Archivio del Tag ‘disinformazione’
-
Pezzi di merda: fenomenologia dell’odio nell’Italia di Salvini
Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.Negli ultimi tre anni, si apprende, l’Italia ha accolto la quasi totalità dei 700.000 migranti sbarcati sulle sue coste. Il resto d’Europa non li vuole. Deve tenerseli, per forza, l’Uomo Nero. Al quale però non si concede – in cambio – di abbassare le imposte, alzare le pensioni, distribuire un reddito di cittadinanza. “Pezzi di merda”, li qualifica senza giri di parole il filosofo televisivo Massimo Cacciari – ma attenzione: l’insulto non è affatto rivolto ai mostri dell’Unione Europea, i fanatici del rigore, gli affamatori della Grecia, i devastatori dell’Italia, i predoni delle autostrade che poi crollano. Su quelli, tuttalpiù, sono piovute fumose analisi, formulate in italiano forbito. L’espressione brutalmente gergale è invece indirizzata agli insensibili criminali che osano trattenere un centinaio di africani, giovani adulti, a bordo di un natante della Guardia Costiera ormeggiato in un porto siciliano. Tra i “pezzi di merda” più autorevoli, se non altro per il ruolo istituzionale che riveste, è il vicepremier Di Maio, il primo a esprimere – sotto forma di minaccia aperta, alla buon’ora – la possibilità di sospendere i finanziamenti miliardari che l’Italia è tenuta, dai trattati, a versare alla burocrazia Ue.Mentre i filosofi incendiano le strade, già lastricate di furore e di violenza, di odio squadristico e mediatico contro l’insolente governo che gli italiani – quei farabutti – hanno osato votare e ora sostanzialmente approvano, maledetti loro, uno dei due consoli che reggono l’esecutivo Conte arriva dunque ad avvertire i cosiddetti partner europei: attenzione, la corda potrebbe spezzarsi. Si comincia ventilando l’indicibile – la renitenza contributiva – e così ci si infila su un sentiero che potrebbe portare addirittura là dove fino a ieri sarebbe stato impensabile: lo spettro dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, finalmente presentata per quello che è – una cricca di tecnocrati imbroglioni, al soldo della peggiore oligarchia speculativa. Questo è un paese in cui il presidente della Repubblica, parlando con l’allora premier incaricato, lo ha cortesemente (ma irritualmente) invitato a passare a salutare il governatore della Banca d’Italia, l’esimio Ignazio Visco, super-banchiere convinto – al pari del tedesco Günther Oettinger, o del connazionale Carlo Cottarelli – che saranno “i mercati”, in futuro, a “insegnare” agli italiani come votare, pena la scure dello spread, nel caso ripetessero l’errore imperdonabile di premiare gli sciamannati 5 Stelle o, peggio, l’Uomo Nero, cioè l’illuso che voleva il professor Paolo Savona al ministero dell’economia e un principe del giornalismo indipendente come Marcello Foa alla presidenza della Rai.Scherziamo? Siamo impazziti? L’ultima presidente della Rai, Monica Maggioni, è ora presidente della sezione italiana della Commissione Trilaterale, mentre la collega Gruber – quella che ospita frequentemente il noto filosofo, talora affetto da coprolalia – è saldamente ospite dei gagliardi passacarte messi assieme dal conte Étienne Davignon e dall’imperatore David Rockefeller, riuniti per la prima volta nel lontano 1954 all’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, in Olanda. Lo stesso Visco, che governa Bankitalia (di proprietà di banche private) è il pupillo di Mario Draghi, che nel 1992 salì a bordo del panfilo Britannia e oggi governa la Bce (di proprietà di banche private). Draghi risulta essere un membro autorevolissimo dello stesso club che annovera tra i suoi eletti il presidente emerito Napolitano e il francese Jacques Attali, l’uomo-ombra di Macron: prontissimo, tramite l’obbediente Tajani, ad attivare il network sotterraneo dimostratosi capace di indurre Berlusconi a venir meno alla parola data a Salvini, sulla nomina di Foa. Tutto è partito dall’Eliseo, cioè dal vertice politico del paese che, oggi anno, depreda 14 Stati africani portandogli via l’equivalente di 500 miliardi di euro, costringendo i loro giovani a imbarcarsi verso le nostre coste.Qualcuno spieghi, ai migranti soccorsi dalla Diciotti, che non possono fidarsi dell’uomo bianco che si finge loro amico. “Timeo Danaos et dona ferentes”: i greci mi fanno paura