riducono a uno solo: sviluppare certi riflessi condizionati mediante ricorso a parole-chiave. A simboli-chiave, ad azioni-chiave. Il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, viene “precondizionato”, gli si stampa nel cervello l’elogio del prodotto in modo da escludere dubbi sulla sua assolutezza. Si tratta di agire programmaticamente su tutti i livelli dell’opinione, soprattutto a quelli consci o preconsci, (pregiudizi, terrori, credenze ancestrali, impulsi emotivi), applicando nei confronti del milite come del consumatore i ritrovati della ricerca motivazionale, dell’analisi delle motivazioni. Il prodotto – e l’ideologia – dovrà esercitare una suggestione sui sentimenti annidati nella psiche. Ma non si tratta di prassi inedite, inaspettatamente iniettate nelle vene della società borghese, anche se hanno assunto, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, un’estensione rilevantissima in concomitanza con l’espansione del mercato. E la cura costante per le esigenze psicologiche degli eserciti (fino a tempi recentissimi quelli di massa, oggi in apparenza composti da volontari salariati) ha avuto uno sviluppo parallelo a quello dell’economia di mercato. Il cliente, milite o compratore, dovrà innamorarsi del prodotto, a esso legarsi mediante una fedeltà irrazionale.Per quanto riguarda il compratore, il prodotto apparirà ( anche se in effetti contenga veleni), casalingo, puro, cortese, pulito, onesto, paziente. Nel caso dell’acquirente del prodotto patria, dovrà apparire virile, forte, potente, autoritario. Sempre il prodotto dovrà avere una personalità, la stessa della patria o dei suoi equivalenti. Si offrirà così al mobilitando un’illusione di razionalità, un pretesto con il quale nascondere a se stesso l’irrazionalità su cui si fa leva. L’estetica dell’arma, da lustrare e curare, l’arma che prolunga la personalità del combattente, kalascnicov o elicottero che sia, fa il paio con l’idea dell’automobile come mezzo di espressione dell’“aggressività” di chi la acquista. Importantissime, ai fini della mobilitazione, le parate militari, che altro non sono se non l’esposizione di certi prodotti sapientemente architettati, accuratamente designed, carri armati dall’aria cattiva, di fosco colore, dalle minacciose torrette, mostri scientifici e metafisici insieme; e velivoli senza pilota, invisibili, irrintracciabili in cielo, di invincibile pericolosità; caccia-bombardieri nei quali la funzionalità si sposi alla misteriosità, all’incomprensibilità per il profano, e la cui efficienza sia già rivelata dal fracasso che producono volando o decollando e dalle enigmatiche scie di condensazione. Se al consumatore del supermercato piace vedere una grande abbondanza di merci che lo sazia letteralmente e preventivamente, al milite piace la sensazione di essere in tanti che partono in missione, e la constatazione di disporre di tante armi, presuntamente efficientissime, che si aggiungono all’euforia tipica delle manifestazione di massa, soprattutto quelle patriottiche-militaristiche.9. Il Militarismo. Il Militarismo è l’esplicita o sottilmente insinuata finalizzazione della politica alla guerra proclamata come necessaria. E tale è stata dichiarata, a sua giustificazione, la guerra del Vietnam, come quelle successive. Noi viviamo così in società della paura (qualcuno può sempre e comunque sganciare la BOMBA). Ma l’oscuro fascino della guerra è lungi dall’essersi spento e anche solo eclissato, e sussiste pur sempre la possibilità di sottrarsi collettivamente al logos inteso come super-Io, e di abbandonarsi lontano dalla città con le sue forclusioni, a una sorta di stravolta empatia (o controempatia) con la rivelazione però, non dell’Alterità, bensì della Morte. L’ostilità è così calata dal cielo a funestare la terra – ogni lembo di terra abitato dalla civiltà, che è per definizione bianca, occidentale. Né chiamatela follia. Poiché quella che si usa definire follia – oppure psicosi o altri presunti equivalenti – è innanzi tutto condizione della poiesis.Ed è hybris, è dissoluzione del soggetto, rifiuto dell’obbligatoria felicità, contestazione della volgarità sotto forma del rappresentabile e rappresentato – pittura, teatro, danza, o dalla rappresentabilità della Logica del Tempo, della Logica dell’Inconscio, in nome dell’eccesso, dell’estremismo, dell’ekstasis, parola greca che può indicare l’uscita dai ceppi della ratio come assoluta egemone, ma dalla quale deriva, guarda caso essere, non esser-ci: voglio dire l’inattingibile Carne, mai matrugiata dalla carne, forse intravista – budella squarciate, sublime dolore, dal samurai che pratica il seppuku, – e forse per un istante raggiunga il fondo supremo della rivelazione, il simbolo palpabile dell’aldilà, della sua presenza in noi. Cosa non data al soldato, e tanto meno al cosiddetto eroe. E mai al soldato. Soldato che inesorabilmente scopre la sua propria miseria.