Archivio del Tag ‘disgusto’
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Siamo tutti interconnessi, neuroni-specchio risuonano in noi
“Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l’esistenza di sistemi simili anche negli uomini: sembrerebbe che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio. I neuroni-specchio «permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri». Ovvero: «Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in passato». Il neurone-specchio, dunque, “ricorda” qualcosa che è già avvenuto, e “risponde” in modo simultaneo a qualcosa che appartiene al proprio vissuto. «Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà “specchio” già rilevata nel caso della comprensione delle azioni». Rispondenza perfetta, riscontrata nei test: «Quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione».Un’altra conferma, continua “Coscienze in Rete”, viene da studi clinici su pazienti affetti da patologie neurologiche: una volta perduta la capacità di provare un’emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene espressa da altri. Alcune evidenze sperimentali sembrano indicare che anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per certi aspetti, a meccanismi di “risonanza” che coinvolgono il sistema motorio: «Comprendere una frase che esprime un’azione provoca probabilmente un’attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in causa durante l’effettiva esecuzione di quell’azione». La scoperta dei neuroni-specchio potrebbe offrire una spiegazione biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger: gli esperimenti finora condotti sembrano indicare un ridotto funzionamento di questo tipo di neuroni nei bambini autistici, che non riescono a entrare in sintonia con il mondo che li circonda, con i gesti e le azioni altrui, nonché le emozioni degli altri. In ogni caso, «l’esistenza dei neuroni-specchio prospetta la necessità di una profonda modifica nelle attuali concezioni riguardanti il modo di operare della nostra mente», ridimensionando il modello prospettato dalla psicologia cognitivista.Il cognitivismo è basato sull’analogia funzionale con i calcolatori: definisce regole formali che sarebbero alla base del funzionamento della mente, «ignorando completamente il ruolo dell’esperienza corporea legata al comportamento motorio». I neuroni-specchio, invece, implicano l’esistenza di un meccanismo che consente di comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui, e persino delle intenzioni, senza porre in atto alcun tipo di ragionamento. Le ricerche sono ancora agli inizi, ma – secondo il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran – è probabile che si tratti di una delle più importanti scoperte, destinata ad avere profonde ripercussioni nel nostro modo di concepire la mente. «Praticamente i neuroni-specchio confermano il fatto che non siamo delle isole separate, ma che siamo in rete. E in questa rete i pensieri, le azioni e i sentimenti circolano dall’uno all’altro. Si potrebbe dire che entrano nella psiche-anima delle persone e somatizzano attraverso i circuiti cerebrali», su cui si sedimentano le nostre individuali esperienze di pensiero, sentimento e azione.In questa ottica, osserva “Coscienze in Rete”, i neuroni-specchio «possono probabilmente essere utilizzati per moltiplicare il bene, con l’esempio e con la condivisione». Per contro, «si possono usare anche per moltiplicare elementi negativi, dallo “scandalo” di cui parla il Vangelo, fino ai comportamenti deteriori di ognuno di noi che influenzano gli altri, fino alle grandi operazioni oscure che tendono ad eccitare o deprimere le coscienze di intere popolazioni o del mondo, non solo con le guerre, ma anche tramite l’uso “nero” dell’arte, delle forme pensiero dei comportamenti, della violenza, dell’erotismo fine a se stesso, del vizio». In altre parole, i neuroni-specchio sarebbero un formidabile moltiplicatore, benché invisibile, capace di amplificare le conseguenze di qualsiasi azione, nel bene e nel male: «Se si amano gli altri e la società, ovviamente sarà importantissimo essere esempio vivente delle azioni, dei sentimenti e dei pensieri rivolti al bene, per diventare elementi diffusori di bene», mettendo i propri neuroni-specchio «ancora di più al servizio della evoluzione umana».“Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
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Disgustoso Poletti, avete fatto di noi i camerieri d’Europa
«Caro ministro Poletti, le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano». Comincia con queste parole la lettera aperta che Marta Fana, ricercatrice impegnata a Parigi, ha affidato a “L’Espresso” dopo la sconcertante uscita dell’ex dirigente LegaCoop, ora membro dell’esecutivo Gentiloni: «Centomila giovani in fuga dall’Italia? Conosco gente che è bene non avere tra i piedi». Poletti ha espresso in modo esplicito un pensiero che dimostra la ormai storica rassegnazione dell’ex sinistra al pensiero unico, quello del mercato, sancita da personalità come Tiziano Treu e Marco Biagi, che hanno firmato le tappe fondamentali della revoca dei diritti del lavoro, per poi arrivare allo scempio della riforma Fornero e al Jobs Act renziano. «Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più – scrive Marta Fana – non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci. Parlo dei voucher, ministro». L’Inps ha appena reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando Poletti è ministro, ne sono stati venduti oltre 265 milioni: «E’ sfruttamento. Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa».Marta Fana si riferisce a un ragazzo di 21 anni, senza indennità per malattia perché «faceva il saldatore a voucher». E aggiunge: «Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi». Quelli che sono rimasti, continua la lettera, sono coloro che per colpa di queste politiche si sono trovati in pochi anni da “generazione 1.000 euro al mese” a “generazione a 5.000 euro l’anno”. «Lo stesso vale per chi se n’è andato e forse prima o poi vi verrà il dubbio che molti se ne sono andati proprio per questo. Quelli che sono rimasti sono gli stessi che lavorano nei centri commerciali con orari lunghissimi e salari da fame. Quelli che fanno i facchini per la logistica e vedono i proprio fratelli morire ammazzati sotto un tir perché chiedevano diritti contro lo sfruttamento. Sono quelli che un lavoro non l’hanno mai trovato, quelli che a volte hanno pure pensato “meglio lavorare in nero e va tutto bene perché almeno le sigarette posso comprarle”».Sono gli stessi che «non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano», perché il governo, come i precedenti,«invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizioni materiali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa». È lo stesso governo che «spende lo 0% del Pil per il diritto all’abitare», e che «si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che garantisca a tutti dignità». Marta Fana non si dichiara “redditista”, ma spiega: «A fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà». La colpa «è vostra», scrive la Fana: è colpa di voi politici, «che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci». Il capolavoro? «Spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio – tanto ci sono i voucher», per poi ridurre le tasse sui profitti. «Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci».Il governo non crede nell’istruzione e nella cultura, vara “La Buona Scuola” ma taglia i fondi a scuola e università, e quindi spedisce il giovani a lavorare da McDonald’s: «Anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada – scrive la Fana a Poletti – chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati». Ma il peggio, continua la lettera al ministro, «è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis». L’imbarazzante esternazione del ministro? «A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti». E ancora: «Non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri». Tutto questo «rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza».In Italia, ormai, studia solo «chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara». Insiste la Fana, rivolta a Poletti: «Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto». Molti di questi genitori, poi, «con la crisi sono stati licenziati». Finito il sussudio di disoccupazione, «potevano soltanto dirci che sarebbe andata meglio, che ce l’avremmo fatta, in un modo o nell’altro. In Italia o all’estero. Chieda scusa a loro – insiste Marta Fana – perché noi delle sue scuse non abbiamo bisogno». E aggiunge: «Noi la sua arroganza, ma anche evidente ignoranza, gliel’abbiamo restituita il 4 dicembre, in cui abbiamo votato No per la Costituzione, la democrazia, contro l’accentramento dei poteri negli esecutivi». No alla supremazia del mercato. «Era anche un voto contro il Jobs Act, contro la “buona scuola”, il piano casa, l’ipotesi dello stretto di Messina, contro la compressione di qualsiasi spazio di partecipazione. E siamo gli stessi che faranno di tutto per vincere i referendum abrogativi contro il Jobs Act, dall’articolo 18 ai voucher, la battaglia è la stessa. Costi quel che costi, noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro. E seppure proverete a far saltare i referendum con qualche operazioncina di maquillage, state pur certi che sugli stessi temi ci presenteremo alle elezioni dall’estero e dall’Italia».«Caro ministro Poletti, le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano». Comincia con queste parole la lettera aperta che Marta Fana, ricercatrice impegnata a Parigi, ha affidato a “L’Espresso” dopo la sconcertante uscita dell’ex dirigente LegaCoop, ora membro dell’esecutivo Gentiloni: «Centomila giovani in fuga dall’Italia? Conosco gente che è bene non avere tra i piedi». Poletti ha espresso in modo esplicito un pensiero che dimostra la ormai storica rassegnazione dell’ex sinistra al pensiero unico, quello del mercato, sancita da personalità come Tiziano Treu e Marco Biagi, che hanno firmato le tappe fondamentali della revoca dei diritti del lavoro, per poi arrivare allo scempio della riforma Fornero e al Jobs Act renziano. «Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più – scrive Marta Fana – non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci. Parlo dei voucher, ministro». L’Inps ha appena reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando Poletti è ministro, ne sono stati venduti oltre 265 milioni: «E’ sfruttamento. Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa».