anche quando portano doni, dice Laocoonte, nell’Eneide, di fronte al Cavallo di Troia appena giunto davanti alle mura della città assediata. Se solo i giornalisti avessero fatto il loro dovere, accusa il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, in questi anni avremmo avuto meno guerre, meno stragi, meno vittime, perché quasi tutte le guerre, così come l’opaco terrorismo stragista, sono state organizzate a tavolino, dalla stessa élite bugiarda, agitando false prove per demonizzare leader che riteneva scomodi. L’hanno potuto fare, sempre, grazie alla connivente reticenza dei giornali, delle televisioni. Lo stesso si può dire dell’intellighenzia nazionale “embedded”, quella che oggi – tra appelli rabbiosi (e schizzi di sterco) – si permette il lusso di criminalizzare l’Uomo Nero, ignorando deliberatamente i crimini mostruosi dell’oligarchia-fantasma che ha declassato il paese, condannandolo al declino dopo averlo svenduto, pezzo su pezzo, fino a farlo crollare come il ponte di Genova. Un’Italia alla frusta, amputata della sua sovranità e taglieggiata dai finti ragionieri di Bruxelles. Eppure, nel paese a cui la Francia impedisce di eleggere il presidente della televisione di Stato, ci si scaglia selvaggiamente contro il ministro che “sequestra” i migranti su una nave.Il crollo delle dittature è spesso preceduto da violenze inconsulte. In Romania, Nicolae Ceaucescu ordinò alla Securitate di sparare nel mucchio, al primo accenno di ribellione popolare. E il satrapo Siad Barre, a lungo padrone della Somalia grazie anche al provvido sostegno post-coloniale italiano, non esitò a ordinare alla polizia di mitragliare il pubblico dello stadio che aveva osato contestarlo. Si dirà che siamo in Italia, dove vige la legge semiseria della “bolla di componenda”, sintetizzata dal genio letterario di Camilleri: ogni conflitto si trasforma in una tempesta in un bicchier d’acqua, se alla fine tutti si portano a casa la loro fetta di torta. Si dirà che il cosiddetto governo gialloverde, quello dell’Uomo Nero, sta esasperando la crisi dei migranti solo per aprire un fronte alternativo da cui attaccare Bruxelles, cioè il super-potere che gli vieterà di mantenere le promesse fatte agli elettori il 4 marzo, pena il ricatto dell’incursione finanziaria sul costo del debito pubblico di un paese reso vulnerabilissimo, come gli altri dell’Eurozona, dall’assenza di una moneta sovrana con la quale difendersi dal racket della Borsa. Sia come sia, lo spettacolo cui si è costretti ad assistere rivela qualcosa di estremamente inedito: mentre giornali e intellettuali lanciano palle di letame, gli elettori osservano con attenzione le mosse del loro governo, il primo esecutivo – nella storia ingloriosa dell’Ue – completamente sgradito da Bruxelles.Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera italiana diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.
-
Zuesse: Bannon sfida Soros ma non fidatevi, vuole l’Europa
Scrive Eric Zuesse, su “Strategic-culture.org”, che due schieramenti politici – uno guidato da George Soros e l’altro creato dal nuovo arrivato, Steve Bannon – sono entrati in competizione per il controllo politico dell’Europa. Soros ha guidato a lungo i grandi capitalisti liberal americani verso l’egemonia europea, mentre Bannon sta ora organizzando una squadra di miliardari (altrettanto conservatori) per strappare la vittoria ai liberal attraverso la leva del populismo sovranista. Lo scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, sintetizzando la panoramica geopolitica fornita da Zuesse, scrittore e analista statunitense. Bannon contro Soros? Attenzione: «Nessuno di loro è progressista o populista di sinistra», avverte Zuesse. «L’unico populismo che attualmente ogni capitalista promuove è quello della squadra di Bannon. Comunque – aggiunge Zuesse – entrambe le squadre si demonizzano a vicenda, sia per il controllo del governo degli Stati Uniti che, a livello internazionale, per il controllo del mondo intero, opponendo due diverse visioni del mondo: liberale e conservatrice, o meglio globalista e nazionalista». Entrambi dicono di sostenere la democrazia? Sì, ma magari con le rivoluzioni colorate di Soros (Ucraina, Medio Oriente) o le guerre “democratiche” (Iraq) e i “regime change” (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).
