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Morire di carne: stiamo letteralmente suicidando la Terra
Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».Attualmente, negli Stati Uniti, 157 milioni di tonnellate di cereali, legumi e proteine vegetali potenzialmente utilizzabili dall’uomo sono destinate alla zootecnia: è una produzione di 28 milioni di tonnellate di proteine animali che l’americano medio consuma in un anno, riassume Sabbadini su “Disinformazione.it”. «In tutto il mondo la domanda di cereali per la zootecnia continua a crescere perché le multinazionali cercano di capitalizzare sulla richiesta di carne proveniente dai paesi ricchi». Fra il 1950 e il 1985, gli anni boom dell’agricoltura, negli Stati Uniti e in Europa, due terzi dell’aumento di produzione di grano sono stati destinati alla fornitura di cereali d’allevamento, per lo più bovino. «E’ stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo», sostiene Sabbadini. «È importante tenere a mente che un acro di terra coltivato a cereali produce proteine in misura cinque volte maggiore rispetto ad un acro di terra destinato all’allevamento di carni; i legumi e le verdure possono produrne rispettivamente 10 e 15 volte tanto». Le grandi multinazionali producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano mattatoi, canali di marketing e distribuzione della carne: «Hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali».Purtroppo, la carne fa ancora tendenza: «La pubblicità e le campagne di vendita destinate ai paesi in via di sviluppo equiparano e associano all’allevamento di bovini nutriti a foraggio il prestigio di quel dato paese. Salire la “scala delle proteine” è diventato un simbolo di successo che assicura l’entrata in un club elitario di produttori che sono in cima alla catena alimentare mondiale». Il periodico americano “Farm Journal” riflette con queste parole i pregiudizi della comunità agro-industriale: «Incrementare e diversificare le forniture di carne sembra essere il primo passo di ogni paese in via di sviluppo». Iniziano tutti con l’allevamento di polli e con l’installazione di attrezzature per la produzione delle uova: è il modo più veloce ed economico che permette di produrre proteine non vegetali. «Poi, quando le loro economie lo permettono, salgono “la scala delle proteine” e spostano la loro produzione verso carne suina, latte, latticini, manzo nutrito al pascolo. Per poi arrivare, in alcuni casi, al manzo allevato con grano raffinato». Ma incoraggiare altri paesi a salire la “scala delle proteine”, avverte Sabbadini, promuove solo gli interessi degli agricoltori occidentali (americani soprattutto) e delle società agro-industriali.Molti paesi in via di sviluppo hanno iniziato a salire la “scala delle proteine” all’apice del boom agricolo, con molto grano in eccesso. Nel 1971 la Fao suggerì di passare al grano grezzo, che poteva essere consumato più facilmente dal bestiame. Il governo americano, prosegue “Disinformazione.it”, incoraggiò ulteriormente i suoi programmi di aiuti all’estero, collegando gli aiuti alimentari allo sviluppo sul mercato dei cereali foraggieri. «Società come la Ralston Purina e la Cargill hanno ricevuto finanziamenti governativi a basso tasso di interesse per la gestione di aziende avicole e l’uso di cereali foraggeri nei paesi in via di sviluppo, iniziando queste nazioni al viaggio che le avrebbe condotte verso la scala delle proteine. Molte nazioni hanno seguito il consiglio della Fao e si sono sforzate di rimanere in cima a questa scala». Risultato: «Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale di carne si è quintuplicata». E il passaggio dal cibo al mangime «continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame». Un caso emblematico? La crisi in Etiopia nel 1984, con migliaia di vittime denutrite. «L’opinione pubblica non era al corrente del fatto che in quel momento l’Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di panelli di lino, di semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia».Le statistiche sono sconcertanti: l’80% dei bambini che nel mondo soffrono la fame vive in paesi che di fatto generano un surplus alimentare prodotto sotto forma di mangime animale, di conseguenza utilizzato solo da consumatori benestanti. La corsa alla carne sta travolgendo i paesi in fase di sviluppo come la Cina, dove la quota di grano destinato alla zootecnia è triplicata. Nel solo Messico, dal 1960 ad oggi, la percentuale di grano da allevamento è cresciuta dal 5 al 45% per cento, mentre in Egitto è passata dal 3 al 31% e in Thailandia dall’uno al 30%. Ironia della sorte: «Milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo (attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete – malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali), mentre i poveri del Terzo Mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo». Le statistiche parlano chiaro, sottolinea Sabbadini: sarebbero 300.000 gli americani che ogni anno muoiono prematuramente a causa di problemi di sovrappeso, ed è un numero destinato ad aumentare. «Secondo gli esperti, nel giro di qualche anno, se continuano le attuali tendenze, sempre più americani moriranno prematuramente più per cause di obesità che per il fumo delle sigarette».Attualmente è sovrappeso il 61% degli americani, insieme a oltre la metà degli europei. La colpa, accusa l’Oms, è dell’hamburger. Gli obesi nel mondo sono il 18%, più o meno quanto gli individui denutriti. «Mentre i consumatori dei paesi ricchi letteralmente fagocitano se stessi fino alla morte, seguendo regimi alimentari carichi di grassi animali, nel resto del mondo circa 20 milioni di persone l’anno muoiono di fame e di malattie collegate». Secondo le stime, la fame cronica contribuisce al 60% delle morti infantili. Ma i consumatori di carne non sanno, né vogliono sapere. «I consumatori di carne dei paesi più ricchi – scrive Sabbadini – sono così lontani dal lato oscuro del circuito grano-carne che non sanno, né gli interessa sapere, in che modo le loro abitudini alimentari influiscano sulle vite di altri esseri umani e sulle scelte politiche di intere nazioni». Obiettivamente: «Chi mangia carne consuma le risorse della terra quattro volte di più di chi non lo fa». Ogni volta che si mangia una bistecca, aggiunge il blogger, «bisognerebbe essere consapevoli dei liquami che filtrano nelle falde acquifere, delle foreste disboscate, del deserto conseguente, dell’anidride carbonica e del metano che intrappolano il globo in una cappa calda. Ogni bistecca equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra».Bisognerebbe essere consapevoli anche delle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla fonte delle bistecche, non dimenticandosi «degli 840 milioni di persone che nel mondo hanno fame e dei 9 milioni che ne hanno tanta da morirne». Mangiare meno carne, o magari non mangiarne più? «Una scelta sociale, solidale con chi ha fame e con il futuro del pianeta». E non è tutto: «Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes, il raccoglitore di gomma assassinato dagli allevatori per una disputa sull’uso della foresta pluviale, per accorgersi dell’esistenza di una “bovino connection”». E ancora: «In Amazzonia la foresta pluviale è stata divorata da 15 milioni di ettari di pascolo, eppure è in questo habitat che dimora il 50% delle specie viventi e da qui deriva un quarto di tutti i farmaci che usiamo». Dove prima c’erano migliaia di varietà viventi ora ci sono solo mandrie.«Vacche ovunque», scrive Rifkin nel suo “Ecocidio”: «Attualmente il nostro pianeta è popolato da ben oltre un miliardo di bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone». Per farvi posto occorre terreno da pascolo. E deforestazione per creare pascoli significa desertificazione: dopo tre o quattro, il suolo calpestato e divorato da milioni di bovini (ogni capo libero ingurgita 400 chili di vegetazione al mese) finisce esposto a sole, piogge e vento, quindi diventa sterile. E i ruminanti si devono spostare dissacrando altri ettari di foresta. «Ci vorranno da 200 a mille anni perché quei terreno ritorni fertile». E che dire dell’acqua? «Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame: è stato calcolato che un chilo di manzo si beve 3.200 litri d’acqua». Risultato: le falde acquifere del Midwest e delle Grandi Pianure statunitensi si stanno esaurendo. Non solo: l’allevamento richiede ingenti quantità di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici: «Tutti prodotti dalle stesse, poche multinazionali che detengono il monopolio dei semi usati per coltivare cereali e legumi destinati ad alimentare il bestiame», fa notare Enrico Moriconi, veterinario e ambientalista, nelle pagine del suo “Le fabbriche degli animali” (Edizioni Cosmopolis).