Archivio del Tag ‘Feltrinelli’
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Bukovskij: l’Ue coniata con l’Urss, aspettatevi Kgb e Gulag
Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.Precedentemente, i partiti di sinistra e l’Unione Sovietica si erano molto opposti all’integrazione europea, perché la percepivano come un mezzo per bloccare i loro obiettivi socialisti. Dal 1985 in poi hanno completamente cambiato idea. I sovietici giunsero a un accordo con i partiti di sinistra e alla conclusione che, se avessero lavorato insieme, avrebbero potuto dirottare l’intero progetto europeo e ribaltarlo. Invece che in un mercato aperto, lo avrebbero trasformato in uno Stato federale. Secondo i documenti [segreti sovietici], il 1985-86 è il punto di svolta. Ho pubblicato la maggior parte di questi documenti. Potete trovarli anche su Internet. Ma le conversazioni che hanno avuto aprono veramente gli occhi. Per la prima volta si capisce che c’è una cospirazione – abbastanza comprensibile per loro, perché cercavano di salvarsi politicamente la pelle. A Est, i sovietici avevano bisogno di un cambiamento di relazioni con l’Europa, perché stavano entrando in una crisi strutturale protratta e profonda; a Occidente, i partiti di sinistra temevano di essere spazzati via e di perdere la loro influenza e il loro prestigio. Quindi era una cospirazione, apertamente fatta, concordata e elaborata da loro.Nel gennaio del 1989, per esempio, una delegazione della Commissione Trilaterale è venuta in visita a Gorbaciov. Ha incluso [l’ex primo ministro giapponese Yasuhiro] Nakasone, [l’ex presidente francese Valéry] Giscard d’Estaing, [il banchiere americano David] Rockefeller e [l’ex segretario di Stato americano Henry] Kissinger. Hanno avuto una bella conversazione dove hanno cercato di spiegare a Gorbaciov che la Russia sovietica doveva integrarsi nelle istituzioni finanziarie del mondo, come il Gatt, il Fmi e la Banca Mondiale. Nel mezzo della conversazione, Giscard d’Estaing prende improvvisamente la parola: «Signor presidente, non posso dirvi esattamente quando accadrà, probabilmente entro 15 anni, ma l’Europa diventerà uno Stato federale e dovete prepararvi a questo. Dovete lavorare con noi, e coi leader europei, e dovete essere preparati, su come reagireste, come permettereste agli altri paesi dell’Europa dell’Est di interagirvi o farne parte».Questo era il gennaio 1989, in un momento in cui il trattato di Maastricht [1992] non era nemmeno stato redatto. Come diavolo faceva Giscard d’Estaing a sapere cosa sarebbe avvenuto in 15 anni? E – sorpresa, sorpresa – come è diventato l’autore della Costituzione Europea [nel 2002-03]? Un’ottima domanda. Odora di cospirazione, vero? Fortunatamente per noi, la parte sovietica di questa cospirazione era crollata in precedenza e non raggiunse il punto in cui Mosca poteva influenzare il corso degli eventi. Ma l’idea originaria era quella di avere quella che chiamavano una convergenza, per cui l’Unione Sovietica si sarebbe addolcita diventando più socialdemocratica, mentre l’Europa occidentale sarebbe diventata socialdemocratica e socialista. Allora ci sarebbe stata la convergenza. Le strutture si sarebbero divute adattare tra loro. Ecco perché le strutture dell’Unione Europea sono state originariamente costruite allo scopo di adattarsi alla struttura sovietica. Ecco perché sono così simili nel funzionamento e nella struttura.Non è un caso che il Parlamento Europeo, ad esempio, mi ricordi il Soviet Supremo. Sembra il Soviet Supremo perché è stato progettato come il Soviet Supremo. Allo stesso modo, quando si guarda alla Commissione Europea, sembra il Politburo. Voglio dire, è esattamente il Politburo, salvo il fatto che