-
Pedofili a Hollywood: il vero scandalo, che non esplode mai
Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato anche con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?«Sono stati offerti dettagli morbosi delle violenze di produttori e attori per distrarre l’opinione pubblica da uno scandalo ben peggiore», scrive Enrica Perucchietti in un post su Facebook, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Uno scandalo “silenziato” attraverso la tempesta scatenatasi sui presunti abusi del mondo del cinema, attori e produttori accusati di ricatto sessuale su giovani attrici esordienti. L’altro scandalo, quello rimasto tabù, avrebbe potuto «travolgere e distruggere definitivamente Hollywood: e lì non sarebbe bastato un colpo di spugna per cancellare la violenza». Perché in quel caso «le vittime erano una sorta di agnello sacrificiale dato in pasto al Moloch di turno in cambio di denaro e successo: bambini». Per Enrica Perucchietti, si tratta del «peggior crimine che si possa immaginare», ovvero «la violenza su un bambino». Numerosi fatti di cronaca − come l’accusa di stupro dell’ex attore-bambino Michael Egan al regista Bryan Singer − hanno spinto la regista Amy Berg, già premio Oscar nel 2006 al miglior documentario, “Deliver Us from Evil”, a realizzare un documentario (“An Open Secret”), che analizza alcuni casi di abusi sessuali su minori all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana.Dai pettegolezzi, continua Perucchietti, si è passati alle testimonianze, con i nomi degli accusati, «ricostruendo un vero e proprio “cerchio magico” composto da un’élite blindata e deviata». Ne parla anche il “Giornale”: “Ecco i pedofili al potere: Hollywood, il documentario sull’ombra della pedofilia”. Di fatto, “An Open Secret” mostra come potenti e intoccabili personalità di Hollywood convincano bambini e le loro famiglie a fidarsi di loro. «Si assiste cioè a un primo richiamo suadente delle sirene hollywoodiane (i provini, le feste, i primi film) che ti promettono una carriera sfavillante, poi le spire del serpente si stringono sempre di più attorno alla preda, strappando i bambini alla loro infanzia e consegnandoli nelle mani di ricchi pervertiti». Molti, aggiunge Perucchietti, hanno ovviamente gridato allo scandalo, «facendo quadrato attorno ai presunti pedofili e impedendo la distribuzione del film: è però lunga la lista di attrici e attori che hanno raccontato di aver subito (persino da bambini o adolescenti) molestie sul set o ancora prima, durante i provini».Elijah Wood, per esempio, ha denunciato che a Hollywood «la pedofilia è un problema diffuso». L’attore, che ha cominciato a recitare da bambino, ha spiegato che la madre lo ha protetto da quell’ambiente malsano, tenendolo lontano dalle feste del mondo dello spettacolo. Molti altri attori-bambini non sono stati però così fortunati, aggiunge Enrica Perucchietti: «Corey Feldman, star dei “Goonies” e di “Stand by Me”, ha affermato di essere stato molestato nel 1980 e ha portato la testimonianza di altri bambini-attori vittime di abusi. Da anni denuncia pubblicamente l’esistenza della pedofilia ad Hollywood». Nel marzo 2018, pochi giorni dopo aver annunciato di voler rivelare in un documentario tutto quello che sa, Feldman è stato aggredito e pugnalato. «Ecco, temo che questo sia il segreto sotto gli occhi di tutti», chiosa Perucchietti. Un segreto terribile, che però «non verrà mai alla luce». E’ più che un timore: non avrà lo spazio che merita «sui media di massa e nelle aule di tribunale». Troppo imbarazzante lo scandalo, troppo potenti i protagonisti.Il pubblico dovrà accontentarsi della caduta – mediatica – di Asia Argento, trasformata da vittima a carnefice: da grande accusatrice di Harvey Weinstein a peresunta “predatrice” del diciassettenne Jimmy Bennett, al quale – secondo il “New York Times” – la Argento avrebbe proprosto un risarcimento da 380.000 dollari. Per Enrica Perucchietti, il caso dimostrerebbe «la doppia morale di certi personaggi che si ergono a paladini dei diritti, che si fanno bandiera di campagne di linciaggio mediatiche, che fanno i finti buonisti, che hanno (però) ingombranti scheletri negli armadi». Si tratta di personaggi che «fungono da armi di distrazione di massa». Per coprire il vero scandalo, quello indicibile? Cioè gli abusi, inconfessabili, sui bambini? «Chiariamo: un abuso è un abuso – che avvenga su una donna, un uomo o su un ragazzino». Il problema, scrive ancora Enrica Perucchietti, è che a certi livelli «il marcio colpisce uomini e donne in modo indistinto». Anche perché «il potere ti offusca, ti corrompe: il male ti sfiora e ti contamina come un morbo, facendoti perdere qualunque bussola morale e probabilmente ti sconnette dalla realtà». Un altro problema – non certo trascurabile – è che proprio questi personaggi «hanno in mano le chiavi della “fabbrica dei sogni”», e quindi «manipolano l’immaginario di milioni di persone».Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?