«Ogni anno in Europa gli animali da allevamento consumano 5.000 tonnellate di antibiotici, di cui 1.500 per favorirne la crescita, e tutti vanno a finire nelle falde acquifere», incalza Marinella Correggia, attivista della Global Hunger Alliance e autrice di “Addio alle carni” (Lav). Roberto Marchesini, docente di bioetica e zoo-antropologia, autore di “Post-human” (Bollati Boringhieri) svela che nel bacino del Po, ogni anno, «vengono riversate 190.000 tonnellate di deiezioni animali: contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni». Con quali conseguenze? Per esempio, le alghe abnormi nell’Adriatico. Marchesini parla di «fecalizzazione ambientale». E Rifkin ci illumina sulla portata del problema: un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno. «C’è dell’altro: i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero a causa dell’uso di petrolio (22 grammi per produrre un chilo di farina contro 193 per uno di carne), delle emissioni di metano dovute ai processi digestivi (60 milioni di tonnellate ogni anno) e dell’anidride carbonica scatenata dal disboscamento».E’ la stessa Fao a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della bio-diversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. E tutto questo per cosa? Per quelle che Frances Moore Lappé, autrice di “Diet for a small planet”, definisce «fabbriche di proteine alla rovescia». Occorre un chilo di proteine vegetali per avere 60 grammi di proteine animali. «Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie», spiegano gli autori di “Assalto al pianeta” (Bollati Boringhieri), «il manzo deve ricavare 5.000 calorie, il che vuoi dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50.000». Attenzione: «Solo un centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata, usata per il processo di conversione e per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano, come ossa o peli». Il bestiame? E’ una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta: quel 20% che sfrutta l’80% delle risorse mondiali, per non rinunciare alla sua bistecca quotidiana. «Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di alcuni», diceva Gandhi.Ingordigia che ha raggiunto livelli esorbitanti: dal dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo pro capite all’anno a 85-90 (110-120 negli States), riferisce Marchesini. Secondo Moore Lappé, le tonnellate di cereali e soia che nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri umani per un anno. E la Fao conferma: una dieta vegetariana mondiale potrebbe dar da mangiare a 6,2 miliardi di persone, mentre un’alimentazione che limiti la carne al 25% può sfamarne solo 3,2 miliardi. La spiacevole sorpresa? La domanda di carne sta crescendo. «Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali», scrive Sabbadini: «Stiamo esportando il nostro modello alimentare (e che modello!)». Secondo l’Ifpri, entro il 2020 la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali zootecnici: fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate di carne. «Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse». Una slavina inarrestabile, globalizzata. Si chiama: rivoluzione zootecnica. «Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne».La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l’industria dell’allevamento e della macellazione. «Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo a suon di bistecche e hamburger», scrive “Disinformazione.it”. «Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita deI 20% ogni dieci anni», prevede Rifkin, «si sta preparando una crisi alimentare planetaria». Rincara la dose Correggia: «E’ stato calcolato che l’impronta ecologica di una persona che mangia carne, cioè suo il consumo di risorse, di 4.000 metri quadrati di terreno, contro i mille sufficienti a un vegetariano». Allo stato attuale, «la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è di 2.700 metri quadrati». Ancora: un ettaro di terra a cereali per il bestiame dà 66 chili di proteine, che diventano 1.848 (28 volte di più!) se lo stesso terreno viene coltivato a soia. Ancora Rifkin: «Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate dì anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera».La nuova dimensione del male, ragiona Sabbadini, è intimamente connessa con il complesso bovino moderno, che ha acquisito i caratteri di un male occulto, inflitto a distanza: è un male camuffato da strati sovrapposti di veli tecnologici e istituzionali. «Un male cosi lontano, nel tempo e nel luogo, da chi lo commette e da chi lo subisce, da non lasciar sospettare o avvertire alcuna relazione causale». E’ un male che non può essere avvertito, data la sua natura impersonale. «E’ probabile che i proprietari dei negozi in cui si vende carne di bovini nutriti a cereali non avvertano mai, personalmente, la disperazione delle vittime della povertà, di quei milioni di famiglie allontanate dalla propria terra per fare spazio a coltivazioni di prodotti destinati esclusivamente all’esportazione. E che i ragazzi che divorano cheeseburger in un fast-food non siano consapevoli di quanta superficie di foresta pluviale sia stata abbattuta e bruciata per mettere a loro disposizione quel pasto». Il consumatore che acquista una bistecca al supermercato non si sente responsabile dell’immensità del dolore che il suo gesto provoca. «Abbiamo appiattito la ricchezza organica dell’esistenza, trasformando il mondo che ci circonda in astratte equazioni algebriche, statistiche e standard di performance economica».Il male occulto? Viene perpetuato da istituzioni e individui: il mercato, la globalizzazione del profitto. In un mondo di questo genere, conclude Sabbadini, ci sono ben poche occasioni per essere in sintonia con l’ambiente e proteggere i diritti delle future generazioni. «L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente, per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica». Primo passo necessario: «Diventare consapevoli dei meccanismi di sfruttamento del pianeta di cui siamo complici». Il secondo passo «non è fare la rivoluzione, e non è neanche aderire a questa o quest’altra organizzazione alternativa (per quanto possa essere positivo), ma è far seguire conseguenti e coerenti azioni personali in armonia con una vita etica e rispettosa dell’ambiente e del prossimo. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo iniziare da noi stessi».Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».
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Satanismo e potere, da Charles Manson a Michael Jackson
Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.Dall’infernale notte dell’estate ‘69, scrive Mazzucco su “Luogo Comune”, i media si sono impegnati in tutti i modi per trovare una valida motivazione a quella strage apparentemente insensata. Il meglio che sono riusciti a partorire? «E’ l’ipotesi che Manson volesse vendicarsi contro il proprietario della villa – il produttore discografico Terry Melcher – perché non aveva voluto pubblicare le sue canzoni (Manson era anche cantautore)». Potrebbe non essere affatto una falsa pista, sostiene Carpeoro ai microfoni di “Border Nights”, perché Manson voleva davvero diventare una rockstar e si era messo in contatto con Spector, che è attualmente in carcere per omicidio. Non solo: in tempi recenti, dalla prigione, Manson ha chiesto formalmente di incontrare Spector, che si è rifiutato di vederlo. In tanti anni – dice Carpeoro – pur professandosi innocente, Manson non ha mai osato raccontare quello che probabilmente sapeva, di quella notte maledetta: di cosa aveva paura? E perché tanta insistenza nel voler a tutti i costi incontrare Phil Spector, in carcere? Forse, ipotizza Carpeoro, Charles Manson era convinto che Spector custodisse un segreto indicibile, su quella notte che gli era costata l’ergastolo. Cos’era avvenuto, davvero, in quella villa di Bel Air a Los Angeles, al numero 10050 di Cielo Drive?Per l’avvocato Paolo Franceschetti, il caso Manson è la fotocopia di quello italiano delle “Bestie di Satana”. Stesso copione: assassini improbabili e indagini superficiali, nessun movente, niente prove (solo alcune confessioni) e niente armi del delitto. «La strage americana, eseguita con la micidiale competenza di un commando di killer, sarebbe stata commessa da un pugno di giovanissime, scalze e sbandate, strafatte di droga: l’accusa è fondata su indizi di cartapesta». Autore di analisi sui maggiori gialli irrisoliti della cronaca italiana come gli “omicidi rituali” (uno su tutti, il caso del Mostro di Firenze), Franceschetti inquadra gli indizi di una possibile pista esoterica: «Nessuno degli inquirenti nota alcuni particolari curiosi che, a tacer d’altro, avrebbero perlomeno dovuto insospettire». Roman Polanski, per esempio: «Al momento del delitto non era in casa, ma in Europa a promuovere il suo film appena terminato: “Rosemary’s Baby”. Il film parla di una donna che mette al mondo un bambino per consacrarlo a Satana (nel finale infatti la donna partorisce), e nel cast figura in veste di consulente nientemeno che il fondatore e leader della Chiesa di Satana, Anton La Vey, l’autore del libro “La Bibbia di Satana”. Il film era quindi qualcosa di più di un semplice film di fantasia». Nessuno, continua Franceschetti, notò che una delle vittime attribuite alla Manson Family si chiamava proprio Rosemary. Si tratta di Rosemary LaBianca, uccisa con 41 coltellate l’indomani, 11 agosto, a due passi dal luogo del primo eccidio.