LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘fallimento’

  • Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico

    Scritto il 05/4/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
    Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».
    E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.
    Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.
    Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».
    Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.
    «Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».
    La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».
    In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».
    Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.
    «Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).
    E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».

    Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.

  • Ilaria Bifarini: di rigore si muore. Lo sanno, e così insistono

    Scritto il 29/3/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».
    In pratica, si continua con la stessa ricetta – mortale – che ha ridotto il malato in fin di vita. Secondo uno studio della stessa Oxfam, aggiunge Bifarini, «se le misure di austerità continueranno, entro il 2025 l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più». Ma il mainstream politico e giornalistico «preferisce ignorare queste verità che trapelano ogni tanto dai documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali e propagandare quelli conformi al pensiero unico economico». Nel silenzio generale dei media è uscita questa notizia: è ormai a rischio povertà anche chi lavora, quasi 1 su 8. «La colpa è proprio di questo sistema, che premia la disuguaglianza», spiega Bigarini. «Il futuro ci prospetta una società sempre più polarizzata, con una ristretta cerchia di privilegiati sempre più ricchi e il resto della popolazione, lavoratrice e non, che continuerà a impoverirsi». D’altronde, aggiunge, il fenomeno dei “working poors” è già diffuso in Germania, dove il problema della disoccupazione non è “mostruoso” come in Italia. Eppure, anche in Germania «la deflazione salariale è una colonna portante del modello neoliberista».
    Inversioni di rotta? Siamo alla vigilia di un cambiamento? Fa pensare, sostiene “Lospeciale”, che il Movimento 5 Stelle oggi parli di natalità e soldi alle coppie con figli: dirlo solo cinque anni fa avrebbe creato polemiche su un presunto “ritorno al fascismo”, in relazione al primitivo welfare nazionalista mussoliniano.  «Sicuramente è iniziata una svolta nel sentimento della popolazione», sostiene Ilaria Bifarini, secondo cui il voto del 4 marzo «ha dimostrato la forte volontà e speranza di cambiamento da parte dei cittadini». Politicamente parlando, per l’economista «andrà avanti chi manterrà le promesse e non deluderà gli elettori». E questo, aggiunge, «perché c’è più consapevolezza, anche grazie all’informazione indipendente», che si è progressivamente sviluppata sul web. «Lavoro e famiglia sono senz’altro prioritari: il problema della denatalità non può essere risolto né aggirato con l’accoglienza indiscriminata, ma va affrontato seriamente». Proponendo reddito minimo e Flat Tax, Di Maio e Salvini dimostrano di sapere che occorre dare (o lasciare) più soldi a famiglie e aziende: il contrario dei tagli, che l’Ue – al servizio dei grandi oligopoli globalizzati – continua a raccomandare, fingendo di non conoscene le conseguenze.

    Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».

  • Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles

    Scritto il 27/3/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
    Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».
    Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».
    Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».
    Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».
    Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».
    Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.

    Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».

  • Winkler: l’Italia è scassata, senza difese contro il rigore Ue

    Scritto il 16/3/18 • nella Categoria: idee • (12)

