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Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.
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Le Pen: no-euro e sfide a viso aperto, Grillo prenda nota
Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi due. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.Il “problema”, per i tecno-gestori della cupola politico-finanziaria che ci governa con potere praticamente assoluto, sono i numeri: quelli dei sondaggi che assegnano alla Le Pen il 24% delle intenzioni di voto dei francesi. Più o meno la stessa quota riservata in Italia ai grillini, valutati sopra il 20% e già sottostimati nella precedente tornata elettorale. Milioni di elettori, tra Francia e Italia, che formano una diga potenziale contro lo strapotere della Troika: anche se molto più vago di Marine Le Pen, lo stesso Grillo non può certo essere considerato un docile esecutore della politica di rigore, quella del massacro sociale neoliberista che sta piegando l’Europa grazie alla Bce di Draghi e ai super-commissari di Bruxelles, non eletti da nessuno ma sempre agli ordini di Angela Merkel, e prima ancora delle lobby planetarie che usano la Commissione Europea per far scrivere una dopo l’altra, sotto dettatura, le leggi-capestro buone solo per le multinazionali e i grandi cannibali della finanza mondiale, i Padroni dell’Universo.Proprio grazie alla straordinaria grinta di Marine Le Pen, ora il fronte anti-austerity ha davvero cambiato marcia, rileva il blog “Cobraf” in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”: la grande stampa internazionale bolla ancora il Front National come “fascista” per la chiusura brutale sull’immigrazione, ma la Le Pen si smarca dal passato paterno, rifiuta di considerarsi “destra”. In economia si definisce addirittura “socialista”, e attacca: «L’austerità porta a più deficit e più debito, e la follia fiscale rallenta lo sviluppo. Il commercio anche in Francia è ridotto come nel Sud Europa. Austerità e follia fiscale: ma per cosa? E’ per loro bella faccia che, anche nel 2014, dovremmo continuare a remunerare profumatamente i rapaci mercati finanziari, di cui siamo stati messi alle dipendenze?».Date un’occhiata al sito di Marine Le Pen, consiglia “Cobraf”: anziché di post, è pieno di video-interviste rilasciate alle maggiori testate, dalle tv nazionali ai santuari gauchisti come “Libération”. E attenzione: la leader del Fn si muove ovunque, in tutto il paese, facendosi riprendere anche in mezzo alle porcilaie, pronta a pronunciarsi su chissà quale crisi regionale alimentare. «Una donna di 46 anni, senza trucco, vestita con solo un maglione». Poi non ci si stupisca se fa il pieno di voti tra contadini e operai. Nessuna paura delle telecamere, la leader del Front National non si nasconde mai: «Al contrario, appena la inviti a un dibattito azzanna gli interlocutori con foga su qualunque argomento. E ovviamente tutti i suoi discorsi sono improvvisati: niente teleprompter che la segue come Obama».Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi tre. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non resta in panchina: si candida. Né si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.
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Io faccio così: diario dall’Italia che ha voltato pagina
Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».Ne è testimone Daniel Tarozzi, reduce da un “giro d’Italia” di sette mesi, alla guida del suo camper, lungo i paesaggi dell’Italia in cambiamento. Tutte e 20 le Regioni dello Stivale, isole comprese. Migliaia di contatti, centinaia di storie. Tutte diverse e tutte simili. «Quando avete cominciato, a vivere così?». Risposta invariabile: «Cinque, sei anni». Cioè da quando la Grande Crisi ha affondato le zanne nel tessuto socio-economico: gli sciacalli della speculazione, Wall Street, il rigore imposto dall’Eurozona. Ovvero: la certezza matematica che sarebbe crollato, con la recessione, un sistema peraltro insopportabile e insostenibile come quello basato sui consumi inutili, drogati dalla pubblicità. Vite in scatola? No, grazie. «La scoperta – racconta Daniel Tarozzi – è che si sta creando una rete diffusa, dal nord al sud, di micro-economie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano».Succede anche in città, non solo in campagna, per iniziativa di gruppi organizzati ma anche di singoli “pionieri” convertiti alla sostenibilità, al risparmio e alla qualità della vita. Parola d’ordine: ridurre le dipendenze. Autocostruzione, energia pulita e autoprodotta, cibo di stagione assicurato tutto l’anno dall’orto sotto casa, grazie alla pratica della permacoltura. E’ una rivoluzione culturale, che spinge le persone a cooperare tra loro riscoprendo il valore spontaneo della solidarietà. «Io credo che dobbiamo passare dal “vinco io, perdi tu” al “vinciamo tutti”», sintetizza Michela Scibilia, di Venezia. E non è solo un orizzonte per nuovi contadini. Ci sono anche inventori, imprenditori, manager. E artigiani, neolaureati, artisti. «Le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica, ma ormai costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata. E dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile». Ci sono tantissime realtà italiane in movimento, conferma l’altoatesino Hans Schmieder, promotore dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco, Bressanone. «Il problema è che queste realtà sono invisibili: dobbiamo lavorare per farle vedere».E’ quello che ha fatto Daniel Tarozzi, col suo diario “on the road” pubblicato da “Chiarelettere”. «L’idea di questo viaggio e poi di questo libro – dice – è nata da un’esigenza fortissima che sentivo da dieci anni». Da giornalista, direttore del newsmagazine “Il Cambiamento”, si è sempre occupato di sostenibilità, decrescita e transizione. «Tutti questi movimenti e queste realtà, solo apparentemente piccoli, non solo sono attivi sul territorio, ma riescono a incidere concretamente e positivamente nel cambiare, nel raggiungere i propri obiettivi. E la cosa bella è che queste persone alla fine riescono nel loro intento». “Io faccio così”, il leit-motiv di tanti incontri, è diventato il titolo del libro, anticipato da un blog sul “Fatto Quotidiano”. Fotogrammi da un popolo in marcia. Il cambiamento richiede pazienza, ammette un religioso come don Gianni