«Nonostante questa strana, troppo strana coincidenza, nessuno ipotizza neanche lontanamente un collegamento tra la promozione del film e le due stragi». E’ Carpeoro ad aggiungere un dettaglio fondamentale: «Fu proprio Phil Spector, il produttore dei Beatles, a organizzare il viaggio di Polanski in Europa per promuovere il film». Evidentemente, i due erano in strettissimo contatto. Quanto alla strage di Bel Air, Franceschetti ne esamina la simbologia: «Il delitto avviene infatti a Cielo Drive, ad opera di Manson (man-son, figlio dell’uomo, Cristo). In Cielo, quindi, Cristo uccide la Rosa» (per Franceschetti, l’allusione al fiore potrebbe essere una “firma”: la Rosa Rossa sarebbe un’associazione segreta, dedita agli omicidi rituali). «Manson, il Figlio dell’Uomo, vive nella Death Valley, la valle della morte. Vive cioè nel deserto, ed è senza fissa dimora proprio come – guarda tu che coincidenza – il Cristo dei Vangeli: Matteo 8, 20: “Le volpi hanno una tana, e gli uccelli hanno un nido, ma il figlio dell’uomo non ha un posto dove riposare”. Manco a dirlo, il primo poliziotto ad accorrere sul luogo del delitto si chiama Jerry De Rosa». Il corpo di Sharon Tate viene ritrovato legato a quello del suo giovane amante: «I sospetti sarebbero dovuti ricadere su Polanski, che alcuni considerano tutt’oggi uno dei mandanti della strage, ma nessun investigatore batte questa pista».Da ultimo, annota Franceschetti, c’è da segnalare che anche il nome della vittima più importante sembra non essere affatto casuale. Sharon, infatti, richiama il versetto biblico del Cantico dei Cantici: “Io sono la Rosa di Sharon, il Giglio delle Valli”, da cui è tratta la simbologia rosacrociana della rosa e del giglio. «In altre parole, una rappresentazione: in Cielo (Cielo Drive), il Figlio dell’Uomo (Manson), proveniente dalla Death Valley (Valle della Morte), uccide la Rosa». Se Franceschetti batte in solitaria la pista esoterica, quella del “sacrificio rituale” inscenato da poteri occulti, i giornali si affacciarono anche sull’ipotesi della vendetta, maturata nell’ambiente musicale: a ordinare la strage era stato Charles Manson, scrive la “Stampa”, solo perché le vittime «abitavano nella casa di un produttore discografico che aveva rifiutato di incidere le sue sconclusionate canzoni». Non è esatto, sostiene Carpeoro: è invece possibile che “qualcuno” abbia chiesto a Manson di mandare i suoi “ragazzi”, quella notte, in quella villa, dove la strage era già stata commessa da altri. Obiettivo: incastrare quei giovani, con le impronte digitali, per depistare le indagini? E magari ottenere in cambio, da Spector, l’agognata produzione del disco che Manson sognava?Per suffragare il suo ragionamento, Carpeoro rivela che Spector è stato un satanista: il testo della sua hit di maggior successo, “You’ve lost that lovin’ feeling” (cantata dai Righteous Brothers nel 1965) se ascoltato al contrario riproduce, pari pari, un antico rituale satanico. Di più: «La trrama del film “Rosemary’s Baby” è la storia, vera, della vita di Spector, che Polanski non avrebbe mai dovuto raccontare». Secondo Carpeoro era proprio Spector il bambino “consacrato al diavolo” da genitori satanisti: Sharon Tate sarebbe stata trucidata proprio per punire Polanski. Uccisa da chi? Non dai “fricchettoni” della Manson Family, ovviamente. «Il satanismo è un pericolo concreto», sostiene Carpeoro: «Arruola persone disposte a credere in qualcosa che non in esiste, ma che – in nome di quella cosa – possono anche uccidere». Attenzione: «E’ una delle manipolazioni di cui il potere si è spesso servito». Di cosa aveva paura, all’epoca, il potere? I Beatles, ad esempio – e Lennon in particolare – incarnavano il sentimento giovanile, anche politico, della rivolta contro il sistema. «Fu Spector a introdurre i Beatles all’Lsd», dichiara Carpeoro, «e la sua presenza finì col mettere i Beatles uno contro l’altro».Spector si fece avanti reclamando i diritti di molte canzonui dei Bealtes, che però gli furono negati: il produttiore litigò aspramente con John Lennon. Sciolti i Beatles, Lennon venne assassinato l’8 dicembre 1980 da un giovane fan, Mark David Chapman: una volta arresto, disse che aveva “obbedito alla voce del diavolo”. I diritti dei Beatles, continua Carpeoro, fuorono poi acquisiti da Michael Jackson, anche lui subito “assediato” da Spector perché gli cedesse i diritti dei “Fab Four”. Jackson fu poi ucciso da un’iniezione risultata letale, praticatagli dal dottor Conrad Murray. «Chi aveva presentato quel medico a Michael Jackson? Sempre lui, Phil Spector», aggiunge Carpeoro. E l’ombra dei Beatles – o meglio, della manipolazione che li riguarda – si allunga direttamente su Charles Manson. Ricorda Franceschetti, nella sua ricostruzione: «Secondo il procuratore Vincent Bugliosi, Manson voleva scatenare una rivolta dei neri contro i bianchi, e quella strage doveva dare il buon esempio, innescando la miccia di una rivolta globale. L’idea gli era stata suggerita da una canzone dei Beatles, “Helter Skelter”, e per questo motivo tale movente verrà anche, dai media ufficiali, individuato sinteticamente come “l’Helter Skelter”».Satanismo e rock, potere e politica? Una teoria «complicata, ma decisamente plausibile e sensata, vista specialmente l’epoca storica in cui si colloca», scrive Mazzucco. L’ipotesi è che Manson «fosse un prodotto di laboratorio della Cia, un “controllato mentale” del programma Mk-Ultra, che sarebbe stato utilizzato per gettare discredito sull’intera comunità hippie dell’epoca, e quindi per estensione sulla pericolosissima e rivoluzionaria filosofia dei “figli dei fiori”». Era l’estate del ‘69, l’anno di Woodstock, e i cosiddetti “figli dei fiori” «si stavano facendo conoscere a livello internazionale con una rivoluzione dei valori talmente radicale che certamente non poteva essere tollerata molto più a lungo dai membri dell’establishment politico di quell’epoca». Solo pochi mesi prima, infatti, era diventato presidente il conservatore Nixon. «Sarà un caso, ma i delitti Manson segnano proprio, nella storia, la fine della percezione positiva e pacifista del movimento hippie, e l’inizio di una connotazione negativa, caratterizzata dai valori antisociali professati dalla setta di Manson, che non avrebbe più abbandonato il movimento fino alla fine dei suoi giorni».In proposito, il procuratore Bugliosi (che fece condannare Manson e i suoi seguaci) ha scritto: «Il mantra di quell’epoca era pace, amore e condivisione. Prima del caso Manson la gente non aveva mai identificato gli hippie con la violenza. Poi arrivarono i membri della famiglia Manson, che avevano un’aria da hippie, ma erano criminali omicidi. E’ questo provocò uno shock in America. Come era possibile questo?». E ancora: «I delitti di Manson suonarono la campana a morto per gli hippie e per tutto quello che rappresentavano. Fu la fine di un’era. Gli anni ‘60, il decennio dell’amore, si consclusero quella notte del 9 agosto 1969». Che dite, chiosa Mazzucco: sarà stata solo una coincidenza? I presunti omicidi dell’Helter Skelter «da quella villa uscirono scalzi, per poi allontanarsi in autostop», ricorda Franceschetti. Satanismo e potere, avverte Carpeoro, possono coincidere: il primo viene usato dal secondo come copertura, come arma di distruzione. Finiti i Bealtes, eroi della rivoluzione giovanile di quegli anni. Assassinato John Lennon. Ucciso Michael Jackson, travolto da scandali (tutti inventati) dopo aver pubblicato il brano ribellista “They don’t care about us” (non gliene importa niente, di noi). E poi, ci sono quei due detenuti che non parlano: Manson che tace sulla notte della strage, Spector che si rifiuta di incontrarlo. Se qualcuno aveva paura che Manson parlasse, può rilassarsi: il caso è chiuso, Manson non parlerà più. Nemmeno con Spector.Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Italia sconfitta: non solo calcio, è il paese a non vincere più