(Francesco Saba Sardi, “Istituzione dell’ostilità”, dalla pagina Facebook di Giovanni Francesco Carpeoro, 14 aprile 2016. Scrittore, saggista e traduttore, eminente intellettuale italiano, ha tradotto i maggiori scrittori mondiali dell’800 e del ‘900, nel 1958 ha firmato “Il Natale ha 5000 anni” e, in un altro saggio, “Dominio”, edito nel 2004, ha tracciato una lucida analisi della natura autoritaria del potere che ha guidato la civilizzazione terrestre, dall’avvento del neolitico ai giorni nostri).1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico.
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Eco: morire è facile, appena scopri che il mondo è una truffa
Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: Maestro, come si può bene appressarsi alla morte? Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Allo stupore di Critone ho chiarito. Vedi, gli ho detto, come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimidi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abandonare questa valle di coglioni?Critone mi ha allora domandato: Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così? Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perchè qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione. Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) sino coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l’anellino all’orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il igorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media, le affermazioni degli artisti sicuri di sè, gli apoftegmi dei politici a ruota libera, i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travoltenge rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte. Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione, ti ostinerai a pensare che qualcuno dica cose sensate, che quel libro sia migliore di altri, che quel capopopolo voglia davvero il bene comune. E’ naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perchè varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perchè vale la pena (anzi, è splendido) morire. Critone mi ha allora detto: Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione. Vedi, gli ho detto, sei già sulla buona strada.(Umberto Eco, “Importante lezione per Critone”, dalla rubrica “La bustina di Minerva” su “L’Espresso” del 12 giugno 1997, ripreso da “Viewfromwesthill” il 14 giugno 2007).Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: Maestro, come si può bene appressarsi alla morte? Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Allo stupore di Critone ho chiarito. Vedi, gli ho detto, come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimidi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.
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Tolstoj: dopo il ballo, devi scegliere tra il bene e il male
Nel vastissimo opus letterario di Tolstoj, v’è un racconto, alquanto breve, scritto in età matura – nell’anno 1903 – dal titolo “Dopo il ballo”: poche mirabili pagine che sanno affrontare un tema importante quale la libera scelta che ognuno di noi deve operare rispetto alla violenza dell’uomo sull’uomo. Ad un consèsso di amici e conoscenti della buona società russa, la conversazione sfiora, prima leggera e distratta, poi d’un tratto più consapevole, argomenti quali l’origine del bene e del male. Il protagonista, il nobile e anziano Ivan Vasilievic, stimato e benvoluto da tutti i presenti, afferma che la sua vita cambiò nel volgere di una sola notte, e non per effetto dell’ambiente e delle condizioni di vita, ma per un unico avvenimento, del tutto casuale. Inevitabilmente, la sua affermazione perentoria e apodittica non manca di suscitare l’avida curiosità degli astanti, alla quale egli risponde raccontando il fatale episodio proveniente da un lontano passato.