    L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua ecomomia mista, pibblico-privata.
    E’ scolpito nel marmo il risultato storico del riformismo: «Notevole sviluppo, sotto il profilo economico e sociale». Ma le parole possono cambiare verso, se vengono corrotte: ieri il riformismo era sinonino di progresso generale e benessere diffuso, mentre oggi – in mano all’Ue – suona come una campana a morto per società con sempre meno diritti. «Laddove una volta per riformismo si intendeva tutto ciò che gradualmente portava al miglioramento della condizione umana – scrive Winkler – oggi invece la parola, spesso usata in Europa, evoca subito cambiamenti sì, ma in peggio». E in particolare: «Tagli di bilancio, rigidità, sacrifici, col portato inevitabile di disoccupazione, impoverimento, bassi salari e precariato diffuso». Nella sostanza, un futuro senza sviluppo: «Diventa sempre più impervio coniugare welfare, sviluppo e benessere». Problema capitale: «Al centro del sistema politico non c’è più l’uomo ma il bilancio, il freddo dato contabile, che ha portato l’intero continente europeo ad “impiccarsi” alle politiche restrittive che non stanno dando i frutti sperati e che nel nostro paese hanno portato e porteranno nel tunnel di una grave crisi di cui non si vedrà l’uscita. E’ entrato in crisi l’intero sistema istituzionale ed economico».
    La crisi del sistema bancario ne è un fulgido esempio, osserva Winkler: «Falliscono banche e si stigmatizza l’attività della banca centrale, istituzione da sempre considerata garanzia di serietà e competenza per la tutela di tutti». Le sinistre, in Europa e ancor più in Italia, versano in grave crisi di identità. Se a questo si aggiunge l’effetto della globalizzazione sull’intero pianeta, «non vi è chi non veda che la situazione diviene esplosiva e può tendere al catastrofico». Allora, conclude Winkler, «diventa facile e fuorviante nascondersi dietro slogan ad effetto: il populismo, il sovranismo e altre pretestuosità del genere». Infatti «è lapalissiano dire che le persone non possono che sentirsi prima cittadini del proprio paese, poi cittadini europei e poi, forse, cittadini del mondo. E’ palese il disorientamento generale, specialmente tra i giovani». In virtù della crisi, non trovano più lavoro: quando c’è, è solo un impiego precario e sottopagato. Colpa dell’Europa, si dice, o magari «dello straniero che viene in cerca di fortuna e fugge da luoghi impossibili». Sempre incolpevoli, noi? Non si considera mai, dice Winkler, che vi è la netta carenza di una politica che tuteli il cittadino e attui misure adeguate. Netta carenza politica, appunto: è sparita la sinistra, quella che aveva attutito gli urti e cercato di tenere in equilibrio la società, evitando che gli ultimi fossero abbandonati a se stessi (fino a rifugiarsi, oggi, nell’esasperazione del “populismo”).
    Generalmente, nella storia recente, l’armonizzazione sociale non è stata svolta «dalle forze politiche di riferimento dell’oligarchia finanziaria o industriale», ma proprio «da quelle forze di sinistra riformista che volevano coniugare sviluppo ed equilibrio economico, meriti e bisogni, concorrenza e competenza, socialità e individualità, nella sostanza libertà e giustizia sociale». Prendiamone atto, insiste Winkler: «Il sistema politico-economico costruito dai nostri padri fondatori è in stato comatoso, allo stato attuale non regge più». Si è rotto qualcosa di importante: il motore sociale, che era coeso. «Il grande accordo tra industria, partiti, sindacati, sistema cooperativo e Chiesa ha garantito sviluppo economico e conseguente benessere», con politiche di spesa «a volte eccessive», che però «il sistema ha retto per molti anni». Mano pubblica nell’economia: lo Stato «assisteva la grande impresa con leggi ad hoc che producevano investimenti», e in più il governo «assisteva il sistema cooperativo con benefici fiscali tutt’ora esistenti». Piccole e medie imprese, dal canto loro, praticavano «massiccia evasione, per lo più tollerata». Inoltre, da Roma cadevano «contributi a pioggia per lo sviluppo del Mezzogiorno», con risvolti deteriori: «Si praticava un clientelismo sfrenato, con assunzioni nel pubblico oltre il consentito, sia nelle aziende a partecipazione pubblica che negli enti». Di fatto, comunque, «non vi era settore che non avesse qualche beneficio, il tutto in una sorta di consociativismo politico-economico diffuso e generale. Tutto si teneva».
    Poi nel ’92, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, «espressione esclusivamente giornalistica», sotto i colpi di Mani Pulite si estinguevano vecchi i partiti (salvo uno, il Pci, che cambiava nome diventando Pds) ma «non veniva meno quel sistema, né sul piano morale né sul piano dei precedenti assetti economici». Ovvero: «Il sistema di assistenza diffusa rimaneva intatto», divenendo aperto malcostume, che poi «si implementava in maniera esponenziale: ai ladri di partito si sostituivano i ladri e basta, che crescevano a dismisura». Per Winkler, l’unico cambiamento vero e sostanziale di quegli anni «è stata la dismissione dell’Iri con la privatizzazione di imprese a partecipazione pubblica di ottimo livello». Secondo l’analista, «non è stato un cambiamento di sistema politico-economico, ma solo una gattopardesca trasformazione, tanto che se si guardano i dati il debito pubblico dal ’92 ad oggi, esso è superiore a quello formatosi dal ’46 al ’92». Altro che Seconda Repubblica: solo un’evolzuione della Prima. «Con la successiva introduzione della moneta unica e l’applicazione di rigide politiche di bilancio imposte dall’Europa – aggiunge Winkler – la visione di quel sistema, mai estintosi, diviene chiara, trasparente, senza possibilità di equivoci: il re è nudo».
    Siamo alle forche caudine dell’Unione Europea: «L’Europa del bilancio, alle quale si è sovrapposta la globalizzazione, mette in grave crisi più di tutti il sistema Italia, che non ha avuto mai una vera e propria economia di mercato». Il welfare italiano, poi, «si reggeva non tanto sullo sviluppo prodotto, ma soprattutto sull’espansione del debito, senza limiti di sorta». L’economia? «Era ed è per lo più assistita». E quel poco di economia che non fruisce di assistenze, specialmente nei settori della piccola e media impresa, «è talmente gravata da oneri burocratici, sociali e fiscali che le è sempre più difficile rimanere sul mercato». Le piccole imprese sono numerose e concorrono in modo rilevante al Pil, ma «non possono fuggire all’estero come le grandi», e quindi «subiscono la concorrenza spesso sleale di piccole attività straniere operanti senza controlli negli stessi settori, con manodopera impiegata spesso in nero e in condizioni di sfruttamento e con più vantaggiose regole amministrative e fiscali». A questo, prosegue Winkler, va poi aggiunto un fenomeno tutto italiano: «Gli investimenti di un enorme flusso di denaro proveniente dai proventi delle organizzazioni criminali». Decine di miliardi di euro, «che costituiscono parte significativa del Pil nazionale».
    Alcuni, per nascondere alla gente i veri problemi, la “buttano in caciara” agitando lo spettro del razzismo, che in realtà contagia esigue minoranze. Il problema non è la presunta xenofobia, ma il tenore di vita: «Coloro che si vedono andare in pensione alla soglia dei 70 anni, che vedono aumentare i costi sanitari e che sono costretti a sostenere i figli che rischiano di essere precari a vita (mal pagati, se non sfruttati), mal digeriscono coloro i quali, ancora più disperati, si affacciano dall’estero ad un mercato del lavoro privo di ogni regola». Non è razzismo, ma disperazione: tristemente, è solo guera tra poveri. Una situazione che non piove dal cielo, ma ha precise responsabilità: «Le politiche di rigidità causano il sottosviluppo e soprattutto sono causa della cosa più odiosa dell’umanità: la lotta tra gli emarginati». E lo scontro tra i meno abbienti «prescinde totalmente dal colore della pelle». Così, «la forbice sociale si allarga sempre più, e ancor più la forbice generazionale». A conti fatti: escluse le quasi tremila medie imprese che fatturano da 50 milioni di euro a due miliardi, e a parte «il fiume di denaro illecito e poco altro», il resto dell’economia nazionale è per lo più assistito, «a meno che non si voglia considerare la grande impresa indenne da sostegni statali».
    Secondo Winkler, si è cercato di spacciare politicamente il precariato per flessibilità, «ma questa esiste solo dove c’è una dinamica di mercato, che nel nostro paese non è mai esistita». In Italia, «tutto è controllato con un complesso di procedure amministrative degne dei migliori paesi illiberali». Tradotto: «L’onesto imprenditore viene dissuaso dall’intraprendere nuove attività. Viene invece favorito, attraverso il mancato controllo, lo sfruttamento dei lavoratori, che nei casi di immigrati è a volte vera e propria schiavitù», In più, «viene tollerata ogni forma di illegalità nell’ambito commerciale e nei servizi privati». Troppa burocrazia, da snellire usando la scure. E troppe mega-cooperative, «che nei fatti sono grandi imprese che operano nei settori finanziari, bancari, assicurativi e della grande distribuzione», con assurdi vantaggi fiscali rispetto alle imprese che operano come società di capitale negli stessi settori. «Riportiamo il cooperativismo all’iniziale vocazione, quando lo scopo era favorire il lavoro degli associati e la loro sicurezza», scrive Winkler. E poi, occorre «separare le banche di raccolta da quelle di affari, affinché il risparmiatore sappia che si fa del suo denaro, se ci si gioca “a dadi” con i derivati o se lo si impiega per crediti a famiglie e attività produttive».
    E ancora: regolare il commercio semplificando le procedure e ristabilendo una leale concorrenza. Vigilanza e controlli devono stroncare «il caporalato, lo sfruttamento e la schiavitù (vedi in agricoltura)». E poi: «Equiparare le pensioni sociali al costo per lo Stato del migrante». La lista è lunga: rendere umani i tempi della giustizia, proteggere i giovani lavoratori limitando i contratti a termine, costringere la pubblica amministrazione a risarcire i danni causati dalle sue lentezze burosauriche. E’ pacifico: «Chi investe deve poter programmare le proprie attività». Giovani imprenditori: hanno diritto a un «sereno avviamento», con sgravi fiscali per i primi cinque anni. Tocca a noi, dice Winkler: il paese deve saper «prendere la strada delle vere riforme che possano rendere veramente dinamica e flessibile la nostra economia». Se invece «saprà solo attuare politiche restrittive imposte dall’Europa», allora addio Italia: «Non ci sarà speranza per il futuro, se non per una opulenta oligarchia senz’anima», quella che domina la scena da almeno 25 anni – da noi come a Bruxelles – dopo aver trasformato la parola “riforme” in un incubo per tutti.

    L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua economia mista, pubblico-privata.