Fazzini, promotore dell’iniziativa “Bilanci di giustizia”, per aiutare le persone bisognose a risparmiare. L’importante, però, è non perdere mai di vista un fatto decisivo: «Il bene più prezioso è un bene immateriale: il tempo». Pazienza e fiducia. «C’è un’Italia che non molla, che va avanti e crede nel futuro».Dal centro di Bologna alla trincea degradata di Scampia, si moltiplicano iniziative solidali che diventano attività organizzate e sostenibili. Nel libro di Daniel Tarozzi, abbondano i paesaggi extraurbani. E il ritorno alla terra è un richiamo potente. «Vogliamo convincere le amministrazioni a inserire gli orti nei loro piani regolatori», dicono Gianfranco Bettega e Adriana Stefani dello Slow Food di Trento, ideatori del progetto “orto in condotta”, nelle scuole. «E’ andato molto bene: ci cercano in tantissimi, non riusciamo a star dietro a tutte le chiamate». Cristina Tagliavini, di “Accesso alla Terra”, sta realizzando una cooperativa aperta a tutti, che acquisti terreni abbandonati o destinati all’edilizia, per affidarli a chi voglia iniziare a coltivare la terra. «Vogliamo seguire i neo-contadini offrendo assistenza e formazione, mettendoli in rete tra loro». Buone notizie da tutta Italia. «Oggi in Puglia c’è un ritorno di tanti giovani che erano emigrati e che – spesso per mancanza di lavoro – decidono di riprovare a costruirsi un futuro qui», racconta Virginia Meo di “Ressud”, sodalizio che mette in contatto le realtà di economia solidale dall’Abruzzo alla Sicilia. «Sono davvero tante – dice Daniel Tarozzi – le persone che, in questo momento di crisi e senza neppure avere le spalle coperte, si licenziano e cercano di costruire una vita diversa». Motivo: «Contestano il sistema in cui vivono, e i suoi falsi valori». Ebbene sì: «C’è davvero un’Italia che cambia, ed è quella che ho cercato di raccontare».(Il libro: Daniel Tarozzi, “Io faccio così”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 14,50).Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».
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Orsi: Napolitano è il garante della scomparsa dell’Italia
Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».Il governo, scrive Orsi in un’analisi pubblicata da “Affari Italiani”, sa perfettamente che la situazione è insostenibile. Ma per ora è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’Iva (22%), che deprime ulteriormente i consumi. «Vacui» i proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie: tutti sanno che non accadrà. Politici e stampa mainstream annunciano una ripresa imminente? Perfettamente possibile, un trimestre positivo, per un’economia che ha perso l’8% del suo Pil. Ma chiamare “ripresa” un eventuale +0,3% «è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni: più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione». Numeri impietosi: il 15% del settore manifatturiero, che in Italia (prima della crisi) era il più grande in Europa dopo quello tedesco, è stato distrutto. E circa 32.000 aziende sono scomparse. «Questo dato, da solo, dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il paese subisce».Nell’Europa di Maastricht, quella della camicia di forza rappresentata dalla moneta unica, l’Italia è entrata nel peggior modo possibile, con una cultura politica «enormemente degradata». Negli ultimi decenni, osserva Orsi, l’élite italiana «ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione: l’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori». La leadership del paese, continua il professor Orsi, non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader nei loro settori. Poi la tagliola dell’Eurozona: l’Italia «ha firmato i trattati sull’euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità». Non solo: «Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’Ue sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini». Oggi, l’Italia è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono certa «la scomparsa completa della nazione».Da noi, il livello di tassazione sulle imprese è il più alto dell’Ue, e uno dei più elevati al mondo. Questo, insieme alla catastrofe dello Stato, sta spingendo gli imprenditori all’estero – non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo (Oriente, Asia meridionale), ma anche verso la vicina Svizzera e la stessa Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende trovano uno Stato «pronto a collaborare con loro, anziché a sabotarli». Aggiunge Orsi: «La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli, con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale». Chi è istruito e produce valore pensa solo a emigrare. Così, «l’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri paesi più organizzati, che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia».Inoltre, siamo entrati «in un periodo di anomalia costituzionale», dopo che i partiti nel 2011 hanno «portato il paese ad un quasi-collasso», evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Chi comanda, oggi? «Il paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’Ue e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del presidente – aggiunge Orsi – è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale».Per il professore della London School of Economics, «l’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese». Errore: «Saranno amaramente delusi», perché «l’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il paese dalla rovina». Sarebbe facile, aggiunge Orsi, sostenere che Monti ha aggravato la già pesante recessione. Ma Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. «I tecnocrati – spiega l’economista – condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il paese». Letta, Napolitano e le loro coorti di tecnici «sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia».A sconcertare, è la rapidità del declino: di questo passo, «in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna». Entro un decennio, «intere regioni, come la Sardegna o la Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare». Riflette Orsi: «I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il paese aveva occupato solo nel tardo medioevo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità». Per il professor Orsi, «a meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia».Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».
