Archivio del Tag ‘deserto’
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Buttafuoco: scordatevi il Sud. E’ morto, finito, non esiste più
Giù al Sud delle classifiche – il calcolo proposto ogni anno da “Il Sole 24 Ore” lo conferma – è lo stare sotto tutti gli altri. A Sud di ogni Nord c’è tutto un gareggiare nell’arretrare tra Reggio Calabria e Caltanissetta per aggiudicarsi il fanalino di coda dell’azienda Italia mentre l’intero Mezzogiorno smotta sempre di più, di anno in anno, nell’irrilevanza sociale e culturale. Va giù il Sud e il Meridione – espunto dalla narrazione di Matteo Renzi – si conferma come il non luogo della politica. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando, sul “Corriere della Sera”, scolpisce questa chiara verità: «L’intera classe dirigente non sa cosa sia il Sud». Ha tentato una risposta d’ufficio un sottosegretario del governo in carica, Claudio De Vincenti ma, appunto, ha fatto come l’oste quando dice che il vino è buono. E’ giù il Sud. Chiunque venga adesso, qui – da dove sto scrivendo – in questo entroterra uguale ai tanti entroterra della vasta provincia meridionale, potrà rendersi conto di una sequenza inesorabile di urgenze: non c’è lavoro, non ci sono neppure più i negozi, l’artigianato è in mutande, gli imprenditori sono solo prenditori di quel che resta degli ultimi spiccioli del denaro di Stato e di giovani neppure l’ombra.Sarà un problema l’immigrazione degli altri ma qui – da dove sto scrivendo – si è tutti scappati di casa. E’ finito, il Sud. L’unica Fiat possibile – il pubblico impiego, la santa mano dell’assistenzialismo pidocchioso – è morta sotto i colpi del debito. Era un paesaggio di soli impiegati il Sud, si mangiava pesante a pranzo, si dormiva il pomeriggio ma le quote di assunzione negli enti si sono esaurite, chi si guardò e si salvò e adesso, per il parastato, per il parassitismo, per la pax sociale, è fi-ni-ta. Non c’è più verso neanche per la politica clientelare perché non è altro che un deserto il Sud, più giù di così – sia Nola o Lamezia, o anche Lampedusa – c’è il Maghreb dove la sabbia avvampa di guerra ma qui, da dove scrivo, il residuo blocco sociale dei trenta-cinquantenni residenti, finché dura potrà fare la cresta sulle pensioni dei propri vecchi, per il dopo, invece, ci sarà da pensarla qualcosa: forse come in Grecia, una legge per le unioni civili, visto che la sinistra – meritatamente in contrapposizione ai clientelismi – la butta in romanticismo in assenza di realismo?Forse non c’è più una pubblica opinione al Sud, forse c’è solo un’onda di generica voga sentimentale tutta di tarante e di eventi perché, certo, è il posto più bello del mondo il Sud. Se c’è cornice più consona all’impalpabile idea della “qualità della vita” altro luogo non può darsi che può che questo. Si torna sempre a Surriento ma si paga il prezzo di uno stupro, qui. Gli italiani non hanno saputo fare quello che i tedeschi hanno realizzato con l’unificazione della Germania e forse perché la Ddr era povera mentre, invece, qui, questo entroterra – da dove scrivo – era ricco e florido e lo sanno bene gli omini chiamati a custodire il deposito aurifero della Repubblica italiana: il 70 per cento dei lingotti ha lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Come ancora non ci siano i nuovi Vespri – la rivolta di popolo – non si sa. Come da Napoli in giù, come tutto il Sud, abbia ancora a muggire paziente è un mistero. E’ il non luogo, il Sud. Ed è finito.(Pietrangelo Buttafuoco, “Giù al Sud”, da “Il Fatto Quotidiano” del 28 dicembre 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Giù al Sud delle classifiche – il calcolo proposto ogni anno da “Il Sole 24 Ore” lo conferma – è lo stare sotto tutti gli altri. A Sud di ogni Nord c’è tutto un gareggiare nell’arretrare tra Reggio Calabria e Caltanissetta per aggiudicarsi il fanalino di coda dell’azienda Italia mentre l’intero Mezzogiorno smotta sempre di più, di anno in anno, nell’irrilevanza sociale e culturale. Va giù il Sud e il Meridione – espunto dalla narrazione di Matteo Renzi – si conferma come il non luogo della politica. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando, sul “Corriere della Sera”, scolpisce questa chiara verità: «L’intera classe dirigente non sa cosa sia il Sud». Ha tentato una risposta d’ufficio un sottosegretario del governo in carica, Claudio De Vincenti ma, appunto, ha fatto come l’oste quando dice che il vino è buono. E’ giù il Sud. Chiunque venga adesso, qui – da dove sto scrivendo – in questo entroterra uguale ai tanti entroterra della vasta provincia meridionale, potrà rendersi conto di una sequenza inesorabile di urgenze: non c’è lavoro, non ci sono neppure più i negozi, l’artigianato è in mutande, gli imprenditori sono solo prenditori di quel che resta degli ultimi spiccioli del denaro di Stato e di giovani neppure l’ombra.
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Giulietto Chiesa: è arrivata la bufera, a lungo annunciata
Alcuni mesi orsono, il giornalista e uomo politico Giulietto Chiesa ha pubblicato per i tipi di Piemme Edizioni il volume “E’ arrivata la bufera”. Quest’opera contiene la riproposizione del saggio intitolato “Invece della Catastrofe”, oltre ad un lungo articolo dedicato ai fatti parigini di inizio gennaio 2015, ovvero la strage presso la sede della redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. A distanza di un anno e mezzo dalla prima pubblicazione, “Invece della catastrofe” torna dunque a proporsi quale indispensabile strumento cognitivo della modernità. Va colta prima di tutto una peculiarità di questo scritto: esso è inchiesta giornalistica, analisi, e proposta politica, che si pone l’obiettivo di abbracciare e racchiudere nel proprio sguardo partecipe la realtà nella sua globalità. A differenza di altri pur brillanti scritti di questi anni, il libro di Chiesa coglie nel loro stretto legame fenomeni quali il profilarsi di una crisi irreversibile dell’eco-sistema, l’agonia degli stati-nazione sotto la scure del debito di proprietà delle banche, il mutamento antropologico dell’uomo occidentale avulso, disancorato dalla realtà e schiavo dei moderni mezzi di comunicazione, lo spirare di nuovi venti di guerra da ovest, da quegli Stati Uniti d’America che non sanno accettare la perdita del ruolo di superpotenza in un nuovo mondo multi-polare.