  • Addio Pd, la finta sinistra può solo scegliere come suicidarsi

    Scritto il 14/3/18 • nella Categoria: idee • (17)

    Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.
    Ma queste cose (campagna elettorale sbagliata e legge elettorale demenziale ed autolesionistica), che pure ci sono, sono solo una piccolissima parte delle ragioni del tracollo; quantomeno ci sarebbe da considerare la sconfitta del 4 dicembre 2016 sulla indecente riforma costituzionale, e poi ancora i 4 anni obbrobriosi di governo di Renzi. Ma anche questo non è sufficiente a spiegare il tutto. E’ una sconfitta che viene da lontano, da molto lontano, quantomeno da Occhetto. A volte per capire un quadro bisogna allontanarsi per vederlo nella sua interezza, e spesso le cause di una dinamica risalgono a molto tempo prima, perché i processi a volte sono molto lunghi nel loro svolgimento. In fondo la storia serve a questo (permettetemi di difendere l’utilità della mia disciplina contro lo scemenzaio recentista tipico del tempo del neoliberismo). Il Pci fu un partito popolare a trazione burocratica: la base era robustamente operaia, con fasce di piccolissima borghesia, guidata da un ceto funzionariale autoritario ma che sapeva aver cura del suo seguito. Dopo, a partire dalla metà anni settanta, iniziò una metamorfosi grazie all’espansione della sua base elettorale verso i ceti medi e medio-alti. Ma la svolta decisiva venne negli anni Ottanta e un ruolo decisivo lo ebbe “Repubblica”, la cui cultura politica era quella della destra azionista (La Malfa, Cianca, Tarchiani) ed il cui obiettivo era quello di una sorta di Pri di massa.
    L’operazione in gran parte riuscì e il risultato venne conclamato con Occhetto. Il Pds fu un partito sempre a base popolare (per quanto più ridotta) ma a trainarlo non era più l’apparato dei funzionari, quanto una certa borghesia professionale, accademica, giornalistica, manageriale. Fu il tempo della sinistra da salotto e da terrazza romana, che celebrò i suoi fasti al tempo di Veltroni. Si trattava di uno strato sociale di carrieristi, faccendieri, affaristi e, al bisogno, anche di tangentari grandi e piccoli. Gente priva di una sostanziale cultura politica, che non poteva sentir parlare di lotta di classe e che non aveva nessun senso della politica, ma che era in sintonia con lo spirito del tempo neoliberista. Pretendevano di essere loro la sinistra, anzi la nuova sinistra degli anni duemila, i blairiani d’Italia. Innamorati della finanza e allergici al lavoro, spinsero il partito a diventare il principale interlocutore del capitale finanziario in Italia.
    E anche questo era nello spirito dei tempi e rifletteva il nuovo compromesso socialdemocratico fra l’internazionale socialista e l’iper-capitalismo finanziario. La cosa ha funzionato per un quindicennio, poi… è venuta la crisi. Il modello si è incarognito e ha tagliato tutti gli spazi di mediazione riformistica, obbligando i partiti socialisti al governo (vale anche per Tsipras) a politiche apertamente antipopolari. E il meccanismo non ha più funzionato, come dimostrano i risultati ad una cifra di quasi tutti i partiti socialisti europei, dalla Spagna all’Austria, dalla Francia alla Grecia, dal Belgio alla Repubblica Ceca. La loro base popolare è risucchiata dall’ondata populista. Quel modello è fallito, in Europa e ora anche in Italia, nella quale la stagione renziana è stata solo una bizzarra anomalia subito normalizzata. E questa è la sorte odierna del Pd, destinato rapidamente a scendere a un risultato ad una cifra e all’assoluta irrilevanza politica: capolinea, signori si scende!
    (Aldo Giannuli, “Pd, la fine di un mondo”, dal blog di Giannuli del 9 marzo 2018).

    Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.

  • Formenti: e ora il potere annullerà questa rivolta elettorale

    Scritto il 09/3/18 • nella Categoria: idee • (12)

    Dopo Trump, la Brexit e il referendum italiano sulla Costituzione, erano arrivate la vittoria di Macron e il recente, travagliato rilancio della “grande coalizione” Cdu-Spd in Germania, alimentando nell’establishment “liberal” l’illusione che la marea populista fosse sul punto di rifluire. Invece no: il risultato delle elezioni del 4 marzo l’onda prosegue e rischia di travolgere «la diga eretta da partiti tradizionali, media e istituzioni nazionali ed europee», scrive Carlo Formenti su “Micromega”. 5 Stelle e Lega triplicano le rispettive rappresentanze parlamentari e i loro voti sommati superano il 50%, «certificando che metà dei cittadini italiani sono euroscettici e non credono più alle narrazioni sulla fine della crisi e sui presunti benefici della globalizzazione». Per i media, siamo allo tsunami populista. Ma che radici sociali ha? Quali sono le differenze fra le sue due anime principali? E perché le sinistre (socialdemocratiche e radicali) stanno affondando nell’insignificanza politica? E poi: perché, malgrado tutto, l’establishment è ancora in grado resistere? Quali scenari si apriranno, se e quando la diga crollerà davvero?

  • Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio

    Scritto il 04/3/18 • nella Categoria: idee • (4)

    «Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
    Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».
    Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».
    Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».
    E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».
    Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».

    «Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.

  • Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo

    Scritto il 01/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.
    Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.
    Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.
    I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.
    All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.
    Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.
    Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.
    Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.
    (Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).

    C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.

  • Di Maio, Ciocca e la decrescita infelice dell’Italia in svendita

    Scritto il 26/2/18 • nella Categoria: idee • (1)

    Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?
    Per capirlo partiamo dalla Germania: dal dopoguerra in poi i tedeschi hanno percorso una strada di costante “austerity sostenibile”, mantenendo i salari bassi rispetto ai profitti delle imprese (“quota salari”). Invece di alimentare politiche di domanda interna spesso poco etiche (e di aumento dei prezzi), i teutonici hanno conquistato fette di mercato estero incamerando ricchezza: in tal modo si sono ritrovati un salario reale molto più alto senza deprezzare o svalutare la propria moneta. L’Italia, tuttavia, riusciva ad essere altamente competitiva grazie ai cambi flessibili e ad una struttura produttiva in parte differente. Quando l’Italia sull’onda emotiva di Mani Pulite (…) chiese di far parte della moneta unica,
    la Germania, che per 50 anni era stata “austera”, chiese al nostro paese di pagare un dazio di altrettanta “sobrietà” immediatamente: competizione al ribasso dei diritti e dei salari mediante alta disoccupazione (ed ingresso di manodopera a basso costo dall’Africa), taglio dei servizi anche essenziali, totale separazione della moneta rispetto all’economia, distruzione delle economie locali. Per ottenere tale risultato serviva come “precursone” un valore di ingresso (nell’euro) marco/lira che non rispecchiasse il reale rapporto di forza tra le due economie (1 marco = 1.200 lire circa) ma ipervalutasse la nostra valuta (mettendo così in difficolta la nostra bilancia commerciale, prodromo di tutte le crisi economiche, con tutti i sacrifici annessi).
    Ad accordarsi per un valore di 1 marco = 990 lire furono proprio Prodi, Ciampi, Draghi e… Ciocca! Per legittimare questo rapporto “drogato”, nei mesi precedenti la decisione, ci avevano pensato i mercati finanziari “drogando” il rapporto cioè vendendo appositamente marchi e comprando lire. Una volta compreso il contributo storico di Ciocca per il proprio paese, quello che va rimarcato è che il M5S è riuscito a proporre un simile prospetto senza essere notato dall’opinione pubblica. Per fare un esempio eloquente, se i pentastellati avessero cercato un ex di Forza Italia per quel ministero (senza responsabilità sulla crisi rispetto ai summenzionati) ci sarebbero state le barricate. Secondo la stessa logica tocca sentire un Prodi (cui affidammo il futuro dei nostri figli e nipoti) dichiarare «abbiamo svalutato la lira sul marco del 600% rispetto a quando ero uno studente universitario», confondendo moneta ed economia sempre profittando della totale ignoranza (in materia) del cittadino medio. In questo contesto quindi ha buon gioco chi riesce a far passare inosservate, insieme a figure come Ciocca, le pericolose carenze di un programma economico confusionario ed impraticabile.
    Alcuni media hanno espresso preoccupazione per l’estrema fragilità interna del M5S, una fragilità che, secondo loro, si andrebbe a ripercuotere sul paese una volta al governo; altri hanno ravvisato nella ricetta M5S numerosi copia incolla eseguiti da programmi di altre forze politiche e da Wikipedia (inquietanti indizi di incompetenza) ma nessuno si è cimentato nell’analisi della proposta economica. A prima vista parrebbe che a dettare la linea economica sia sempre Beppe Grillo visto il suo “innamoramento” per il default, eppure non credo che stiano così le cose: inizialmente fu la “decrescita felice”, una teoria rudimentale, di pochi capitoletti, che durante la stagnazione ci costerebbe il default; successivamente fu il turno del default stesso, auspicato da Grillo; poi fu la volta del referendum sull’euro che avrebbe portato sempre al fallimento; adesso è il turno di questa proposta che favorirebbe una speculazione internazionale senza precedenti con “scenari greci” (cioè il dimezzamento dei livelli pensionistici) o addirittura “argentini”, cioè il… default! Come noto, se si escludono le persone che hanno conti all’estero, il default comporta l’immediata evaporazione di tutti i risparmi degli italiani: una crisi debitoria in Italia a qualche soggetto estero conviene sempre…
    Per uscire dalle recessioni, secondo l’approccio keynesiano, è opportuno “fare deficit” per incrementare la domanda aggregata (acquisto di beni e servizi da parte dei cittadini) dando lavoro, infrastrutture, detassando, ecc. In questo modo tornano a circolare danari, l’economia riparte, i contribuenti aumentano di numero e con essi le entrate dello Stato che vanno a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock debitorio. In altre parole si va ad incidere sul denominatore del rapporto debito/Pil incrementandolo, e non sul numeratore (cercare di ridurlo significa fare austerità). Purtroppo l’economia non è una materia da affrontare in modo virtuale bensì chirurgico, considerando in primo luogo in che contesto ci si muove: al minimo errore si rischia una macelleria sociale senza precedenti. Su un piano strettamente economico, nell’ambito dell’Eurozona, se espandiamo la domanda aggregata ed i partner europei non fanno altrettanto, la conseguenza è il peggioramento dei conti verso l’estero e della bilancia commerciale, a causa dell’impennata dell’import rispetto all’export con probabile crisi debitoria (di tipo economico).
    Il candidato premier pentastellato pare quindi mettere il carro davanti ai buoi visto che i principali partner europei optano senza titubanze verso dinamiche ultra-competitivie e marcatamente mercantiliste. Di Maio, insistendo sullo sforamento del parametro del 3%, denota che a sfuggirgli è pure un importante dettaglio: “fare deficit” non significa erogare beni e servizi aggiuntivi rimanendo scoperti, ma vuol dire ottenere un prestito da un investitore (sotto forma di Bot, Btp, ecc) per poterli pagare. Successivamente lo Stato, per evitare il fallimento, è obbligato a saldare il debito col creditore quando egli chieda indietro i soldi o alla scadenza prestabilita del prestito con interessi annessi. Se uno Stato paventa la violazione di regole comunitarie, perde credibilità e diviene costosissimo per esso ottenere finanziamenti, visto che una simile prospettiva può comportare dinamiche punitive da parte di numerosi soggetti finanziari (compresi gli Stati creditori). Di Maio è corso ai ripari evidenziando come anche Francia e Spagna in passato abbiano disatteso il 3% ma non ha tenuto conto del fatto che questi Stati possiedono un debito pubblico minore del nostro. Poco importa ai partner dell’Eurozona che il concetto di debito pubblico sia emotivamente enfatizzato e confuso con il debito estero.
    Un altro punto estremamente critico del candidato premier è dare per scontato che i propri interventi siano “ad altissimo moltiplicatore” e che in brevissimo tempo comportino una crescita del Pil tale da ottenere maggiori entrate fiscali (utili ad onorare le scadenze con vecchi e nuovi creditori e quindi ad evitare il default). Al netto del fatto che le dinamiche di questo tipo sono estremamente imprevedibili, il moltiplicatore si esprime in tutta la sua forza quando il danaro “gira”, cioè quando proviene da capitali fino ad allora giacenti e finisce nelle tasche di chi consuma fino all’ultimo euro di stipendio per poter vivere. Se va ad accumularsi nei forzieri delle multinazionali che stanno dietro larga parte della Green Economy, della Virtual Economy e delle infrastrutture, l’effetto è contrario (al netto del fatto che se sono capitali esteri la moneta “emigra” peggiorando ancor più lo stato delle cose). In altre parole, è lecito attendersi che i licenziamenti presenti nel piano Cottarelli e gli investimenti nei settori auspicati da Di Maio e dal suo staff economico, comportino una riduzione degli effetti del moltilicatore nel breve/medio periodo (e con essa una riduzione dei livelli occupazionali, proprio secondo Keynes!), una contrazione del Pil, minori entrate e tagli ai servizi e alle infrastrutture che nelle intenzioni si vorrebbero potenziare.
    Per quanto eticamente auspicabile, la “moralizzazione” della spesa pubblica nel breve può comportare al massimo un incremento della soddisfazione dei cittadini che, se si rivolgono a un fannullone, non ottengono un servizio pronto e decente. Solo nel medio-lungo periodo una burocrazia efficiente, un paese sicuro e ricco di infrastrutture possono attrarre investimenti sensibili ma finché ciò non avviene, di effetti moltiplicatori “nemmeno l’ombra”, quindi non si hanno maggiori entrate mentre i creditori, aumentati di numero, pretendono subito il pagamento delle scadenze pena il fallimento dello Stato e questo contesto innesca fenomeni speculativi. Non saper “moltiplicare” l’economia e prospettare la violazione di norme comunitarie (perdita di credibilità) è il viatico certo per ritrovarci con il cappio al collo delle scadenze verso i creditori. Quando uno Stato è nell’urgenza di ottenere finanziamenti, i potenziali “prestatori” (detti “investitori” ma anche detti “speculatori”) chiedono interessi sempre più alti (speculazione/spread), il paese sotto attacco finisce per avvitarsi nei debiti e per onorare scadenze sempre più pressanti ed evitare il default è costretto a svendere assets strategici a prezzi di saldo (con ulteriore desertificazione dell’economia), di norma proprio ai soggetti che hanno compiuto questa aggressione. E’ l’azione della tipica “finanza volatile” con sede a Londra che non comporta un incremento dell’economia reale (industrie, lavoro) bensì emorragia di benessere verso l’estero e deflazione salariale. In questo caso la crisi debitoria ha tratti più finanziari che economici e di nuovo il M5S pare incamminato in quella direzione.
    Di Maio è reduce da incontri con non ben definiti “investitori” a porte chiuse quando in gioco c’è l’interesse nazionale: perché questo gap in termini di trasparenza proprio quando la posta in gioco è così alta? Ricordo che nel 1992 il governo italiano optò per l’uscita dallo Sme e consapevole che la grande svalutazione che ne sarebbe seguita avrebbe comportato un pari sconto sui “gioielli di Stato”, sul panfilo Britannia, si accordò con soggetti esteri per la svendita degli stessi. A completare un quadro di estrema incertezza la salita agli onori della cronaca di Fioramonti come responsabile della politica economica pentastellata, per i legami (da lui smentiti) con lo speculatore internazionale Soros, con i Rockefeller, i Rothschild ed Anspen Institute. Egli insegna economia in Sud Africa ma è laureato in scienze politiche (quindi non è un economista) ed è un teorico della della “decrescita felice”. Superfluo rimarcare come tale teoria non scopra niente (è lapalissiano che gli sprechi vadano ridotti e che il Pil non sia un indice della felicità ma economico) ma viene percepita da creditori e partner europei (che spesso coincidono) come indizio di approssimazione e come indice di un potenziale disimpegno sul lato dei conti pubblici da parte degli “italiani”. Insomma, più che del “Moltiplicatore di Di Maio” e di un clima alla Mani Pulite 2.0 (utile a difendere la Religione della Moneta Unica) questo paese necessita di maggiore lealtà nei confronti di chi non “mastica” economia: volendo esprimere un giudizio nazional-popolare, si dichiari chiaramente che dal punto di vista della “crisi” il problema del nostro paese non sono tanto i “corrotti”, che evidenze scientifiche mostrano pesare tra un 5% e un 10% alla voce “debito”, ma i “venduti” (a soggetti esteri) che hanno approvato una Maastricht irriformabile.
    (Marco Giannini, “Di Maio e la decrescita (infelice) dell’Italia in svendita”, riflessione pubblicata su “Libreidee” il 27 febbraio 2018).

    Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?

  • Biglino: Elohim biblici, Yahvè e soci oggi hanno paura di noi

    Scritto il 25/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (43)

    Gli Elohim biblici spacciati per dèi, e uno di loro – Yahvè – presentato addirittura come Dio unico? «Non mi stupirei se quegli individui fossero ancora tra noi e ci comandassero, dato che il sistema finanziario che ci governa è quello illustrato nell’Antico Testamento: se presti denaro sei padrone, se contrai un debito sei schiavo». Ma attenzione: anche qualora gli Elohim fossero qui, non sarebbe più come ai tempi di Mosè: oggi avrebbero motivo di temerci. «Siamo sfuggiti al loro controllo, sia per capacità tecnologica che per numero: siamo sette miliardi». A parlare è Mauro Biglino, l’italiano che sta scardinando la vulgata teologica della Chiesa svelando il testo letterale della Bibbia, di cui ha tradotto 19 libri per le Edizioni San Paolo prima di venir scaricato dal circuito cattolico. Un fenomeno editoriale (Uno Editori, Mondadori) fatto di ormai 13 titoli puntualmente in classifica e decine di affollatissime conferenze in tutta Italia. Molti i volumi tradotti all’estero: imminente lo sbarco negli Usa. Proprio al pubblico americano è destinata l’ultima intervista di Biglino, realizzata in web-streaming con la blogger Sarah Westall. Domanda: il Vaticano non mai ha cercato di fermare il suo ex traduttore “impazzito”? Macché. «Forse, lassù, fa comodo che qualcuno come me cominci a dire certe cose, che prima o poi dovranno ammettere anche loro».
    Una su tutte? Yahvè – per la Bibbia – non è Dio: è solo un Elohim, “collega” di Kamòsh e Milcòm, a loro volta “signori” di altri confinanti clan ebraici, della stessa discendenza del mitico Abramo. «La Bibbia ne nomina almeno una dozzina: erano tanti. Molto longevi, ma non immortali né onnipotenti: ammesso che sia ancora vivo, Yahvè non è ancora riuscito a mantenere l’antica promessa fatta agli israeliti, cui aveva garantito vastissimi possedimenti, fino in Mesopotamia». Si sta sgretolando un muro di dogmi, fondato su traduzioni erronee o addirittura deliberatamente manipolate? Clamoroso il caso della Bibbia editata nel 2017 dalla Cei tedesca, che annulla – come anticipato da Biglino – la pretesa profezia messianica contenuta nel Libro di Isaia (17, 4-17): “La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emanuele”. E’ l’appiglio biblico al quale i Vangeli si richiamano per dimostrare l’ascendenza veterotestamentaria della missione di Cristo. Peccato che quella traduzione fosse inventata di sana pianta: non c’è nessuna “vergine”, né alcun verbo al futuro. E’ scritto, testualmente: “La ragazza è incinta”. «Nessun mistero», chiarisce Biglino: «Isaia non parla di Maria di Nazareth, che ancora doveva nascere, ma di Abia, giovane moglie del re Achaz: semplicemente, gli israeliti si aspettavano che quel bambino, una volta cresciuto, potesse liberarli dalla condizione di schiavitù cui allora erano sottoposti».
    Un errore tenuto in vita per oltre duemila anni, che annulla il collegamento tra Vecchio e Nuovo Testamento? Colpa della traduzione, sostiene Biglino: il libro fu tradotto in latino attraverso un passaggio intermedio, in lingua greca. E il greco ha un unico termine, “pàrthenos”, che significa sia “ragazza” che “vergine”. «Quella di Isaia è solo una “almà”, una fanciulla. L’ebraico infatti ce l’ha, la parola che designa una vergine: ed è “betullah”, che però in Isaia non c’è». In più, il libro tradizionalmente attribuito al profeta biblico non usa nemmeno il verbo “concepire”: «Compare solo l’aggettivo “incinta”, dunque significa che quella ragazza – non vergine, tantomeno Maria – aveva già concepito: non Gesù, ma il futuro figlio del re Achaz». Ne tengono conto, nella loro nuova Bibbia, i vescovi tedeschi. In Italia, per ora, silenzio. Fino a quando? «Credo che la Chiesa si stia comunque preparando a prendere le distanze dall’Antico Testamento: sa che non potrà più ignorare a lungo le verità che stanno emergendo», sostiene Biglino, il cui lavoro è in linea con settori avanzati della ricerca scientifica internazionale, dall’archeologia alla bioingegneria. La tesi: i cosiddetti “libri sacri”, non solo la Bibbia ma anche i Veda indiani e testi sumerici (di cui l’Antico Testamento è una fotocopia) sembrano svelare il famoso “missing link” tra uomo e scimmia.
    Genetica, innanzitutto, e non solo animale: «Alimenti essenziali per l’umanità, come la patata e il grano, sono comparsi di colpo – senza diretti antenati genetici – all’epoca di cui parlano i testi antichi e proprio in quelle aree: cioè dove si presentarono quegli esseri temuti e potenti, che gli ebrei chiamarono Elohim e i sumeri Anunnaki». Tracce analoghe costellano le memorie di ogni civiltà, in tutto il mondo: gli “Spendenti”, i “Figli delle Stelle” venuti forse dalla costellazione di Orione? «Facciamo un gioco», propone Biglino: «Facciamo finta che i testi antichi – di cui peraltro non esistono fonti – raccontino fatti realmente accaduti. Sono coerenti? La risposta è sì». A cominciare dalla creazione, «che nella Bibbia non esiste: il verbo usato, “barà”, non significa “creare dal nulla” – concetto assente, nell’ebraico antico – ma solo “separare”: la terra, le acque, il cielo. Come se la Genesi narrasse, in realtà, la sistemazione di un territorio perché divenisse fertile». Quando fu clonata la pecora Dolly, tra lo scandalo dei teologi, i rabbini risposero in modo serafico: perché mai stupirsi? E’ la Bibbia la prima a parlare di clonazione. La Genesi non dice chi creò Adamo, ma solo Eva: testualmente, l’Adàm “fu posto in Gan-Eden”, cioè nel Gan (territorio agricolo protetto) situato nella regione geografica di Eden, tra il Mar Caspio e l’Eufrate. «Eva nacque per clonazione, dopo un’infinità di esperimenti fallimentari: quando la vide, Adamo rispose: finalmente ci siamo, questa sì che è carne della mia carne».
    Il peccato originale? «Inesistente, come ben sanno gli ebrei». La cacciata dall’Eden? «Un atto precauzionale, perché gli Adamiti avevano scoperto la possibilità di riprodursi: si stavano pericolosamente avvicinando alle pratiche dell’Albero della Vita, minacciando l’egemonia degli Elohim». Colpa – anzi, merito – del Serpente: «Che non era un rettile, ma un Elohim antagonista, in lizza coi signori del Gan-Eden: la Genesi lo chiama Nahàsh, che in ebraico vuol dire anche serpente, sinonimo di “sapiente”. In altre parole, il genetista». Fu proprio lui, continua Biglino, ad accoppiarsi per primo con Eva: da cui nacque un ibrido, Caino», il nostro vero progenitore. Dopo di allora, gli Adamiti presero a vivere anche per 900 anni, racconta la Bibbia. «Fino a quando non furono gli Elohim stessi a cessare di accoppiarsi con le femmine Adàm, proprio per impoverire il Dna della loro discendenza, riducendone la longevità». Questo, dice Biglino, è quello che – né più né meno – racconta la Bibbia. C’è da crederci? «Possiamo solo “fare finta” che sia tutto vero, controllandone la coerenza. Come noto, la Bibbia non ha fonti. Non si sa quando sia stata scritta, né da chi, né in che lingua: non in ebraico, comunque, perché non esisteva ancora. L’unica certezza, dicono i biblisti ebrei, è che la Bibbia attuale non è l’originale: si sono dati due secoli di tempo per ricostruire una Bibbia più attendibile, attraverso il “Bible Projetc” a cui lavorano i massimi studiosi».