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Verità di Stato: oggi contro i negazionisti, ma domani?
Il recente voto parlamentare sul “negazionismo”, in pieno revival di una potente campagna sui reati d’opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, scrive Pino Cabras, una legge presentata come “antifascista” è «il nido in cui farà l’uovo lo Stato etico», cioè «la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo». Beninteso: «Un fascismo di tipo nuovo, politically correct». Dopo tanti tentativi, finora sempre bloccati dalla forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti, anche in Italia la repressione penale delle opinioni s’è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive: l’emendamento presentato nella commissione giustizia del Senato (relatrice la Pd Rosaria Capacchione) e approvato da Pd e Pdl, “Scelta Civica” e Sel, nonché dai senatori “5 Stelle” Cappelletti e Gianrusso, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi “nega o minimizza crimini di genocidio”, come la Shoah.«L’idea di contrastare con la legge penale le opinioni – per quanto infondate e profondamente sbagliate – apre scenari pieni di pericoli», avverte Cabras su “Megachip”. «Legare l’interpretazione della Storia a una legge penale sarebbe come cristallizzare una conoscenza scientifica aperta al dibattito – ad esempio le scoperte di Newton – in una norma sigillata dal dogma dello Stato (e un domani di un governo o di un regime politico contingente)». Accadeva ai tempi dell’Inquisizione, con Galileo costretto abiura e Giordano Bruno al rogo. «Una volta aperto un varco così grande a questo modo di procedere, potrebbero presentarsi abusi drammatici su ogni interpretazione controversa degli eventi storici». L’Europa non è immune dal contagio, come dimostra la recente condanna (tre anni e mezzo di reclusione) dell’austriaca Sylvia Stoltz, avvocato difensore di un presunto “negazionista”.«Le norme qui in Italia non ci sono ancora, ma la tempesta sì: contro Piergiorgio Odifreddi, che si è dichiarato contrario all’approvazione della legge, è già in corso una campagna d’intensità maccartista». Risultato: «Molti di coloro che vorrebbero dire pubblicamente che Odifreddi deve potersi esprimere liberamente non lo faranno, perché il manganello mediatico fa già male. Figuriamoci il clima che avremo con un manganello penale». Tendenza segnalata già nel 2009 dall’insigne medievista Franco Cardini: «Cresce il numero di chi in pubblico afferma una cosa e in privato sostiene esattamente il contrario. E sapete perché? Per il fatto che se ne perseguitano i sostenitori e che li si condanna senza dar loro il diritto di parlare e senza controbattere. Ma in questo modo si crea nell’opinione pubblica la crescente sensazione che se ne abbia paura, e che essi stiano dicendo cose vere: e, questo sì, può costituire la premessa a una nuova ondata di pregiudizio antisemita, anche se è difficile immaginare sotto quali forme potrebbe presentarsi».Le motivazioni per opporsi a un simile provvedimento, ricorda Cabras, sono già state formulate molto bene nel 2007 da molti storici italiani, tra cui diversi studiosi con profonde radici familiari e intellettuali nell’ebraismo italico. Allora si opposero fermamente a Clemente Mastella, all’epoca ministro della giustizia, che – fotocopie alla mano – voleva introdurre nel nostro ordinamento una legge analoga alla francese Fabius-Gayssot. Intervennero storici come David Bidussa, Anna Rossi Doria, Paul Ginsborg e Carlo Ginzburg, Mario Isnenghi, Fabio e Giovanni Levi, Sergio Luzzatto e uno storico della Resistenza come Claudio Pavone. Il reato di negazionismo? Offre ai negazionisti «la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione», perché la legge – perseguendole penalmente – rifiuterebbe di contestare e smontare le loro tesi. In più, «si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico», cosa che «rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato». Attenzione: ogni verità imposta dall’autorità statale non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale. Esempi infiniti: il cosiddetto “antifascismo” nella dittatoriale Ddr, il “socialismo” nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza della strage di piazza Tiananmen in Cina.Per i nostri studiosi, la strada della verità storica di Stato non serve affatto a contrastare fenomeni pericolosi – incitazione alla violenza e all’odio razziale, apologia di reati ripugnanti e offensivi per l’umanità, per i quali esistono già le leggi necessarie a punire comportamenti criminali – mentre «è la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste». Meglio quindi che lo Stato «aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente». Sei anni dopo, ci risiamo. Chiosa Cabras: «Mentre Giorgio Napolitano, fra una larga intesa e l’altra, esorta sovranamente i parlamentari ad approvare le nuove norme penali, i lettori potrebbero esortarli più sovranamente ancora a non approvarle, consigliando loro di leggere l’appello degli storici. Magari recapitandolo nelle loro caselle e-mail».Il recente voto parlamentare sul “negazionismo”, in pieno revival di una potente campagna sui reati d’opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, scrive Pino Cabras, una legge presentata come “antifascista” è «il nido in cui farà l’uovo lo Stato etico», cioè «la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo». Beninteso: «Un fascismo di tipo nuovo, politically correct». Dopo tanti tentativi, finora sempre bloccati dalla forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti, anche in Italia la repressione penale delle opinioni s’è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive: l’emendamento presentato nella commissione giustizia del Senato (relatrice la Pd Rosaria Capacchione) e approvato da Pd e Pdl, “Scelta Civica” e Sel, nonché dai senatori “5 Stelle” Cappelletti e Gianrusso, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi “nega o minimizza crimini di genocidio”, come la Shoah.