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Mentono e vi derubano ogni giorno, e voi gli credete ancora?
I dati forniti dall’Istat smentiscono l’interessato ottimismo sparso a piene mani dal premier Matteo Renzi e dal suo ministro del lavoro Giuliano Poletti. La disoccupazione, con buona pace del Jobs Act, continua ad aumentare, mentre la crescita resta un miraggio. Da quasi quattro anni, dall’arrivo cioè di Mario Monti sul trono d’Italia, i grandi media annunciano senza sosta l’imminente ripresa di un’Italia sempre più povera, stanca e sfiduciata. Chi di voi ricorda le promesse del professore di Varese, ridicolo fino al punto da ipotizzare un aumento del Pil prossimo al 10% in virtù delle famose liberalizzazioni riguardanti quattro tassisti e qualche farmacista? E chi di voi ha dimenticato il “piano giovani” varato da Enrichetto Letta, approvato in teoria per dare un futuro a generazioni intere senza speranze né prospettive? E come sarà possibile scordare in fretta le tante menzogne veicolate dell’attuale premier Matteo Renzi, degno successore dei vari Monti e Letta? Il gioco è semplice e scoperto: mentire, mentire e poi mentire ancora. Anche di fronte all’evidenza, anche a costo di sfidare la logica e di umiliare la verità e il buon senso.Mentire ad oltranza. Questo fanno i nostri governanti, etero-diretti dall’esterno dal ghigno malefico del Venerabile Maestro Mario Draghi, osannato dai servi di regime per avere varato un quantitative easing che serve solo per prolungare il più possibile l’agonia di questo mostro di Europa a trazione tecnocratica. Quando, e se, la cosiddetta pubblica opinione capirà di essere stata per anni raggirata e truffata, sarà oramai troppo tardi. Ma come può un uomo sano di mente credere che l’abolizione dei diritti possa avere un qualche effetto benefico sull’occupazione? Ma dove sono vissuti gli italiani negli ultimi venti anni, caratterizzati da un contestuale aumento di precarietà e disoccupazione? Ma come si fa a credere ancora che l’austerità serva per abbattere il debito, quando il debito di tutti i paesi dell’area euro è esploso proprio in virtù dell’applicazione cieca delle famose politiche del rigore? Come si fa a non capire che è in atto un progetto politico (definito “complotto” dai meno lucidi), gestito e supervisionato da una manipolo di burocrati illuminati, volto a regolare i conti una volta per tutte con le “masse plebee”?Non siete stanchi di sentire che la ripresa arriverà l’anno prossimo, e poi l’anno prossimo ancora? A nessuno sorge il dubbio che le famigerate “riforme strutturali” rappresentino poco più che un espediente retorico per giustificare la prosecuzione di una crisi in realtà voluta ed indotta? Non è dai tempi di Mani Pulite che il sistema di potere promuove senza sosta (destra o sinistra poco cambia) riforme destinate a colpire le pensioni, la rappresentanza democratica, i diritti dei lavoratori, il welfare e i salari? Non vi sono bastati venti anni di sbornia neoliberista, caratterizzati da una colossale svendita di Stato, per smascherare i trucchi usati da uomini senza scrupoli né morale? Resto sbigottito, incredulo e allibito. Noi del Movimento Roosevelt non ci stancheremo di dirvi che dalla crisi non usciremo mai fino a quando il popolo, per mezzo di rappresentanti democraticamente eletti, non intenderà riappropriarsi della sovranità che gli spetta.Bisogna riportare la Banca centrale sotto il controllo del potere politico per rifuggire dal continuo ricatto dei “fantomatici mercati”; bisogna varare su scala europea un piano per la piena occupazione al fine di rilanciare i consumi e ridare fiato alle imprese; bisogna rafforzare il welfare ed investire nella ricerca, e bisogna infine favorire la partecipazione dei cittadini nella formazione dei processi decisionali allargando e non comprimendo il perimetro democratico. Questo bisogna fare, avendo cura di coniugare libertà economica e interesse generale, giustizia sociale e meritocrazia. Ma bisogna farlo al più presto. Perché ogni giorno che passa i vari Draghi, Schaeuble, Hollande, Renzi e Merkel sradicano impunemente un albero dal nostro giardino. E se nessuno riuscirà a fermarli, in berve tempo il Vecchio Continente si trasformerà in un deserto di malinconia, rimpianto, cattiveria e depressione.(Francesco Maria Toscano, “Mentire sempre, comunque e a qualsiasi costo”, dal blog “Il Moralista” del 31 marzo 2015. Toscano è segretario del Movimento Roosevelt, co-fondato con Gioele Magaldi).I dati forniti dall’Istat smentiscono l’interessato ottimismo sparso a piene mani dal premier Matteo Renzi e dal suo ministro del lavoro Giuliano Poletti. La disoccupazione, con buona pace del Jobs Act, continua ad aumentare, mentre la crescita resta un miraggio. Da quasi quattro anni, dall’arrivo cioè di Mario Monti sul trono d’Italia, i grandi media annunciano senza sosta l’imminente ripresa di un’Italia sempre più povera, stanca e sfiduciata. Chi di voi ricorda le promesse del professore di Varese, ridicolo fino al punto da ipotizzare un aumento del Pil prossimo al 10% in virtù delle famose liberalizzazioni riguardanti quattro tassisti e qualche farmacista? E chi di voi ha dimenticato il “piano giovani” varato da Enrichetto Letta, approvato in teoria per dare un futuro a generazioni intere senza speranze né prospettive? E come sarà possibile scordare in fretta le tante menzogne veicolate dell’attuale premier Matteo Renzi, degno successore dei vari Monti e Letta? Il gioco è semplice e scoperto: mentire, mentire e poi mentire ancora. Anche di fronte all’evidenza, anche a costo di sfidare la logica e di umiliare la verità e il buon senso.