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Un governo di spettri, guidato da un troll del Vaticano
Renzi “asfaltato” dai No, poi sarà il Vaticano a scegliere il nuovo capo del governo. Questa la profezia dell’ex ministro socialista Rino Formica, pronunciata con largo anticipo sull’esito del referendum che ha poi in effetti disarcionato il premier. Azzeccata anche la seconda parte della previsione? Parrebbe di sì, a leggere “Coscienze in Rete”, il blog del network creato da Fausto Carotenuto. Gentiloni, scrive oggi il newsmagazine, è «rampollo di una famiglia nota per ripetuti, secolari servizi al Vaticano nel campo dell’influenza nella politica italiana». Lo stesso Carotenuto definisce Gentiloni «di nobili, cattolicissimi lombi». Se il No del 4 dicembre ha rappresentato «un sospiro di sollievo», per quasi 20 milioni di italiani, felici di «non vedere più in tutti i media a ripetizione il bulletto toscano che pontifica sulla propria capacità di fare miracoli, con la faccia di tolla che spara bugie a raffica, circondato da un gruppetto di pretoriani invischiati con le peggiori lobbies», attenzione: «Stiamo attenti a non riaddormentarci subito. Perché il vero problema in effetti non era Renzi». Il fiorentino «non comandava e non decideva proprio nulla: era solo il “troll”, la maschera, il burattino del potere», che infatti «rimane intatto, come prima». Il vertice ha semplicemente “ordinato” al Quirinale di «nominare il suo nuovo troll». Gentiloni chi?«Già da un paio d’anni – scrive “Coscienze in Rete” – avvertiamo della presenza del Conte Paolo Gentiloni Siverij e delle sue fantasmagoriche imprese, dal Giubileo rutelliano o come ministro delle telecomunicazioni del governo Prodi, all’allegria con la quale, in qualità di ministro degli esteri di Renzi, si prostrava a John Kerry quando questi gli chiedeva soldi e uomini per le guerre americane in Medio Oriente». In guardia, dunque, da «un personaggio chiaramente schierato con i vincitori della corsa al potere negli ultimi anni». E non è un caso, aggiunge il blog, che «nel momento in cui serve l’ennesimo pretoriano per schiacciare i i redivivi, seppur flebili aneliti democratici di questo paese, ci mettano proprio lui». Forse, alla fine la scelta è caduta su Gentiloni per una questione d’immagine: «Uno come Padoan è troppo palesemente legato alla Troika, troppo chiacchierato. E le sue misure, tipo un eventuale ricorso al Mes per sovvertire l’esito referendario, avrebbero potuto creare malcontenti troppo estesi». Forse, «confidano che Gentiloni possa fare esattamente le stesse cose senza scatenare troppo putiferio: come cantava Mary Poppins, “Basta un poco di zuccero e la pillola va giù”».Quando «il conte» divenne ministro degli esteri per il governo Renzi, “Coscienze in Rete” lo accolse così: «Garantisce tutti i potenti, il Conte Paolo Gentiloni Siverij, di feudi e lombi marchigiani». Per conto di Rutelli sindaco di Roma «continuò la tradizione familiare e proprio lui fu nominato assessore al Giubileo, in contatto con la banda che se ne occupò». Uno dei principali esponenti di quella storica “impresa” fu «l’efficentista Bertolaso, “eroe” della mancata ricostruzione aquilana, del disastro della Maddalena e della trasformazione della Protezione Civile in comitato d’affari». Da ministro delle comunicazioni del governo Prodi, Gentiloni «fece la faccia cattiva di quello che doveva distruggere l’impero televisivo di Berlusconi, ma «in effetti la sua funzione si è poi risolta nel proteggerlo, magari a condizioni più utili ai veri circuiti di potere». Il “conte”, poi, «non si fa mancare nemmeno il fatto di essere vicinissimo ad ambienti israeliani e soprattutto americani», scriveva il blog. «E deve proprio essere stata qualche vocina gesuitico-massonica, supportata da manine statunitensi, ad averlo convinto ad essere uno dei primi a sostenere Renzi nel Pd, ben prima che si creasse l’onda opportunistica renziana di questi mesi».L’uomo giusto al posto giusto: al Giubileo, agli esteri, a Palazzo Chigi. «All’origine di ogni nobiltà materiale c’è un non detto, un qualcosa di inconfessabile e di indicibile compiuto al servizio di un potere oscuro più forte: lo stesso indicibile potere che mantiene certe famiglie nobili al potere per secoli», secondo “Coscienze in Rete”. Cosa farà ora questo «governo di spettri?». Se lo domanda Fausto Carotenuto, che saluta «il disgusto, unito al risveglio» degli elettori, che il 4 dicembre hanno mandato a casa «chi non lavorava per i cittadini, ma per altri poteri». Solo che, poi, se togli Renzi ti ritrovi Gentiloni. Missione del nuovo “troll” del potere: «Anestetizzare al massimo gli effetti politici del referendum». Al “conte” non manca il fisico giusto: ha «una faccia diversa» da quella di Renzi, «dimessa», nonché «un eloquio da confessionale, un portamento perfino un po’ contratto e ricurvo, l’espressione di chi è capitato lì per caso». E’ perfetto, per «dare alla gente l’impressione di una maggiore “innocuità”». Errore: «Non abbassiamo la guardia: anche lui continuerà a servire chi lo comanda, senza discussioni e con volontà ferrea. Nella costante ricerca della maggior possibile manipolazione e della riduzione al minimo della libertà di noi cittadini».Carotenuto ne è sicuro: «Con lui si cercherà di fare in modo che nulla cambi, ma questa volta senza nemmeno far finta di cambiare qualcosa. Ancora peggio del solito italico trasformismo descritto nel Gattopardo». Secondo le stime, l’apprezzamento della gente per il nuovo governo è sotto il 20 %: il più basso della storia. «Il che prelude chiaramente alla preparazione di scenari molto diversi di manipolazione della gente, non più affidati a questi gruppi di spettri ormai spenti ed inefficaci». Come dire: il peggio deve ancora arrivare. «Apparentemente il nuovo governo serve solo a fare la nuova legge elettorale. Ma non si è riempito di saggi costituzionalisti, bensì di un numero di “trolls” ancora maggiore del precedente, confermandone la maggior parte. In effetti il ruolo di questo governo è quello di non mollare la presa del potere nemmeno per un attimo sui veri scopi di ogni ministero, che i ministri di questo governo continueranno a perseguire con efficacia, facendo finta di dirigere ministeri che in effetti sono dominati da bande di burocrati inossidabili e inamovibili, di direttori generali e funzionari al soldo dei veri poteri di manipolazione». I ministri-troll? «Sono solamente degli spettri dotati di firma, che fanno solo da “copertura” ai lobbisti legati ai poteri oscuri». E l’orchestra è diretta – come annunciato da Formica – da un nobilissimo “amico” del Vaticano.Renzi “asfaltato” dai No, poi sarà il Vaticano a scegliere il nuovo capo del governo. Questa la profezia dell’ex ministro socialista Rino Formica, pronunciata con largo anticipo sull’esito del referendum che ha poi in effetti disarcionato il premier. Azzeccata anche la seconda parte della previsione? Parrebbe di sì, a leggere “Coscienze in Rete”, il blog del network creato da Fausto Carotenuto. Gentiloni, scrive oggi il newsmagazine, è «rampollo di una famiglia nota per ripetuti, secolari servizi al Vaticano nel campo dell’influenza nella politica italiana». Lo stesso Carotenuto definisce Gentiloni «di nobili, cattolicissimi lombi». Se il No del 4 dicembre ha rappresentato «un sospiro di sollievo», per quasi 20 milioni di italiani, felici di «non vedere più in tutti i media a ripetizione il bulletto toscano che pontifica sulla propria capacità di fare miracoli, con la faccia di tolla che spara bugie a raffica, circondato da un gruppetto di pretoriani invischiati con le peggiori lobbies», attenzione: «Stiamo attenti a non riaddormentarci subito. Perché il vero problema in effetti non era Renzi». Il fiorentino «non comandava e non decideva proprio nulla: era solo il “troll”, la maschera, il burattino del potere», che infatti «rimane intatto, come prima». Il vertice ha semplicemente “ordinato” al Quirinale di «nominare il suo nuovo troll». Gentiloni chi?
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Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.