    Secondo Biglino, l’ultima cosa che si può fare, con la Bibbia, è fondarvi delle religioni: «La natura tutt’altro che divina di Yahvè emerge ovunque: un guerriero avido e spietato, ma meno potente di altri Elohim. E per giunta neppure a capo di tutti gli ebrei, ma solo della famiglia di Giacobbe-Israele». Un piccolo, dispotico feudatario locale: «Come si fa a presentarlo come riferimento per l’intera umanità?». Un abbaglio durato oltre due millenni, la Bibbia? Sì e no, secondo Biglino: è insensata la derivazione religiosa, mentre gli indizi storici potrebbero reggere. Il vasto corpus dei libri biblici è a geometria variabile, non esiste una sola Bibbia. E, mentre ha libero corso ogni tipo di interpretazione – teologica, esoterica, simbologica, cabalistica – è praticamente scomparsa la traduzione letterale. «E’ giusto che la lettura del testo ebraico abbia, almeno, pari dignità». Spesso, insiste Biglino, chi cita la Bibbia a scopo religioso in realtà non l’ha mai letta: «Quanti vescovi conoscono l’ebraico antico? Se lo conoscessero, scoprirebbero che in quel testo non c’è traccia di trascendenza. Non esiste la base per alcun assunto teologico. Si parla solo di guerre, conquiste, punizioni e stragi efferate. Non c’è alcuna metafisica, non esiste il concetto di eternità. E quello di immortalità non vale neppure per Yahvè. Lo ricorda Elyon, il capo supremo, parlando agli Elohim: anche loro dovranno morire, proprio come gli Adàm».
    Un racconto «in ogni caso eloquente e persino affascinante», dice lo studioso: «Spesso la Bibbia è terribilmente esplicita, nella sua narrazione sempre concreta e assolutamente terrena: le implicazioni soprannaturali sono frutto di invenzioni teologiche, basate su traduzioni clamorosamente distorte». Nella Bibbia, gli angeli (dal greco “anghelòi”, messaggeri) si chiamano Malakhìm. Nelle traduzioni “appaiono” e “scompaiono”, svolazzando graziosamente, mentre nel testo originale «camminano, sfatti di fatica: sono individui in carne e ossa». Gabriele, quello dell’annunciazione? «E’ anche lui un Malàkh, e di alto rango. Ma il nome non designa un singolo individuo, bensì una categoria: il nome originario, Ghevèr-El, significa “alto ufficiale di un El”. Per la cronaca: sono tutte cose che gli ebrei sanno benissimo, così come sanno che i Keruvìm non sono gli alati Cherubini della tradizione cristiana, ma velivoli meccanici monoposto». Ben quattro “Cherubini”, scrive la Bibbia, stavano attaccati al Kavòd, l’aeromobile da guerra di Javhè. Traduzione cristiana: il Kavòd, letteralmente (arma) “pesante”, diventa “gloria”: «Così, dal Kavòd di Jahvè si arriva alla “gloria di Dio”». Fantastico, no? «Non siamo certi che la Bibbia dica il vero. Quel che è sicuro, invece, è che la teologia travisa la Bibbia per inventare di sana piana la sua versione, di cui nell’Antico Testamento non c’è la minima traccia».
    La Bibbia non spiega tutto, ma forse aiuta a capire. Quel che non si può ricavare direttamente dall’Antico Testamento, «dato il carattere frammentario e spesso contraddittorio del testo ebraico giunto fino a noi, continuamente manipolato fino all’epoca di Carlomagno», lo possiamo comunque compediare con altri testi, coevi e precedenti: «Testi ebraici non biblici e testi non ebraici, sumeri e in generale mediorientali», spiega Biglino all’americana Sarah Westall. Che idea si è fatto, il traduttore indipendente, di tutta questa storia? Ancora una volta, Biglino cita testi antichi, del Medio Oriente, per comporre un mosaico teoricamente credibile: grazie ai Sumeri sappiamo che quella misteriosa popolazione approdò sulla Terra – non sappiamo da dove – attratta dai minerali come l’oro, preziosi in ambito aerospaziale. Un giorno, stanchi di lavorare, gli Elohim-Anunnaki decisero di “fabbricare” una nuova “razza” di lavoratori, attraverso la clonazione, fondendo cioè il proprio Dna con quello degli ominidi allora presenti, Homo Habilis e Homo Erectus. Fu così che nacque l’Homo Sapiens, ed ecco spiegato il “missing link”. Gli Adamiti? Una ulteriore élite di lavoratori specializzati, successivamente ri-selezionati sempre per via genetica e destinati in esclusiva al Gan-Eden.
    Biglino la ritiene una storia plausibile, confermata dal racconto biblico. «Poi, attorno al 500 avanti Cristo, gli Elohim si fecero da parte: sorse la casta sacerdotale, come mediatrice dei loro ordini. Nacquero allora le grandi religioni: senza colpo ferire, si sperimentò uno straordinario strumento di dominio, basato sulla sola persuasione». Una possibile storia alternativa dell’umanità: dai genocidi a ripetizione ordinati da Yahvè, ossessionato dalla paura dell’insubordinazione dei sudditi, alla nuova obbedienza “dolce” imposta dal dogma e tuttora vigente, nel mondo. Ma erano tutti ostili e vendicativi come Yahvè, gli Elohim biblici? «Niente affatto: c’era anche chi era amante delle arti e della musica. Uno di loro, Baal Pehòr, concorrente del bellicoso Yahvè, predicava la diffusione del sesso libero». Fate l’amore, non la guerra? «Esatto. Solo che poi l’esegesi cristiana ha trasformato gli avversari politici di Yahvè in nemici di Dio: così Baal Pehòr è diventato il demonio Belfagor».
    Libere traduzioni, che suonano false come menzogne. Miracoli inesistenti, come il mitico attraversamento del Mar Rosso: «Quelli che Mosè portò via dall’Egitto – non sappiamo nemmeno se fossero ebrei o egiziani – non valicarono mai il mare, ma solo uno Yam Suf, un canneto paludoso», habitat diffusissimo nel delta del Nilo. E’ come se la Bibbia, riscritta mille molte e poi manipolata dalla religione, avesse riproposto una storia molto più antica, vista in ritardo e da lontano. Lo suggeriscono alcuni testi preesistenti, come quelli sumerici dove, ad esempio, si parla del Grande Diluvio. «A salvare il Noè sumero fu En-Ki, uno dei figli del capo dell’impero: fu lui a dirgli di costruire la barca per sovravvivere all’inondazione». Sumera anche l’origine della Genesi: «L’antenato mesopotamico “fabbricato” dagli Anunnaki si chiama, guardacaso, Adamu». Vengono le vertigini, a chi ha sempre sentito citare Bibbia solo in termini religiosi. A proposito: Dio che c’entra, in tutto questo? «Mi guardo bene dal parlarne: non ho neppure le certezze degli atei», ammette Biglino. «Dico solo che, nella Bibbia, non c’è nessun Dio». E scusate se è poco.