«Personalmente vedo l’uscita dell’Italia dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.Stesso discorso per i mondiali pre-bellici, continua Dolcino, in cui «la crescita innescata dalle conquiste fasciste – prima di fare la follia di seguire Hitler – aveva dato nuova linfa alla speranza italica». La stessa “ratio” vale anche per il mondiale del 2006, quando l’Italia «era il darling europeo degli anglosassoni, con la proficua guerra in Iraq, mentre Germania e Francia arrancavano nel Vecchio Continente, incazzate con gli italiani troppo filo-Usa». Tutto sommato «anche per Italia ’90 si poteva vincere», visto che «l’economia italiana pre-Tangentopoli tirava alla grande». Dolcino ricorda anche «i trionfi sportivi del venerato Moro di Venezia figlio di Montedison, azienda poi svenduta ai francesi per via di una tangente pagata alla magistratura milanese». Agli sfortunati mondiali Usa 2000 «si poteva vincere sulle ali dell’illusione speranzosa – mal riposta – della scellerata entrata nell’euro». Oggi, invece, «l’Italia è letteralmente annichilita dallo schema che la Germania ha imposto attraverso l’euro, un piano per affossare il più grande alleato Usa non-anglosassone in Europa».Peggio: «L’Italia è prossima al fallimento economico». Nei piani franco-tedeschi «il prossimo anno arriverà la Troika per disporre degli asset nazionali più preziosi, in presenza di una classe politica nazionale non-eletta che, da 4 governi, fa gli interessi stranieri e non quelli italiani». Non poteva conoscere il risultato di Italia-Svezia, Dolcino, quando scriveva: «Pensate davvero che possa vincere i mondiali un paese al collasso, prossimo al fallimento, con l’Inps che deve attingere per oltre 100 miliardi di euro annui ai bilanci statali per non fallire?». Pensate davvero che possa farcela, un paese «con crescita del Pil nulla o quasi, con centinaia di migliaia di disperati che arrivano sulle coste», quelli che per la sinistra «saranno il futuro»? Questo è un paese «con le tasse più alte d’Europa per le imprese». In altre parole: così, non si va da nessuna parte (nemmeno ai mondiali di calcio, infatti). Il parallelo con il pallone è suggestivo e impietoso: «Il Milan del Cavaliere vinceva perchè l’economia tirava, perchè il Cavaliere fu un grande condottiero sportivo, perchè c’erano delle nicchie con enorme valore associato che permettevano al calcio italiano di eccellere».Oggi c’è qualcosa o qualcuno che eccelle in Italia? Voi direte, la Ferrari o qualcosa del genere. Vero, ma allora dovreste tifare Olanda, visto che la sede è là». Colpa delle delocalizzazioni? Certo, «imposte da tasse altissime, come conseguenza del rigore euro-imposto». La fuga delle aziende ormai ha lasciato «il deserto economico (e sociale)», vale a dire «un paese con bassi stipendi, dormitorio di vecchi, a forte emigrazione di italiani capaci e formati, serbatoio di manodopera a basso costo, con masse consumanti ma non risparmianti in quanto il valore aggiunto deve rimanere per forza oltre Gottardo. E tutto questo per preciso volere euro-tedesco». Come non far giungere il nostro sentito grazie agli ultimi quattro premier, tutti rigorosamente non-eletti? Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: grazie, «per non aver difeso il paese». Scriveva Dolcino, alla vigilia di Italia-Svezia: «Sappiate che non gioirò per l’eventuale mancata qualifica, spero anzi che l’Italia possa farcela. Ad ogni modo non tutto il male vien per nuocere: se la mancata qualifica potesse essere utile a farvi capire che l’Italia è davvero nella cacca fino al collo – al contrario di quello che i media cooptati al potere europeo vogliono farvi credere, per tenervi tranquilli – beh, questo sarebbe davvero un ottimo risultato. Meglio di una vittoria sportiva».Campane a morto per l’Italia: «Personalmente vedo l’uscita dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.
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Brucio, dunque esisto. Muoia la valle di Susa, Italia minore
Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.I padrini politici della Torino-Lione, prontamente definiti “sciacalli” dai NoTav, nei giorni del grande fuoco si sono subito fatti avanti, offrendo soldi come compensazione per i danni degli incendi. «No, grazie», rispondono i sindaci. «La prevenzione dagli incendi, come dalle alluvioni e dal dissesto geologico – scrive Sandro Plano, di Susa – dev’essere affrontata con specifici capitoli di spesa, indipendenti dal discorso relativo alla nuova linea ferroviaria». Vale per lo sviluppo economico, dalle strade alle infrastrutture culturali come i teatri: «Tutto ciò che nel resto d’Italia è definito “contributo pubblico”, qui è definito “compensazione”». In realtà, sottolinea Claudio Giorno, storico esponente del movimento NoTav, sarebbe incalcolabile il costo della compensazione per la valle di Susa, storicamente sacrificata sull’altare delle grandi opere che l’hanno sventrata, impoverita e anche prosciugata, alterandone l’habitat e il clima: e così oggi bastano tre mesi senza pioggia per innescare una catastrofe. «Di telecamere siamo invasi – scrive, sul suo blog – ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi, prima che qualcuno desse fuoco ai boschi, ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante».Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale idroelettrica in caverna, a Venaus, da parte dell’Enel e dei francesi di Edf, «che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del Duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando una montagna trasformata in cava di inerti». Un tempo la traversata del verdissimo valico del Moncenisio era chiamata “la Carrier du Paradis”, ma forse oggi «dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”», perché la “grande muraglia” della maxi-diga per il bacino dal quale oggi pescano l’acqua i Canadair è stata «la “nonna” di tutte le grandi opere in val di Susa». Un’inarrestabile brama di territorio e di acqua, fino al più recente, gigantesco impianto dell’Iren che, per alimentare Torino, ha svuotato la Dora Riparia da Oulx a Susa, riducendo il fiume a un rigagnolo. «Una follia costruire una diga alle spalle del centro di Susa tra versanti franosi, c’è il rischio-Vajont», disse inutilmente l’ingegner Floriano Villa, allora presidente dell’ordine dei geologi. Detto fatto: oggi quella diga incombe sull’abitato, ricordando ai valsusini che, da quelle parti, le decisioni del potere sembrano sempre surreali e imposte dall’alto, come nel feudalesimo.Il grande impianto “in caverna”, ricorda Claudio Giorno, ha mezzo disseccato anche il principale tributario della Dora, il torrente Cenischia, trasformando il paesaggio in un deserto asciutto, facile preda degli incendi, lungo un versante «che era già stato impoverito dagli anni ‘70 con lo scavo delle gallerie per il raddoppio delle ferrovia», e poi ancora fino agli anni ‘90 dallo scavo degli innumerevoli tunnel dell’autostrada del Fréjus, la A32. A quest’emorragia ora si aggiunge la mini-galleria di Chiomonte, teatro di aspre “battaglie” tra polizia e NoTav. Lungo 7 chilometri, quel “cunicolo” esplorativo «di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato», scrive Giorno, ricordando che nella peggiore delle ipotesi – l’eventuale tunnel Tav vero e proprio, lungo 57 chilometri – sarebbe impressionante (a detta degli stessi progettisti) la dispersione di acqua, «pari al fabbisogno di una città di un milione di abitanti». Intanto sono già centinaia le sorgenti disseccate: lo rivela uno studio del naturalista Paolo Ferrero, «che mostra la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dei cantieri delle grandi opere», attraverso delle slide «comprensibili persino da un politico di professione».L’Italia dell’euro-crisi avrebbe un disperato bisogno di opere pubbliche utili, per rilanciare l’economia, e invece continua a gettare soldi nel pozzo senza fondo di una maxi-opera completamente inutile e dannosa, pericolosa per l’ambiente, devastante sul piano della vivibilità urbanistica e addirittura letale sotto l’aspetto idrogeologico. Se mai quella sciagurata linea Tav si facesse davvero, scrive Luca Rastello di “Repubblica” nel saggio “Binario Morto”, la ferrovia dovrebbe bypassare Torino per allacciarsi alla rete nazionale Tav correndo in galleria a 30 metri di profondità, tagliando la falda idropotabile che alimenta la metropoli. Ma nulla sembra poter arrestare il sistema-Italia delle grandi opere inutili: la rete Tav è stata realizzata con largo impiego di aziende della mafia e della camorra, dice Ferdinando Imposimato, magistrato di lungo corso. Le grandi opere – spiega lo scrittore Massimo Carlotto – sono una macchina perfetta per riciclare denaro sporco: lo sa la mafia ma lo sanno anche le banche, in cui i soldi vengono depositati, e lo sanno i politici collegati alle banche.Il potere torinese della filiera Tav non trova di meglio che offrire soldi alla valle di Susa in fiamme, mentre l’Italia affonda nella crisi? Non un partito che s’impunti sulla scandalosa follia della Torino-Lione. «Se ne sento ancora parlare – si permise di scrivere il grande Giorgio Bocca – tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato nell’aprile del ‘45». Era il 2005, e lo scandalo era solo all’inizio. Sei anni dopo, si spinse in valle di Susa l’anziano Guido Ceronetti: visitò i cantieri, vide lo scempio di Chiomonte. Scrisse un memorabile reportage per “La Stampa” e, la sera, tenne una lettura di poesie, a Bussoleno, per i NoTav. In pagine altrettanto memorabili, Ceronetti ha svelato cosa c’è nella testa di un piromane: non solo l’isitinto perverso per la distruzione e l’inconfessabile piacere sadico di fronte all’estetica dell’apocalisse. C’è anche il senso del sacrilegio, della profanazione, dato che i boschi – dagli albori dell’umanità – sono sempre stati ritenuti sacri, vera e propria dimora degli déi. Ma se il piromane è una specie di psicopatico isolato, che dire di una politica specializzata in devastazioni su larga scala, freddamente progettate a dispetto di chiunque ne contesti il senso, la pericolosità e l’inevitabile eredità di morte?Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.