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In piazza l’Italia più vera, sfidando la disinformazione
Disinformazione a parte, quella del 19 ottobre è stata una delle più belle e più grandi manifestazioni di massa degli ultimi anni. E anche una vera manifestazione di popolo, dice Giorgio Cremaschi: un corteo con svariate decine di migliaia di giovani, di migranti, di donne e di militanti dei movimenti sociali e di quelli ambientali, di lavoratori e pensionati. Se la si collega con quella del 18 ottobre per lo sciopero dei sindacati di base, come del resto proposto dagli stessi promotori, vediamo finalmente delineato «un possibile blocco sociale antagonista, che rompe le barriere tra generazioni», gli steccati «tra lavoro, precarietà, disoccupazione e reddito, tra diritti sociali e ambiente». E così «si comincia a sentire anche una maturazione di obiettivi politici, con la rivendicazione democratica di decidere mentre si individuano come avversari diretti l’Europa dell’austerità e i suoi governi, da noi quello voluto da Giorgio Napolitano».Chi condivide molti obiettivi sociali e politici di questi movimenti ma non ha voluto sfilare nella capitale «per settarismo o supponenza aristocratica», farà bene a dirsi che ha sbagliato, aggiunge Cremaschi in un post su “Micromega”, perché il 19 ottobre 2013 – col sommarsi di molte voci nel bagno di folla che ha attraversato il centro di Roma – può diventare una data storica, uno spartiacque: fino a ieri a subire la durezza della crisi c’era un’Italia spesso anonima, costretta a restare ai margini, priva di una vera rappresentanza democratica, delusa dai partiti e dai grandi sindacati vicini all’establishment. E’ l’Italia del lavoro che non c’è più, dei diritti confiscati, delle verità negate, dell’economicidio decretato dalla Troika europea col Fiscal Compact, espressione della dittatura dell’euro che impone di riscattare il debito pubblico senza più potere sovrano di spesa pubblica. Quell’Italia si è messa in marcia e ha parlato forte e chiaro, nonostante la pesantissima disinformazione dei media.«C’è da ridere nel vedere la vergogna della grande informazione italiana, davvero ridicola espressione del palazzo», osserva Cremaschi. «Tutti i grandi mass media hanno annunciato la manifestazione del 19 ottobre come un mattinale della questura. Poi, nonostante ci siano stati meno incidenti che in una normale partita di calcio, han cancellato la forza, la bellezza, la freschezza di una manifestazione, ove per la prima volta le famiglie dei migranti sfilavano con i bambini, e han gonfiato all’inverosimile piccolissimi episodi». Ancora una volta, aggiunge l’ex dirigente della Fiom, «la grande informazione si conferma come parte della crisi della nostra democrazia». Eppure, la grande prova offerta dalla manifestazione del 19 ottobre dimostra che si può ripartire lo stesso: «Senza esaltarsi troppo e consapevoli di tante difficoltà, si riparte». Obiettivo: costringere la politica a mettere in agenda la verità della crisi, verso soluzioni che profumino finalmente di democrazia e sovranità popolare.Disinformazione a parte, quella del 19 ottobre è stata una delle più belle e più grandi manifestazioni di massa degli ultimi anni. E anche una vera manifestazione di popolo, dice Giorgio Cremaschi: un corteo con svariate decine di migliaia di giovani, di migranti, di donne e di militanti dei movimenti sociali e di quelli ambientali, di lavoratori e pensionati. Se la si collega con quella del 18 ottobre per lo sciopero dei sindacati di base, come del resto proposto dagli stessi promotori, vediamo finalmente delineato «un possibile blocco sociale antagonista, che rompe le barriere tra generazioni», gli steccati «tra lavoro, precarietà, disoccupazione e reddito, tra diritti sociali e ambiente». E così «si comincia a sentire anche una maturazione di obiettivi politici, con la rivendicazione democratica di decidere mentre si individuano come avversari diretti l’Europa dell’austerità e i suoi governi, da noi quello voluto da Giorgio Napolitano».