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Roma e Torino sfrattano Renzi, l’Italia in cerca di un Piano-B
Non c’è ancora un Piano-B, ma intanto vanno bene anche i 5 Stelle per fermare il Pd che mette l’Italia alla frusta in ossequio ai diktat di Bruxelles. “Avviso di sfratto per Renzi”, titolano i giornali dopo i ballottaggi di Roma e Torino: cartellino rosso per la casta di potere allineata all’establishment del rigore europeista. «I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione», scrive Massimo Gramellini sulla “Stampa”. «All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo». A guidarla, c’è «un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere». Per Giulietto Chiesa, «il fallimento di Renzi è politico, non amministrativo, e le conseguenze saranno lunghe e drammatiche». Nella “rivoluzione” in atto, i 5 Stelle sono indispensabili per abbattere gli yesmen, ma non bastano a costruire un’alternativa credibile per uscire dalla crisi ribaltando i presupposti dell’assetto politico-economico.Per la prima volta nella storia, annota Gramellini, la rabbia dei romani e dei torinesi si è manifestata attraverso il rifiuto di chiunque avesse un’esperienza pubblica consolidata: «Era tale il disgusto per i professionisti del ramo che l’acerbità delle due signore Cinquestelle è stata considerata una medaglia al valore». La rivolta esplosa nelle urne «parte dalla pancia e quindi non fa sconti né differenze», né a Roma tra le macerie di Mafia Capitale, né a Torino, dove lo stesso gruppo di interessi «era al potere da troppi decenni e aveva creato un groviglio inestricabile di rapporti amicali e familiari». Il crollo del Muro di Torino, largamente inatteso, fa impressione: i cittadini “licenziano” un vertice trasversale, politico a affaristico, che ha retto per 23 anni l’ex capitale della Fiat, l’unica grande città italiana a non aver conosciuto alternanze, negli ultimi decenni. Un “regime” che si credeva granitico, al punto da ripresentarsi agli elettori con un volto archeologico come quello di Fassino.Se al ballottaggio arrivano un renzista e un grillino, a vincere è il grillino, scrive ancora Gramellini: «Un’indicazione da brividi per i geni che hanno compicciato la nuova legge elettorale». Gli elettori di Berlusconi e Salvini hanno scelto di premiare «quello tra i due candidati che si collocava a maggiore distanza dall’establishment europeista e finanziario, oggi identificato col renzismo». Ed è questa, conclude l’editorialista, la sentenza clamorosa che le urne consegnano al dibattito politico: «Sorto in opposizione alla Casta, dopo due soli anni di governo il renzismo ha finito per diventarne il simbolo». In altre parole, «è fallito il racconto del giovane politico di professione arrivato da Firenze per bonificare il suo partito e poi l’intero sistema, coniugando l’innovazione con la meritocrazia». Per Grasmellini, la crisi del renzismo ha «una data di implosione ben precisa», cioè la cacciata di Marino, il “marziano a Roma” che era «il simbolo plastico di una diversità politica: quanto di più vicino alla “narrazione” renzista si potesse immaginare. L’averlo cacciato in malo modo, quasi irridendolo come un corpo estraneo, ha simultaneamente appiccicato ai suoi epuratori l’etichetta di Casta 2.0. Ha cioè reso il renzismo uguale a ciò che prometteva di cambiare, almeno agli occhi dell’elettore tradizionale di sinistra».Negli anni del bipolarismo estremo, l’elettore Pd veniva spinto a votare il candidato indigesto “turandosi il naso”, per sbarrare la strada all’avversario leghista o berlusconiano. Ma Raggi e Appendino «hanno facce e storie che non mettono paura a nessuno e contro di loro non poteva scattare il richiamo della foresta». Sullo sfondo, aggiunge Gramellini, «la crisi economica sta bruciando le carte della politica una dopo l’altra. Ci erano rimasti due jolly: il renzismo e il grillismo. Uno forse ce lo siamo giocati. Rimane l’ultimo, che per fortuna in Italia è sempre il penultimo». Tra quanti invece non hanno mai considerato “un jolly” il premier fiorentino, ma solo l’ultimo cavallo di Troia dei poteri forti, c’è Giulietto Chiesa, che teme che adesso Renzi farà il diavolo a quattro per recuperare il colpo: «Aspettiamoci mosse azzardate e colpi sotto la cintura. Soprattutto nel prossimo referendum di ottobre su Costituzione e Italicum». Il M5S ha raccolto il risultato di questa catastrofe, certo «giovandosi anche dell’assenza di una destra che è ormai anch’essa allo sfacelo». Un sistema di potere sta crollando, ma non c’è ancora un’alternativa praticabile. L’unica certezza è negativa: il quadro politico di ieri non vale più. «Lo stato del paese dice anche che il M5S, da solo, non sarà sufficiente».Non c’è ancora un Piano-B, ma intanto vanno bene anche i 5 Stelle per fermare il Pd che mette l’Italia alla frusta in ossequio ai diktat di Bruxelles. “Avviso di sfratto per Renzi”, titolano i giornali dopo i ballottaggi di Roma e Torino: cartellino rosso per la casta di potere allineata all’establishment del rigore europeista. «I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione», scrive Massimo Gramellini sulla “Stampa”. «All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo». A guidarla, c’è «un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere». Per Giulietto Chiesa, «il fallimento di Renzi è politico, non amministrativo, e le conseguenze saranno lunghe e drammatiche». Nella “rivoluzione” in atto, i 5 Stelle sono indispensabili per abbattere gli yesmen, ma non bastano a costruire un’alternativa credibile per uscire dalla crisi ribaltando i presupposti dell’assetto politico-economico.
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La Troika mollerà Renzi, ormai gli italiani credono a Salvini
La sera di martedì 28 aprile, tornato a casa dall’ufficio e costatato che il nipotino se ne stava tranquillo, già addormentato fra le braccia di suo padre (mio figlio, che teneva il bambino perché mia nuora era al lavoro), ho fatto una cosa che raramente oso fare, un po’ per “snobbismo” e molto di più per disgusto: ho guardato quasi per intero un talk-show alla tv. Cosa c’è di martedì? “Di Martedì” su La7, appunto, del pessimo ma astuto Giovanni Floris, un ex della Rai a suo tempo soprannominato “il vespino della sinistra”. Ciò che è accaduto nel mondo virtuale di Floris – parte integrante dello spettacolo sistemico – mi ha fatto riflettere, portandomi a trarre conclusioni piuttosto inquietanti. Voglio condividere, di seguito, le mie riflessioni con i lettori di “Pauperclass”, che so essere pochi ma buoni. Mi sono visto il confronto fra Salvini, in collegamento esterno da Strasburgo, e una giornalista radical chic di “Repubblica” (principale rotolo di carta igienica della sinistra euroserva, buonista e pro-troika), tale insignificante Annalisa Cuzzocrea, presente in studio. La querelle era sugli immigrati clandestini che stanno arrivando a frotte nel nostro paese.L’attacco a Matteo Salvini da parte di Cuzzocrea, per la verità scontato e piuttosto prevedibile, verteva proprio su questo tema. Il segretario leghista ha distinto, come fa ultimamente con un po’ di retorica, fra gli immigrati regolari, che lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola, eccetera, e quelli clandestini che rappresentano un problema, per i populisti ma soprattutto per il popolo. Cuzzocrea, non trovando di meglio, ha obbiettato che anche i regolari possono essere entrati come clandestini, prima di regolarizzarsi con difficoltà. Matteo Salvini si è smarcato abilmente, in perfetta linea con quello che è il “sentiment” popolare di questi tempi, vincendo il confronto (almeno a mio dire) davanti agli occhi della cosiddetta opinione pubblica. Forse un po’ banale, vagamente propagandistico, ma sicuramente efficace: «Possiamo ospitare qualche altro milione di clandestini, in attesa che si regolarizzino e trovino un lavoro che non hanno neanche gli italiani? Vada a spiegarlo, signora, agli immigrati che sono qua regolarmente con i documenti a posto che stanno perdendo il lavoro, che non sanno come tirare a fine mese… Vada a spiegare a loro che l’Italia può ospitare altre migliaia … non so quante, decine, centinaia di migliaia – non so quante, mi dica lei un numero – di immigrati senza nessun tipo di titolo».E’ intervenuto Floris, a quel punto, forse in soccorso alla debole Cuzzocrea dagli argomenti scontati, cianciando qualcosa a riguardo di quelli che fanno lavorare in nero i clandestini, subito rintuzzato da un Salvini in forma, che non si è lasciato confondere o attirare in tranelli. Del resto, un altro giornalista che ha fatto domande al segretario leghista era Sergio Rizzo