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Tino Aime, il timido maestro che ha fatto parlare l’invisibile
Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.Chi l’ha conosciuto ha potuto constatare la perfetta coincidenza tra l’opera e la vita: stessa capacità di dire tutto, con pochissimo, senza parlare quasi mai. Arte figurativa, in apparenza, ma con dentro le stimmate del vasto Novecento, il codice cifrato dei Sironi, dei Morandi. Le tele degli esordi raccontano periferie desolate, urbane, travolte dall’industria. Lo spirito del tempo: un carotaggio nel dolore, tra le macerie della guerra appena spentasi – tanto più vivo nell’artista giovanissimo, scampato con terrore (per due volte, da bambino) alle bombe degli alleati. Poi, però, Tino ha lasciato la città. Ha scelto la montagna, seguendo l’istinto: il ritorno alla terra magra degli antenati. E non ne ha fatto un’elegia, ma un cantico, riuscendo sempre a far vibrare l’aria. Schivo e ritroso, timidissimo, si è avventurato nel sua homeland che non ha confini, ha per frontiera solo il cielo. Niente alpinismo, nessuna cartolina. Terra vissuta, scura e primordiale, dentro un’archeologia di case diroccate, un’antropologia di assenze. Un viaggio nel silenzio, rischiarato dalla luna. Un’armonia di essenze indecifrabili e misteri, oltre il fraseggio elementare della geografia, dell’apparenza.Vedere quello che non c’è. Mostrare quel che c’è, ma non si vede. Una missione: condotta fino in fondo, per tutta la vita, come un dovere segreto, una promessa impossibile da estinguere. Tutto nasce da una strana confidenza, che avvicina all’invisibile. Narrazioni sottili, la finezza laconica dell’haiku. Ovunque espressa: nella solarità mediterranea del Ponente ligure, nei deserti spagnoli dell’Estremadura, nel bianco abbacinante dell’Andalusia. E tra le lande dell’amatissima Provenza dove Tino, ancora giovane, fu scelto – per elezione – dalla chiassosa banda dei gitani, il favoloso popolo migrante, alle prese coi festeggiamenti della loro regina, sulla spiaggia che ricorda il leggendario sbarco delle Marie venute dal mare, appena dopo il supplizio del Calvario. Tra i misteri di Tino Aime, il Battista cuneese, la passione con la quale – da laico irriducibile – ha offerto la sua arte alla simbologia spirituale, religiosa, con Cristi crocefissi – plastici, inteneriti – che adornano abbazie, chiese, cappelle di montagna.Si è spinto in Romania, tra le selve dei germani, nella laguna di Venezia – ricamando l’intarsio dei palazzi che si specchiano in un cielo d’acqua. Ma la sua vera casa è stata soprattutto la montagna piemontese, dalle natìe vallate d’Occitania fino alla patria di più recente acquisizione, la tormentata val di Susa, esplorata in profondità e fatta parlare in modo insospettabile, sciorinando storie e lingue sconosciute. Un’epica silente, che ricorda le cadenze di Neruda, l’attitudine domestica alla gioia, là dove non l’aspetti. Compaiono giganti, ma sono solo pettirossi, merli, ortensie. E tutto è misteriosamente sacro, in Tino Aime. Le sue notti incantate, i suoi inverni. L’impenetrabile splendore delle cose, recitato col cuore, rispondendo a una chiamata antica.Era anche amaro, a volte, il vecchio Tino. Scoraggiato, dalla barbarie incorreggibile del mondo. Siate onesti, ha mandato a dire – di recente – a una scolaresca di artisti in erba. E state in guardia: non fidatevi di quel che vi raccontano. Tino ha ascoltato tutti, ma poi ha sempre scelto in solitudine. Sapeva cosa fare, dove andare. Che verità evocare, sapendole tacere. Usava specchi, per incidere le lastre. Come Leonardo, conosceva l’arte del contrario – certo che il tutto, poi, si rivelasse alla distanza, senza strappi. Niente e nessuno in prima fila, mai, nel suo mosaico: parti dell’armonia, l’insieme risuonante. Amava lavorare a suon di musica, spesso sceglieva Bach. Ha frequentato – in buona compagnia, la sua – il gran paese da cui scendono silenzi e sogni. Quelli rimasti qui non svaniranno, grazie a lui.Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.
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Alberoni: Islam radicale? Recente, e prodotto dall’Occidente
Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere. L’arma letale della “guerra infinita” avviata dagli Usa l’11 settembre 2001 con il pretesto dell’attentato alle Torri Gemelle, e tuttora in corso, si basa sulla fabbricazione in vitro della “minaccia islamista”. Dopo decenni di brutale sfruttamento e selvaggia colonizzazione, oggi esistono masse arabe esasperate dagli abusi subiti. Ma, avverte il sociologo Francesco Alberoni, è stato l’Occidente a radicalizzare l’Islam, o meglio quella parte di Islam oggi utilizzata dalla strategia della tensione internazionale messa in piedi dal Deep State, il partito-ombra della “guerra infinita”. Per renderci conto dei rapporti fra Islam e Cristianesimo nei secoli, scrive Alberoni sul “Giornale”, è utilissimo il libro di uno scrittore inglese, William Dalrymple, “Dalla montagna sacra”. La montagna sacra è il monte Athos, da dove nel 587 partirono due monaci bizantini per visitare le ricche chiese e i fiorenti monasteri diffusi nell’Impero Bizantino, dall’Asia Minore alla Siria, fino all’Egitto. L’autore ha rifatto lo stesso viaggio oggi: rivisitando quelle zone, abbiamo un’idea delle fasi del processo di islamizzazione. Che non è affatto antico, né endogeno.«Il radicalismo islamico antioccidentale e anticristiano è recente», osserva Alberoni. «Gli eserciti del profeta e il governo dei califfi furono, nel complesso, tolleranti. Al suo apogeo, Baghdad era una stupenda città cosmopolita e multireligiosa». Gli imperi, aggiunge lo studioso, sono sempre multietnici e multireligiosi: «Solo con l’arrivo dei mongoli ci furono massacri e rovine. Che finirono quando sorse un nuovo impero, quello ottomano, dove le comunità cristiane e i monasteri poterono sopravvivere e qualche volta prosperare». La rovina, sottolinea Alberoni, è avvenuta alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando la nazione turca impose la purezza della razza turca e la religione islamica: «Vennero uccisi o cacciati i greci, sterminati gli armeni e annientato il resto». Di fatto, «la Turchia imitava l’Europa e voleva diventare europea ma ad un certo punto c’è stato un vero e proprio processo di rigetto dei valori dell’Occidente».L’integralismo, sostiene Alberoni, «nasce quando il mondo islamico subisce l’influenza occidentale ma intimamente si ribella e, quando si accorge di essere inferiore, vuol superarlo e sconfiggerlo facendo ritornare i paesi islamici alla purezza e alla potenza dell’epoca di Maometto e poi islamizzare l’Europa e il mondo». Per tutto il XX secolo, ricorda Alberoni, c’è stato un immenso movimento islamista, costituito da diverse ondate: in Pakistan e in Algeria, in Sudan, poi i Fratelli Musulmani in Egitto, i khomeinisti sciiti in Iran, i Talebani in Afghanistan, «con una profonda influenza sulla popolazione islamica». Fino alle recentissime propaggini terroristiche, completamente infiltrate e pilotate dall’intelligence occidentale: prima Al-Qaeda, ora l’Isis in Iraq e Siria, più Boko Haram in Nigeria. «Nelle zone dove sono avvenuti gli scontri con gli integralisti, le comunità cristiane sono finite, i cristiani morti o emigrati». Del passato, conclude Alberoni, restano solo le rovine: «Il viaggio di William Dalrymple mostra un immenso deserto culturale con pochi sopravvissuti spaventati».Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere. L’arma letale della “guerra infinita” avviata dagli Usa l’11 settembre 2001 con il pretesto dell’attentato alle Torri Gemelle, e tuttora in corso, si basa sulla fabbricazione in vitro della “minaccia islamista”. Dopo decenni di brutale sfruttamento e selvaggia colonizzazione, oggi esistono masse arabe esasperate dagli abusi subiti. Ma, avverte il sociologo Francesco Alberoni, è stato l’Occidente a radicalizzare l’Islam, o meglio quella parte di Islam oggi utilizzata dalla strategia della tensione internazionale messa in piedi dal Deep State, il partito-ombra della “guerra infinita”. Per renderci conto dei rapporti fra Islam e Cristianesimo nei secoli, scrive Alberoni sul “Giornale”, è utilissimo il libro di uno scrittore inglese, William Dalrymple, “Dalla montagna sacra”. La montagna sacra è il monte Athos, da dove nel 587 partirono due monaci bizantini per visitare le ricche chiese e i fiorenti monasteri diffusi nell’Impero Bizantino, dall’Asia Minore alla Siria, fino all’Egitto. L’autore ha rifatto lo stesso viaggio oggi: rivisitando quelle zone, abbiamo un’idea delle fasi del processo di islamizzazione. Che non è affatto antico, né endogeno.