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Roma: la protesta tradita dallo spettacolo della paura
Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.“Più tensione che scontri”, alla fine, riconosce il “Fatto Quotidiano”, che riassume: “Bombe carta contro i ministeri, cariche della polizia e della finanza, 8 feriti non gravi tra gli esponenti delle forze dell’ordine, 15 fermati tra i manifestanti: è un bilancio meno grave del previsto quello registrato dopo la giornata di altissima tensione vissuta a Roma per la manifestazione degli antagonisti”. Il corteo del 19 ottobre ha riunito sindacati di base, movimenti contro le grandi opere, precari e sfrattati. In altre parole: l’Italia, quella più colpita dalla crisi. O meglio: quella parte di Italia che alla crisi ha finora cercato di reagire, sui territori, contestando l’establishment in modo frontale, senza fare sconti a partiti e sindacati. «Alzare il livello dello scontro» oggi non significa scagliare sassi contro la polizia, ma «costringere la politica a dare risposte», annunciava una ragazza col megafono, ripresa da “RaiTre”.Buio totale, invece, da “RaiNews24”: i corrispondenti disseminati lungo il tragitto del corteo si sono limitati al “bollettino di guerra”, al 99% rimasto in bianco: niente scontri – come nel più banale dispaccio meteo, quello che annuncia “precipitazioni assenti”. Massima enfasi, dai media, nei soli tre brevi episodi di scontro, per fortuna incruenti: il contatto sfiorato con i “ragazzi di Casapound” tempestivamente bloccati dalla polizia prima che potessero raggiungere il corteo, l’improvviso agguato agli agenti della Guardia di Finanza schierati davanti al ministero dell’economia – sassi, petardi, sprangate, cassonetti incendiati per coprire la ritirata – e i tre rudimentali ordigni, pericolosamente armati con chiodi, scovati all’approdo finale della manifestazione, attorno a Porta Pia. E i tele-giornalisti? Sempre a distanza di sicurezza, lontanissimi dalle voci autentiche della manifestazione. Lo scoop del secolo, filmato quasi sempre da lontano: niente barbari in piazza, ma italiani normali.«Ci sono anche famiglie, anziani, bambini», diceva il reporter di guerra della rete “all news” di Stato, quella che – ai tempi di Roberto Morrione – aveva presidiato in modo esemplare il delirio del drammatico G8 di Genova, con collegamenti continui dal cuore vivo dei cortei. Era il 2001, mille anni fa, con in prima fila il movimento no-global ad avvertire che sarebbe scoppiata una crisi storica, provocata da una selvaggia globalizzazione del business a scapito dei diritti. E ora che l’inferno è arrivato, sotto forma di Eurozona – rigore cieco e tagli al welfare, recessione e disoccupazione di massa – i politici asserragliati nel palazzo, agli ordini dell’élite finanziaria privatizzatrice, sono gli stessi di dodici anni fa. E i loro media – con l’aiuto dei soliti provvidenziali imbecilli muniti di passamontagna – hanno gioco facile, ancora una volta, nell’evitare di raccontare la realtà, facendosi schermo con lo scudo più ancestrale, il più comodo: quello della paura.Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.
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Cari africani, vi ingannano: l’Europa non è il paradiso
Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.Nella maggior parte del continente nero, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani e del progresso. «E i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla». Quando diventano adulti, la simpatia si trasforma in bramosia: «L’Europa è uno spot, dove tutto brilla». La distorsione della realtà è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio Continente e, per orgoglio, mente sulle proprie condizioni: «Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio».Secondo Foa, quando gli africani decidono di emigrare, «non conoscono neppure le nostre consuetudini sociali» e sono «talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche». Ciò che manca, insiste il giornalista, è una comunicazione adeguata. «Dobbiamo essere noi occidentali a smontare il mito dell’immigrazione, non ai nostri occhi ma a quelli degli africani. Nel loro interesse prima ancora del nostro. Perché l’illusione è fonte di tragedia, fonte di crudeltà. E fino a quando non verrà smascherata, il dramma continuerà a perpetuarsi, con la morte in mare o una vita d’inferno, immorale e inaccettabile, nella “scintillante” Europa».Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.
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Susan George: poteri occulti, la Terra è sotto scacco
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.I nuovi oligarchi, spiega la George nell’intervento pronunciato al Festival Internazionale di Ferrara, ottobre 2013, possono agire attraverso le lobby o oscuri “comitati di esperti”, attraverso organismi ad hoc che ottengono riconoscimenti ufficiali. Talvolta operano «attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da “executive” delle imprese al più alto livello». Sono fortissimi, arrivano ovunque: «Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all’interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle “corporate”». Attenzione, averte la George: «Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere». Questo, in fondo, è il “loro” capolavoro: «Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico». Non è così, naturalmente. Le sole lobby ordinarie, rimaste «ai margini dei governi per un paio di secoli», ormai «hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati».Negli Stati Uniti, le lobby devono almeno dichiararsi al Congresso, dire quanto sono pagate e da chi. A Bruxelles, invece, «c’è solo un registro “volontario”, che è una presa in giro, mentre 10-15.000 lobbysti si interfacciano ogni giorno con la Commissione Europea e con gli europarlamentari». Che fanno? «Difendono il cibo-spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaci rischiosi». In più, «difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra», oltre naturalmente ai loro clienti più potenti: le grandi banche. Meno conosciuti delle lobby tradizionali, cioè quelle favorevoli a singole multinazionali, sono in forte crescita specie nel comparto industriale le lobby-fantasma, solitamente definite “istituti”, “fondazioni” o “consigli”, spesso con sede a Washington. Sono pericolose e subdole: pagano esperti per influenzare l’opinione pubblica, fino a negare l’evidenza scientifica, per convincere i consumatori del valore dei loro prodotti-spazzatura.A Bruxelles il loro dominio è totale: decine di “comitati di esperti” preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore. «Dalla metà degli anni ’90 – accusa Susan George – le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso 5 miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l’amministrazione Roosevelt negli anni ’30», tutte leggi «che avevano protetto l’economia americana per sessant’anni». Un contagio: «Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati». Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici “derivati”, come i pacchetti di mutui subprime, senza alcuna regolamentazione. «Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza. E nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di 2 trilioni e 300 miliardi di dollari al giorno, un terzo in più di sei anni fa».Quello illustrato da Susan George, nell’intervento tenuto a Ferrara e ripreso da “Come Don Chisciotte”, è un viaggio nell’occulto. «Ci sono organismi come l’International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99% della popolazione europea». E’ una struttura di importanza decisiva, di cui non parla mai nessuno. Nacque con l’allargamento a Est dell’Unione Europea, per affrontare «l’incubo di 27 diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili». Ed ecco, prontamente, l’arrivo dei soliti super-consulenti, provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile. In pochi anni, il gruppo «è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb». E’ ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma adesso sta elaborando regolamenti per 66 paesi membri, tra cui l’intera Europa. Attenzione: «Lo Iasb è diventato “ufficiale” grazie agli sforzi di un commissario Ue, il neoliberista irlandese Charlie MacCreevy». Commissario dell’Ue, cioè: “ministro” europeo, non-eletto da nessuno. E per di più, egli stesso esperto contabile. Naturalmente, ha potuto agire sotto la protezione di Bruxelles, cioè «senza alcun controllo parlamentare». L’alibi? Il solito: la Iasb è stato presentato come un’agenzia «puramente tecnica». La sua vera missione? Organizzare, legalmente, l’evasione fiscale dei miliardari.«Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati paese per paese, queste continueranno a pagare – abbastanza legalmente – pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività». Le aziende, aggiunge la sociologa, possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione, e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità. Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione. «Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza». E quindi: «Le piccole imprese nazionali o famigliari, con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale». Susan George ha contattato direttamente lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata, paese per paese, fosse nella loro agenda. Risposta: no, ovviamente. «Non c’è di che stupirsi. Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione».L’altro colossale iceberg che ci sta venendo addosso, dal luglio 2013, si chiama Ttip, cioè Transatlantic Trade and Investment Partnership. In italiano: protocollo euro-atlantico su commercio e investimenti. «Questi accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale – gli Stati Uniti e l’Europa». Notizia: le nuove regole di cooperazione euro-atlantica «sono in preparazione dal 1995», da quando cioè «le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell’oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue», la maggiore lobby dell’Occidente, impegnata a «lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore». Il commercio transatlantico ammonta a circa 1.500 miliardi di dollari all’anno. Dov’è il trucco? In apparenza, si negozierà sulle tariffe: ma è un aspetto irrilevante, perché pesano appena il 3%. Il vero obiettivo: «Privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano “ostacoli commerciali”». Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento, c’è «la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti “attesi”». Governi sotto ricatto: comandano loro, i Masters of Universe.Il Trans-Atlantic Business Dialogue, la super-lobby che ha incubato il trattato euro-atlantico, ora ha cambiato nome: si chiama Consiglio Economico Transatlantico. E non si nasconde neppure più. Ammette qual è la sua missione: abbattere le regole e piegare il potere pubblico, a beneficio delle multinazionali. Si definisce apertamente «un organo politico», e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue-Usa». Questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche decisive sui regolamenti che proteggono i consumatori in ogni settore: sicurezza alimentare, prodotti farmaceutici e chimici. Altro obiettivo, la “stabilità finanziaria”. Tradotto: la libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso. «I governi – aggiunge la George – non potranno più privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto», e il processo negoziale «si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini».E come se non bastasse l’infiltrazione nel potere esecutivo, in quello legislativo e persino nel potere giudiziario, le multinazionali ora puntano direttamente anche alle Nazioni Unite. Già nel 2012, alla conferenza Rio + 20 sull’ambiente, i super-padroni formavano la più grande delegazione, capace di allestire un evento spettacolare come il “Business Day”. «Siamo la più grande delegazione d’affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite», disse il rappresentante permanente della Camera di Commercio Internazionale presso l’Onu. Parole chiarissime: «Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo». Oggi, conclude Susan George, le multinazionali arrivano a chiedere un ruolo formale nei negoziati mondiali sul clima. «Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie. È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare (spesso dall’interno) i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune». E’ un super-clan, coi suoi tentacoli e i suoi boss: «Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi». Meglio che i cittadini lo sappiano. E i politici che dovrebbero tutelarli? Non pervenuti, ovviamente.Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.
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Polonia come Cipro: il governo “rapina” i fondi pensione
Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».Il governo polacco, scrive Snyder in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, sta facendo del suo meglio per farlo sembrare una sorta di complicata manovra legale, «ma la verità è che ciò che hanno fatto è stato rubare un patrimonio privato senza dare in cambio alcun compenso». Per l’organizzazione polacca dei fondi pensione, le modifiche sono incostituzionali. Secondo il premier Donald Tusk, ciò che rimane dei versamenti dei cittadini nei fondi privati sarà progressivamente trasferito nel sistema statale nel corso dei prossimi 10 anni, prima che i risparmiatori arrivino all’età età pensionabile. Analogo allarme in Islanda, dove – dopo l’iniziale rivolta contro i banchieri-truffa e i politici loro complici – ora si ventila l’adozione di garanzie vere e proprie, come da modello Ue, solo per i conti correnti fino ai 100.000 euro. E gli altri? Per i ministri delle finanze europei, in futuro il prelievo forzoso sarà la procedura standard per salvare le banche “troppo grandi per fallire”. Obbligazionisti, azionisti e grandi risparmiatori, con conti superiori ai 100.000 euro, saranno i primi a subire perdite nel caso le banche fallissero, mentre solo i titolari di conti inferiori a quella cifra saranno relativamente al sicuro.In Italia, parla da solo il caso Mps: la banca è senza soldi, dovrebbe essere nazionalizzata e ricapitalizzata dallo Stato, ma è praticamente impossibile che accada. La banca si prepara a non remunerare gli obbligazionisti, dopo aver dichiarato la sospensione dei pagamenti residui su tre titoli “ibridi”, «a seguito delle richieste da parte delle autorità europee che gli obbligazionisti contribuiscano alla ristrutturazione del debito della banca». Secondo “Bloomberg”, Siena «non pagherà nessun residuo su circa 481 milioni di euro (650 milioni di dollari) di titoli ibridi in circolazione, emessi attraverso Mps Capital Trust II e Antonveneta Capital Trust I e II». Perché questi titoli? «Perché gli obbligazionisti ibridi hanno protezione zero e zero possibilità di fare ricorso», spiega Snyder. «In base ai termini dei titoli senza scadenza, la banca senese è autorizzata a sospendere il pagamento degli interessi senza essere dichiarata inadempiente», e senza risarcire i titolari delle obbligazioni, “rapinati” per ripianare i conti. Tutto questo avviene solo adesso, cioè dopo le elezioni tedesche: con la Merkel ancora al potere, si è certi che la Germania non permetterà alla Bce di Draghi di varare un altro programma “Ltro” per immettere nuova liquidità salva-banche.Ma se l’Europa piange, il mondo anglosassone non ride: in Nuova Zelanda, i Verdi di Russel Norman accusano il governo di meditare una soluzione “alla Cipro”: i piccoli risparmiatori sarebbero “rapinati” dal programma Obr, “Open Bank Resolution”, messo a punto dal ministro delle finanze Bill English per affrontare un grande fallimento bancario. E persino il Canada si sta muovendo in questa direzione: lo conferma il “Piano d’azione economica 2013” già presentato al Parlamento dal governo di Stephen Harper. «Ciò significa che questo regime di “bail-in” è stato probabilmente progettato molto prima che scoppiasse la crisi di Cipro», annota Snyder. «Ciò significa che i governi del mondo stanno tenendo d’occhio i nostri soldi come parte della soluzione di eventuali futuri fallimenti delle grandi banche: di conseguenza, non vi è più alcun posto veramente “sicuro” per mettere il vostro denaro». L’unico modo per tentare di proteggersi è dislocare i depositi in banche diverse. «Ma se non dai retta agli avvertimenti e continui a mantenere tutte le tue sostanze in un unico grande mucchio, non sorprenderti se un giorno tutto sarà spazzato via in un attimo».Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».
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Becchi: è ora di chiedere le dimissioni di Napolitano
Nel lontano 1991, Giorgio Napolitano denunciava i «comportamenti sempre più abnormi e inquietanti» dell’allora presidente Cossiga, messo sotto accusa per aver «totalmente smarrito il senso della misura». Oggi, scrive Paolo Becchi, è evidente il sospetto che dietro alla richiesta di indulto non vi sia tanto la (scandalosa) condizione dei detenuti, quanto la necessità di «far tornare sulla scena il Caimano». Durissimo, Napolitano, coi grillini che glielo fanno notare: «Se ne fregano dei problemi della gente e del paese». Lungi dal ricordare il piano-carceri presentato ad agosto dal M5S al ministro Cancellieri «senza neppure ottenere una risposta», la “Stampa” preferisce condannare la «miserabile reazione di Grillo», che denuncia il tentativo di creare un salvacondotto per Berlusconi, ignorando «le condizioni inaccettabili in cui versano i detenuti». Pazienza il giornale, ma il Quirinale? «Può il Capo dello Stato entrare in lite con la prima forza politica del Paese?», si domanda il professor Becchi. Con che diritto il “garante della Costituzione” di attaccare l’opposizione?Non è la prima volta che Napolitano prende di mira una parte politica, «difendendo la “partitocrazia” e le sue alleanze», ricorda Becchi su “Micromega”. Dopo i sarcasmi sul “boom” elettorale dei grillini alle regionali 2012, Napolitano ha alzato il tiro e «si è servito del potere di esternazione come strumento di direzione politica». Poteri, dopo la sua «atipica» rielezione, utilizzati «non per difendere la legalità costituzionale, ma a fini politici: difendere a tutti i costi le “larghe intese” tra Pdl e Pd, assicurare la stabilità parlamentare al governo Letta, impedire lo scioglimento anticipato delle Camere e nuove elezioni». Di male in peggio: se il governo tecnico di Monti era «voluto dal presidente», l’esecutivo Letta «è il governo diretto dal presidente, ossia il governo a capo del quale c’è, seppur per interposta persona, Napolitano». E c’è molto altro: la minaccia di dimissioni, la difesa di ministri come Alfano anche dopo l’affaire kazako, i richiami contro la “magistratura politicizzata”, la nomina di Amato a giudice della Corte Costituzionale.Dimissioni, esternazioni, poteri di nomina: tutte prerogative del Capo dello Stato, dice Becchi, ma il Quirinale deve mantenersi neutrale. Se invece attacca il M5S, è evidente chenon rappresenta più «l’unità della nazione, ma soltanto una parte del paese: quella che ha voluto le “larghe intese” della partitocrazia e che cercherà, con tutti i mezzi a sua disposizione, di salvare ancora il Caimano». Costringere Napolitano alle dimissioni – aggiunge Becchi – ritarderebbe i tempi per nuove elezioni, ma rappresenterebbe un atto politico fondamentale: «Significherebbe la sconfitta delle larghe intese». La messa in stato d’accusa «avrebbe un valore simbolico e politico ben più alto di quello di un semplice procedimento “giudiziario”». Per Umberto Eco, l’impeachment non è una condanna, ma un esercizio della sovranità del Parlamento, chiamato a giudicare la condotta del presidente. «Per questo – chiosa Becchi – la messa in stato d’accusa ha un valore indipendentemente dal giudizio che, su di essa, darà poi la Corte Costituzionale». Per il giurista vicino ai grillini, è giunta l’ora di «accusare il Capo dello Stato, di fronte al popolo, di aver violato la Costituzione in nome della quale egli ha sempre dichiarato di agire».Nel lontano 1991, Giorgio Napolitano denunciava i «comportamenti sempre più abnormi e inquietanti» dell’allora presidente Cossiga, messo sotto accusa per aver «totalmente smarrito il senso della misura». Oggi, scrive Paolo Becchi, è evidente il sospetto che dietro alla richiesta di indulto non vi sia tanto la (scandalosa) condizione dei detenuti, quanto la necessità di «far tornare sulla scena il Caimano». Durissimo, Napolitano, coi grillini che glielo fanno notare: «Se ne fregano dei problemi della gente e del paese». Lungi dal ricordare il piano-carceri presentato ad agosto dal M5S al ministro Cancellieri «senza neppure ottenere una risposta», la “Stampa” preferisce condannare la «miserabile reazione di Grillo», che denuncia il tentativo di creare un salvacondotto per Berlusconi, ignorando «le condizioni inaccettabili in cui versano i detenuti». Pazienza il giornale, ma il Quirinale? «Può il Capo dello Stato entrare in lite con la prima forza politica del Paese?», si domanda il professor Becchi. Con che diritto il “garante della Costituzione” di attaccare l’opposizione?