    Gli Elohim biblici spacciati per dèi, e uno di loro – Yahvè – presentato addirittura come Dio unico? «Non mi stupirei se quegli individui fossero ancora tra noi e ci comandassero, dato che il sistema finanziario che ci governa è quello illustrato nell’Antico Testamento: se presti denaro sei padrone, se contrai un debito sei schiavo». Ma attenzione: anche qualora gli Elohim fossero qui, non sarebbe più come ai tempi di Mosè: oggi avrebbero motivo di temerci. «Siamo sfuggiti al loro controllo, sia per capacità tecnologica che per numero: siamo sette miliardi». A parlare è Mauro Biglino, l’italiano che sta scardinando la vulgata teologica della Chiesa svelando il testo letterale della Bibbia, di cui ha tradotto 19 libri per le Edizioni San Paolo prima di venir scaricato dal circuito cattolico. Un fenomeno editoriale (Uno Editori, Mondadori) fatto di ormai 13 titoli puntualmente in classifica e decine di affollatissime conferenze in tutta Italia, ogni anno. Molti i volumi tradotti all’estero: imminente lo sbarco negli Usa. Proprio al pubblico americano è destinata l’ultima intervista di Biglino, realizzata in web-streaming con la blogger Sarah Westall. Domanda: il Vaticano non mai ha cercato di tappare la bocca al suo ex traduttore “impazzito”? Macché. «Forse, lassù, fa comodo che qualcuno come me cominci a dire certe cose, che prima o poi dovranno ammettere anche loro».

  • Euro e bugie: Grillo ha illuso e tradito gli italiani indignati

    Scritto il 22/2/18 • nella Categoria: idee • (18)