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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.
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La Cina ricostruirà la Libia: colossali investimenti a Tobruk
“Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.Il primo ministro del governo di Tobruk, Abdullah Al-Thinni, in un’intervista all’emittente televisiva “Al-Hadath” riportata dal “Libya Herald”, ha dichiarato che l’ingente investimento, frutto di una cordata di investitori cinesi, dovrebbe portare al compimento delle opere in un periodo di soli tre anni, con un effettivo impatto sull’economia locale già nel breve periodo. Il progetto «potrebbe avere una significativa rilevanza anche per le relazioni commerciali libiche», scrive Francesca La Bella su “Nena News”, ricordando che dopo la caduta di Muhammar Gheddafi e l’inizio della guerra civile, sia le imprese sia i lavoratori cinesi impegnati in Libia lasciarono il paese e, negli anni successivi, il capitale cinese non riuscì a trovare canali d’accesso per il paese nordafricano. «Oggi, invece, in linea con un programma di penetrazione imponente in tutto il territorio africano, Pechino potrebbe dare nuova linfa alle relazioni commerciali sino-libiche». Di riflesso, questo rinnovato slancio economico della Cirenaica, unito al programma di esportazione del greggio dai porti della mezzaluna petrolifera, «renderebbe Tobruk sempre più centro nevralgico dell’economia del paese, con inevitabili ricadute dal punto di vista politico».La debolezza del governo Sarraj, aggiunge Francesca La Bella, si contrappone alla solidità e al radicamento delle forze di Tobruk. E i numerosi attori coinvolti nella contesa libica sembrano schierarsi sempre più a favore di una riconciliazione tra Tripoli e Tobruk per garantire la stabilità politica ed economica della Libia. Riflessi geopolitici: «A fronte di una produzione del petrolio in continua ascesa e di uno Stato Islamico in lento arretramento, la possibilità di una ripresa libica sembra essere ora plausibile». E se la Cina entra in campo gocando pesante, l’Occidente – che la Libia l’ha rasa al suolo – vede ora complicarsi le sue mire di rapina su quello che, con Gheddafi, per l’Onu era il primo paese, in Africa, per indice di sviluppo umano. «La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio», scrive Alberto Negri sul “Sole 24 Ore”. Il sottosuolo libico contiene il 38% del petrolio africano, pari all’11% dei consumi europei. «È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra».In questo momento, scrive Negri, a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione «conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare». L’Italia ha già perso in Libia 5 miliardi di commesse, aggiunge il “Sole”. «La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi». Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della banca centrale e del Fondo sovrano libico, che sta a Londra, «dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City». Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica – dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi – gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari. «Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica».E dire che i libici «hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela». Gli interessi occidentali, «mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio», quando cioè il presidente francese Nicolas Sarkozy «attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata», scrive ancora Neri. «Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total». Finti amici, gli occidentali, in realtà concorrenti-rivali. Su cui ora irrompe la Cina, con il suo piano – gigantesco, storico – per lo sviluppo del paese, a comiciare da Tobruk.“Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.
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Città deserte e nuove cattedrali, l’architettura della paura
Nel giorno di Pasqua ho fatto due passi ed ho attraversato il nuovo Portello, fermandomi a guardare bene la piazza dove sorge “Casa Milan” che ho attraversato di corsa molte altre volte: un quadro del De Chirico metafisico di “Piazze d’Italia”. Un deserto in cui non si vedeva un passante. Ed anche le vie intorno (comprese quelle dell’altra parte del Portello) ripetono lo stesso copione: niente figure umane, panchine vuote, non esiste passeggio se non per poche persone nel parco che porta alla montagnola. C’è una netta separazione fra la zona commerciale (una quarantina di negozi ed un paio di bar che “girano” intorno all’ipermercato, in uno spiazzo che è l’unico dove si affollano i passanti) e la zona “residenziale”, nei cui viali non ci sono assolutamente negozi ma solo palazzi di 10-15 piani, recintati da robuste cancellate, con portinerie presidiate da vigilantes ed ai cui garage si accede direttamente dall’esterno, con saracinesche telecomandate).Non si tratta solo di questa zona: quartierini del genere li ho visti in altre zone di Milano ed in altre città italiane e, navigando in internet, se ne vedono in molte altre città europee ed americane: è una tendenza precisa dell’architettura che intende garantire la “sicurezza” dei cittadini (ovviamente di quelli che hanno il denaro per permettersi una casa in questi complessi abitativi). L’abitante accede direttamente in auto nel garage videosorvegliato e, con l’ascensore, raggiunge direttamente il suo appartamento senza rischiare alcun incontro sgradito o pericoloso. Se vuol fare due passi ha il piccolo parco recintato e sorvegliato intorno al suo palazzo ed, ovviamente, non è incoraggiato a fare due passi per i viali che dividono i vari complessi abitativi, perché non c’è nulla oltre loro, non un negozio, non una vetrina, non un essere umano che passeggi. Quando, poi, vuol fare la spesa, non ha che da uscire in auto, accedere dalla strada al parcheggio del centro commerciale, ugualmente videosorvegliato e con vigilantes, salire con le scale mobili o il tapis roulant sino alla zona commerciale dove troverà i negozi ed un po’ di gente, nello spazio rigorosamente privato dove ci sono i tavolini di un paio di caffè.Anche qui il rischio di fare incontri pericolosi è risotto al minimo, quando anche tutti i posti di lavoro, gli asili nido e le scuole saranno muniti di parcheggio sotterraneo videosorvegliato e con vigilantes, con ascensore. La vita del nostro amico sarà solo un passaggio in auto da un luogo protetto all’altro. Evviva: è il trionfo della sicurezza! Unica cosa: peccato che descriva un modello di vita tanto simile ad una autoreclusione. D’altro canto, i grattacieli sempre più alti, con decine di piani e migliaia di appartamenti, si ispirano allo stesso principio securitario, con in più la funzione di “stupire”: i grattacieli sono le cattedrali del presente, le opere destinate a celebrare la potenza e lo sfarzo delle nuove signorie. Queste nuove cattedrali celebrano la diseguaglianza sociale, sono isole assediate di ricchezza nel mare della povertà , basti pensare al Brasile con i suo “ninos de la rua” che assediano i grandi complessi residenziali presidiati da guardie armate. Tutto questo esige la fine dell’auto-percezione del popolo ridotto a mero insieme di consumatori, nella migliore delle ipotesi, o a turba miserabile e brigantesca nella peggiore.Qui nella ancora opulenta (ma per quanto?) società europea quel che residua della socialità extradomestica è la piazza commerciale o (quel che fa lo stesso) quella del grande evento (concerto, partita o altro evento sportivo). Quello che muore è la piazza sociale, quella del mercatino rionale (destinato ad essere soppiantato dalla grande distribuzione, quella del parco libero, della strada, ma soprattutto scompare la “piazza politica”, quella dove il popolo si riconosce come tale, nelle sezioni di partito, nei cortei, nelle manifestazioni, ed anche nei disordini di piazza che ne esprimano la protesta. Alla perdita del luogo identitario del popolo-soggetto politico, viene offerto il surrogato della piazza virtuale, che, però, talvolta può funzionare come innesco di quella reale (vedi le primavere arabe). A scongiurare il rischio di nuove rivolte è diretta questa martellante campagna contro le idee di classe e di nazione, cioè le principali identità collettive e per l’atomizzazione individualistica del corpo sociale. Un progetto ben servito da queste tendenze dell’architettura.(Aldo Giannuli, “Architettura, la scomparsa della piazza e le nuove cattedrali”, dal blog di Giannuli del 6 aprile 2016).Nel giorno di Pasqua ho fatto due passi ed ho attraversato il nuovo Portello, fermandomi a guardare bene la piazza dove sorge “Casa Milan” che ho attraversato di corsa molte altre volte: un quadro del De Chirico metafisico di “Piazze d’Italia”. Un deserto in cui non si vedeva un passante. Ed anche le vie intorno (comprese quelle dell’altra parte del Portello) ripetono lo stesso copione: niente figure umane, panchine vuote, non esiste passeggio se non per poche persone nel parco che porta alla montagnola. C’è una netta separazione fra la zona commerciale (una quarantina di negozi ed un paio di bar che “girano” intorno all’ipermercato, in uno spiazzo che è l’unico dove si affollano i passanti) e la zona “residenziale”, nei cui viali non ci sono assolutamente negozi ma solo palazzi di 10-15 piani, recintati da robuste cancellate, con portinerie presidiate da vigilantes ed ai cui garage si accede direttamente dall’esterno, con saracinesche telecomandate).