la Commissione adesso ha 25 membri e il Politburo ha soltanto 13 o 15 membri. A parte questo, sono esattamente gli stessi, non devono rendere conto a nessuno, non sono eletti direttamente da nessuno. Quando si guarda a tutta questa bizzarra attività dell’Unione Europea con le sue 80.000 pagine di regolamenti, sembra il Gosplan. Noi eravamo abituati ad avere un’organizzazione che pianificava tutto nell’economia, fino all’ultimo dado e bullone, in anticipo per cinque anni. Esattamente la stessa cosa sta avvenendo nell’Ue. Quando si guarda al tipo di corruzione dell’Ue, è esattamente il tipo di corruzione sovietico, che procede dall’alto verso il basso piuttosto che dal basso verso l’alto.Se si passano in rassegna tutte le strutture e le caratteristiche di questo emergente mostro europeo, si noterà che assomiglia sempre di più all’Unione Sovietica. Naturalmente, è una versione più mite dell’Unione Sovietica. Per favore, non fraintendetemi. Non sto dicendo che ha i Gulag. Non ha nessun Kgb – non ancora – ma sto osservando molto attentamente ad esempio strutture come Europol. Ciò mi preoccupa molto, perché questa organizzazione probabilmente avrà poteri più grandi di quelli del Kgb. Avranno l’immunità diplomatica. Potete immaginare un Kgb con immunità diplomatica? Dovranno sorvegliarci su 32 tipi di reati – due dei quali sono particolarmente preoccupanti, uno è chiamato razzismo, l’altro è chiamato xenofobia. Nessun tribunale penale sulla terra definisce qualcosa del genere come un crimine [questo non è del tutto vero, perché il Belgio già procede in questo modo]. Quindi è un nuovo crimine, e siamo già stati avvertiti. Qualcuno nel governo britannico ci ha detto che coloro che si oppongono all’immigrazione incontrollata dal Terzo Mondo saranno considerati razzisti e quelli che si oppongono all’integrazione europea saranno considerati xenofobi. Penso che Patricia Hewitt lo abbia detto in pubblico.Di conseguenza, siamo stati avvertiti. Nel frattempo introducono sempre più ideologia. L’Unione Sovietica era uno Stato governato dall’ideologia. L’ideologia odierna dell’Unione Europea è socialdemocratica, statalistica, e una gran parte di essa è il politically correct. Osservo con molta attenzione come il politicamente corretto si diffonda e diventi un’ideologia oppressiva, per non parlare del fatto che vietano di fumare quasi ovunque. Guardate questa persecuzione delle persone come il pastore svedese che è stato perseguitato per diversi mesi perché ha detto che la Bibbia non approva l’omosessualità. La Francia ha approvato la stessa legge contro l’incitamento all’odio sui gay. La Gran Bretagna sta introducendo leggi contro l’incitamento all’odio nelle relazioni razziali e ora anche nelle questioni religiose, e così via. Quello che si osserva, preso in prospettiva, è l’introduzione sistematica di ideologia, che potrebbe essere successivamente fatta rispettare con misure oppressive. A quanto pare questo è l’intero scopo dell’Europol. Altrimenti perché ne abbiamo bisogno? L’Europol mi sembra molto sospetta. Osservo con molta attenzione chi viene perseguito per cosa e cosa sta succedendo, perché è un campo in cui sono un esperto. So come nascono i Gulag.Sembra che viviamo in un periodo di rapido, sistematico e molto consistente smantellamento della democrazia. Guarda questo disegno di legge per la riforma legislativa e normativa. Rende i ministri dei legislatori che possono introdurre nuove leggi senza preoccuparsi di dirlo al Parlamento né a nessun altro. La mia reazione immediata è: perché ci serve? La Gran Bretagna è sopravvissuta a due guerre mondiali, alla guerra con Napoleone, all’Armada spagnola, per non parlare della Guerra Fredda, quando ci veniva detto