del “Corsera”, che però non sembrava intenzionato a mettere troppo in difficoltà Matteo Salvini, il quale ha fatto nel complesso una buona figura. All’inizio dell’intervista, Giovanni Floris dialogando con Salvini non ha “calcato troppo la mano”, lasciando il Matteo anti-Matteo piuttosto libero di dire la sua e anzi concludendo che Salvini «ha fatto una sorta di indice dei temi che tratteremo» (nel lungo talk-show). Bene Salvini, dunque, ma poi? Per farla breve, perché non voglio commentare tutto il lungo talk-show, le veline piddiote di Renzi, Alessandra Moretti, candidata alle regionali in Veneto, e Alessia Rotta della segreteria piddì (mi scappa una battuta, dato il cognome, ma mi trattengo per ragioni di stile), sono state letteralmente contraddette, sbugiardate e persino massacrate dai giornalisti presenti, come Mario Giordano direttore del Tg4 che ha “curato” particolarmente la Moretti, e da altri ospiti, come ad esempio l’agguerrito sindaco forzaitaliota di Ascoli Piceno, Guido Castelli, che stigmatizzava i drammatici tagli (renziano-piddini) alla spesa degli enti locali, o Massimiliano Fedriga capogruppo leghista alla Camera, che non mancava di assestare i suoi colpetti.In particolare Alessia Rotta è stata ben maciullata da uno scatenato Andrea Scanzi, del “Fatto Quotidiano”, che l’ha persino definita una dei “droidi televisivi” di Renzi, senza che il furbo e controllato Floris s’inquietasse più di tanto. Tutti, o quasi, contro la Moretti e la Rotta, questa ultima anello più che debole della catena renziana, soprattutto davanti a un “professionista della polemica” come Andrea Scanzi. Tanto più che Scanzi, di certo non favorevole alla Lega, ha detto che quelli di sinistra potrebbero riconoscersi nelle parole di Salvini, che ha accennato a problemi reali come quello degli esodati e della “legge Fornero”, della pressione fiscale insostenibile, degli studi di settore, eccetera. Massimiliano Fedriga, leghista, dichiarava di apprezzare le uscite di Scanzi, e Mario Giordano, in collegamento esterno, si inseriva per tirare qualche mazzata anche lui. Ebbene, mi sono chiesto perché mai uno come Floris, apparatchik massmediatico al servizio del potere, ha graziato il “cattivo” Salvini, che nel complesso ne è uscito bene, e ha permesso che dei professionisti del talk-show, molto agguerriti come Scanzi e Giordano, assieme ad altri soggetti più o meno ostili alle veline renziane, facessero a fettine i “droidi televisivi” di Renzi (secondo l’indovinata espressione del giornalista del “Fatto Quotidiano”).Intuendo che uno come Floris difficilmente rischierebbe la sua brillante e remunerativa carriera se non avesse ricevuto qualche input dall’alto, posso concludere che l’aria, forse, sta cambiando e il futuro ci riserverà qualche sorpresa. Anzitutto, ci sono sondaggi segreti – non diffusi mediaticamente, ma a uso e consumo delle sub-élite italiane – che avvertono di un vero e proprio collasso nei consensi per Renzi e per il piddì? E’ possibile che sia così e ciò non potrebbe essere ignorato dai manovratori sopranazionali e dai loro collaborazionisti locali, che dovrebbero correre ai ripari. Non è che in questi sondaggi segreti, molto più aderenti alla realtà di quelli a uso e consumo della neoplebe, Salvini stia crescendo più di quello che mediaticamente i sondaggisti ammettono? Anche questo è possibile, nonostante oggi si sbandieri – sempre a “beneficio” del popolo bue – una certa ripresa di consensi per l’esausto Grillo. Cosa ancor più importante, c’è un’incertezza che riguarda la sorte della martoriata Grecia. Nonostante Tsipras abbia abbassato la testa davanti alla troika (come avevo previsto), da bravo mentitore sinistroide addirittura sostituendo il fido Varoufakis, la Grecia potrebbe riservare nuove sorprese e innescare una violenta crisi in Europa.La crisi colpirebbe inevitabilmente, con brutali impennate dello spread e degli interessi sul debito, anche la sottomessa Italia. E le menzogne renziano-piddine non avrebbero più l’effetto imbonitore, sul volgo, che oggi osserviamo. Si diffonderebbe la paura, mista a un senso di totale impotenza politica che caratterizza i nostri anni, e il famigerato governo-troika commissariale, con la presenza di “tecnici”, stranieri e commissari europei potrebbe diventare, in poche settimane, una realtà. Con o senza il passaggio delle elezioni politiche. Si sta avvicinando per Renzi – parliamo più ragionevolmente di mesi che di settimane – il momento di lasciare il governo, anticipatamente rispetto al 2018? Forse. Potrebbe essere “in cantiere”, per decisione degli occupatori dell’Italia, il passaggio dai governi-Quisling (gli ultimi tre) al governo-troika terminale. I segnali più potenti saranno quasi sicuramente, da un punto di vista economico-finanziario, l’innalzamento repentino dello spread con il bund (non necessariamente e non soltanto “per colpa” della Grecia), che potrà arrivare a quattro volte il livello attuale, e pesanti attacchi speculativi internazionali, accompagnati da una campagna terroristica dei media per impaurire la popolazione e farle accettare, senza reagire, il governo-troika deciso nelle capitali che contano.Un mio interlocutore, tale Maurizio, ha ipotizzato che i signori della finanza che manovrano Renzi e il piddì potrebbero seguire una strada ancor più tortuosa e subdola, per chiudere definitivamente nella morsa l’Italia. L’Italicum dovrebbe essere approvato in breve, a colpi di fiducia, senza nuovi passaggi al Senato per modifiche indesiderate nel testo; ma anche questo non è certo, nonostante la viltà e la malafede delle “opposizioni” interne al piddì e visto il voto segreto. Comunque sia, niente è irreversibile e l’Italicum emana un forte tanfo d’incostituzionalità, cosa che potrebbe fargli fare la fine del Porcellum (ma più rapidamente), nonostante lo straordinario “allineamento astrale” di tutte le istituzioni sotto l’egida della troika. Il “percorso” potrebbe essere quello di permettere una vittoria elettorale – più che di Grillo, il quale ha già vinto senza ottenere risultati – dell’“astro nascente” dell’opposizione parlamentare a Renzi, cioè Matteo Salvini. Si tratterebbe, poi, di affondare il suo governo “populista” e “euroscettico” (e ovviamente il suo consenso) a colpi di spread e di speculazione finanziaria, imponendo a stretto giro di posta un governo-troika, con il paese scivolato nel panico e attraversato dalla paura, da commissariare definitivamente.Le ipotesi che ho presentato fin qui sembrano inverosimili? Non credo, perché le élite finanziarie che tirano i fili del piddì si sono mostrate prive di scrupoli in molte occasioni, e lo saranno anche nei confronti dell’Italia. Se Renzi dovrà lasciare la presidenza del Consiglio (e probabilmente la segreteria piddina) lo farà obbedendo agli ordini. Se Salvini dovrà essere utilizzato come “vittima sacrificale” per arrivare al governo-troika commissariale, non avrà modo di evitarlo, e così Grillo con il cinque stelle, nel caso in cui i maggiori consensi dovessero riversarsi su di lui e non sul segretario leghista. Oppure, in modo meno indiretto, se ci dovesse essere un brutto Grexit, Renzi potrebbe essere costretto a mollare la poltrona a causa dello spread alle stelle (ironia della sorte, lo stesso pretesto usato contro Berlusconi) e l’occasione sarebbe ghiotta per imporre all’Italia un governo di commissari della troika.(Eugenio Orso, “Dal governo Renzi al governo troika’”, da “Pauperclass” del 30 aprile 2015).La sera di martedì 28 aprile, tornato a casa dall’ufficio e costatato che il nipotino se ne stava tranquillo, già addormentato fra le braccia di suo padre (mio figlio, che teneva il bambino perché mia nuora era al lavoro), ho fatto una cosa che raramente oso fare, un po’ per “snobbismo” e molto di più per disgusto: ho guardato quasi per intero un talk-show alla tv. Cosa c’è di martedì? “Di Martedì” su La7, appunto, del pessimo ma astuto Giovanni Floris, un ex della Rai a suo tempo soprannominato “il vespino della sinistra”. Ciò che è accaduto nel mondo virtuale di Floris – parte integrante dello spettacolo sistemico – mi ha fatto riflettere, portandomi a trarre conclusioni piuttosto inquietanti. Voglio condividere, di seguito, le mie riflessioni con i lettori di “Pauperclass”, che so essere pochi ma buoni. Mi sono visto il confronto fra Salvini, in collegamento esterno da Strasburgo, e una giornalista radical chic di “Repubblica” (principale rotolo di carta igienica della sinistra euroserva, buonista e pro-troika), tale insignificante Annalisa Cuzzocrea, presente in studio. La querelle era sugli immigrati clandestini che stanno arrivando a frotte nel nostro paese.