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Campo di stelle, la ragazza e la cavalla con un occhio solo
La cavalla si chiama Isotta Raminga. Ha un occhio solo, ma vede lontanissimo. Il suo sguardo si allunga su quasi duemila chilometri, dalle Alpi a Finisterre, dove ha fatto il bagno nell’Atlantico insieme alla sua inseparabile compagna, Paola Giacomini, esperta di trekking estremi. Ragazza e cavalla, sole. Sella e taccuino, per annotare le tappe di un pellegrinaggio dell’anima, scoprendo giorno per giorno la poesia dell’andare, lo sgomento dei cieli infiniti, la durezza della fatica, la magia degli incontri lungo il sentiero. Tutto intorno, la geografia più remota del sud-ovest europeo. Era il 2006, un milione di anni fa. In Sicilia l’antimafia arrestava Provenzano, mentre in Cile moriva Pinochet, uno degli ultimi ruderi del ‘900. Il nuovo millennio già si dava da fare: Jack Dorsay lanciava Twitter, Julian Assange fondava Wikileaks. E ancora all’appello mancavano Lehman Brothers e Fukushima, Mario Draghi e la Troika, la macelleria della Grecia, Monti e Fornero, la fine di Gheddafi, la carneficina della Siria, il losco carnevale di sangue firmato Isis. Se il mondo è impazzito, chi può leggerlo meglio di un cavallo con un occhio solo?«Insensato cercare di assomigliargli, altrettanto insensato chiedergli di assomigliare a noi», scrive Paola di Isotta Raminga. Un cavallo puoi sempre domarlo, ma «è meno scontato conquistarne l’anima: per raggiungerla, occorre concedergli lo spazio per esprimerla, donargli la propria». L’anima, la grande assente del nostro desolato mainstream, desertificato dall’economia di regime, geopolitica e bellica. Il sistema, dice l’ex avvocato Paolo Franceschetti, autore del saggio “Le religioni”, ha letteralmente cancellato la spiritualità dal nostro paesaggio quotidiano, perché ne ha paura: guai, se sospettiamo che la realtà non si esaurisca nella narrazione che ci viene imposta. La pensa così anche Fausto Carotenuto, già analista strategico dell’intelligence, oggi impegnato nel network “Coscienze in rete”: sopra ogni altra cosa, sostiene Carotenuto, il “main-power” teme che ognuno di noi riconquisti l’accesso alla sua dimensione spirituale, la porta della coscienza. A Paola e Isotta è accaduto tanti anni fa: duemila chilometri di meditazione quotidiana, nel silenzio dei grandi spazi. Qualcosa che ti costringe a fare i conti con la vita, senza finzioni.“Campo di Stelle”, singolare diario di viaggio – geografico e interiore – è un esempio di rarissimo nitore espressivo, straordinariamente intenso e coinvolgente: ti porta esattamente là, sul sentiero di Isotta, fra le trepidazioni dei passi alpini e pirenaici, le premure quotidiane per il cibo, la scelta di dove accamparsi per la notte, le incognite del viaggio, le sorprese di un’umanità inattesa. Partire soli, con un cavallo, silenzioso compagno di viaggio. L’animale «catalizza le emozioni, riconosce prima del cavaliere la sua serenità o le sue paure e inquietudini. Se si impara a conoscerlo, si può scoprire un’anima molto più potente del corpo che la contiene». Perché, prima ancora del peso del cavaliere, «sostiene il suo spirito, chiedendogli di vivere in pace e di pensare a una cosa per volta». E se il cavaliere decide inspiegabilmente di lasciare, all’improvviso, il più meraviglioso di tutti i luoghi raggiunti, solo perché è ora di riprendere il viaggio, il cavallo «si stupisce di queste faccende degli uomini che, a volte, non riescono ad accontentarsi di un bel prato e di una fresca fonte».Isotta Raminga è un esemplare arabo-avelignese, sauro, dalla criniera bionda. E’ speciale, «perché sa uscire incolume dalle situazioni più difficili», le fiuta in anticipo, «diventa seria e concentrata». Cessato il pericolo, «torna disincantata e noncurante, come se nulla fosse successo». A volte è distratta: «Quando si annoia dimentica l’attenzione e si fa male». L’occhio lo perse a causa di un calcio, rimediato da un altro cavallo. «La cicatrice dell’occhio che ho dovuto far asportare era appena guarita quando siamo partite», racconta Paola. «Il giorno della partenza, Isotta assomigliava ad un mostro. In Francia il primo impatto con le persone era di ribrezzo; mi chiedevano se avesse fatto la guerra. In un certo senso siamo tutti in guerra. C’è chi le ferite le mostra all’esterno e chi le riporta all’interno». “Campo di stelle” insegna che non esiste cicatrice che non possa rimarginare. Ma bisogna trovare il coraggio di lasciarsi alle spalle ogni certezza.«L’ultimo addio a qualcuno a cui volevo bene è stato a Briançon», scrive Paola, valicato il Monginevro. «Sto cominciando un’avventura desiderata, eppure un nodo mi stringe la gola». Poi, prevale l’incanto degli elementi: «La notte scorsa, poco sopra il Col des Ayes, il cielo ha buttato giù la prima neve». Giorni e notti, a passo lentissimo: la valle della Durance fino a Sisteron, la Provenza, appunti e incontri. Davide, un maniscalco: «Mi ha chiamata mentre passavo sulla strada, come se mi stesse aspettando». E Yves, «un uomo dai modi aristocratici e dall’aspetto selvatico», che vive «nell’umido fondovalle di queste colline profumate di lavanda», scappato da Parigi nel ‘58, quando aveva diciassette anni. «Tante persone stanno realizzando un’idea al limite dell’utopia, con un’armonia che, senza vedere, è difficile immaginare». A Forcalquier, una tribù ospitale: «Il pane viene cotto nel forno a legna una volta la settimana, la cucina è in comune e l’enorme refettorio anche. Mangio con loro, sparecchio e guardo le stelle». Curiosità: «Il ragazzo che si occupa dei cavalli mi chiede cosa mi spinge a partire il mattino seguente. Si chiede se, secondo me, esiste un posto migliore di quello per fermarsi».Acqua e cibo, cartine, la pista più adatta. I deserti pietrosi della Drome, la discesa in Camargue: «Tori, cavalli e fenicotteri oltre recinti di filo spinato». Quindi il Rodano e nuovi silenzi, quelli delle Cevennes. Notti di tregenda: tuoni e lampi, grandine. «Stavolta Isotta è sconsolata e io sono nera come il cielo». L’indomani ricomincia a piovere. «Urlo una bestemmia. Forte. Mi vergogno subito. Dalla casa di fronte si apre una finestra e una signora nigeriana con un sorriso gigante mi chiede, in italiano, se sono italiana». La donna scende in strada in vestaglia, con un ombrellino rosa: «In un attimo sono con lei e la sua pecora in un grande prato recintato con una tettoia, dove metto ad asciugare tutto». Ragazza e cavalla visitano «terre rosse e pietre nere», sostano accanto a una casa dalle cui finestre arriva la musica di un violoncello: «Una pace enorme inonda la terra, quando cala la notte e mi infilo nel sacco a pelo. Grilli e cicale rimbalzano la loro musica. Spengo la luce in ascolto e mi addormento». Altri chilometri, altre lingue: «È la prima notte in Spagna. L’aria è tersa e l’assenza di paesi e di luna fa splendere le stelle all’infinito. Non ho montato il telo».A Roncisvalle, compare una coppia straordinaria. Lei di Strasburgo, lui italiano. Si sono conosciuti in Madagascar. «L’amore è una faccenda tremenda che fa volare e precipitare con la stessa velocità e la stessa dolcezza, senza controllo né previsioni. Ciò che immagini possa funzionare scricchiola, ciò da cui ti aspetti un disastro è una meraviglia». Un saluto e la marcia riprende. Altra beata solitudine: «Immersa nella pozza di acqua limpida, i nodi della stanchezza si sciolgono». In mezzo alle montagne iberiche, a Beldorado, Paola rimedia una camicia bianca che le viene offerta: «Non ho detto di no. Dopo mesi di bivacchi e vita all’aria aperta, sempre vicino a un cavallo, il più possibile lontano dalla civilizzazione, si può diventare dei veri selvaggi». Infine, l’Atlantico: «L’ultimo tramonto d’Europa a questa data