-
Il ponte dei soldi, il ponte degli avvoltoi, il ponte del dolore
Il ponte Morandi è crollato a Genova producendo tanti morti, feriti, sfollati, problemi e dolore per la gente comune. La società privata che lo gestisce ha continuato a rappezzarlo negli anni – come ha fatto per tutte le autostrade italiane – con un occhio attento a fare quanto indispensabile per mantenere la concessione, ma soprattutto a garantire enormi profitti. Ed è chiaro che per generare questi enormi profitti, mantenere ed aumentare le concessioni governative e le quotazioni in Borsa, in Italia occorre avere a disposizione un apparato di “protezione”: lobbies massoniche, pezzi di partiti, di Chiesa, circuiti bancari e assicurativi, dirigenti “amici” al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’Anas, nella magistratura. Un notissimo massone piduista molto introdotto in Vaticano – vero e proprio successore di Gelli – ha per anni manovrato per garantire a questa gente delle autostrade il massimo delle coperture. E quindi il massimo di profitti. Si sa: amicizie, simpatie, protezioni…. generano profitti enormi. Ma questi profitti generano prima o poi tanti morti, feriti, sfollati, problemi di tutti i tipi e dolore per la gente comune. E anche – loro non se ne rendono conto – buchi neri nelle anime di tutta questa filiera di avvoltoi.La Prima Repubblica aveva già al suo interno forti germi di malaffare. Ma nel tessuto del quadro politico di allora c’erano ancora forti freni morali. La Seconda Repubblica, sorta sostanzialmente grazie all’assassinio di Moro, al vero e proprio golpe di Tangentopoli ed all’avvento al potere di ondate di individui proni al capitale finanziario nazionale ed internazionale, ha prodotto una degenerazione pressoché totale. L’industria e i servizi pubblici sono stati saccheggiati da stormi di avvoltoi: trasporti, acqua, energia, chimica, comunicazioni, stabilimenti di tutti i tipi, sono stati distribuiti a voraci pescecani. Il cui scopo non era dare servizi alla gente, ma solo incrementare i profitti. E l’operazione è stata fatta dopo aver tolto dal tessuto politico – con omicidi e colpi di mano – elementi di moralità o quanto meno di sovranità che ancora contavano per la generazione di Moro, Pertini, Craxi e altri leader della Prima Repubblica. Le istituzioni e i partiti, ridotti a deboli strutture rette da ominicchi servi dei poteri finanziari ed anticoscienza nazionali ed internazionali, hanno facilitato tutto questo.Ora questa “Terza Repubblica”, annunciata dalla nuova maggioranza M5S-Lega, afferma di voler fare pulizia, di voler togliere di mezzo questo sistema di malaffare. Noi speriamo veramente che, almeno in parte, riesca veramente a farlo. E che non si fermi solo a voler cambiare con uomini propri le corrotte dirigenze attuali, lasciando sostanzialmente intatto un sistema di potere oscuro e finanziario internazionale che, in fondo, vuole solo rinnovare una classe politica e dirigenziale. Una classe che il potere vero – quello anticoscienza dietro le quinte – considera ormai talmente corrotta, esaurita ed inefficiente da non essere più utile come strumento di manipolazione dell’opinione pubblica. Nel frattempo tragedie umane colme di dolore: tanti morti, feriti, sfollati, problemi di tutti i tipi e dolore per la gente comune. Speriamo che almeno tutto questo generi ancora, per reazione, risvegli di coscienza.(Fausto Carotenuto, “Il ponte dei soldi, il ponte degli avvoltoi, il ponte del dolore”, da “Coscienze in Rete” del 16 agosto 2018).Il ponte Morandi è crollato a Genova producendo tanti morti, feriti, sfollati, problemi e dolore per la gente comune. La società privata che lo gestisce ha continuato a rappezzarlo negli anni – come ha fatto per tutte le autostrade italiane – con un occhio attento a fare quanto indispensabile per mantenere la concessione, ma soprattutto a garantire enormi profitti. Ed è chiaro che per generare questi enormi profitti, mantenere ed aumentare le concessioni governative e le quotazioni in Borsa, in Italia occorre avere a disposizione un apparato di “protezione”: lobbies massoniche, pezzi di partiti, di Chiesa, circuiti bancari e assicurativi, dirigenti “amici” al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’Anas, nella magistratura. Un notissimo massone piduista molto introdotto in Vaticano – vero e proprio successore di Gelli – ha per anni manovrato per garantire a questa gente delle autostrade il massimo delle coperture. E quindi il massimo di profitti. Si sa: amicizie, simpatie, protezioni…. generano profitti enormi. Ma questi profitti generano prima o poi tanti morti, feriti, sfollati, problemi di tutti i tipi e dolore per la gente comune. E anche – loro non se ne rendono conto – buchi neri nelle anime di tutta questa filiera di avvoltoi.