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“Migranti parassiti, peccato ne crepino ancora troppo pochi”
Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi e cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.«Non mi interessa se affondano, basta che non entrino», scrive Marco. «Sempre troppo pochi», sintetizza Giorgio. Crepino pure in fondo al mare, non sono che «700 terroristi in pastura», ovvero «pappa per gli squali», «mangime per i pesci», chiariscono Lorenzo, Giulio e Sergio. «Peccato… così pochi», scrive Silvia. «Peccato che ci sono dei superstiti», dice Moreno. In fondo, sono «700 parassiti in meno da mantenere», aggiunge Franco: «Affondasse anche il Parlamento con tutto il governo e avremmo fatto bingo». Più ne muoiono e meglio è, sostiene Luca. Che aggiunge: «Questi crepano e io bevo felicemente un costoso vino per festeggiare. Olè!». Maria si preoccupa della religione dei migranti annegati: «Speriamo siano tutti musulmani». E comunque, chiosa Claudio: «Pochi, sempre troppo pochi». Che dire, di fronte a questo? «In un mondo più giusto – scrive Martini, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – queste persone andrebbero messe su un apposito barcone e lasciate alla deriva. Nel mondo in cui realmente viviamo, queste persone votano. Ed è proprio questa la ragione principale dell’impossibilità di risolvere il problema dell’immigrazione». L’apartheid, il segregazionismo Usa e i vari fascismi conobbero un sostegno di massa: «Così è anche per la mattanza dei migranti africani».Per risolvere il problema, avverte Martini, ci sono due vie, alternative tra loro. La prima è quella del blocco navale, «naturalmente sponsorizzata dai Nazisti dell’Illinois, ma anche da Renzi, il quale, ricordiamolo, è responsabile del passaggio da “Mare Nostrum” a “Triton”, ovvero del taglio dei due terzi delle risorse destinate al soccorso in mare dei migranti». Questa proposta, ovviamente, «non può aver alcun riflesso pratico finché non si è disposti a sparare sulle imbarcazioni dei migranti, per la banale ragione che quelli non si fermano». Occorrerebbe pertanto un pattugliamento costante (e costoso) delle coste libiche e tunisine, composto da unità pronte ad annientare le imbarcazioni che tentano di forzare il blocco. «Al decimo affondamento è presumibile che i migranti si scoraggino, e che smettano di tentare la fortuna sui barconi». Naturalmente, aggiunge Martini, questa via è del tutto impercorribile: «Nessun politico, militare o funzionario si assumerebbe mai la responsabilità di simili crimini contro l’umanità. Tali crimini sono però l’elemento che darebbe effettività al blocco navale. In ultima analisi, non ci sarà alcun blocco navale: chi ve ne parla spacciandolo per soluzione è un cialtrone e/o un ipocrita».L’altra soluzione è quella di approntare una linea di traghetti tra le coste libiche e un qualche porto siciliano. Questa proposta, «assai meno paradossale di quel che appare», è stata avanzata da alcuni studiosi seri del fenomeno, e implicherebbe numerosi vantaggi: impedirebbe le stragi, stroncherebbe le organizzazioni criminali (i migranti pagherebbero alla linea di traghetti il biglietto che ora pagano agli scafisti), farebbe risparmiare fior di quattrini alla marina militare, e permetterebbe un controllo preventivo, anche sotto il profilo sanitario, delle persone che intendono migrare in Italia. «In una battuta: se la Tirrenia avesse cominciato a fare questo tipo di operazioni dieci anni fa, oggi non avrebbe i conti in rosso, e si sarebbero salvate molte migliaia di vite umane». Questa soluzione, tuttavia, implica altre iniziative, di notevolissima portata. L’afflusso di immigrati andrebbe regolato, gestito, organizzato. Al netto dei richiedenti asilo, andrebbe preparato un programma di avviamento al lavoro, vincolato al buon comportamento del soggetto e dotato di un termine: ad esempio, si potrebbe prevedere di concedere all’immigrato una permanenza, e un impiego, della durata di 5 o 10 anni. Si tratterebbe pertanto di un programma di lavoro garantito. Il programma, tuttavia, non potrebbe includere solo gli immigrati, ma anche i cittadini italiani, pena un’intollerabile disparità di trattamento.Anche così facendo, comunque, occorrerebbe cercare di limitare i numeri degli arrivi. «Per farlo, sarebbe necessario prendere sul serio il leit-motiv di tutti gli xenofobi, aiutare gli stranieri a casa loro». Ma cosa può significare questa espressione? «Se vogliamo darvi un senso – scrive Martini – gli Stati europei dovrebbero investire alcune decine di miliardi di euro l’anno nell’indutrializzazione (possibilmente compatibile con l’ecosistema) dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Gli impieghi sarebbero innumerevoli: dall’introduzione di metodi moderni e meccanizzati per l’irrigazione dei suoli, all’introduzione di reti di servizi efficienti negli agglomerati urbani, all’installazione di centrali di produzione di energia rinnovabile (si pensi al solare); il tutto realizzabile da una forza lavoro retribuibile in misura trascurabile (per gli standard occidentali, non per quelli sub-sahariani: si pensi a stipendi da 100 euro al mese in Mali)». Come è evidente, le soluzioni sarebbero molteplici, ma «il problema è che non sono praticabili». Chi mai potrebbe varare un piano così giusto e intelligente?«La Lega Nord, e tutti i partiti consimili, sarebbero favorevoli a che l’Europa investisse alcuni decimali del suo Pil nei paesi da cui provengono gli immigrati? La risposta è prevedibile: un rotondo no. “Aiutarli a casa loro” va bene come slogan per evitare di affrontare il problema, non come soluzione pratica». La verità, conclude Martini, è che possiamo inventarci tutte le soluzioni più variopinte, ma «verranno tutte invariabilmente affondate dal feroce egoismo dei commentatori di cui sopra, che sono massa elettorale per soddisfare la quale si prodigano Salvini e Renzi, Berlusconi e Grillo (e Sarkozy, Merkel, Farage, Le Pen, Cameron, Rutte)». Non è una questione che si possa «pensare di affrontare gratis, senza concedere qualcosa, senza fare alcun sacrificio (ampiamente ripagato nel lungo termine)». Impossibile risolvere nulla, senza «mettere tra le premesse del problema la necessità di rispettare la dignità dei migranti, anche a costo di togliervi il principio della conservazione del quattrino con ogni mezzo». E quindi tanti saluti e arrivederci, «al prossimo affondamento».Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi a cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.