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Tv, nebbia sulla crisi: Report oscura le verità di Iacona
«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».Dopo averci a lungo intrattenuto sui guai del fisco e sulle inefficienze pubblica amministrazione, scrive Martini su “Il Main Stream”, il programma della Gabanelli ha presentato un’inchiesta sui motivi che spingono gli imprenditori a delocalizzare all’estero le aziende. Polonia: una voce narrante cerca di indorare la pillola, che spiegando che a Varsavia «fare impresa è possibile, perché l’imposizione fiscale sulle imprese è quasi inesistente, esiste la possibilità di licenziare incondizionatamente e con breve preavviso, non esiste il Trattamento di Fine Rapporto, non esiste la tredicesima, e in generale si lavora più a lungo per meno». Poi, “Report” mostra «come in Polonia i bambini vengano addestrati sin da piccoli ad acquisire la cultura imprenditoriale». Una “coordinatrice del programma di apprendimento dell’imprenditorialità” spiega che «fin dalla tenera età i piccoli giocano al “Piccolo Bancomat”, e che alle elementari si addestrano al gioco del “Piccolo Ministro delle Finanze”, dove ai bambini è dato di decidere quali spese tagliare».Proseguendo, la Gabanelli individua nella carenza di produttività il vero guaio italiano, e addita chi parla di uscita dall’euro a «ciarlatani che cercano di distrarre dai problemi reali». L’economista Lucrezia Reichlin spiega che l’idea di far acquistare i titoli del Tesoro dalla propria banca centrale è «molto pericolosa», in quanto «toglie incentivi al risanamento dei conti». E archiviare il rigore sui bilanci è ancora più pericoloso, perché «creerebbe inflazione», cioè «una tassa occulta che distrugge i risparmi». Molto meglio, sempre per la Reichlin, che anche l’Italia accetti un piano di “aiuti” dalla Bce, con relativo commissariamento. «La voce narrante conferma», racconta Martini, e passa a intervistare un giornalista di “Repubblica”, sicuro che – con l’uscita dall’euro – i risparmi degli italiani sarebbero decurtati di un terzo. Sempre la voce narrante di “Report” paragona l’uscita dalla moneta unica a «una patrimoniale sui cittadini italiani di centinaia di miliardi: di gran lunga la soluzione più costosa».Sistemati gli “uscisti”, continua Martini, si passa alle altre possibili soluzioni per uscire dalla crisi. «La risposta non può che essere una: fare come la Germania». Così, vengono illustrati gli effetti delle riforme tedesche dei primi anni 2000: aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, perdita di redditi e diritti per i lavoratori. Scelte che però “Report” presenta sotto una luce favorevole: hanno avuto luogo in un momento di crescita dell’economia mondiale, quindi al momento giusto. «A quei tempi la Germania è dimagrita, mentre noi siamo ingrassati, e adesso ci supera», dice la solita voce narrante, evidentemente soddisfatta del “sorpasso virtuoso” dei tedeschi messi a dieta. Infine, un accenno al Fiscal Compact: «Iacona, giustamente, lo indicava come una sciagura», mentre – per gli “esperti” citati dalla Gabanelli – dire che il Fiscal Compact applicato alla lettera strangolerebbe l’economia italiana è, senza mezzi termini, «una cavolata», dal momento che «con un po’ di inflazione e crescita economica il debito si aggiusta da solo». Come a dire: manco ce ne accorgeremo. Inutile spendere altre parole per smontare queste bufale, dice Martini, o spigare che «è truffaldino chiamare “Unione” un’organizzazione che ha il solo fine di portare alle estreme conseguenze la concorrenza tra nazioni, cioè tra lavoratori». Resta l’amarezza: la Gabanelli «fa disinformazione a spese nostre», e attraverso il suo potere mediatico «inocula, ad arte, veleno nelle menti dei cittadini». E l’etica del servizio pubblico? « Gabanelli, mi si passi il francesismo, se ne fotte».«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».