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Precari, classe esplosiva: spettro che si aggira per l’Europa
Uno spettro si aggira per l’Europa, quello del precariato: è clamoroso, sostiene Domenico Tambasco, che a mobilitarsi contro la propria cassa di previdenza siano addirittura gli avvocati, costretti a minimi contribuitivi che prescindono dai loro redditi. Difficoltà inedite, per una professione tradizionalmente prestigiosa, che ora denuncia «gravi forme di sfruttamento» veicolate «dalla finzione della partita Iva». E un clamoroso ribaltamento della tradizionale equazione democratica: non più “lavorare per avere reddito”, ma “avere reddito per poter lavorare”. Attenzione: «I giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure dal muratore disoccupato che lavora come piastrellista o falegname freelance». Per Tambasco, ora il re è nudo: la povertà minaccia anche professioni ieri rappresentate come “caste”, triturate anch’esse da un’élite che oggi «accumula, con voracità sempre maggiore, immani guadagni e privilegi». La maggioranza, al contrario, «non può che assistere con sempre maggiore frustrazione all’aumento dei debiti nel deserto dei diritti».I giovani avvocati e i giornalisti freelance non fanno parte dello stesso ceto dei titolari degli studi e dei loro direttori, ma ne sono gli schiavi. Lungi dal limitarsi a rivendicazioni corporative, scrive Tambasco su Megachip, la mobilitazione degli avvocati ha coinvolto anche giornalisti, parafarmacisti, architetti, ingegneri, segretari comunali e provinciali, geometri e archivisti. «Si tratta di una prima forma di mobilitazione di quello che è stato definito il “Quinto Stato”», ovvero «una mescolanza di situazioni sociali opposte e di culture del lavoro spesso divergenti, accomunate tuttavia dal fatto di rappresentare forme lavorative apparentemente “indipendenti”», eppure «ugualmente colpite dal tarlo della precarietà e della quasi totale assenza di strumenti di protezione sociale». Calano le tutele e le garanzie, e in più aumentano gli oneri contributivi verso le proprie casse previdenziali, inclusa l’Inps. Guai seri, poi, in caso di maternità, infortunio e disoccupazione, «con la prospettiva di pensioni che, se conosciute nel loro reale e miserrimo importo, porterebbero ad un vero e proprio “sommovimento sociale”, come dichiarò a suo tempo l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua».Dal precariato universale che sta dilagando, continua Tambasco, sembra emergere il prototipo di quella che Guy Standing ha definito la “classe esplosiva”, il precariato: è proprio lo strato cognitivo del precariato a dover prendere l’iniziativa. Si tratta di «persone istruite, precipitate in un’esistenza precaria dopo che era stato loro promesso l’esatto opposto: una brillante carriera fatta di crescita personale e soddisfazioni». In prima linea, i giovani lavoratori subordinati, «figli delle famiglie operaie vissute nel sogno della stabilità e della mobilità sociale» e oggi affogati nel mare di una precarietà «vissuta come deprivazione», relativa «ad un passato reale o immaginario». E’ dunque la precarietà, sintetizza Tambasco, «il codice genetico di queste nascenti “coalizioni sociali”». E’ il cardine attorno a cui ruota l’azione dei lavoratori precari da sempre o precipitati nella precarietà dalle “riforme” come il Jobs Act, che fanno esplodere la flessibilità, cioè il “lato oscuro” del neoliberismo globalizzatore, sfruttatore, delocalizzatore. Conseguenze: mercificazione del lavoro, erosione dei salari, insicurezza sociale ed esistenziale.«L’azione di contrasto di questi movimenti – scrive Tambasco – sembra indirizzarsi verso la critica all’ormai invalsa teoria mercatista del lavoro come bene liberamente scambiabile sul mercato indipendentemente dal “valore” dell’uomo che lo presta, all’assioma del lavoro-merce il cui prezzo e la cui quantità è liberamente determinata dalla legge della domanda e dell’offerta cui seguirebbe, conseguentemente, la libera fluttuazione del salario rimessa alla contrattazione individuale, la libera licenziabilità ai fini dell’adeguamento della “forza-lavoro” alle contingenti esigenze del mercato e la libera gestione del “capitale-umano”, demansionabile ad libitum in ragione di semplici “modifiche degli assetti organizzativi aziendali”». Una critica «espressa nella severa denuncia del “lavoro povero”, ossimoro che evidenzia un altro aspetto della precarietà, cui si rivolgono questi movimenti nella loro richiesta di retribuzioni “degne”, adeguate ad un’esistenza libera e dignitosa», non certo costretta ad “avere reddito per lavorare”. Milioni di lavoratori sono finiti nella “società del rischio”, espressione che sintetizza «l’impossibilità di programmare la propria esistenza individuale e familiare a causa dell’instabilità del presente». Come nel medioevo, «ogni minimo imprevisto può ridurre chiunque in rovina». La mobilità sociale? «Orientata dall’alto verso il basso».Decenni orsono, Karl Polanyi prefigurò la nascita di contromovimenti sociali orientati al ripristino dei meccanismi di protezione sociale «dell’uomo in quanto lavoratore, in quanto individuo sociale», collocato «in un ambiente dalle risorse esauribili». Da queste istanze, conclude Tambasco, derivano le nuove richieste di “correttivi solidaristici al sistema contributivo”, di “pensione minima di cittadinanza”, di “estensione universale del welfare” per malattia, maternità, ammortizzatori sociali. E poi “reddito di base”, aliquote contributive sostenibili, restituzione del valore al lavoro. «Quello che sta accadendo in questi mesi in Italia, tra sorrisi sprezzanti, post sarcastici e tweet sardonici, è il fisiologico accumulo di pressioni e spinte sociali provenienti dalla frontiera su cui si sta combattendo la “guerra del lavoro”: è il preannuncio della possibile esplosione, nella generale indifferenza, della “classe esplosiva”».Uno spettro si aggira per l’Europa, quello del precariato: è clamoroso, sostiene Domenico Tambasco, che a mobilitarsi contro la propria cassa di previdenza siano addirittura gli avvocati, costretti a minimi contribuitivi che prescindono dai loro redditi. Difficoltà inedite, per una professione tradizionalmente prestigiosa, che ora denuncia «gravi forme di sfruttamento» veicolate «dalla finzione della partita Iva». E un clamoroso ribaltamento della tradizionale equazione democratica: non più “lavorare per avere reddito”, ma “avere reddito per poter lavorare”. Attenzione: «I giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure dal muratore disoccupato che lavora come piastrellista o falegname freelance». Per Tambasco, ora il re è nudo: la povertà minaccia anche professioni ieri rappresentate come “caste”, triturate anch’esse da un’élite che oggi «accumula, con voracità sempre maggiore, immani guadagni e privilegi». La maggioranza, al contrario, «non può che assistere con sempre maggiore frustrazione all’aumento dei debiti nel deserto dei diritti».
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Landini e l’inutile difesa di questo lavoro novecentesco
Maurizio Landini si batte come un leone, bisogna ammetterlo. Con capacità e convinzione. E con efficacia mediatica fuori dal comune. Non come la moscissima Camusso, praticamente incapace di suscitare la benché minima scintilla in chicchessia tanto in piazza quanto, soprattutto, in televisione. Landini invece il suo mestiere lo sa fare benissimo. Il punto è che si tratta di un mestiere in rottamazione, tanto quello del lavoratore. Che quasi non c’è più. Beninteso, la Fiom riguarda i metalmeccanici, e il suo primo esponente fa il suo mestiere, sempre attento a non sgarrare di un millimetro rispetto al suo mandato (anche se sono in molti, ad augurarselo, nella classe lavoratrice, sperando in quel “Partito Landini” di cui si parla sempre più insistentemente). La difesa dei metalmeccanici da parte della Fiom è certamente più evidente rispetto a quella dei sindacati di qualsiasi altro settore lavorativo. E Landini si guarda bene, come è giusto che sia, dal far percepire con nettezza il successivo passo politico che pure molti si aspettano.Senonché ad ascoltarlo, cercando di ragionare più a fondo del particolare nel pure quale si cimenta, si è facilmente preda dello sconforto. Perché se da una parte ci sono le sacrosante rivendicazioni degli operai, e dall’altra quelle rapaci delle industrie che delocalizzano e riducono la forza lavoro per aumentare i profitti e i dividendi degli azionisti, sopra ogni altra cosa è con il mondo che ci troviamo di fronte che tanto gli uni quanto gli altri si devono confrontare. E quel mondo ci dice – da tempo – che è proprio il lavoro a essere agli sgoccioli. Soprattutto quel lavoro manuale che appare oggi la contesa della scontro. È almeno un decennio ormai che le “fabbriche” non producono utili in modo persistente, che i lavoratori vengono emarginati e resi più poveri e che la spirale discendente di quel sistema, in altri tempi si sarebbe detto del fordismo, si avvita sempre più indistricabilmente su se stessa.Oggi dove ci sono i macchinari, gli investimenti materiali e la necessità della forza lavoro ci sono i debiti. Dove nel business regna il virtuale e la finanza, dunque nulla di materiale, ci sono gli utili. Tanto che gli imprenditori che possono, quanto meno, diversificano i propri settori di intervento smantellando il più possibile il regno materiale per lanciarsi nella speculazione di quello virtuale. Così da una parte abbiamo governi (e quello di Renzi ne è un fulgido esempio) che operano per facilitare tale smantellamento, e dall’altra i lavoratori di una classe in via di estinzione che combattono per perdere meno terreno possibile, ma sopra a tutto c’è l’inesorabile cambiamento del mondo del lavoro e della produzione nel suo complesso che non lascia scampo a battaglie di sorta. Perché il risultato finale è già scritto nella pietra. Per intenderci: non è licenziando i lavoratori che si può indurre le fabbriche a produrre di più e non è lottando per tenere un posto di lavoro in più che si può arginare l’emorragia di senso e il funzionamento di una società dei consumi in decadenza irreversibile.Naturalmente è superfluo sottolineare che una società che licenzia e precarizza pone le basi per la sua assoluta impossibilità di riprendere a funzionare, altro che ripresa. Il labirinto di inutilità all’interno del quale si muove l’attuale diatriba sul lavoro ha come unico effetto, pertanto, quello di non lasciare tempo né spazio mentale per cercare di immaginare come potrebbe essere quella “nuova società”, quel “nuovo paradigma” che è invece indispensabile inventare, tentare, sperimentare e promuovere. Così il tutto si risolve in una classe lavoratrice asserragliata in trincea, la quale perde terreno passo passo inesorabilmente, e la classe imprenditoriale di vecchio stampo che avanza: sul deserto. Perché se è vero che i lavoratori diventano sempre più schiavi, è vero altresì che qualunque industriale i suoi prodotti, realizzati a costi inferiori quanto si vuole, con lavoratori-schiavi quanto si riesce, a qualcuno dovrà pur venderli, poi. E vendere nel deserto non è certo possibile.Landini, per tornare a chi più di altri appare in grado di proporre qualcosa che valga la pena di essere ascoltata, ci prova. Ma in una direzione che non porta da nessuna parte. Perché posto che il sistema della merce è agli sgoccioli, di lavoro, di occupazioni, la nostra società ha e avrà comunque bisogno. Ed è di nuovi lavori, di nuove occupazioni (cioè di una nuova società) che è indispensabile discutere, non di come trattenere i lavoratori all’interno di un sistema che ha già ampiamente dimostrato di non riuscire più a funzionare. Un solo esempio: che senso ha continuare a lottare per 200 o 500 posti di lavoro in più o in meno in una fabbrica di automobili che nessuno vuole più e neanche riesce a comperare ove ancora le volesse? Non sarebbe forse il caso di lottare affinché gli stabilimenti che una volta producevano automobili oggi si convertano nel produrre qualcosa di cui oggi c’è (e ci sarà) effettivo bisogno?Di materia e di oggetti, di meccanismi e di tecnologia, a meno di ritornare all’età della pietra, nel mondo ci sarà sempre bisogno. Anche Leonardo era ingegnere e meccanico. Il punto è capire su quale settore valga la pena puntare. Quale sia necessario portare avanti. Quale sia indispensabile inventare del tutto. E quale vada abbandonato. Non è di un nuovo modello di automobile che abbiamo bisogno. O di un nuovo telefonino o di un televisore a 4 o 5D, ma di servizi e opere che magari puntino al recupero, alla messa in sicurezza dell’esistente, alla riduzione dei consumi, degli sprechi e degli scarti. Non abbiamo bisogno di aggrapparci all’ultima catena di montaggio che produce marmitte per automobili che poi restano invendute. Bisognerebbe riconvertire i lavoratori in occupazioni delle quali c’è realmente bisogno. Solo al caso italiano abbiamo un paese che crolla pezzo a pezzo dal punto di vista idrogeologico, abbiamo un paese che cade in frantumi dal punto di vista urbanistico e che dipende energeticamente dagli altri. E che accumula scorie che nessuno ha ancora trovato il modo di eliminare e soprattutto di non produrre.È un paese, il nostro, che potrebbe sopravvivere quasi solo di vento e di sole, e di turismo quasi in ogni borgo. E allora è nell’energia che non produce scorie che le “industrie” dovrebbero investire, e nelle tecnologie che potrebbero usufruirne. È nel ripristino di strade e collegamenti per far raggiungere ai turisti i posti più incantevoli (disseminati ovunque) che si dovrebbe puntare. Non esiste quasi altro paese al mondo dove vi sia una così alta concentrazione di paesaggi, di cultura, di storia, dove vi sia clima tanto favorevole e cultura alimentare che tutto il mondo ci invidiano, dove in luogo di puntare ancora a testa bassa al mondo delle merci sia invece possibile virare decisamente verso un futuro con meno oggetti ma con più servizi funzionanti, con più bellezza, con più benessere. Non parliamo naturalmente di cementificazione, quanto di riqualificazione dell’esistente. Che è enorme e ha altissimo valore. Attraverso il quale fare dell’ospitalità e del buon vivere la occupazione non alienante, non inquinante e non distruttiva per dare un lavoro a tutti. Ma questo necessita di visione, di prospettiva e di volontà. Tutti aspetti dei quali la nostra classe di intellettuali, di imprenditori e di politici appare del tutto priva.(Valerio Lo Monaco, “Quell’inutile difesa di questo lavoro novecentesco”, da “Il Ribelle” del 28 ottobre 2014).Maurizio Landini si batte come un leone, bisogna ammetterlo. Con capacità e convinzione. E con efficacia mediatica fuori dal comune. Non come la moscissima Camusso, praticamente incapace di suscitare la benché minima scintilla in chicchessia tanto in piazza quanto, soprattutto, in televisione. Landini invece il suo mestiere lo sa fare benissimo. Il punto è che si tratta di un mestiere in rottamazione, tanto quello del lavoratore. Che quasi non c’è più. Beninteso, la Fiom riguarda i metalmeccanici, e il suo primo esponente fa il suo mestiere, sempre attento a non sgarrare di un millimetro rispetto al suo mandato (anche se sono in molti, ad augurarselo, nella classe lavoratrice, sperando in quel “Partito Landini” di cui si parla sempre più insistentemente). La difesa dei metalmeccanici da parte della Fiom è certamente più evidente rispetto a quella dei sindacati di qualsiasi altro settore lavorativo. E Landini si guarda bene, come è giusto che sia, dal far percepire con nettezza il successivo passo politico che pure molti si aspettano.
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Sinistra, un popolo di orfani senza un solo leader credibile
Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.«Come giustamente notava De Luna, la parte politica che ancora non ha capito qual è la portata degli eventi in atto è la sinistra», scrive Anna Lami su “Megachip”, nonostante il successo delle mobilitazioni sindacali delle ultime settimane. Notevole lo sciopero generale dell’Emilia Romagna proclamato dalla Cgil regionale, con decine di migliaia di lavoratori in piazza a Bologna e quasi tutte le principali fabbriche della regione ferme, per non parlare della battaglia degli operai della Thyssen di Terni, che «dopo cortei improvvisati, occupazione di Comune e Prefettura, picchetti, è culminata in una giornata di sciopero che ha fermato l’intera città umbra con una manifestazione che ha visto circa trentamila partecipanti e la contestazione dei vertici confederali». Il corteo oceanico della Cgil a Roma? «E’ la conferma che il popolo di sinistra esiste ancora, gode di buona salute ed è pronto a farsi sentire». Purtroppo, però, «non siamo più negli anni in cui una grossa manifestazione poteva bastare a frenare le intenzioni degli alti comandi».La verità è che «la crisi sta portando ad un mutamento di epoca: non basta più far vedere che “volendo si potrebbe”, occorrerebbe proprio rompere gli argini, cosa che esula decisamente dalle intenzioni dei vertici sindacali». Ancora una volta, continua Anna Lami, la base si è dimostrata più avanzata di chi dovrebbe rappresentarla: lo dicono gli slogan, i cartelli e gli striscioni, contro l’esecutivo e non solo contro il Jobs Act, dimostrando «una crescente consapevolezza politica tra il popolo lavoratore», che ormai accusa anche Napolitano, la Confindustria e la Bce. «Qui, però, entra in gioco la differenza principale tra la piazza di Milano della Lega Nord e le manifestazioni dei lavoratori», spiega Lami. «Mentre la prima ha trovato piena espressione politica, con un progetto radicale nettamente definito in senso reazionario-populista, le seconde sono ancora completamente prive di interlocutori politici credibili e adeguati ai tempi».E’ un’anomalia «che sta costando molto cara ai ceti popolari e, soprattutto, non sembra volgere verso la fine». Infatti, «fino a quando sarà possibile, come è accaduto a piazza San Giovanni, che starlettine della sinistra Pd, mezze figure come Cuperlo, Fassina e Civati, pienamente coinvolti e responsabili del disastro sociale in atto, si facciano belli sui media parlando da una manifestazione da cui dovrebbero essere cacciati in un nanosecondo, allora il divario politico che separa la realtà odierna e la rappresentazione della sinistra italiana sarà abisso». Renzi e le classi dominanti «potranno continuare a farsi beffe di ogni mobilitazione popolare», conclude Anna Lami, «fino a quando non sorgerà un soggetto politico coerentemente anticapitalista in grado di organizzare quei settori sociali che subiscono la crisi (e che sono disponibili a mobilitarsi, come anche a Roma si è visto) inserendoli in una prospettiva di conflitto», verso un cambiamento radicale.Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.
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Scie, metalli, filamenti, piogge: stanno irrorando il cielo
Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».Sembra proprio che dal cielo stia venendo giù di tutto, scrive Broggia su “Megachip”: nell’aria si registra infatti la presenza di «metalli pesanti, polimeri, batteri, sostanze non classificate». Attenzione: ci sono anche «i fili che cadono dal cielo, imitazioni quasi perfette delle ragnatele, ma di lunghezze spropositate». Vietato confondersi: «Se fossero di un vero ragno volante (il fenomeno è quello dello “spider ballooning”), questo dovrebbe essere grande più di 100 metri». Inoltre, «le vere ragnatele non vengono attratte da un potente magnete, come invece sembra accadere a questi fili». Sul web si trovano tracce di un esperimento condotto nel 2011 dall’università di San Diego, in California. Il test fornisce la misura dell’impegno teorico: «Considerando l’intero territorio italiano formato da tanti quadrati di 100 chilometri di lato, in totale abbiamo solo 30 quadrati. Ipotizzando 2 droni che lavorino per ciascun quadrato, con appena 60 droni si potrebbe coprire una nazione intera, con tutti i suoi abitanti, piante, falde acquifere, eco-sistemi». Presso i centri radar aeronautici italiani, continua Broggia, «i controllori di volo sono consapevoli di questo enorme movimento di velivoli, ma lo ignorano. O non danno spiegazioni se interpellati».Già nel 1957, chiarisce “Megachip”, si studiava tecnicamente la possibilità di controllare la grandine per evitare la distruzione delle colture, per esempio in Piemonte: due fisici, Barla e Barbero, nel “Giornale di Geofisica” parlano di «nuclei di condensazione prodotti da ossidi radioattivati», e descrivono «teoria ed esperimenti per attivare artificialmente dei nuclei di molecole di acqua usando ossidi di alluminio e campi elettromagnetici». Gli italiani, conferma Broggia, sono sempre stati molto attivi in questo campo: si citano sperimentazioni nei dintorni di Roma e in Sardegna, pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e brevetti industriali registrati negli Usa (molti materiali sono presenti nel portale “No Geoingegneria”). E in un documento del 1963, il generale Antonio Serra, capo del servizio meteorologico dell’aeronautica, cita una collaborazione svolta con una azienda americana «per provocare la pioggia», attività condotta con fondi pubblici, per la precisione col sostegno della Cassa del Mezzogiorno e della Regione Sardegna. Si trattò di «un terzo ciclo di esperienze di nucleazione artificiale dell’atmosfera, il più lungo finora condotto in Italia», scrive il generale Serra nel ‘63.Un esperimento fondamentale, dunque, «affidato alla società americana “Weather Researches Development Corporation”». Positivo l’esito: l’autore si dichiara «molto fiducioso sui progressi tecnici migliorativi, per risolvere tutti i problemi legati alla siccità». Trent’anni dopo, nel 1994, il governo italiano ha promulgato addirittura una legge, la numero 36 del 5 gennaio, che prevede la creazione regolare di piogge artificiali per sconfiggere la siccità. Si intitola: “Disposizioni in materia di risorse idriche”. L’articolo 2, comma 2, conferma l’adozione del «regolamento per la disciplina delle modificazioni artificiali della fase atmosferica del ciclo naturale dell’acqua». Due anni dopo, continua Paolo Broggia, viene pubblicato un documento di ricerca aerospaziale, proveniente dai militari Usa, “Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”. Letteralmente: il clima come moltiplicatore di forze: possedere il controllo del clima entro il 2025. «In questo raccapricciante documento – scrive Broggia su “Megachip” – viene enunciata la possibilità tecnica di poter controllare localmente il clima, allo scopo di avere vantaggi sul nemico e renderlo più vulnerabile, con tanto di tabelle, grafici, metodologie. Evidentemente – aggiunge l’ingegnere – venivano ritenute molto significative le esperienze del Vietnam, dove gli Usa sono riusciti a usare con successo la geoingegneria allagando con abbondanti piogge i campi dei Vietcong».Il resto è cronaca, ormai quasi quotidiana: clima “impazzito”, alluvioni, “bombe d’acqua”. E’ sempre più frequente, precisa Broggia, la comparsa di brevetti nel settore, specie «sull’uso dei campi elettromagnetici per far interagire a comando le particelle rilasciate dagli aerei, in forma di additivi nei carburanti». Si moltiplicano ormai le conferenze su “geoengineering” e “climate engineering”, la geo-ingegneria del clima. Nuove direttrici di ricerca, quindi, che si sono affacciate nelle comunità scientifiche internazionali, monopolizzando l’attenzione e apportando nuove risorse economiche. È inoltre nato l’Ipcc, il panel dell’Onu sui cambiamenti climatici, una struttura «che potrebbe legittimare l’uso della geoingegneria», ma ovviamente con le solite cautele verso i mezzi di informazione: «Se si va a dire a questi scienziati che stanno già facendo la geoingegneria, essi negano inorriditi». Così, dobbiamo rassegnarci alle “stranezze” del clima. Per esempio quella «pioggerellina sottile, fina-fina, come quelle londinesi». Pioggerelline «insolitamente frequenti in Italia», ormai, così come «le piogge torrenziali e le conseguenti alluvioni», con chicchi di grandine «grandi come arance».Non solo: ultimamente si registra addirittura «la presenza di formazioni di alghe», praticamente «incredibili da trovare nelle zone di campagna interne, molto lontane dalle coste». Strano clima, appunto: con aria «più secca di quella del deserto, come nel 2012 in Italia». E poi, le strane patologie che colpiscono le piante ornamentali, quelle d’appartamento: malattie «da attribuire a qualcosa di strano, mai visto». E il sole, lassù, sempre più pallido. Al punto che «i pannelli fotovoltaici stanno generando sempre meno elettricità rispetto all’anno precedente». Se poi si fa un “mineral test”, nelle analisi risultano«eccessi di alluminio e piombo», come è capitato allo stesso Broggia e ai suoi vicini di casa. Inutile che ci prendano in giro, conclude l’ingnegnere: non potranno negare all’infinito. Stanno davvero irrorando il nostro cielo, sperando di “possedere il clima”. Arma cosmica, sia per l’economia che per la guerra. La speranza? «La Natura è grande, in ogni caso. I suoi eterni elementi riusciranno a raggiungere una coerenza per reagire opportunamente a questa fonte di inquinamento». La cui esistenza, peraltro, nessun governo ammette ancora.Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».
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Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito
«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
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Guerra all’Isis, ecco il vincitore: l’industria delle armi
Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.«I costruttori di droni avranno un bel da fare», ammette Dov Zakheim, al Pentagono con George W. Bush. Il che significa «enormi profitti per la compagnia privata General Atomics, costruttrice del drone “Predator”, il capostipite della categoria, ancora ampiamente in uso, come anche del “Reaper” di seconda generazione, progettato per portare bombe del valore di 3.000 sterline», scrive Newmyer in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”. Inoltre, per agevolare il monitoraggio di vaste aree desertiche, l’esercito potrà contare sul “Global Hawk” prodotto dalla Northrop Grumman (Noc, le cui quotazioni in borsa salgono), un drone in grado di volare ad altitudini di 50.000 piedi per quattro giorni di seguito. «Questi velivoli possono anche avere in uso il “Gorgon Stare”, un sensore sviluppato dall’azienda privata Sierra Nevada, capace di tenere sotto controllo un diametro di 4 chilometri attraverso nove telecamere».L’estendersi del conflitto rilancerebbe gli investimenti in tecnologia, sostiene Mark Gunzinger, colonnello in pensione della Us Air Force ed ex viceministro della difesa, ora in forza al Centro per le valutazioni strategiche e di bilancio: «Una delle cose che potrebbe facilitare una nuova capacità di sfondamento è un’intensificazione delle operazioni, come una più massiccia campagna aerea». Entreranno in azione anche soggetti minori che operano nel settore aereo: Zakheim ha cita la Aero Vironment (Avav), che produce velivoli telecomandati abbastanza piccoli da essere lanciati a mano (compreso il “Nano Hummingbird”, un mezzo minuscolo, che pesa meno di due pile elettriche AA). Jason Gursky, analista che si occupa di industria per Citigroup, scommette sulla Digital Globe (Dgi), azienda di satelliti il cui principale business consiste nel vendere alle agenzie federali immagini digitali “non classificate”: l’esercito le utilizzerà per localizzare gli obiettivi, man mano che estenderà il suo intervento.«Saranno comunque i produttori di armi a ottenere i maggiori benefici, soprattutto a breve termine», scrive Newmyer. «In cima alla classifica troviamo la Lockheed Martin (Lmt), produttrice del missile “Hellfire”, arma di precisione che può essere lanciata da diverse piattaforme, inclusi i droni “Predator”». Sempre secondo Zakheim, si trovano in buona posizione anche Raytheon (Rtn), che produce i “Tomahawk”, missili a lunga gittata lanciati dal mare, e General Dynamics (Gd), anch’essa operante nel settore degli armamenti. «I casi più ovvi sono ciò che io chiamo il commercio di stivali, fagioli e proiettili», dice Ronald Epstein, analista della Bank of America. In altri termini, spiega “Fortune”, «i costruttori navali non possono aspettarsi molto lavoro da questo conflitto, ma coloro che riforniscono le forze americane sono già elettrizzati dalla prospettiva di nuove ordinazioni». Gunzinger sottolinea che «le bombe di piccolo diametro possono essere un grande affare, perché un aereo può portarne parecchie in una sola uscita». Un ulteriore vantaggio, tra gli altri, per la linea di produzione della Raytheon.Zakheim stima che questa cifra potrebbe raddoppiare «se le operazioni si intensificheranno e il teatro di guerra si allargherà alla Siria, con una significativa componente di spesa per le munizioni». Avverte Newmyer: «Il costo totale di questa guerra senza fine, che probabilmente va misurata in anni piuttosto che in mesi, nessuno lo può ipotizzare. Tuttavia, nell’immediato, la Casa Bianca sta facendo pressione sul Congresso perché approvi un finanziamento di 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare i gruppi ribelli pro-occidentali in Siria. Soltanto questo potrebbe significare un supplemento di lavoro per una vasta platea di fornitori per la prima difesa, secondo l’opinione di Gursky». Sul lungo termine, dicono i lobbisti della difesa, l’America non potrà badare a spese. Si annunciano affari miliardari per l’intera filiera delle armi, con co-produzioni ramificate in tutto il mondo. Epstein cita l’Iraq ma anche l’Ucraina, la Russia e tensioni tra Cina e Giappone: «Per chi investe, il panorama di questi conflitti regionali nel mondo, almeno da un punto di vista emotivo, non può essere male».Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.
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Strage inventata? Certo, per preparare quella vera
Il set di un film dell’orrore, per colpire l’opinione pubblica e legittimare la deposizione del tiranno. Accadde in Romania nel fatidico 1989, quando a Timisoara furono rastrellati negli obitori i corpi di persone appena decedute. Vennero martoriati e feriti per simulare le torture, in realtà mai subite. Il tutto, a beneficio delle telecamere. Per Rosanna Spadini, quel precedente dimostra un passaggio d’epoca: «La società dello spettacolo diventa schiava di se stessa», e lo spettacolo «viene trasformato in strumento di disperazione e di morte». Si rompe un patto millenario con gli spettatori, fondato sulla promozione culturale della società. Resta solo la scenografia teatrale, ed è «un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide», ora anche sul palcoscenico della navigazione web, che proietta l’individuo «in un altrove extraterritoriale, slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza». Notizie sensazionali, immagini devastanti. Ma c’è il trucco: è tutto falso. La Spadini la chiama «arte dalla meraviglia multimediale dei visual network». Da allora, la messinscena servirà a dare legittimità mediatica a tutte le guerre contemporanee.
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Chiediamo i danni a Renzi e Silvio (anzi, agli italiani)
Dunque alla fine anche l’Istat certifica ciò che la maggioranza della popolazione italiana vive direttamente ogni santo giorno: la crisi si aggrava e la recessione avanza. Il dato economico della nuova caduta del Pil è pesantissimo, molto più grave di quanto la solita informazione di regime cercherà di presentare per minimizzare. Il segno negativo giunge alla fine di una caduta economica che dura sostanzialmente dal 2008, dunque è peggio che nella terribile crisi del 1929. Ulteriore aggravante è il fatto che tutte le previsioni e i programmi economici del governo parlavano di ripresa. Qui c’è da stendere un velo pietoso su economisti e presunti tecnici di palazzo. È dal 2008 che prevedono la ripresa senza prenderci neppure per sbaglio: o sono particolarmente incompetenti o particolarmente imbroglioni, o tutte e due le cose assieme come spesso capita. Ma la cosa che dovrebbe suscitare indignazione e scandalo è il fatto che, mentre tutto ciò avviene, Renzi e i suoi mettono tutte le loro forze al servizio della non eleggibilità del futuro Senato. Qui siamo alla cialtroneria diventata sistema di governo.Nel passato si erano cominciati a conteggiare