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Medicina ribelle, contro Big Pharma che fabbrica malattie
“Big Pharma”, l’industria farmaceutica mondiale, impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Pionieri di questo nuovo approccio verso la salute sono gli Stati Uniti, dove tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti. Per promuovere i suoi nuovi prodotti, questo settore spende ogni anno da 8.000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Sono le cifre di un big business, che si trasforma in guerra ai pazienti: si specula sulla loro pelle. Lo scrive, senza giri di parole, un giovane giornalista come Andrea Bertaglio, nel suo ultimo libro, “Medicina ribelle”. Racconta gli abusi del sistema, ma anche le prime clamorose ribellioni. Come quella della dottoressa Patrizia Gentilini, oncologo di Forlì: «Sono un medico, ho lavorato per più di trent’anni in un reparto di oncologia. Sono qui avendo nel cuore la sofferenza, la disperazione, le lacrime – quelle versate e quelle nascoste – dei miei pazienti, delle mogli, dei mariti, dei figli e dei genitori». Domanda: «Perché tanto dolore? Era proprio ineluttabile? Davvero la ricerca e le terapie sempre più mirate e “intelligenti” risolveranno il problema del cancro?».No, purtroppo: «Ancora una volta abbiamo imboccato la strada sbagliata», sostiene la dottoressa. Perché la medicina ufficiale, quella degli ospedali, è tragicamente orientata dal mercato farmaceutico. Un sistema che inquina la conoscenza, a cominciare dalle università e dai centri di ricerca. E’ sempre “Big Pharma” a indirizzare gli investimenti, pensando ai profitti prima che alla salute e all’efficacia delle cure. Clamoroso il capitolo degli psicofarmaci: un mercato virtualmente senza limiti, rivelatosi particolarmente redditizio. «Secondo alcune stime – scrive Bertaglio – psichiatri e produttori di psicofarmaci hanno una fetta di mercato da cui incassano 80 miliardi di dollari ogni anno (sono più di 150.000 dollari al minuto)». Cifre da capogiro. «Le industrie farmaceutiche spendono a questo proposito oltre 22 miliardi di dollari all’anno per convincere ad aumentare le loro prescrizioni, un incredibile 90% del loro budget di marketing», conferma la “Citizens Commission on Human Rights”. Nel 1997, le lobby delle industrie farmaceutiche hanno fatto pressione sul Congresso degli Usa per permettere la pubblicità degli psicofarmaci nelle Tv americane, e questo ha aperto le porte a un torrente di pubblicità. Dai 595 milioni di dollari del 1996 ai 4,7 miliardi di dollari del 2009: un aumento di quasi il 700%.«Non sorprende, quindi, che i conglomerati dei media aborriscano l’idea di mordere la mano di chi li nutre», scrive l’autore di “Medicina ribelle”. «Dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti, sempre negli Stati Uniti, il numero delle malattie psichiche diagnosticate è passato da 26 a 395». Psicofarmaci dati come caramelle anche ai bambini: «È bene ricordare come oltreoceano abbiano superato l’impressionante numero di 14 milioni i bambini in terapia con psicofarmaci per il controllo delle più svariate sindromi del comportamento: dal miglioramento delle performance scolastiche, al controllo dell’iperattività sui banchi di scuola, alle lievi depressioni adolescenziali». Un problema non solo americano, però: «In Germania, sono stati rilasciati lo scorso anno i dati dei bambini diagnosticati iperattivi e quindi probabilmente destinati a terapie farmacologiche: sono 750.000. E il problema non è solo tedesco: se nella vicina Francia quasi il 12% dei bimbi inizia la scuola elementare avendo già assunto una pastiglia di psicofarmaco, abbiamo un problema».La logica, continua Bertaglio, è la stessa che domina in generale nella società dei consumi. Dalla produzione di merci per il loro consumo non siamo forse passati al consumo fine a se stesso per continuare a produrre merci? Bene, allo stesso modo «si è passati dall’invenzione di nuove medicine per la cura delle malattie all’invenzione di nuove malattie per produrre nuovi farmaci». E fabbricare malattie rende moltissimo. «Il caso più eclatante si è probabilmente verificato nel 2004, quando una commissione di “esperti” negli Stati Uniti ha riformulato la definizione di “ipercolesterolemia”», cioè l’eccesso di colesterolo nel sangue. «In pratica, riducendo i livelli ritenuti necessari per autorizzare una terapia medica, hanno letteralmente triplicato da un giorno all’altro il numero di persone che potevano avere bisogno di cure farmacologiche». Dettaglio importante: «Otto dei nove membri di quella commissione lavoravano a quel tempo anche come relatori, consulenti o ricercatori proprio per le case farmaceutiche coinvolte nella produzione di farmaci ipocolesterolemizzanti». E questa, assicura Bertaglio, è solo la vetta dell’iceberg.Già nel 2002, infatti, secondo uno studio pubblicato sul “Journal of the American Medical Association”, l’87% degli autori delle linee-guida cliniche aveva conflitti d’interesse a causa di legami con l’industria farmaceutica. «Di questi, il 59% aveva rapporti diretti con i produttori dei farmaci relativi alle patologie per cui era chiamato a stilare le linee-guida». Qualcosa però sta cominciando a cambiare: a opporsi a “Big Pharma” c’è infatti un numero crescente di sanitari, protagonisti della “medicina ribelle” che rifiuta la logica industriale dei “fabbricanti di malattie”. «Sempre più medici iniziano a sentirsi stanchi di essere indotti a mettere il guadagno delle grandi case farmaceutiche davanti alla vita dei pazienti», sintetizza Bertaglio, in un libro che fotografa un diverso approccio con il concetto di salute. Il volume, inoltre, «si interroga su quello che ci può capitare con l’eccessiva americanizzazione (che va oltre la semplice privatizzazione) del sistema sanitario».“Medicina ribelle” non è ovviamente un manuale scientifico, né una mera raccolta di interviste, ma un insieme di punti di vista alternativi. Lungi dal rifiutare il progresso medico-farmacologico, «sarebbe altrettanto sbagliato non iniziare a reagire ai continui tentativi di venderci, a caro prezzo, un sacco di porcherie di cui non solo non abbiamo bisogno, ma che addirittura ci portano a vivere peggio». Anche in un sistema come il nostro, basato sul profitto, stanno aumentando i medici che non hanno più intenzione di sottostare a certe dinamiche di mercato. Questa è la loro storia, la loro missione. «Io sono qui per dire che rifiuto una “scienza” per la quale un veleno non è mai abbastanza veleno per essere dichiarato tale», dichiara la dottoressa Gentilini. «Sono qui perché rifiuto una medicina per la quale i morti che si contano non sono mai abbastanza per decidersi ad affermare che è il caso di prendere provvedimenti. E sono qui perché rifiuto un mondo accademico che celebra come grande epidemiologo sir Richard Doll, colui che trent’anni fa attribuì a cause ambientali solo il 2% dei tumori, dimenticando che Doll era sul libro paga della Monsanto».Non solo: Doll «era pagato in percentuale in base alla quantità di sostanze chimiche annualmente prodotte da tutta l’industria chimica mondiale». E oggi, «sia chiaro, nulla è cambiato». L’oncologa di Forlì “rifiuta” una scienza e una medicina che non hanno celebrato e ricordato un ricercatore come Lorenzo Tomatis, insigne scienziato sconosciuto al grande pubblico: ignorato dai media, «ha posto le basi scientifiche e metodologiche della cancerogenesi, identificando e classificando gli agenti inquinanti e le loro conseguenze per la salute umana». Per il medico romagnolo, Tomatis «rappresenta la vera faccia della scienza e della medicina: schierata, senza ambiguità alcuna, a difesa della salute e della dignità dell’uomo». Un uomo che si è sempre strenuamente battuto per la prevenzione primaria, ovvero per la tutela della salute pubblica attraverso la riduzione dell’esposizione (ambientale, professionale) a sostanze tossiche cancerogene o comunque nocive.Nel suo lavoro di ricercatore, ricorda Gentilini, Tomais incontrò inaudite difficoltà. Addirittura definì la prevenzione primaria del cancro come «una corsa a ostacoli, in cui l’identificazione di un agente fisico o chimico come cancerogeno viene troppo spesso vista con scetticismo, se non con aperta ostilità». Alcune sostanze sono ritenute cancerogene in alcuni paesi e non in altri. Quando riconosciute, i limiti consentiti variano a paese a paese, «come se il loro effetto cancerogeno potesse modificarsi passando i confini». Invitato in audizione sul problema dell’incenerimento dei rifiuti al Comune di Forlì il 24 novembre 2005, Tomatis esordì dicendo: «Le generazioni a venire non ci perdoneranno i danni che noi stiamo loro facendo», e spiegò che centinaia di sostanze chimiche, tossiche e pericolose, molte delle quali emesse anche dagli inceneritori, ormai si ritrovano nel cordone ombelicale. «Tutto ciò compromette non solo lo sviluppo fetale, ma comporta un crescente, inesorabile aumento nell’incidenza del cancro nell’infanzia nonché disturbi neuropsichici e cognitivi, e condiziona quello che sarà lo stato complessivo di salute anche da adulti, creando danni che addirittura possono trasmettersi, attraverso le cellule germinali, nelle generazioni successive».Giornalista freelance specializzato sui temi cruciali della sostenibilità ambientale, dopo anni di impegno al “Fatto Quotidiano”, ora Bertaglio collabora con “La Stampa”. Ha alle spalle una stretta collaborazione con Maurizio Pallante, nonché libri sul tema della decrescita, sulla scomparsa del futuro per i giovani, sul fardello inquietante delle scorie nucleari italiane di cui nessuno parla mai. Dalla salute dell’ambiente a quella della persona, il passo è breve. «Ho scritto questo libro – racconta Andrea – perché mi sono reso conto, nell’arco degli anni, di essere entrato in contatto con parecchi medici e realtà del settore sanitario molto a disagio con quello che è ormai diventato il loro campo». Con un certo stupore, Bertaglio si è accorto tempo fa che «ci sono sempre più medici che non hanno più intenzione di sottostare a certe dinamiche di mercato, che non sopportano più di vedere l’interesse economico venire prima della salute». Medici “ribelli”, «stanchi di dover mettere il guadagno delle grandi case farmaceutiche davanti alla vita dei pazienti, magari bambini».Così, Andrea Bertaglio ha raccolto le loro testimonianze, mettendo a fuoco «l’insano intreccio fra profitto e salute», in quest’Europa su cui incombe la progressiva e minacciosa “americanizzazione” del sistema sanitario. «Che cosa ho imparato? Moltissime cose, a partire dalla mole enorme di soldi che ruota intorno al settore farmaceutico», confessa. «Mi ha impressionato l’arbitrarietà con cui si decide se le persone sono malate o meno (cosa che avviene soprattutto in ambito psichiatrico). Mi ha disgustato la semplicità con cui, soprattutto negli Usa ma tendenzialmente anche in Europa, si preferisce dare uno psicofarmaco a un bambino, piuttosto che educarlo o amarlo. E mi ha colpito come molta gente, oggi, persa nel paradosso di una società che si crede molto informata, sia convinta di sapere anche più del proprio medico cosa sia opportuno prescrivergli».(Il libro: Andrea Bertaglio, “Medicina ribelle”, Edizioni L’Età dell’Acquario, 146 pagine, 12 euro).“Big Pharma”, l’industria farmaceutica mondiale, impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Pionieri di questo nuovo approccio verso la salute sono gli Stati Uniti, dove tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti. Per promuovere i suoi nuovi prodotti, questo settore spende ogni anno da 8.000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Sono le cifre di un big business, che si trasforma in guerra ai pazienti: si specula sulla loro pelle. Lo scrive, senza giri di parole, un giovane giornalista come Andrea Bertaglio, nel suo ultimo libro, “Medicina ribelle”. Racconta gli abusi del sistema, ma anche le prime clamorose ribellioni. Come quella della dottoressa Patrizia Gentilini, oncologo di Forlì: «Sono un medico, ho lavorato per più di trent’anni in un reparto di oncologia. Sono qui avendo nel cuore la sofferenza, la disperazione, le lacrime – quelle versate e quelle nascoste – dei miei pazienti, delle mogli, dei mariti, dei figli e dei genitori». Domanda: «Perché tanto dolore? Era proprio ineluttabile? Davvero la ricerca e le terapie sempre più mirate e “intelligenti” risolveranno il problema del cancro?».