e a questa latitudine è verso le dieci e mezza di sera, molto tardi. Il progetto è di raggiungere il Capo di Finisterre per vedere il sole tuffarsi nell’oceano proprio in quel momento lì».Mesi di viaggio, dalla valle di Susa a Santiago de Compostela: «Quest’avventura l’abbiamo vissuta in due: una persona e una cavalla. Quando siamo partite, io sapevo che avremmo viaggiato a lungo. Lei si è accorta solamente che una mattina siamo andate da un’altra parte, e ci siamo fermate a dormire lontano. Il giorno dopo non siamo tornate indietro, abbiamo continuato a camminare verso ovest». Ogni giorno il ritmo era lo stesso, ma i posti sempre nuovi. «Ogni giorno si incontravano altri cavalli e altre persone. Ogni giorno c’erano fieno, orzo e acqua con sapori diversi». Partire, morire, rinascere. Il senso iniziatico do ogni vero viaggio: «Tutto quello che c’è tra oriente e occidente è solo cammino. Partendo è tutto da inventare e tornando diventa quello che riesci a scoprire». Pensieri e sensazioni, in perfetta simbiosi con la cavalla: «Isotta ha saputo tradurmeli mentre comprendeva i miei errori, insegnandomi un linguaggio». Poi dicono che gli animali non abbiano il dono della parola. «Da sola non sarei stata capace di vedere certe cose». L’occhio di Isotta, il cuore della terra: «È stato un pellegrinaggio, non è ancora finito».(Il libro: Paola Giacomini, “Campo di stelle. A Santiago a cavallo”, pagine …. disponibile su Amazon a 15 euro).La cavalla si chiama Isotta Raminga. Ha un occhio solo, ma vede lontanissimo. Il suo sguardo si allunga su quasi duemila chilometri, dalle Alpi a Finisterre, dove ha fatto il bagno nell’Atlantico insieme alla sua inseparabile compagna, Paola Giacomini, esperta di trekking estremi. Ragazza e cavalla, sole. Sella e taccuino, per annotare le tappe di un pellegrinaggio dell’anima, scoprendo giorno per giorno la poesia dell’andare, lo sgomento dei cieli infiniti, la durezza della fatica, la magia degli incontri lungo il sentiero. Tutto intorno, la geografia più remota del sud-ovest europeo. Era il 2006, un milione di anni fa. In Sicilia l’antimafia arrestava Provenzano, mentre in Cile moriva Pinochet, uno degli ultimi ruderi del ‘900. Il nuovo millennio già si dava da fare: Jack Dorsay lanciava Twitter, Julian Assange fondava Wikileaks. E ancora all’appello mancavano Lehman Brothers e Fukushima, Mario Draghi e la Troika, la macelleria della Grecia, Monti e Fornero, la fine di Gheddafi, la carneficina della Siria, il losco carnevale di sangue firmato Isis. Se il mondo è impazzito, chi può leggerlo meglio di un cavallo con un occhio solo?
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Il mondo sta crollando, ma niente ferma il Tav in val Susa
Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.Il progetto Torino-Lione sembra uscito da un romanzo di Dino Buzzati: si misura essenzialmente con l’assurdo, in una dilatazione spazio-temporale che rasenta la metafisica, archiviate l’economia e l’ingegneria, la scienza dei trasporti, le cifre del mondo reale. Come se un oscuro potere imperiale, quello che assiepa soldati alla Fortezza Bastiani nell’attesa eterna nel Nemico, avesse provveduto con incrollabile fede a istruire minuziose, inarrestabili procedure per l’avanzata della Grande Opera: una ferrovia-doppione, costosissima e devastante. Una strada ferrata che resterà senza treni, per mancanza di passeggeri e di merci, e ridurrà a deserto pericoloso e tossico il territorio attraversato. Ma non hanno orecchie, i grandi decisori, per ascoltare le argomentate proteste gridate e scritte, in tonnellate di carta, da ingegneri e geologi, ambientalisti, trasportisti italiani ed europei, criminologi antimafia, sentinelle mobilitate contro la finanza-canaglia che mette insieme partiti e banche, malaffare, alta burocrazia europea, élite industriale e finanziaria. Quella talpa cieca, semplicemente, deve continuare a scavare nel debito pubblico italiano, trasformato in tragedia dalla perdita di sovranità monetaria.Resiste a tutto, il progetto Tav Torino-Lione. Era nato alla fine degli anni ‘80, in previsione del collasso dell’Urss, per collegare via terra tutta l’Europa, da Lisbona a Kiev, proseguendo la sua corsa (largamente onirica) fino a Pechino. Erano gli anni della Perestrojka, della caduta del Muro. Poi vennero gli anni ‘90, la sciagura invisibile di Maastricht, Berlusconi e l’Ulivo di Prodi, Mario Draghi e il Britannia, Padoa Schioppa, Ciampi. La crisi in Somalia, la guerra in Cecenia, la devastazione della Jugoslavia, il Kosovo. Bill Clinton, la pace tra Rabin e Arafat, l’omicidio di Rabin e quello di Arafat, la fine del Glass-Steagall Act decretata da Clinton e quindi l’avvento della super-finanza onnivora senza più freni, fino all’apocalisse della Lehman Brothers. Era in corso una guerra invisibile, ma in Italia e in Europa di respirava ancora un clima di pace sostanziale, di economia non ancora in lacrime. Poi, nel 2011, la catastrofe. La Troika, Monti, la legge Fornero, la mannaia dell’austerity, il collasso di decine di migliaia di aziende, l’esplosione della disoccupazione. Nulla, comunque, che potesse fermare gli uomini d’acciaio decisi ad azzannare le rocce di Chiomonte, sgomberando a forza gli ultimi ostinati manifestanti, insieme alle loro insopportabili ragioni, tristemente verificabili come odiose verità matematiche.Da lì in poi, l’Italia non ha fatto che sprofondare in un incubo, smarrite tutte le certezze sociali ed economiche dei decenni precedenti, tra negozi sprangati e cervelli in fuga, giovani di quarant’anni mantenuti da genitori e nonni, aziende chiuse, suicidi a catena, licenziamenti in massa. Un terremoto senza precedenti, dal 1945. Spazzate via tutte le coordinate convenzionali della vita repubblicana, le tutele del lavoro rottamate insieme alla Costituzione e al sogno di una legge elettorale democratica. E attorno, un assedio livido e minaccioso, dall’Ucraina alla Siria fino alla Libia e al massacro della Grecia, vivisezionata senza anestesia a mo’ avvertimento, per tutti. Strategia della tensione, a livello internazionale: bombe e stragi “false flag”, i finanziamenti occulti e l’esodo biblico dei profughi, il terrorismo sporco dell’Isis e gli attentati opachi di Parigi. Prospettive, zero: un giovane su due è senza lavoro. Ma, naturalmente, la talpa di Chiomonte non si ferma: scava un buco, nel futuro più cieco di tutti i tempi.La storica battaglia dei NoTav era nata e cresciuta in tempo di pace, reclamando diritti a portata di mano, fino all’altro ieri. L’ambiente, il territorio, la salute, la giustizia, la trasparenza, l’economia reale. Era un mondo dove sembrava esserci ancora spazio per discussioni ragionevoli, seduti allo stesso tavolo. Ora, non c’è più neppure il tavolo: niente intermediazioni né dialogo, nessuna possibile trattativa. Siamo al diktat del 3%, imposto del super-potere bancario per tagliare la spesa sociale, anche a costo di far crollare, di conseguenza, l’economia privata, l’occupazione e il gettito fiscale, con ripercussioni fatali sul debito. Ma non importa, stiamo entrando nell’era del Ttip. Lo Stato senza più moneta, che deve farsi approvare il bilancio a Bruxelles, non conta più niente e conterà ancora meno, quando a dettare legge saranno direttamente le multinazionali, coi tribunali speciali istituiti dal trattato Usa-Ue che sbaraccherà ogni residua sovranità nazionale e locale. Fine dei microcosmi che abbiamo abitato, per decenni, confidando nella possibilità di migliorare la situazione. I NoTav sono ancora là, in valle di Susa, con le loro bandiere. Ma tutt’intorno, l’Italia sembra non esserci più – a parte quel buco ostinato e sempre più surreale, in quest’Europa desolata dagli oligarchi.Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.