che in qualsiasi momento potevamo avere una guerra mondiale nucleare, senza necessità di introdurre questa legislazione, senza bisogno di sospendere le nostre libertà civili e introdurre poteri emergenziali. Perché ne abbiamo bisogno adesso? Questo può trasformare il vostro paese in una dittatura in pochissimo tempo. La situazione di oggi è veramente triste. I principali partiti politici sono stati completamente catturati dal nuovo progetto comunitario. Nessuno di loro vi si oppone veramente. Sono diventati molto corrotti. Chi difenderà le nostre libertà?Sembra che stiamo andando verso una specie di collasso, una sorta di crisi. L’esito più probabile è che ci sarà un collasso economico, in Europa, che a tempo debito dovrà accadere con questa crescita delle spese e delle tasse. L’incapacità di creare un ambiente competitivo, l’eccessiva regolamentazione dell’economia, la burocratizzazione, porterà al crollo economico. In particolare l’introduzione dell’euro è stata un’idea folle. La valuta non dovrebbe essere una questione politica. Non ne ho dubbi. Ci sarà un crollo dell’Unione Europea, quasi simile al modo in cui è collassata l’Unione Sovietica. Ma non dimenticate che quando queste cose crollano lasciano una tale devastazione che ci vuole una generazione per recuperare. Basta pensare che cosa accadrà se si tratterà di una crisi economica. Le recriminazioni tra le nazioni saranno enormi. Si potrebbe arrivare alla guerra.Guardate l’enorme numero di immigrati provenienti dai paesi del Terzo Mondo che ora vivono in Europa. Questa immigrazione è stata promossa dall’Unione Europea. Cosa succederà se c’è un crollo economico? Probabilmente avremo tanti conflitti etnici che la mente ne rimane sconvolta, come è avvenuto con la fine dell’Unione Sovietica. In nessun altro paese vi erano tensioni etniche come nell’Unione Sovietica, tranne probabilmente in Jugoslavia. Quindi è esattamente ciò che accadrà anche qui. Dobbiamo essere preparati a questo. Questo enorme edificio di burocrazia crollerà sulle nostre teste. Ecco perché, e sono molto sincero, quanto prima chiuderemo con l’Ue, meglio è. Quanto prima crolla, meno danni avrà fatto a noi e ad altri paesi. Ma dobbiamo essere rapidi, perché gli eurocrati stanno muovendosi molto velocemente. Sarà difficile sconfiggerli. Oggi è ancora semplice. Se oggi un milione di persone marcia a Bruxelles, questi personaggi scapperanno alle Bahamas.Se domani metà della popolazione britannica rifiuterà di pagare le proprie tasse, non accadrà nulla e nessuno andrà in prigione. Oggi puoi ancora farlo. Ma non so quale sarà la situazione domani, con un Europol completamente sviluppata, con personale preso da ex-funzionari della Stasi o della Securitate. Potrebbe succedere di tutto. Stiamo perdendo tempo. Dobbiamo sconfiggerli. Dobbiamo sederci e pensare, elaborare una strategia per ottenere il massimo effetto possibile nel modo più breve possibile. Altrimenti sarà troppo tardi. Quindi cosa dovrei dire? La mia conclusione non è ottimista. Finora, malgrado il fatto che in quasi tutti i paesi abbiamo delle forze anti-Ue, ciò non è sufficiente. Stiamo perdendo e stiamo sprecando tempo.(Vladimir Bukovskij, testo del discorso pronunciato a Bruxelles nel 2006 e ancora drammaticamente attuale, ripreso da “Voci dall’Estero”. Già dissidente politico in Urss, lo scrittore riparò in Gran Bretagna dopo la prigionia nei Gulag. Tra le sue opere “Una nuova malattia mentale in Urss, l’opposizione”, Etas Kompass, “Guida psichiatrica per dissidenti”, L’erba voglio, “Il vento va e poi ritorna”, Feltrinelli, “Urss, dall’utopia al disastro”, Spirali, e “Gli archivi segreti di Mosca”, Spirali).Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.