    Ricerca: “Genealogia di un rincoglionimento”. Definizione di rincoglionimento: “Rendere qualcuno imbecille, incapace di nuocere”. Fenomenologia di un rincoglionimento: nel maggio 2014 Beppe Grillo dichiara: «Il Fiscal Compact è una follia. Noi non abbiamo firmato un cazzo, andiamo in Europa e il Fiscal Compact glielo strappiamo in faccia davanti alla Merkel». Gli italiani si svegliano e s’indignano. Finalmente un politico che dice pane al pane e vino al vino. Nel dicembre 2014, Beppe Grillo specifica: «Riprendiamoci la sovranità monetaria e usciamo dall’incubo del fallimento per default. Per non finire come la Grecia. Fuori dall’euro o default». Gli italiani esultano: c’è vita intelligente nell’Europa deficiente. Nel febbraio 2015, Grillo chiarisce: «Il premier sta eliminando tutte le tutele di legge che ci proteggono dalla colonizzazione dei poteri forti, cedendo completamente la sovranità nazionale agli euroburocrati senza legittimazione». Gli italiani non stanno più nella pelle: ecco un “hombre vertical” che mette i dittatori a novanta gradi. Nel maggio 2015, Beppe Grillo sentenzia: «Di euro si muore».
    «Il primo paese che uscirà dalla trappola dell’euro dimostrerà che è solo una zavorra che costringe a sacrificare pensioni, diritti dei lavoratori ed economie nazionali al pagamento di interessi ai paesi creditori del Nord Europa, Germania in primis. L’unico loro obiettivo. Fuori dall’euro, quindi, per ritornare a vivere». Gli italiani non credono alle loro orecchie: allora è tutto vero, un leader ci indica la via per scappare dall’eurocrazia. Nel luglio 2015, Beppe Grillo ci va giù duro: «Guy Verhofstadt (il leader dell’Alde) è il politico che più incarna l’eurostatocentrismo, dentro al Parlamento Europeo». L’euforia degli italiani è alle stelle (cinque): mai nessuno aveva osato tanto contro la burokratura comunitaria. Gennaio 2017: Grillo chiede e ottiene dagli iscritti, con votazioni on line, il consenso all’ingresso nel gruppo dell’Alde di Guy Verhofstadt. Gli italiani cominciano ad avvertire un lieve giramento di capo.
    Nel settembre 2017, a Cernobbio, il candidato premier grillino Di Maio dichiara: «Il referendum sull’euro va usato come peso contrattuale e come via d’uscita nel caso in cui i paesi mediterranei non dovessero essere ascoltati in sede europea, ma noi non siamo contro la Ue». Gli italiani faticano a raccapezzarsi e a mantenere l’equilibrio. Nel gennaio 2018, da Bruno Vespa, Di Maio enuncia: «Io non credo sia più il momento per l’Italia di uscire dall’euro perché l’asse franco-tedesco non è più così forte». Gli italiani sono definitivamente sedati: incapaci di nuocere. A quel punto, passa Di Battista e – alla domanda se i 5 Stelle riusciranno a governare –  risponde: «Io non lo so, perché gli italiani li vedo molto rincoglioniti». E a un trenta per cento circa di italiani viene un dubbio amletico: «Se rincoglioniti si diventa, coglioni si nasce?».
    (Francesco Carraro, “Rincoglioniti si diventa”, da “Scenari Economici” del 12 febbraio 2018).

    Ricerca: “Genealogia di un rincoglionimento”. Definizione di rincoglionimento: “Rendere qualcuno imbecille, incapace di nuocere”. Fenomenologia di un rincoglionimento: nel maggio 2014 Beppe Grillo dichiara: «Il Fiscal Compact è una follia. Noi non abbiamo firmato un cazzo, andiamo in Europa e il Fiscal Compact glielo strappiamo in faccia davanti alla Merkel». Gli italiani si svegliano e s’indignano. Finalmente un politico che dice pane al pane e vino al vino. Nel dicembre 2014, Beppe Grillo specifica: «Riprendiamoci la sovranità monetaria e usciamo dall’incubo del fallimento per default. Per non finire come la Grecia. Fuori dall’euro o default». Gli italiani esultano: c’è vita intelligente nell’Europa deficiente. Nel febbraio 2015, Grillo chiarisce: «Il premier sta eliminando tutte le tutele di legge che ci proteggono dalla colonizzazione dei poteri forti, cedendo completamente la sovranità nazionale agli euroburocrati senza legittimazione». Gli italiani non stanno più nella pelle: ecco un “hombre vertical” che mette i dittatori a novanta gradi. Nel maggio 2015, Beppe Grillo sentenzia: «Di euro si muore».

  • Dal Lago: voto inutile, partiti immaginari e crisi cronica Ue

    Scritto il 21/2/18 • nella Categoria: idee • (37)

    I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo?
    «Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».
    Intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, Dal Lago vede un’Italia politica che guida a fari spenti nella notte. «In campo ci sono tre grandi soggetti, di cui due in crisi di legittimazione, Pd ed M5S, e il terzo, il centrodestra, già delegittimato 5-6 anni fa, rinato come un’araba fenice ma pronto a dividersi dopo la probabile vittoria». Partiti che «ritraggono orientamenti in larga parte immaginari». Ovvero: «A destra c’è una sorta di Democrazia Cristiana fuori tempo, ma senza essere un partito di massa: Forza Italia, da sempre virtuale, ha avuto in passato il 30 per cento dei voti, oggi è al 17. Si è alleata con un partito ex “catalano”, oggi di destra, e con un partitino di ex fascisti». Poi viene il Pd: «E’ il partito di un uomo solo al comando, che mira a una formazione piccola ma di cui controlla tutte le leve». Infine, il Movimento 5 Stelle: «Un ircocervo né di destra né di sinistra, che fa finta di essere democratico quando è gestito da una società di consulenza aziendale e che oltretutto si sta annacquando giorno dopo giorno».
    Orientamenti “immaginari”, appunto, «perché il centrosinistra non ha fatto più spesa pubblica e cacciato meno immigrati di quando avrebbe potuto fare il centrodestra al governo. Sono differenze più immaginarie e simboliche che non legate a interessi o politiche materiali». I sondaggisti dicono che l’astensione è intorno al 34% per cento. Un giovane su due potrebbe disertare le urne. Non è una novità: a Ostia (80.000 persone) è andato a votare solo il 33%. «Siamo in una fase di transizione», sostiene Alessandro Dal Lago. «I modelli politici tradizionali sono morti, quelli nuovi ancora non ci sono ma si affacciano nuove dimensioni: la politica non passa più per la televisione e i comizi ma per i social media». Proprio sui social si registra «un distacco crescente dalle azioni e dalle scelte condivise». Vale a dire: «I soggetti interagiscono con l’ambito pubblico rimanendo confinati in una sfera totalmente privata, quella del loro schermo. Fare politica si è ridotto ad assistere alle polemiche su Twitter e Facebook». La politica frana, ovunque: «Negli Stati Uniti c’è un presidente che si vanta di avere il bottone nucleare più grande di quello degli altri. In Francia non c’è più il partito che per quarant’anni si è alternato con la destra alla guida del paese. In tutta Europa crescono i partiti xenofobi. In Italia i giovani del Sud sono destinati a rimanere esclusi o ai margini dei processi produttivi».
    Si sta scivolando pericolosamente verso un aumento disastroso delle diseguaglianze: «C’è un distacco sempre più netto tra la società digitale post-industriale e quelli che restano indietro, e che non hanno speranze. Un 60enne che faceva l’operaio e perde il lavoro dove va? A lavorare in un call center? Da questo punto di vista il Jobs Act è stato fatto apposta per espellere le persone dal mercato del lavoro. Si dà loro qualche indennità e stop». Processi complicati: troppo, per partiti “immaginari”. «Il centrodestra italiano ha un senso solo nella società degli integrati, di quelli che non vogliono perdere il loro status. Il Pd è ancorato a un sistema di notabilato e di gestione degli interessi radicato in due-tre Regioni, senza le quali non esisterebbe. Il monopolio del voto meridionale da parte del centrodestra non c’è più». Saranno i 5 Stelle a fare il pieno al Sud, ma non sarà un voto di protesta bensì “di distacco”: «Segnala la nuova estraneità al mondo politico. Nelle regioni del Sud gli elettori vedono – a torto – il M5S come l’alternativa elettorale, legale, a una società che non amano, a un sistema di potere che rifiutano».

    I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo? «Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».

  • Page 18 of 64
  • <
  • 1
  • ...
  • 13
  • 14
  • 15
  • 16
  • 17
  • 18
  • 19
  • 20
  • 21
  • 22
  • ...
  • 64
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo