Archivio del Tag ‘Diaz’
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Hechich: resistenza, io violerò il coprifuoco della vergogna
Non mi esprimerò sugli altri provvedimenti del nuovo Dpcm che dovrebbe andare in vigore da venerdì. Mi soffermerò solo su uno, che ritengo particolarmente odioso, specialmente se spalmato in tutte le zone d’Italia. Il coprifuoco alle 22. Che senso ha? Il virus, visto che sembrerebbe essere derivato da quello dei pipistrelli, esce solo di notte? E’ un virus vampiro? Ma è per limitare gli assembramenti, dicono. Ma quali assembramenti se bar, ristoranti, locali, tavole calde, discoteche, paninoteche, birrerie e quant’altro sono chiusi da ore? I giovani si ritrovano? Perché, fino alle 22 non riescono a ritrovarsi tra di loro e dopo le 22 sì? Siamo il contrario del virus vampiro? Abbiamo il raptus dell’assembramento dopo le 22 ma alle 20 no? E perché no? Dna o perché tutti, da bravi, dobbiamo prima cenare a casa con le pappardelle fatte dalla mamma? Non basta controllare che non ci siano ’sti assembramenti di giovani con una bottiglia in mano? (ma comprata dove? Torniamo al punto di prima). E la stampa, che sembra regga il gioco del poliziotto buono e quello cattivo, a scrivere che gli “esperti” consigliavano alle 21 ma che Conte, magnanimo, ha concesso le 22. Patetici, stampa a reggere il gioco, e governo. Provvedimento idiota, assurdo, incongruente, e non sarebbe il primo. Certamente.Provvedimento anticostituzionale? Forse. Sicuramente dovrebbe essere votato dal Parlamento o almeno avere la autorevolezza di un decreto legge. Un Dpcm, come è stato già ribadito da giuristi autorevoli, non dovrebbe avere queste prerogative. Ma soprattutto il coprifuoco, perché tale è, ricorda molto i tempi più bui dell’Italia, la guerra, l’occupazione tedesca, i repubblichini – ma non solo: i golpe sudamericani, la caduta di Allende… Beh, giustamente qualcuno potrà obiettare che non siamo a quel punto, non ci sono le odiose repressioni, le torture, le sparizioni; siamo in uno Stato di diritto, in Italia, e nell’Italia odierna non potrebbe mai accadere. Vero, ma purtroppo è già accaduto, pochi anni fa, ma la memoria dell’italiano medio è corta. Ricordatevi di Bolzaneto e della Diaz. In quella tragica notte tutti i diritti democratici, lo stesso habeas corpus sono stati eclissati da una violenza che poi i giornali definirono macelleria messicana. E i responsabili, i dirigenti che lo hanno permesso, hanno fatto carriera poi, non dimentichiamo neanche questo. Ma allora perché questo coprifuoco insensato?L’unica ragione che riesco a vedere (e se qualcuno ne ha di altre valide lo scriva, ma lasciate per cortesia perdere la scemenza dei giovani untori nottambuli) è quella classica per cui dagli albori della storia viene fatto un coprifuoco: la paura della rivolta sociale, la paura della gente stufa di venir presa per i fondelli e di dover subire provvedimenti spesso idioti, stanca di promesse di sostegni economici che si stanno rivelando una farsa, proclami a vuoto non seguiti da fatti, come abitudine di questo governo (ricordate i tutor? Ma niente, rimosso anche questo). Perde la prudenza della classe media adagiata e si riversa nelle strade, questa folla di delusi alla canna del gas. Provvedimento ipocrita, in tal caso, non idiota (o anche ipocrita e nel contempo idiota, ma per altre ragioni). Ne abbiamo già avuto esempio nelle grandi città. Si è vista la reazione di Napoli, dopo che De Luca ci aveva provato. Ma no, la lezione non è servita: e, caparbio, il governo ripeterà quell’errore. Se di errore si tratta, e spero sinceramente sia solo uno dei tanti errori idioti, perché viene il sospetto che il provvedimento sia fatto apposta proprio per provocare una reazione e quindi zittire con una repressione esemplare i manifestanti. Prove generali per assetti futuri? Per vedere fino a quanto la gente è apatica? Tanto, se la gente scenderà in piazza e sarà caricata, la colpa sarà di camorristi, mafiosi, delinquenti comuni, spacciatori, taglieggiatori, ma che pensate? La gente ben vestita, la signora con i capelli bianchi la giovane bionda ben pettinata con la borsa firmata, mica è quella che sembra: sono camorristi, hanno il coraggio di dire.Io vivo in campagna, in un paesino di poche anime. Non ho l’occasione di partecipare a manifestazioni di protesta civile, ma il mio piccolo contributo posso darlo, facendo né più né meno quello che ho sempre fatto: portare fuori il mio cane tra le 11 e mezzanotte. Continuerò a farlo, per le strade di campagna totalmente vuote anche nei giorni normali. Porterò con me la mascherina per educazione, per mettermela se mi fermeranno, per rispetto verso idee diverse. Ma sulla mia passeggiata notturna con il cane non indietreggerò di un millimetro. Se mi fermano, continuerò a farlo, a rifarlo e a rifarlo ancora. Con questo post in pratica mi autodenuncio. Ma se tenteranno di fermarmi, di arrestarmi e di portarmi via, beh, non starò inerte, opporrò resistenza: sì, resistenza RESISTENZA, parola che evoca quegli altri coprifuochi di cui prima abbiamo parlato. Perché quando si passa il limite, bisogna reagire: per non doversi un giorno pentire di non averlo fatto, per non vergognarsi di non aver fatto niente di fronte all’inaridimento della Democrazia. Si inizia anche così la resistenza civile, con un piccolo gesto, come quello di portare fuori il cane per strade di campagna deserte tra le 11 e la mezzanotte.(Roberto Hechich, “Il coprifuoco della vergogna”, 5 novembre 2020. Laureato in geologia ed esperto in comunicazione e pubbliche relazioni, Hechich – direttore del Dipartimento per la Geopolitica e la Difesa del Movimento Roosevelt, di cui coordina il gruppo regionale Friuli–Venezia Giulia – è autore di romanzi e racconti, nonché appassionato studioso di materie geostrategiche).Non mi esprimerò sugli altri provvedimenti del nuovo Dpcm che dovrebbe andare in vigore da venerdì. Mi soffermerò solo su uno, che ritengo particolarmente odioso, specialmente se spalmato in tutte le zone d’Italia. Il coprifuoco alle 22. Che senso ha? Il virus, visto che sembrerebbe essere derivato da quello dei pipistrelli, esce solo di notte? E’ un virus vampiro? Ma è per limitare gli assembramenti, dicono. Ma quali assembramenti se bar, ristoranti, locali, tavole calde, discoteche, paninoteche, birrerie e quant’altro sono chiusi da ore? I giovani si ritrovano? Perché, fino alle 22 non riescono a ritrovarsi tra di loro e dopo le 22 sì? Siamo il contrario del virus vampiro? Abbiamo il raptus dell’assembramento dopo le 22 ma alle 20 no? E perché no? Dna o perché tutti, da bravi, dobbiamo prima cenare a casa con le pappardelle fatte dalla mamma? Non basta controllare che non ci siano ’sti assembramenti di giovani con una bottiglia in mano? (ma comprata dove? Torniamo al punto di prima). E la stampa, che sembra regga il gioco del poliziotto buono e quello cattivo, a scrivere che gli “esperti” consigliavano alle 21 ma che Conte, magnanimo, ha concesso le 22. Patetici, stampa a reggere il gioco, e governo. Provvedimento idiota, assurdo, incongruente, e non sarebbe il primo. Certamente.
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Il vero motivo della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova
Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.Missione compiuta, si direbbe: dopo Seattle, Praga e altre fiammate, a Genova nel luglio del 2001 è stato letteralmente soppresso «il primo movimento di protesta, nella storia dell’Occidente, capace di mobilitarsi in modo disinteressato, cioè senza più difendere singole cause territoriali, nazionali o di categoria, ma schierandosi in modo permanente a tutela dei diritti dell’umanità, in ogni continente». Lasciata l’intelligence Usa (l’agenzia resa tristemente celebre dallo scandaloso “datagate” spionistico del governo Obama), Madsen è divenuto un fiero accusatore di un sistema manipolatorio che a Genova, dice, richiedeva un preciso tributo di sangue: la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” dei ragazzi inermi nella scuola Diaz (col pretesto di bombe molotov introdotte dagli stessi agenti) e poi l’incubo delle torture inflitte ai “prigionieri” nella caserma di Bolzaneto. Tutta quella violenza barbarica sembra portare la stessa “firma” della mano segreta che, di lì a un paio di mesi, avrebbe pilotato l’immane attentato delle Torri Gemelle a New York, dando inizio alla “guerra infinita” contro il “terrorismo”. Un nome? Il massone “controiniziato” George W. Bush. Esponente, secondo Gioele Magaldi, della “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”. La costola più nera e tenebrosa dell’élite globalista, formata da “signori della guerra” che «non hanno esitato a reclutare, tra i loro affiliati, prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi».Da Al-Qaeda all’Isis, stesso copione (opaco) del terrore, scatenato contro civili, polizia e militari – ma non all’insaputa di precisi settori dell’intelligence. Prove? «Dispongo di 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi, autore del saggio “Massoni”. «Entro due anni certe carte verranno rese pubbliche», afferma Gianfranco Carpeoro, che ha firmato il volume “Dalla massoneria al terrorismo”, fornendo anche – insieme allo stesso Magaldi – un’accurata lettura della simbologia non certo islamica, ma “templare”, del recentissimo terrorismo targato Isis che ha insanguinato l’Europa a cominciare dalla Francia. Identico lo stile degli attentati: colpire nel mucchio, sparare sulla folla per terrorizzare tutti (e rendere accettabili le leggi d’emergenza, sul modello del Patriot Act statunitense disegnato per confiscare libertà e diritti). Genova? Una pietra miliare: il Rubicone varcato da un potere globalista “medievale”, neo-feudale, smisuratamente avido e bugiardo, estremamente feroce. Lo sostiene Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”. Una vera e propria confessione: «Mesi prima, per la tragica “riuscita” di quel G8 – dice – la Nsa mise a disposizione 1.500 funzionari, e a Genova (oltre alla polizia italiana) c’erano 700 agenti dell’Fbi».Nessuno lo sapeva, all’epoca, ma tutti videro lo stesso spettacolo: i reparti antisommossa si accanivano contro manifestanti inermi, ignorando deliberatamente i famosi “black bloc” spuntati dal nulla, liberi di devastare impunemente la città. I “neri” colpivano i loro obiettivi e poi si disperdevano rapidamente tra i vicoli. «E’ una tattica di guerriglia insegnata nelle scuole Nato: si chiama “swarming”», afferma – sempre nel libro di Fracassi – il generale dei paracadutisti Fabio Mini, già comandante della missione atlantica Kfor in Kosovo. «Esistono precise strutture – rivela Mini – in grado di far affluire in piena sicurezza centinaia di persone, da tutta Europa, senza il rischio di subire controlli alle frontiere, neppure dopo l’evento». Lo strascico del G8 di Genova è ancora fatto essenzialmente di rabbia e di dolore: le vittime denunciano omissioni e indulgenze, il nuovo capo della polizia (che ha preso le distanze da De Gennaro) giura che, oggi, simili episodi non potrebbero più ripetersi. Carlo Giuliani, intanto, a piazza Alimonda è morto. E la meccanica delle ricostruzioni difficilmente va oltre i dettagli del crimine. Una coltre di silenzio protegge ancora gli aspetti più decisivi: il movente e i mandanti.Per questo è importante la voce di un uomo come Madsen. «I mandanti sono le multinazionali – dice – che erano letteralmente terrorizzate dal crescente consenso di quei ragazzi: il movimento NoGlobal andava stroncato. E il loro uomo, Bush, ha semplicemente eseguito gli ordini». Com’era, il mondo, nel 2001? Stava molto meglio di adesso, secondo tutti gli indicatori. Archiviata la storica sfida con l’Urss, la guerra era praticamente assente. Anche per gli italiani, all’epoca, l’Unione Europea poteva sembrare un’istituzione amica. Si pagava ancora in lire: l’euro avrebbe iniziato a circolare solo l’anno seguente. In Afghanistan c’erano già i Talebani, ai quali si opponeva solo un leader laico e nazionalista come Ahmad Shah Massud: quando l’Alleanza del Nord entrò in azione, per prima cosa fu assassinato l’ingombrante Massud, autorevole interprete della sovranità afghana. Ucciso da un certo Hekmathyar, collegato ai servizi del Pakistan addestrati dalla Cia. «Il governo di Islamabad ha sostenuto Al-Qaeda in accordo con Bush», denunciò Benazir Bhutto, a sua volta assassinata nel 2007 per impedirle di vincere le elezioni e smascherare le trame che legavano Bush e Bin Laden al generale Musharraf, dittatore “americano” del Pakistan. Da anni, ormai, la “guerra infinita” era diventata la nuova normalità fondata su bombe e menzogne, fino all’attuale conflitto siriano.Un film dell’orrore, sostiene Madsen, grazie al quale nessuno si è più sognato di contestare frontalmente lo strapotere delle corporation e dell’oligarchia finanziaria, che in Europa è riuscita a ridurre alla fame un paese come la Grecia, senza più medicinali per i bambini, e a destituire con un golpe bianco il governo italiano democraticamente eletto. Si arrivò a insediare a Palazzo Chigi uno spettro come Mario Monti, cioè l’essere umano più lontano possibile dall’antropologia di una rockstar come Manu Chao, eroe del “social forum” che a Genova nel 2001 sognava una fratellanza universale capace di opporsi alle diseguaglianze create dalla rapina sistematica del mondo, quella che oggi spinge verso l’Europa milioni di migranti in fuga dalle loro economie sapientemente disastrate dal nostro apparato economico e politico, finanziario e militare. Un mondo migliore è possibile, recitava lo slogan dei ragazzi che guardavano al mito del “subcomandante” Marcos, esotico e mediatico custode di una biodiversità civile fondata sui diritti. Oggi, il dibattito pubblico è precipitato sotto terra, tra le rovine dell’Ue e della Bce: si parla al massimo di soldi, di Flat Tax e reddito di cittadinanza. Siamo caduti in basso? Il primo passo, sostiene Wayne Madsen, è stato il corpo esanime del militante che i grandi poteri economici, dai loro palazzi, volevano morto. E’ toccato a Carlo Giuliani. Forse, riletta così, può sembrare meno oscura la ragione (mostruosa) di quella fine così atroce.(Giorgio Cattaneo, “G8 Genova, il vero motivo della morte di Carlo Giuliani”, dal blog “Petali di Loto” del 17 aprile 2018).Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.
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Ai vertici dell’antimafia uno dei responsabili del macello Diaz
«Più che la rabbia della vittima c’è il senso di sconfitta del cittadino di fronte al potere, negli occhi di uno degli ex ragazzi che nel luglio del 2001 attraversarono le notti della macelleria messicana della Diaz e del carcere cileno di Bolzaneto». Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso, ovvero per aver «partecipato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare ingiustamente chi venne pestato senza pietà da agenti rimasti impuniti», è oggi il numero due – vice direttore tecnico operativo – della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, «ovvero il fiore all’occhiello delle forze investigative italiane, la struttura alla quale è affidata la lotta al cancro criminale», scrive Marco Preve sull’edizione genovese di “Repubblica”. La nomina, decisa dal ministro dell’interno Marco Minniti, è passata in sordina, ignorata dalla politica. Nei giorni scorsi se ne sono accorti, quasi casualmente, i reduci del “Comitato Verità e Giustizia per Genova”, un gruppo formato da ex arrestati della Diaz e di Bolzaneto e dai loro famigliari. «Molti dei ragazzi tedeschi, vittime della polizia nel luglio 2001 – racconta un membro del comitato – spiegano di avere provato paura quando, ritornati in Italia per i processi o per le vacanze hanno incontrato agenti in divisa».«Mi chiedo come si possa dire a queste persone che l’Italia è cambiata – aggiunge il portavoce del comitato – se uno dei massimi dirigenti del nostro apparato di sicurezza è oggi proprio colui che ieri fece di tutto per accusarli ingiustamente e coprì gli autori materiali dei pestaggi e delle torture». Ex capo dello Sco, la Sezione criminalità organizzata, Caldarozzi è considerato un “cacciatore di mafiosi”. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, invece, è uno dei responsabili dei comportamenti di quella notte del 2001 e dei successivi comportamenti degli apparati di Stato, che sono valsi al nostro paese due condanne per violazione alle norme sulla tortura, ricorda “Repubblica”. Scrissero i giudici della Cassazione, per Caldarozzi e gli altri condannati: «Hanno gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero». Non esattamente una medaglia da inserire nel proprio curriculum. D’altra parte, a luglio di quest’anno sono scaduti i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, e i dirigenti condannati per la Diaz che non erano andati in pensione sono rientrati in polizia. In un intervento sul sito “Questione Giustizia”, di Magistratura Democratica, il pm del processo Diaz – Enrico Zucca – affronta con amaro sarcarmo il caso Caldarozzi: «L’ultimo dei rientri, che si fa fatica a conciliare con quanto espresso nei confronti del condannato in sede di giudizio di Cassazione, è quello che riguarda l’attuale vice-capo della Dia, che vanta così nel suo curriculum il “trascurabile” episodio della scuola Diaz».Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, in un’intervista a “Repubblica” dell’estate 2017 ha voluto finalmente affrontare il tema G8 senza tabù, dichiarando che lui «si sarebbe dimesso» se fosse stato al posto di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia (e oggi presidente di Finmeccanica). A quanto si sa, scrive Preve, i funzionari rientrati in polizia sarebbero stati destinati a ruoli non di primo piano. Ma Caldarozzi è sfuggito a questa logica: «Essendo la Dia una struttura che dipende direttamente dal ministero, per lui, che vanta con Minniti e con il gruppo De Gennaro un’antica amicizia, si sono spalancate le porte dei piani alti». Il suo esilio, peraltro, non è stato esattamente quello di un appestato: «Gli anni di interdizione li ha trascorsi lavorando come consulente della sicurezza per le banche e poi come consulente per la Finmeccanica dell’ex capo De Gennaro. Si parlò anche di “collaborazioni” con il Sisde, i servizi segreti, proprio come, sempre a stare alle voci, si racconta intrattenga oggi il anche pensionato Franco Gratteri, ex capo della Direzione centrale anticrimine, il più alto in grado fra i condannati della Diaz».Nonostante l’Italia, tra molte contestazioni e distinguo, si sia dotata da qualche mese di una legge sulla tortura, aggiunge “Repubblica”, sembra essere completamente inevaso uno degli aspetti più volte ricordati dai giudici europei. Ovvero, «quello che riguarda non gli autori materiali delle torture, bensì tutta la scala gerarchica e i regolamenti interni che non provvedono a isolare i torturatori e chi li ha coperti nelle fase preliminare delle indagini, e che poi non provvede, se non a radiarli, perlomeno a bloccare le progressioni di carriera, o in estremo subordine ad assegnarli ad incarichi non operativi». Sedici anni dopo aver “disonorato la polizia italiana”, come affermano i giudici della Cassazione, «anche se molti poliziotti e altrettanti politici non hanno mai accettato questa sentenza», lo stesso Gilberto Caldarozzi «viene premiato con una delle poltrone più importanti della lotta al crimine». Per Marco Preve, con questa clamorosa nomina, «la “macelleria messicana” è stata archiviata dallo Stato», quello stesso Stato che ha appena promulgato una legge contro la tortura, 16 anni dopo il massacro di Genova. Una carneficina che, secondo Wayne Madsen – già dirigente della Nsa – fu accuratamente preparata dall’intelligence Usa per demonizzare e stroncare il movimento NoGlobal, che infatti dopo Genova è defunto.«Più che la rabbia della vittima c’è il senso di sconfitta del cittadino di fronte al potere, negli occhi di uno degli ex ragazzi che nel luglio del 2001 attraversarono le notti della macelleria messicana della Diaz e del carcere cileno di Bolzaneto». Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso, ovvero per aver «partecipato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare ingiustamente chi venne pestato senza pietà da agenti rimasti impuniti», è oggi il numero due – vice direttore tecnico operativo – della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, «ovvero il fiore all’occhiello delle forze investigative italiane, la struttura alla quale è affidata la lotta al cancro criminale», scrive Marco Preve sull’edizione genovese di “Repubblica”. La nomina, decisa dal ministro dell’interno Marco Minniti, è passata in sordina, ignorata dalla politica. Nei giorni scorsi se ne sono accorti, quasi casualmente, i reduci del “Comitato Verità e Giustizia per Genova”, un gruppo formato da ex arrestati della Diaz e di Bolzaneto e dai loro famigliari. «Molti dei ragazzi tedeschi, vittime della polizia nel luglio 2001 – racconta un membro del comitato – spiegano di avere provato paura quando, ritornati in Italia per i processi o per le vacanze hanno incontrato agenti in divisa».
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G8 Genova, prove generali per lo choc dell’11 Settembre
La Corte europea dei diritti umani ha certificato sul piano legale e formale ciò che era già chiaro sul piano sostanziale a tutti gli uomini onesti presenti sulla faccia della Terra: i poliziotti che fecero irruzione presso la scuola Diaz a Genova la notte del 21 luglio del 2001 si abbandonarono volutamente a pratiche di tortura. I giudici inoltre, dopo avere accertato l’utilizzo di metodi e prassi degne del regime argentino di Jorge Videla, stigmatizzano pure l’inerzia del sistema Italia nel (non) rendere giustizia alle vittime. Non solo i torturatori protagonisti della mattanza di Genova non ricevettero condanne penali proporzionate alla gravità dei fatti, ma molti di loro non furono neppure individuati e/o espulsi dai corpi di polizia. Paradossalmente, quindi, ancora oggi, lo Stato italiano potrebbe affidare il mantenimento dell’ordine pubblico a uomini resisi protagonisti nel recente passato di condotte che avrebbero ben meritato una ragionevole e giustificata condanna alla pena dell’ergastolo (con relativo isolamento diurno). Il capo della polizia del tempo, prefetto Gianni De Gennaro, siede adesso al vertice di Finmeccanica, degno premio da garantire a chi ha già irrimediabilmente infangato l’immagine dell’Italia nel mondo.Comunque, della gravità dei fatti di Genova si sapeva già prima che la corte europea si pronunciasse nel merito, così come ampiamente nota era la propensione dei governi ad insabbiare e sminuire la gravità di quanto accaduto. Che l’Italia del 2001 somigliasse più al Cile di Pinochet che ad una democrazia occidentale è un dato di fatto. Meno chiare sono invece le ragioni che determinarono una tanto grave sospensione delle libertà democratiche, realizzata da un corpo armato grazie alla fattiva complicità del governo dell’epoca. Proviamo insieme ad indagare ora la parte nascosta della faccenda, avendo cura di collegare razionalmente i tanti tasselli di un unico mosaico. A pagina 535 del libro “Massoni” scritto da Gioele Magaldi è possibile scorgere una traccia importante. Come saprà chi ha letto il libro, l’ultimo capitolo riporta un dialogo intercorso fra quattro massoni di alto rango, appartenenti cioè al circuito segreto delle Ur-Lodges, vero e sconosciuto vertice del potere globale. Ad un certo punto, nel ricordare le precondizioni che consentirono l’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca, uno dei “fratelli” domanda all’altro: “A proposito, perdonami se ti interrompo, non ci hai parlato dei fatti del G8 di Genova, del luglio 2001. Chi ne fu responsabile, ai piani alti del potere?”.Sfortunatamente non è possibile leggere la risposta offerta da Frater Kronos, massone oligarchico al quale la domanda era rivolta, di fatto impedita dalla rapida entrata in scena di Frater J.: “Scusate se mi intrometto. Ma è solo per dire che affronteremo la questione, che è intimamente collegata alla preparazione dell’11 settembre successivo, nei prossimi volumi di Massoni”. Per avere maggiori dettagli non resta che attendere l’uscita, si spera imminente, degli altri volumi. Nel frattempo però è possibile abbozzare un ragionamento anche limitandosi ad analizzare soltanto le circostanze già conosciute. Come sappiamo la strage dell’11 Settembre del 2001 fu pensata, voluta e pianificata all’interno di una specifica loggia, la Hathor Pentalpha, fondata tra gli altri da Bush padre e Dick Cheney. Una loggia certamente influente in America ma con addentellati presenti in tutto il mondo, Italia compresa. E’ possibile leggere i fatti di Genova alla stregua di esperimento preparativo in vista dell’evento principale (l’attacco alle Torri Gemelle) da consumarsi di lì a poco sull’altra sponda dell’Atlantico? Beh, io credo di sì.Tanto per cominciare è giusto ricordare come nel 2001 il ministro della difesa del governo italiano fosse Antonio Martino, figura organica alla loggia dei Bush, mentre sullo scranno più alto di Palazzo Madama sedeva allora un altro politico iniziato nella stessa Ur-Lodge “del sangue e della vendetta”: Marcello Pera. Dipoi, per giustificare un uso spropositato della forza, la polizia italiana fabbricò dopo i fatti di Genova alcune prove false, a partire dal ritrovamento delle famose “molotov”. Analogamente George W. Bush e Tony Blair (anche quest’ultimo affiliato presso la Hathor Pentapha) si inventarono di sana pianta la presenza di fantomatiche “armi di distruzione di massa” per rendere possibile un insensato e folle attacco all’Iraq di Saddam Hussein. La tecnica volta ad esasperare un finto pericolo per dare vita a scelte altrimenti improponibili fu chiaramente testata pure a Genova. Una tecnica nella quale i massoni della Hathor Pentalpha eccellono. Basti pensare a cosa è recentemente accaduto nella Francia di Sarkozy (Hathor Pentalpha), e a cosa ora accade nella Turchia di Erdogan (Hathor Pentalpha). Ordo ab chao.(Francesco Maria Toscano, “Il filo esoterico che lega la mattanza della scuola Diaz alla strage dell’11 Settembre”, dal blog “Il Moralista” del 15 aprile 2015. Toscano è segretario del Movimento Roosevelt, fondato con Gioele Magaldi).La Corte europea dei diritti umani ha certificato sul piano legale e formale ciò che era già chiaro sul piano sostanziale a tutti gli uomini onesti presenti sulla faccia della Terra: i poliziotti che fecero irruzione presso la scuola Diaz a Genova la notte del 21 luglio del 2001 si abbandonarono volutamente a pratiche di tortura. I giudici inoltre, dopo avere accertato l’utilizzo di metodi e prassi degne del regime argentino di Jorge Videla, stigmatizzano pure l’inerzia del sistema Italia nel (non) rendere giustizia alle vittime. Non solo i torturatori protagonisti della mattanza di Genova non ricevettero condanne penali proporzionate alla gravità dei fatti, ma molti di loro non furono neppure individuati e/o espulsi dai corpi di polizia. Paradossalmente, quindi, ancora oggi, lo Stato italiano potrebbe affidare il mantenimento dell’ordine pubblico a uomini resisi protagonisti nel recente passato di condotte che avrebbero ben meritato una ragionevole e giustificata condanna alla pena dell’ergastolo (con relativo isolamento diurno). Il capo della polizia del tempo, prefetto Gianni De Gennaro, siede adesso al vertice di Finmeccanica, degno premio da garantire a chi ha già irrimediabilmente infangato l’immagine dell’Italia nel mondo.
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Tortura per chiunque osi ribellarsi, Genova fu solo l’inizio
La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo.A Genova nel 2001 accadde qualcosa di irreparabile e sinistramente profetico, scrive “Come Don Chisciotte”: «Nell’arco di una manciata di giornate ci accorgemmo di essere stati proiettati e letteralmente catapultati nel nuovo millennio». Di colpo, ci siamo scoperti «ingenui figli di un tempo già antico, quel ventesimo secolo che, nonostante l’atomica e i lager, non aveva completamente scalfito le speranze in un mondo migliore». Il funerale delle illusioni: «La nostra Italietta – così piccola e così gracile – sarà pure stata anche la Repubblica delle stragi impunite, delle molte mafie e della corruzione dilagante, ma, ai nostri occhi, rimaneva l’imperfetta democrazia che i padri costituenti ci avevano consegnato per attuare concretamente i principi di uguaglianza e libertà. Invece – scrive “HS” – quello che accadde superò la nostra immaginazione». Sepolta, a Genova, anche l’ingenuità fisiologica del movimentismo, che in fondo «non abbandona l’illusione che si possa dialogare con l’avversario per riformare il sistema in senso migliorativo». Il movimento No-Global bisognava «domarlo, criminalizzarlo e reprimerlo in nome del neoliberismo “neomercantile”», togliendo ai giovani l’arma della politica e della giustizia.Hanno vinto loro, conclude il blog: i ragazzi di oggi non hanno idea di cosa accadde davvero a Genova, perché ormai «appartengono a un altro mondo», nel senso che «sono cresciuti in un contesto in cui la digitalizzazione dei segni, dei simboli e pure dei comportamenti ha quasi oscurato il senso concreto e tangibile delle cose», con la sua spietata durezza. All’epoca della mattanza genovese, Google e YouTube «appartenevano ancora al regno del “futuribile” e del realizzabile». Ora, il paesaggio antropologico è irriconoscibile: «In un certo qual modo smartphone, blueberry, iPod, Whatsapp, Twitter, Facebook e compagnia cantante sono diventati parte integrante delle nostre vite, e per i nostri figli o nipoti non è quasi concepibile un mondo senza la tecnologie digitali. Nel nostro nuovo mondo postmoderno digitalizzato e “virtualizzato” il tempo scorre via veloce come lo scoccare di una scintilla nel buio, si scompone in fantastiliardi di millisecondi, frazionati e separati, insinuando un senso di comprensibile vuoto e di assenza di memoria».Oggi la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per gli atti di tortura inflitti ai manifestanti dalle forze dell’ordine nell’Istituto Pascoli? Confinare le giornate di Genova in quelle aule, dove raggiunse il culmine l’ultimo atto di feroce violenza repressiva, «significa smarrire il senso di quelle ore». Perché nel capoluogo ligure «era accaduto qualcosa di definitivo e irreparabile, qualcosa che non avrebbe potuto essere cancellato lavando quei muri imbrattati di sangue». In realtà, continua il blog, «non abbiamo mai compreso fino in fondo quanto possano contare le parole e i consigli degli “ingegneri sociali”, degli esperti di sociologia, psicologia, antropologia, di questioni militari, geopolitiche, strategiche, di sicurezza e ordine pubblico», perché in fondo siamo rimasti «ragionevoli uomini democratici e perbene». Per questo non ci siamo accorti di essere diventati «altro che le cavie di uno dei più arditi esperimenti mai tentati fino ad allora in un paese dell’Occidente civile e avanzato». Come se in quella torrida estate del 2001 il capoluogo ligure «si fosse trasformato in un enorme laboratorio per applicare i nuovi modelli militarizzati e tecnologicamente avanzati di gestione dell’ordine pubblico». Di lì a poco, «Ground Zero avrebbe cancellato tutte le residue speranze per un “altro mondo possibile”, e dalla guerriglia e controguerriglia urbane artificiosamente costruite, si passava alla guerra permanente e globale», con tanti saluti alle belle speranze del movimento No-Global, che pretendeva pari opportunità e diritti per l’intera umanità.Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi illumina le pagine più oscure e confuse della nostra storia recente, rivelando il ruolo spesso decisivo delle “Ur-Lodges”, le superlogge latomistiche dell’élite cosmopolita che sovrintende alle grandi decisioni, anche attraverso istituzioni transnazionali e “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale, il Bilderberg, i grandi think-tank che orientano la dirigenza finanziaria, industriale, bancaria, editoriale, culturale, politica, giornalistica. Magaldi, a sua volta massone e associato alla prestigiosa superloggia “Thomas Paine”, nonché animatore del “Movimento Roosevelt” che si propone di scuotere la politica italiana ed europea liberandola dal dogma neoliberista che impone il taglio dello Stato, accusa anche l’ambiente massonico internazionale più progressista, colpevole di aver aderito a cuor leggero già nel 1981 allo storico patto “United Freemasons for Globalization”. Una stretta di mano con i più pericolosi oligarchi che, di lì a poco, avrebbero precipitato il pianeta nella privatizzazione universale. Genocidio di popoli, guerre, rapina delle risorse, delocalizzazioni criminose e scomparsa del lavoro e dei diritti sindacali, fino all’agonia inconcepibile del sistema industriale più evoluto del mondo, l’Europa, messa in ginocchio dall’austerity finanziaria pianificata a tavolino dai supremi globalizzatori.Paolo Franceschetti, ex avvocato e indagatore di strani delitti rituali, riletti come cerimonie del massimo potere oligarchico, si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno: la storia dell’umanità è lastricata di abusi abominevoli, se oggi li si denuncia significa che sta crescendo una consapevolezza diffusa che, prima o poi, cambierà l’orizzonte. Inutile stupirsi della ferocia del supremo potere: lo sostengono voci diversissime tra loro, per formazione e provenienza. Per esempio Paolo Ferraro, prestigioso magistrato allontanato dalla magistratura. O un ex dirigente dei servizi segreti come Fausto Carotenuto. O Paolo Barnard, il primo a denunciare la brutale restaurazione europea, col saggio “Il più grande crimine”. O, ancora, un massone come Gianfranco Carpeoro, allievo di Francesco Saba Sardi e grande studioso del linguaggio simbolico. Dal canto suo, Magaldi esprime un’indignazione lucida e pacata: lo Stato laico, moderno e democratico, fatto di cittadini e non più di sudditi, «non è stato un regalo della cicogna», ma dall’intellighenzia massonica occidentale, impegnata in una lotta plurisecolare contro l’oscurantismo e l’assolutismo. Per questo, insiste, è necessario che insorga il vertice massonico progressista, il solo in grado di contrastare – a livello elitario – la deriva neo-feudale del nuovo potere che, col pretesto di una crisi artificiale costruita a tavolino, sta smantellando la democrazia in tutto l’Occidente.I ragazzi di Genova, che nel 2001 volevano diritti estesi a tutti i popoli del mondo, mai si sarebbero aspettati che quegli stessi diritti considerati inviolabili – a cominciare dall’accesso al lavoro – sarebbero stati presto perduti anche qui, nel cuore di un’Europa devastata dalle leggi speciali imposte dall’élite tecnocratica attraverso il braccio secolare di una moneta unica non sovrana. La scomparsa dell’orizzonte cominciò proprio nelle piazze genovesi trasformate in campo di battaglia: «Genova per noi è stato solo il primo dei tanti esperimenti di ingegneria sociale volti a spezzare qualsiasi volontà di resistenza nei confronti di un sistema iniquo e ingiusto», osserva “Come Don Chisciotte”. «Deposte l’immaginazione e la volontà di cambiamento siamo solo diventati più gretti, cinici ed egoici». Per questo, i globalizzatori dell’abuso «hanno vinto su tutta la linea». De Gennaro resta al suo posto, alla presidenza di Finmeccanica? Ovvio. Lo difende Renzi, l’uomo che in nome delle riforme strutturali dettate dalla Troika e da Wall Street abolisce Senato e Province, introduce il licenziamento facile con il Jobs Act e costruisce una legge elettorale monarchica. La differenza, rispetto al 2001, è che nessuno scende più in piazza. Pochi si accorgono di quello che sta realmente accadendo, nell’area-test chiamata Europa. Al pessimismo universale dei blogger si oppone la voce di Magaldi: insieme alla Francia, sostiene, l’Italia è il solo paese in cui è possibile far partire qualcosa che assomigli a un risveglio. Non a caso, la “punizione” dell’infame G8 del 2001 fu progettata proprio in Italia. Ed era solo l’inizio: la “tortura” continua.La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo.
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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Scajola, il ministro che a Genova ordinò di sparare
Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ‘77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono scioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile. Scajola era all’epoca il ministro dell’interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vicepresidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, «un rompiscatole». Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo). Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto.Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di Stato e il ministero dell’interno dall’altro. Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vicecapo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti. Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di Stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente: «Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa».Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.(Lorenzo Guadagnucci, “Scajola e il dopo-Diaz della polizia”, da “Micromega” del 9 maggio 2014. Guadagnucci è un esponente del Comitato Verità e Giustizia per Genova).Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ‘77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono scioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile. Scajola era all’epoca il ministro dell’interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vicepresidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.
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Polizia violenta? L’Italia può ringraziare i suoi politici
«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura». Parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, la polizia che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».Censura e condiscendenza, rabbia e difesa corporativa, sconcerto e meraviglia: sono le emozioni che, dopo gli ultimi scontri di piazza, hanno scosso l’opinione pubblica stavolta in prima fila per via dei filmati resi pubblici, scrive Guadagnini su “Micromega”. «Le immagini nitide ed esplicite sono passate e ripassate in tv, in rete, sui social network», e la foto-shock dei ragazzi schiacciati per terra «ha fatto il giro del mondo». Le “cose” si sono viste, eccome: «I pestaggi, la violenza, l’intimidazione, la forza, la rabbia, la paura». Per Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani, «sono troppe le illegalità commesse negli ultimi 15 anni da militari chiamati a gestire l’ordine pubblico». Lo dicono i nomi di Giuliani, Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi e Shalabayeva. «Raccontano una storia fatta di sopraffazioni e violenze ingiustificate a opera di chi è chiamato a difenderci», scrive la Guadagnini. «Una storia di abusi coperti da falsità e bugie nel tentativo di nascondere e proteggere i veri colpevoli».Indossare una divisa non significa essere autorizzati a travestirsi da giustizieri armati. «La polizia ha sempre funzionato come termometro della democrazia», spiega Marco Preve, autore di un saggio appena uscito per “Chiarelettere”, intitolato “Il partito della Polizia”. «Più è presente in una società, meno quella società è libera e democratica». Nessuno Stato può fare a meno della polizia, ammette Preve, perché ad essa sono affidati l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Dunque, «il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se, in cambio, tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi. Nessun abuso, infatti, può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così – aggiunge Preve – i responsabili devono saltare, ma in Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga».Il perché questa anomalia lo rivela Filippo Bertolami, vicequestore e sindacalista di polizia. «Negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha “osato” mettersi di traverso». Imputati, condannati, premiati: a vincere è la paura, riassume Rossella Guadagnini. Il “partito della polizia” è «troppo forte», conta su «troppe protezioni politiche a destra e a sinistra», ricorda Preve, «da Berlusconi a Prodi, da Violante a Renzi». De Gennaro, capo della polizia al G8 di Genova? «E’ diventato presidente di Finmeccanica e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze, troppe amicizie, anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame, mentre vengono assegnati appalti miliardari».Il “partito della polizia” è anche un partito degli affari: «Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea». Un ragionamento che, volenti o nolenti, secondo Guadagnini non fa una piega. Per Preve, i gruppi che hanno controllato e controllano i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza «hanno potuto permettersi, o consentire ai loro fedelissimi, comportamenti al di sopra delle regole e delle istituzioni». E questo, precisa Preve, nonostante una “base” «sicuramente non collusa, in molti casi insofferente e addirittura vittima di questa gestione». Il giornalista fissa un discrimine: tutto questo è potuto accadere a partire dal 21 luglio 2001, la notte della “macelleria messicana” della scuola Diaz.«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura»: parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, quella che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».
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Giù le mani dalla valle di Susa, è il Gezi Park italiano
Tutta la grande informazione ha seguito con trepidazione e simpatia la mobilitazione popolare in Turchia. Quel grande movimento democratico è esploso attorno alla protesta di centinaia di giovani che volevano impedire l’abbattimento di alcuni alberi in Gezi Park, un parco di Istanbul destinato ad essere cancellato per far posto a qualche grande opera. In Valle Susa sinora sono stati abbattuti oltre 5000 alberi, molti secolari, in uno scempio di cui ho personalmente potuto rendermi conto prima che tutta quell’area venisse chiusa al mondo diventando così una zona rossa, un altro di quei buchi neri che da Genova in poi ingoiano la nostra democrazia. Contro quella devastazione, e contro l’opera che la ispira, ancora una volta si sono mobilitati i militanti del movimento No Tav, cercando giustamente di provare a fermarle, come i giovani turchi di Gezi Park. Ma nella grande informazione sono apparsi subito come violenti, fiancheggiatori del terrorismo, nemici del bene comune.
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Foa: la verità del web spiazza i media e gli spin doctor
Era il 2003 – esattamente dieci anni fa – e un grande libro, completamente ignorato dai media, raggiunse in pochi giorni la vetta delle classifiche, senza neppure una recensione sui giornali. “La guerra infinita”, di Giulietto Chiesa, “spiegava” per la prima volta quello che sarebbe successo da lì in poi, a partire dall’occupazione dell’Iraq col falso pretesto delle inesistenti armi nucleari di Saddam. La menzogna elevata a sistema, su scala mondiale, come vera e propria arma di distruzione di massa. Motivazioni elementari: il declino di un impero, messo alle corde dalla penuria energetica e dal boom demografico del pianeta, ma con ancora un vantaggio formidabile: la supremazia tecnologico-militare. Uso della forza reso accettabile soltanto dall’arma vera: la manipolazione sistematica della verità. In un post visitatissimo su “Byoblu”, Marcello Foa denuncia il ruolo-chiave degli spin doctor nel condizionare il sistema dei media, e cita il caso-Grillo: finalmente, un fenomeno di massa che esplode, nonostante la congiura del silenzio organizzata da giornali e televisioni.
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Amato e De Gennaro, uomini chiave per l’inciucio-horror
Stati Uniti, massonerie, Vaticano, poteri forti. C’è un partito più potente dei partiti che tifa per le “larghe intese” tra Pd e Pdl: sono i politici trasversali di lungo corso, i manager di Stato e i burocrati sopravvissuti a mille ribaltoni, che tremano ogni volta che sentono parlare di accordo tra Grillo e Bersani. «Il partito del governissimo si muove nel silenzio, non appare in tv, ma ha le idee molto chiare sugli uomini giusti per costruire una diga morbida e assorbente all’urto della nuova politica», scrive Marco Lillo sul “Fatto Quotidiano”. Istituzioni secolari come la Chiesa e la massoneria vedono come il fumo negli occhi il “governo di scopo”, e sperano che Bersani non riesca nella missione impossibile di strappare al “Movimento 5 Stelle” la fiducia al Senato. Più rassicurante, per il palazzi romani, la seconda ipotesi: “governissimo” Pd-Pdl, riciclando nomi della portata di Amato e addirittura De Gennaro, capo della polizia all’epoca della mattanza della Diaz.
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La storia siamo noi, nessuno si senta escluso
Quando esplose il reattore di Chernobyl, nel remoto 1986, il Muro di Berlino era ancora in piedi, ma a Mosca si era appena insediato l’uomo che lo avrebbe abbattuto, Mikhail Gorbaciov. Nell’Italia pre-tangentopoli, ancora ignara dei terremoti che proprio il crollo dell’Urss avrebbe causato, licenziando l’ormai inutile casta politica anti-sovietica della Prima Repubblica, si muoveva un’esigua minoranza di kamikaze, immediatamente criminalizzati dal mainstream come eretici guastatori, qualunquisti, avanguardie dell’antipolitica. I loro nomi: Alex Langer, Gianni Mattioli, Massimo Scalia. In altre parole, i Verdi: quelli che – complice il disastro bielorusso – riuscirono a trascinare l’Italia al voto, spingendo il paese a mettere al bando il nucleare.