-
Noi, disprezzati dall’élite ladra: ecco il ponte che è crollato
Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.Il patto sociale reggeva su un residuo interesse reciproco a tenerlo in piedi, sovraccarico di critiche ma senza romperlo. Già con la Seconda Repubblica la società si era rivoltata contro la politica, ed era nato il berlusconismo; ora si rivolta e inveisce anche contro l’economia, contro tutti i potentati, contro l’intera classe dirigente. Così il ponte è saltato. Cosa frenava la rottura del patto sociale? Un residuo interesse comune, nazionale, generale, reciproco, tra governati e governanti; la sensazione di essere comunque sulla stessa barca, e persino il sottinteso che se la classe dirigente s’arricchiva, sia pure in modi illeciti, i benefici poi si estendevano a cascata un po’ su tutti i cittadini. Poi il flusso clientelare si è interrotto, il Welfare è finito, non solo a causa dell’Europa e della crisi economica. Ma insieme al venir meno di tutto questo, negli ultimi anni, è avvenuto qualcosa di traumatico di cui non si è ancora capita la portata micidiale: il sentire comune, il noi quotidiano, l’alfabeto elementare su cui reggeva la nostra società è stato sconvolto, mortificato, perfino criminalizzato.Nel giro di poco tempo abbiamo appreso che tutto quello in cui credevamo, le parole che usavamo, le cose a cui tenevamo erano infami, segni di arretratezza e di razzismo, di sessismo e di familismo, di xenofobia e di fascismo, perfino. Ogni volta che si poneva l’Italia davanti all’Europa si doveva essere dalla parte dell’Europa e non dell’Italia, altrimenti si era retrivi, isolazionisti e sciovinisti. Ogni volta che si opponeva l’assetto contabile della Finanza alla vita reale dei popoli si doveva dar la precedenza al primo. Ogni volta che sorgevano contrasti tra gli italiani e i migranti clandestini o i rom si doveva parteggiare per i migranti clandestini o per i rom. Ogni volta che si opponevano delinquenti che ti entrano in casa a derubati bisognava preoccuparsi di garantire i ladri, non i derubati. Ogni volta che si ponevano le famiglie naturali e tradizionali, composte da padri, madri e figli, rispetto alle unioni omosessuali, ai transgender, agli uteri in affitto, si doveva parteggiare per questi, e far sparire anche nel lessico i riferimenti “trogloditi” alla famiglia e alla nascita. Ogni volta che si esponevano i simboli religiosi che ci accompagnano da sempre – il crocifisso, il rosario, il presepe, i canti di Natale e i riti di Pasqua – bisognava provare ribrezzo o almeno imbarazzo nel nome dell’ateismo come esperanto universale o delle religioni altrui.Provate a stressare in questo modo e su ogni piano un popolo e insieme a fargli avvertire tutto il disprezzo verso una plebe bollata come razzista, sessista e dentro di sé fascista, fino a produrre una forma di razzismo rovesciato, di apartheid che separa la minoranza dirigente dalla “trascurabile maggioranza degli italiani” e vedete se alla fine non si spezza il ponte. Quando poi a tutto questo aggiungi i privilegi e le scorrerie del capitalismo nostrano che viaggia sotto scorta politico-mediatica della sinistra e si mangia o svende quel che faticosamente ha messo insieme lo Stato italiano, allora la rabbia schiuma e si fa scomposta. Quando senti, per esempio che il presidente dell’Iri sotto cui avvenne, col governo di centro-sinistra guidato da Prodi, la cessione delle autostrade ad Altantia (cioè al gruppo Benetton & C.), diventa poi presidente della stessa società Atlantia (sto parlando di Gros-Pietro, attualmente presidente d’Intesa-San Paolo) beh, allora capisci che il patto sociale è saltato non solo perché si è imbarbarita la società e l’antipolitica che l’esprime, ma anche