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Expo e MasterChef, l’Italia che insegna a servire i padroni
Aveva visto giusto Corrado Ravazzini, nel suo cortometraggio “Perfetto”, a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo status sociale nel capitalismo post-moderno. Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì chef, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di “skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli chef e dei ristoranti blasonati con una sorta di imponderabile disgusto. L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per “ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati sommelier a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.Tale disgusto si amplifica a dismisura quando accendo la televisione e osservo per alcuni minuti (limite massimo di tolleranza) una puntata di “Masterchef”. Questa spiacevole sensazione (appunto, di disgusto) non è tuttavia del tutto infruttuosa, perchè ha un effetto pedagogico e mostra chiaramente che l’equazione “ristorante = ostentazione della differenza di classe sociale” non è solo frutto della mia immaginazione ma una realtà oggettiva e conclamata. Del resto non si tratta solo di un paradigma sociale che ci ricorda – per chi l’avesse dimenticato – che viviamo ancora in una società divisa in classi, ma anche del paradigma del capolinea di una nazione, la nostra, che ormai si è ridotta come un paese del terzo mondo a vendere solo cibo e turismo. Se penso all’expo del 2015 dedicato al cibo (si ricordi che per esempio la Tour Eiffel fu costruita appunto nell’expo del 1889, e si raffronti con la miserrima sagra del tartufo nostrana a cui l’abbiamo ridotta nel 2015) mi rendo conto che per un giovane in questo paese non c’è più speranza.L’unica prospettiva che gli offre questo paese è scegliere tra una carriera come cameriere o come cuoco, magari con la segreta speranza un giorno di diventare chef e rifarsi delle umiliazioni subite dal cliente che per definizione “ha sempre ragione”, e di quelle subite dal padrone che, per definizione, ha ancora più ragione del cliente. Diventa così magicamente spiegabile, per noi outsider del mondo della cucina, tutto l’assurdo interesse sado-masochista, che in questa infelice nazione milioni di persone riversano in questa sarabanda di maleducazione e arroganza chiamata “Masterchef”. Frotte di cuochi e camerieri vedono in “Masterchef” una sorta di rievocazione della loro triste, alienante e frustrante vita quotidiana. Ma c’è di più, “Masterchef” è il momento pedagogico in cui bisogna insegnare a milioni di giovani italiani come ci si comporta nei confronti dei superiori, come subire i peggiori insulti senza fiatare; del resto è questo che offre il mercato del lavoro al giovane italiano.Se l’industria è morta, finisce la possibilità anche solo teorica di fare una carriera “tecnica” in cui il lavoro sia scisso dal suo aspetto servile di “sudditanza al cliente” (e al padrone). Ma l’industria è morta e all’Expo si parlerà di cibo, cibo solo cibo e nient’altro che cibo… Riflesso di ciò che l’Italia è diventata: un paese con una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri che possono lavorare solo e soltanto in una serie di lavori servili che gratifichino i padroni, perchè è questa la traduzione vera della parola arcana “terziarizzazione” dietro la quale si cercano di nascondere le tremende condizioni della società capitalistica postindustriale. Credevamo che la fabbrica fosse l’apice dello sfruttamento, e invece è arrivata l’era del ristorante, degli chef e dei “Masterchef”. Cari giovani, buona fortuna, ne avremo bisogno.(Enrico Fiorini, “Masterchef ed Expo, l’Italia dei servi e dei padroni”, da “L’Interferenza” del 23 marzo 2015).Aveva visto giusto Corrado Ravazzini, nel suo cortometraggio “Perfetto”, a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo status sociale nel capitalismo post-moderno. Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì chef, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di “skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli chef e dei ristoranti blasonati con una sorta di imponderabile disgusto. L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per “ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati sommelier a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.
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Udi Segal, eroe: in galera, pur di non sparare su Gaza
«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».Lo stesso Marcelli racconta che, anni fa, ebbe occasion di incontrare a Tel Aviv alcuni “Refuseniks”, esponenti del movimento israeliano contro la guerra, molti dei quali militari. «Erano i tempi della seconda Intifada: altri massacri, tuttora impuniti, si erano svolti da poco a Jenin ed altrove». Aggiunge Marcelli: «Rimasi colpito davvero dalla tranquilla fermezza di quelle persone, degne esponenti di una cultura millenaria cui l’umanità deve moltissimo, degni continuatori dei ribelli che difesero con le armi la loro vita e la loro dignità nel ghetto di Varsavia contro gli assassini nazisti». Una cultura civile e una nobile storia «che oggi Netanyahu e altra gentaccia della sua risma, i veri antisemiti, rischiano di gettare per sempre in una pattumeria piena di sangue e di bugie». Costretti a vivere in una società ostile, i giovani obiettori israeliani, in un paese in cui «crescono a vista d’occhio le malepiante dell’odio razziale e del fascismo». Eppure, «coraggiosamente, continuano a chiedere il dialogo e una pace giusta, così come chiedono giustizia per tutte le vittime innocenti di questa guerra insensata».Udi Segal sarà rinchiuso per sei mesi nel carcere militare Prison Six. «Israele può continuare questa occupazione, “but not in my name”, non nel mio nome», dichiara a Gianni Rosini del “Fatto”. Se un sondaggio del “Jerusalem Post” rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione “Protective Edge”, sul fronte opposto sono almeno 50 i soldati dell’Idf, l’Israel Defense Force, che hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione. «E migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionisti “Neturei Karta”, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza». L’appoggio del paese alla politica di Netanyahu è ancora forte, ammette il giovane Segal, «ma ci sono molte persone che sono stanche di questa guerra: solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione».«Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione». In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. «Non so ancora di preciso quanto rimarrò in cella – continua il ragazzo – anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro». Gli altri 50 soldati obiettori la pensano come lui. Lo spiegano in una lettera al “Washington Post”: «Ci opponiamo all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare».Gli israeliani, scrive Giannuli, sono già al massimo dei rapporti di forza nei confronti dei loro avversari, «a meno di non pensare davvero ad un genocidio, cosa che immaginiamo (e speriamo) ripugni la maggioranza della stessa opinione pubblica israeliana». A ben vedere, osserva lo storico dell’ateneo milanese, «lo Stato d’Israele esce indebolito da questa “brillante” operazione militare: persino gli Usa mostrano maggiore freddezza del passato e cresce il suo isolamento internazionale, l’opinione pubblica europea è disgustata mentre si risolleva una preoccupante ondata di antisemitismo», al punto che «la memoria del genocidio ebraico ne è sporcata e logorata», mentre nei paesi arabi «si ridestano gli umori più ostili a Israele rimettendo in discussione l’accettazione della sua esistenza. Vi sembrano costi politici da poco? E per aver ottenuto cosa? Questa offensiva ha comportato autentici crimini di guerra che non saranno perseguiti solo perché sul banco degli imputati ci vanno i vinti, e Israele non lo è».Domanda: quanto peserà l’obiezione di coscienza di alcune decine di militari, di fronte all’ennesima mattanza? Furono molti i soldati che, all’epoca, rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Un “rifiuto selettivo” che poi si estese ai Territori Occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere in Cisgordania e Gaza, ricorda ancora il “Fatto”, si chiama “Ometz LeSarev” o anche “Courage to Refuse”, coraggio di rifiutare. I 623 componenti del movimento dei “refuseniks”, formatosi nel 2002 e guidato da un ex generale dell’aviazione, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare: per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al Premio Nobel per la Pace.Tutto inutile, però, secondo Fabio Marcelli, fino a quando l’ipocrita Occidente continerà imperterrito «il traffico di armi e il sostegno, sia politico che militare, nei confronti del governo assassino» di Netanyahu, perfettamente consapevole che i tre studenti israeliani rapiti – casus belli dell’ultimo massacro – non erano finiti nelle mani di Hamas. I colpevoli siamo anche noi: il Tribunale Penale Internazionale rifiuta di tutelare i palestinesi. «A fronte di questa e altre vergognose manifestazioni di codardia e realpolitik», cioè subalternità al potere imperiale Usa, «occorre continuare la lotta per una giusta pace in Medio Oriente: lo dobbiamo alle mille e più vittime innocenti di Gaza, lo dobbiamo a Udi, ai giovani israeliani che rifiutano la guerra».«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».
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Renzi, il clown di Firenze che finge di sfidare la Germania
Renzi? L’uomo della provvidenza 2014, dotato di un unico ufficio efficiente: quello delle pubbliche relazioni. Il giovane premier è un fenomeno: è riuscito ad aumentare la sua popolarità nonostante non abbia rispettato nessuna delle scadenze sulle riforme annunciate. Un bluff anche l’aver vantato di ottenere più flessibilità da Bruxelles, mentre gli indicatori economici continuano a precipitare. «Per non dire della sua raggelante slealtà verso Letta, “Enrico, stai sereno”». La sua capacità comunicativa è più forte dei fatti, prende nota Marco Della Luna. In questo, Renzi batte Berlusconi. Marketing raffinato, capacità di schivare il colpo ed evitare «il confronto diretto, serio, approfondito sui risultati e sui programmi». Confronto «da cui spiccherebbe la sua inconsistenza», zero analisi economica, nessuna reale soluzione. Così, non è che altro che «illogicità infantile» la fiducia riposta in lui. Renzi è sempre di fretta: scusate, ora non ho tempo. Se la cava così, evitando qualsiasi domanda. E poi, si sa, le domande sono solo seccature che fanno perdere tempo prezioso.«L’uomo della provvidenza 2014 non ha mai tempo per i consuntivi», continua l’avvocato Della Luna sul suo blog. «Come i suoi due predecessori», Monti e Letta, di cui sta eseguendo più o meno alla lettera il programma, in realtà scritto tra Berlino e Bruxelles, Renzi «sa che quando arrivano i consuntivi la bolla delle speranze sfloppa». Problema, perché «la sua forza sta nel rilanciarle, le speranze: a 100 giorni dapprima, oggi a 1.000». Il momento della verifica? Può attendere, basta che nessuno se ne accorga. Stessa tattica della fretta anche a Strasburgo: prima del discorso ha evitato contatti persino coi suoi parlamentari, e al termine ha dribblato i giornalisti e le loro fastidiose domande, correndo al sicuro nel salotto di Vespa. Quanto all’imbarazzante discorso europeo, «Renzi ha esordito avvertendo che il programma operativo lo aveva depositato alla presidenza del Parlamento in forma scritta», quindi non ne avrebbe parlato in aula. «Il programma, cioè, è una conoscenza riservata ai livelli superiori; per il grande pubblico va bene lo show».Mentre perdura il mistero sul programma, resta solo l’aria fritta del discorso: zero contenuti, ovvero «enunciati ideologici, figure retoriche, evocazioni culturali di bassa qualità, affermazioni velleitarie» su misura per l’elettorato italiano, presso il quale «Renzi ha cercato di accreditarsi come difensore degli interessi nazionali (mentre non lo è come non lo erano Letta e Monti)». Ha anche cercato di guadagnarsi consenso e simpatia «esprimendo giudizi, proteste, accuse, sogni», proiezioni retoriche a buon mercato «in cui si può ritenere che si riconoscano molti strati popolari italiani: noi siamo bravi, noi facciamo riforme sostanziali, noi diamo più di quanto riceviamo, noi non accettiamo lezioni da nessuno, la colpa è degli altri, noi abbiamo una grande storia dietro le spalle, noi abbiamo diritto a reclamare flessibilità anche perché essa è condizione per il successo anziché insuccesso dell’Europa stessa». Parlando a braccio, Renzi «ha fatto il gigione, o il ganzo, come si dice in Toscana, ma con una caricatura della toscanità, uno stile che i miei amici toscani trovano forzato e grossolano», annota Della Luna.Insomma, di fronte «al grande dramma sociale, alla crescente diseguaglianza entro i paesi europei e di fronte al fatto che l’Eurozona cresce la metà dei paesi dell’Ocse», al cospetto di tutta l’Europa il premier italiano «parla di Ulisse e Telemaco, di orgoglio nazionale, di sentimenti e ideali, di accoglienza ai migranti, e non di cose concrete». In altre parole, «tratta il suo pubblico come un insieme di deficienti». E non a torto, purtroppo: «Molti, in effetti, lo applaudono». Per Della Luna, «è stato uno spettacolo disgustoso». Siccome le cose in Europa vanno palesemente male, molto male, e le tensioni continuano ad aumentare, «un approccio serio, professionalmente nonché politicamente onesto, sarebbe stato incentrato sull’analisi di questi mali e delle loro cause, per proseguire con una motivata proposta di soluzioni operative». Renzi, per esempio, «avrebbe dovuto rilevare che l’Ue ha applicato una teoria economica, con le sue ricette e le sue riforme – tra cui l’austerità – che da anni i fatti stanno smentendo, perché non produce risanamento del debito ma aggravamento, non produce stabilità ma instabilità, non produce sviluppo ma recessione». C’è divergenza là dove dovrebbe esserci convergenza tra diverse economie, perché il rigore «non produce occupazione ma precari, disoccupati e sottoccupati».Se i fatti smentiscono rovinosamente tutte le previsioni dell’élite eurocratica, «non si tratta di aumentare di qualche centesimo percentuale la flessibilità del meccanismo, ma di prendere atto che la teoria è falsa perché confutata dai fatti». Stesso discorso per l’euro e i suoi effetti reali. In quanto alle “riforme” neoliberiste continuamente evocate, riforme «che Renzi e i mass media presentano al popolo come contropartita per la “flessibilità”», Della Luna ricorda che quelle contro-riforme «vengono dalla medesima teoria confutata dai fatti, e fanno parte di quella linea di riforme del settore bancario e finanziario che hanno permesso, in Europa come in America, le maxi-bolle e le mega-truffe bancarie che, oltre alla crisi bancaria mondiale, con la loro ricaduta sulle finanze pubbliche, hanno prodotto la crisi dei debiti sovrani, dei debiti pubblici, in cui stiamo dibattendoci. E’ proprio il caso di continuare su quella linea?». Sappiamo qual è il risultato: «Precipitare le nazioni in condizioni di miseria e asservimento dal potere bancario».Renzi, continua Della Luna, avrebbe dovuto rilevare che quella teoria smentita dai fatti e quei principi di pareggio di bilancio e liberalizzazione finanziaria anch’essi smentiti dai fatti «ormai li difende solo la Germania assieme ai suoi satelliti, e li difende non per ragioni “scientifiche”, ma solo perché ne trae un vantaggio a spese degli altri paesi, in quanto ne assorbe capitali e altre risorse». Quindi, il vero problema «è un conflitto oggettivo di interessi». E la trattativa, da parte dei paesi svantaggiati come l’Italia, «può funzionare solo se prospetta alla Germania la scelta secca, con una rigida data di scadenza, tra un accordo per nuovo sistema finanziario e monetario da una parte, e dall’altra parte un piano-B, di rottura, in cui la Germania abbia da perdere seriamente». Altrimenti, «niente tutela degli interessi nazionali, ma solo fandonie». E la disputa coi “falchi” tedeschi «è solo una messa in scena per illudere il popolo degli sprovveduti», quello che applaude alle trovate del clown di Firenze mentre la nave affonda.Renzi? L’uomo della provvidenza 2014, dotato di un unico ufficio efficiente: quello delle pubbliche relazioni. Il giovane premier è un fenomeno: è riuscito ad aumentare la sua popolarità nonostante non abbia rispettato nessuna delle scadenze sulle riforme annunciate. Un bluff anche l’aver vantato di ottenere più flessibilità da Bruxelles, mentre gli indicatori economici continuano a precipitare. «Per non dire della sua raggelante slealtà verso Letta, “Enrico, stai sereno”». La sua capacità comunicativa è più forte dei fatti, prende nota Marco Della Luna. In questo, Renzi batte Berlusconi. Marketing raffinato, capacità di schivare il colpo ed evitare «il confronto diretto, serio, approfondito sui risultati e sui programmi». Confronto «da cui spiccherebbe la sua inconsistenza», zero analisi economica, nessuna reale soluzione. Così, non è altro che «illogicità infantile» la fiducia riposta in lui. Renzi è sempre di fretta: scusate, ora non ho tempo. Se la cava così, evitando qualsiasi domanda. Le interviste? Seccature, che fan perdere tempo prezioso.