i costi per il paese di venti anni di berlusconismo. Anche tenendo conto del fatto che nella metà di quei venti anni ha governato un centrosinistra totalmente subalterno al Cavaliere, quel conteggio ci stava. Ma ora, con la benedizione del capo storico della destra, Renzi governa e lancia quelle riforme che il suo ventennale predecessore ha sempre auspicato. E la crisi si aggrava perché le politiche economiche son sempre le stesse e i risultati negativi pure. Berlusconi aveva alzato a 500 euro le pensioni minime, Renzi ha dato 80 euro a una parte dei lavoratori dipendenti; le loro risposte a chi li ha criticati sono state le stesse: voi non capite, la gente è contenta. No, sono loro che sono ottusi e non capiscono che redistribuire qualche soldo mentre non si fa nulla per ridurre la disoccupazione di massa, mentre l’impoverimento complessivo cresce, significa spargere acqua nel deserto. Acqua che magari dura il tempo necessario per vincere una elezione, ma poi sparisce lasciando tutti più assetati di prima.Naturalmente i danni Renzi e Berlusconi non li han provocati da soli. Con loro c’ è tutto un establishment politico, economico e intellettuale che sostiene le politiche liberiste, da venti anni spiegando che se esse non hanno successo è perché si è stati poco coraggiosi nel realizzarle. Così, mentre la politica economica reale è sempre la stessa da decenni, Berlusconi prima e Renzi poi si sono assunti il ruolo di organizzare la distrazione di massa, di imbrogliare il paese facendo credere, almeno alla sua maggioranza, che le loro riforme cambierebbero le cose. Mentre in realtà servono solo a costruire una cappa di autoritarismo che tuteli la pura continuità nelle decisioni che contano. Sì, a Berlusconi e a Renzi bisognerebbe chiedere i danni, ma in realtà la maggioranza degli italiani li dovrebbe chiedere a sé stessa per aver creduto in loro, se non fosse che questi danni la maggioranza del paese già li paga in continuazione. E continuerà a farlo fino a che non ci si libererà delle politiche di austerità e degli imbroglioni che le realizzano parlando d’altro.(Giorgio Cremaschi, “Quanto ci costa Renzi?”, da “Micromega” del 6 agosto 2014).Dunque alla fine anche l’Istat certifica ciò che la maggioranza della popolazione italiana vive direttamente ogni santo giorno: la crisi si aggrava e la recessione avanza. Il dato economico della nuova caduta del Pil è pesantissimo, molto più grave di quanto la solita informazione di regime cercherà di presentare per minimizzare. Il segno negativo giunge alla fine di una caduta economica che dura sostanzialmente dal 2008, dunque è peggio che nella terribile crisi del 1929. Ulteriore aggravante è il fatto che tutte le previsioni e i programmi economici del governo parlavano di ripresa. Qui c’è da stendere un velo pietoso su economisti e presunti tecnici di palazzo. È dal 2008 che prevedono la ripresa senza prenderci neppure per sbaglio: o sono particolarmente incompetenti o particolarmente imbroglioni, o tutte e due le cose assieme come spesso capita. Ma la cosa che dovrebbe suscitare indignazione e scandalo è il fatto che, mentre tutto ciò avviene, Renzi e i suoi mettono tutte le loro forze al servizio della non eleggibilità del futuro Senato. Qui siamo alla cialtroneria diventata sistema di governo.
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Tutto online, il lavoro sparisce: vincono solo i miliardari
Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».Sono nati giganti – cui lo stesso Lanier ha venduto ben tre “start-up”– che impiegano la millesima parte dei lavoratori che erano prima impegnati nei loro settori: anche così le strade si svuotano dei negozi, scrive Visalli su “Tempo Fertile”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Secondo alcune ricerche, è a rischio di ulteriore distruzione il 47% dei mestieri attualmente praticati negli Usa e il 40% della forza lavoro. Esempio: «Kodak, che impiegava 140.000 persone, oltre ad un enorme indotto per la distribuzione e commercializzazione di miliardi di pellicole, poi per il loro sviluppo e conservazione, è stata praticamente sostituita dai telefonini, da qualche app e qualche “social”». Un caso limite è Instagram, che impiega appena 13 dipendenti ed è stata appena venduta per un miliardo di dollari (Kodak ne valeva 28 con tutti i suoi stabilimenti). «Le catene di viaggi cedono a Expedia, Orbitz; le librerie ad Amazon; le case editrici a Kindle e al fenomeno dei libri fai-da-te; i traduttori stanno per essere spazzati via da software di traduzione che impiegano le innumerevoli traduzioni esistenti fatte da uomini, per automatizzarle e renderle sempre migliori con l’uso».Non è tutto: Skype sta per lanciare un servizio di sottotitoli automatico che “farà fuori” gli interpreti (magari insieme a Google Glass); l’istruzione universitaria potrà essere distribuita da Berkeley in tutto il mondo, a decine di milioni di discenti, a prezzi unitari bassissimi; una app (“Uber”) farà fuori i tassisti; altre stanno facendo lo stesso con gli alberghi; arriveranno le Google Car, a sfidare i camionisti; ma la cosa non dovrebbe lasciare tranquilli neppure gli analisti di borsa (“Warren”), i giornalisti, i commercialisti, gli avvocati, gli architetti. «E’ il modello della new economy, “winner takes all”. Ed è basato sullo sfruttamento senza restituzione di valore di una miriade di microcontenuti che sono sommati, resi significativi dall’immensa potenza del “big data”». Questo, continua Visalli, è il punto messo in evidenza da Lanier: il segreto del successo di Google Translate, di Facebook, di Amazon, di You Tube, è che «tutti i contenuti che nelle loro mani diventano oro sono regalati». Cosa resterà? «Sicuramente una élite dotata del capitale culturale, simbolico e informatico per rendersi necessaria nel mondo della iper-rappresentazione che ci si prepara; sono i vincenti che prendono tutto». E poi?«Qui la cosa si fa difficile», prosegue Visalli. «Una polvere di nicchie di mestieri di cura uno-ad-uno, autoprodotti e inventati; l’apologia dell’individualismo estremo. In mezzo? Se nessun meccanismo pubblico o privato (ma regolato) distribuirà le risorse che salgono ai “vincitori”, garantendo che chi veramente le produce (e non solo chi le rende aggregate, visibili e spendibili) ne abbia di che vivere, avremo un centro deserto». In quel caso, «non avremo neppure i mestieri di cura». Fondamentalmente, aggiunge il blogger, l’economia diventerà «un sistema in cui i beni sono prodotti in modo automatico da una piccolissima parte dei lavoratori». La tendenza è scendere molto sotto il 10%, forse sotto il 5%. Si tratta di lavoratori che “valgono” poco e ppercepiscono stipendi molto bassi. «I contenuti linguistici ed estetici – veicoli identitari e di senso primari – sono il vero veicolo di valore, ma si concentrano in pochissime mani; il resto, la grande parte della società, resterà impegnata in circuiti di auto-cura di reciprocità, poveri dal punto di vista monetario, ricchi da quello sociale e antropologico. Una società che potrebbe ricordare il medioevo».Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».