e soprattutto, perché un ceto dominante, tra potentati e partiti, ha abusato del potere, della società e della gente e l’ha pure disprezzata.I grillini, i populisti, non sono il rimedio al crollo del patto sociale ma non sono nemmeno la causa, piuttosto sono il sintomo e l’effetto. La causa principale è in quei potentati, nelle oligarchie di sinistra, nei poteri giudiziari, nei giornali e tv di servizio. Rispetto a questo blocco, il centrodestra berlusconiano (e finiano) è stato inefficace, consenziente e da ultimo anche connivente. Con quella classe dominante, la società è cresciuta per conto suo, si è inselvatichita, si è imbastardita. Ora tutto questo non ci porta a soffiare sul fuoco della guerra civile e incivile e ad armare il risentimento, né ci porta a elogiare l’ignoranza e l’arroganza delle masse come rimedio all’abuso di potere. Ma ci porta a sognare disperatamente che passata la furia e il dolore del momento, il trauma del crollo, venga fuori un maturo senso dello Stato con un’adeguata classe dirigente e si ricomponga un decente patto sociale. Altrimenti non solo il ponte crollerà, ma anche la terra che sta sotto.(Marcello Veneziani, “Si è rotto il patto sociale”, dal “Tempo” del 19 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.
-
Silenzio stampa sulla droga: la strage non è più di moda
Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.Sono migliaia gli episodi di violenza, di minacce, di ricatti per procacciarsi la “signorina” che scorrono come un fiume quotidiano di sangue e di pazzia, e non ci facciamo più caso. Non c’è giorno che io non senta, magari col passaparola, episodi legati alla droga: infanticidi per alterazione mentale, uccisioni brutali di nonni, genitori, zii che non volevano più finanziare il vizio dei loro nipoti scellerati, aggressioni a donne, ex-conviventi, in stati di allucinazione dovuti alla droga, risse mortali davanti e dentro discoteche tra ragazzi in preda a deliri di droga, e potrei continuare… Certe zone, certi luoghi e certe ore sono off limits in tutte le città italiane perché è in corso la sagra dello spaccio, con relativa brutta umanità al seguito e sciame sismico di violenze e abusi. Si sente ogni tanto, a mezza bocca, notizia di partite di droga sequestrate; ma sono solo una piccola parte e solo il segnale di quale movimento, quale giro colossale vi sia dietro. Di tutto questo arriva poco o nulla alla Fabbrica delle Notizie e ai falsificatori di cui sopra, impegnati a denunciare un solo Male sotto mille vesti, il Razzismo.Perché passa sotto silenzio la droga, o si parla solo di qualche episodio ma senza la grancassa mediatica e intellettuale che ne indaga il fenomeno? Perché nella droga il razzismo o il nazionalismo non c’entra ma emerge piuttosto il suo rovescio, confluiscono due piaghe sconvenienti che si devono tacere: da una parte la manovalanza massiccia di migranti, soprattutto neri, nello spacciare e procurare la droga, dall’altro un modello di società libertaria, radical, trasgressiva, anti-proibizionista, che deriva dai piani alti della nostra società, dal nichilismo diffuso e dal cinismo degli imprenditori di morte. Diciamo che sulla droga s’incontra la libertà psichedelica del “tutto è permesso” di matrice sessantottina dove i diritti sconfinano nei desideri e l’accoglienza illimitata di migranti che, per fame ed estraneità al territorio, sono facilmente reclutabili nel racket. I due fattori, shakerati dall’ideologia radical, disegnano la nuova società verso cui andiamo incontro e che ha perso il senso del limite, personale e territoriale, morale e civile.Masse di espiantati, disperati, privi di tutto a disposizione dei racket e dall’altro masse di consumatori, disperati anch’essi, ma benestanti o comunque in grado di mungere soldi, privi di ogni riferimento. La tratta dei pomodori, lo schiavismo nelle campagne, assume – e giustamente – grande rilievo nei media; la tratta della droga, la vendita di morte, invece va in sordina. I caporali nelle campagne sono una brutta bestia ma impallidiscono in confronto ai caporali della droga e ai loro legami con la criminalità organizzata. Sentite mai parlare di campagne contro la droga, di emergenza droga, di educazione civica contro la droga? Macché, solo razzismo, nazismo, sessismo. L’omertà sulla droga e i mali derivati è una forma di complicità mediatica e politica assai grave. È anche un occultamento di cadavere: muore il senso del limite e della realtà e qui si festeggia il mondo global, senza frontiere tra i popoli, tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito. Un’informazione drogata.(Marcello Veneziani, “Silenzio stampa sulla droga”, dal “Tempo” del 14 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.
-
Fascismo? Ci vuole orecchio, per smontare chi odia Salvini
«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?Dal Quirinale a Confindustria, dalla magistratura a Bankitalia, da Macron a Juncker: ha solo nemici, quello che Montanari definisce il “ministro della paura”. Nemici così potenti da riuscire a impedire – in modo rocambolesco, grazie al solito Berlusconi alleatosi col Pd – l’elezione di un giornalista di razza come Marcello Foa alla presidenza della Rai, bloccata (secondo il massone Gianfranco Carpeoro) da una triangolazione telefonica tra il francese Jacques Attali (mentore di Macron), Giorgio Napolitano (membro della stessa superloggia, la “Three Eyes”, secondo Gioele Magaldi) e Antonio Tajani, massone anche lui. Dov’è il monopolio della forza di cui parla Montanari? Abbagli colossali, sia pure da un eminente intellettuale innamorato del patrimonio artistico italiano? «Ho indicato proprio in Saviano – scrive sempre Montanari su “Micromega” – uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi». Salviano chi? L’autore di “Gomorra”, condannato a vita a recitare la parte della vittima sotto scorta, per la gioia del suo marketing editoriale? Allude, Montanari, allo stesso Saviano che in Italia spara a man salva sul leader della Lega ma, appena si volge verso il Medio Oriente, si schiera con Israele senza mai una parola sulle brutalità che lo Stato ebraico guidato da Netanyahu infligge ai “negri” della situazione, cioè ipalestinesi?Affacciandosi sul Paese delle Meraviglie, Tomaso Montanari è comunque capace di stupirsi: evidentemente, per lui, il “ministro della paura” non è l’unico imputato. «Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati – scrive – di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte a un Sergio Marchionne?». Già. Ma dov’era, Montanari, quando Mattarella faceva il ministro nel governo D’Alema, l’esecutivo che “regalava” la rete autostradale italiana ai Benetton? Se ne riparla oggi, dopo l’immane tragedia del crollo a Genova del viadotto Morandi, con il governo Conte deciso a imporre ad Autostrade per l’Italia la revoca della concessione. Non vede come stanno realmente le cose, il professor Montanari? «Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio?». Le domande di Montanari, che appare sinceramente disorientato, sembrano rivolte all’interlocutore sbagliato. Cosa si aspetta, Montanari, da un potere-ombra così ipocrita e marcio da usare all’occorrenza le bandiere della sinstra per varare, in Italia, il neoliberismo più selvaggio?Equivoci, probabilmente figli della “santa alleanza” contro il falso bersaglio – Berlusconi – che ha permesso ai veri dominus di agire indisturbati per vent’anni, graniticamente supportati (senza chiasso, né olgettine) dal centrosinistra dei Prodi e dei D’Alema, degli Amato e dei Padoa Schioppa. L’impegno civile di Tomaso Montanari è cristallino: nel marzo 2017 è diventato presidente del cartello “Libertà e Giustizia”, succedendo a Nadia Urbinati. Nel giugno 2017, con Anna Falcone, è stato fra i promotori di “Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza”, giornalisticamente ribattezzata come “percorso del Brancaccio”, dal nome dell’omonimo teatro romano dove si riunirono le prime 1.500 persone. Obiettivo: creare una lista civica nazionale della sinistra. Progetto poi naufragato a meno di sei mesi dalle elezioni, visto anche lo stato confusionale della sinistra stessa, reduce da due decenni di antiberlusconismo militante spacciato per progressismo. Si tratta della stessa sinistra che preferì sparare sul Cavaliere piuttosto che sul pareggio di bilancio inserito da Monti nella Costituzione con l’appoggio di Bersani, così come oggi – pur con i suoi dubbi – Montanari preferisce colpire Salvini, piuttosto che un establishment che aveva ridotto l’Italia a Cenerentola politica d’Europa, prona a qualsiasi diktat, incluso quello di tenersi i migranti salvati nel Mediterraneo dalla marina tricolore.Montanari è uno di quegli intellettuali italiani che non esitano a utilizzare la parola “fascismo” per connotare l’azione di Salvini, cioè del leader più rappresentativo del primo e unico governo – dopo tanti anni – formatosi a furor di popolo, sotto la spinta squisitamente democratica degli elettori, ansiosi di metter fine a una lunga sequela di “governi dell’orrore”, pronti a precipitare il paese (loro sì) nella paura: la paura di perdere tutto e di sprofondare in un’Italia senza futuro. «Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini – riconosce Montanari – è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori». Quando Salvini dice “prima gli italiani”, per il professore «nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece “tra gli italiani”», ovvero tra i poveri e i ricchi, che notoriamente «non vogliono le stesse cose», per citare lo storico britannico Tony Judt. Quand’anche: perché Montanari spara su Salvini, che non ha alcuna responsabilità nella catastrofe della Seconda Repubblica, evitando di usare il termine “fascismo” per i decisivi collaborazionisti del “nazismo tecnocratico”, ai cui “successi” si deve, oggi, la vasta popolarità del leader della Lega?«Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di “austerità” e “responsabilità” – aggiunge Montanari – è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla». Sempre secondo il professore, «Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero». C’è un che di vertiginoso, nel ricorrente abuso dei termini: il fascismo si impose in modo strisciante con le violenze delle camicie nere, incoraggiato dall’élite e ignobilmente tollerato dallo Stato liberale, monarchia in primis. Crede davvero, il professor Montanari, che l’ex anarchico ed ex socialista Mussolini abbia potuto marciare su Roma in solitudine, senza l’appoggio dei poteri forti attraverso il network discreto della massoneria? Crede che abbia potuto guidare svariati governi senza il sostegno decisivo del Vaticano, accanto a quello dei latifondisti e della grande industria?E perché mai spendere ancora, impunemente, nel 2018, la parola “fascismo”? Non vede, Montanari, da quale pulpito democratico vengono le lezioncine impartite all’Italia sui diritti umani? Non sa, Montanari, da quale scuola proviene l’illustre burattino francese Macron? Non vede quali onori gli sono stati tributati, in Vaticano, dall’uomo che la dottrina cattolica considera il vicario di Dio in terra? Conosce un altro fascismo, Montanari, che oggi sia più feroce di quello con cui la Germania e la Bce hanno ridotto la Grecia come un paese del terzo mondo? «Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo paese anche “grazie” a ciò che chiamavamo “sinistra”», sostiene Montanari. Ma, anziché attaccare a testa bassa il tumore, lo storico dell’arte si accanisce su quello che considera il sintomo, come se i buoi non fossero già scappati dalla stalla. E questa incredibile miopia, probabilmente, mette fuori gioco molta parte dell’intellettualità italiana: se Salvini sarà sempre di più il nuovo leader del paese, con i suoi toni spesso così indigesti, lo si dovrà anche e soprattutto a chi vede l’autoritarismo dove non c’è, senza averlo visto – in tempo utile – là dove c’era, e dove sta tuttora, esercitando il suo immenso potere, ogni giorno, contro l’Italia e l’avvenire degli italiani.«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?
-
Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista
I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…(Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.
-
Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi
Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.(Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.
-
E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
-
Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
-
#MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali
Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.“Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?(Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.