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Giulietto Chiesa: decalogo dell’Impero padrone del mondo
Come tenere in pugno il mondo. E’ «il decalogo che ha creato l’Impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra», dice Giulietto Chiesa, rispolverando le pagine scritte nel 2002 per il profetico “La guerra infinita”, edito da Feltrinelli. Dieci regole d’oro, anzi: di ferro. La prima: “Fai in modo che la tua moneta sia l’insostituibile moneta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi”. La seconda: “Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazione di moneta. Potrai così finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati”. La terza: “Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria”. Ancora sulla moneta la quarta regola: “Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d’interesse variabile espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capacità di pagare è minore. Li avrai in pugno”. E così – regola numero 5 – sarà possibile mantenere nelle proprie mani “le leve per determinate, all’occorrenza, situazioni di crisi e d’incertezza in altre aree del mondo”. Risultato: “Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore”.Già, la competizione esasperata dalla globalizzazione neoliberista: “Imponi, con ogni mezzo, la massima competizione tra esportatori del resto del mondo. Avrai un afflusso d’importazioni a prezzi decrescenti rispetto a quelli delle tue esportazioni”, recita la regola numero 6, strettamente collegata con la successiva, la numero 7: “Intrattieni i migliori rapporti con le élite e le classi medie degli altri paesi, a prescindere dalle loro credenziali democratiche, perché esse sono decisive per sostenere la tua architettura”. Le élite, ovviamente, perché cospirino contro i loro popoli: “E’ essenziale che le élite e le masse di quei paesi non si uniscano attorno a idee di sviluppo nazionale, o comunque ostili al tuo dominio e alla tua egemonia”. Per questo – regola numero 8 – è fondare promuovere con ogni mezzo “una totale mobilità dei capitali, insieme alla libertà d’investimento internazionale”. In questo modo i capitali, nelle condizioni sopra delineate, “verranno al tuo indirizzo”, semplicemente “perché è il luogo migliore, il più sicuro e il più redditizio”.Quanto agli investimenti esteri, “assicurati che le tue corporations possano liberamente soccorrere le élites nazionali nella gestione delle loro proprietà finanziarie, dell’educazione privata e pubblica, della tutela della salute, dei sistemi pensionistici”. Regola numero 9: “Promuovi con ogni mezzo il libero commercio. Esso varrà per tutti, cioè per gli altri, che non potranno sottrarvisi, mentre tu lo applicherai se e quando ti converrà”. E infine, decimo comandamento: “Per controllare che tutto ciò si realizzi ordinatamente, senza conflitti troppo evidenti, ti occorre una struttura di istituzioni sovranazionali che all’apparenza si presentino come riunioni di membri a pare diritto. Darai l’impressione di rispettare un certo pluralismo, mantenendo il loro finanziamento e il loro controllo nelle tue mani”. Giulietto Chiesa aggiungeva una nota: tutto questo si può fare con la persuasione, con l’aiuto dei media, e anche con la coercizione, con l’uso della forza.“I piani si formano camminando, nella pratica, ma ci vogliono gli intellettuali per dar loro una forma, per magnificarli agli occhi del pubblico, per nobilitarli e spiegarli”, recita la nota del 2002. “Bisogna formarli, questi propagandisti, convincerli e, se necessario, comprarli, corromperli. E poi bisogna togliere di mezzo gli ostacoli, i testardi, gli increduli, i cacasenno. Con le buone, se è possibile, altrimenti con le cattive”. All’epoca, annota oggi Chiesa sul “Fatto Quotidiano”, Edward Snowden non era ancora apparso all’orizzonte. Dunque, «non sapevamo che “loro” potevano sapere tutto quello che facciamo prima ancora che cominciamo a farlo, basta che ne sospiriamo. Vale anche per la signora Merkel e per il nostro Matteo». Ma, se non ci fossero stati i giornalisti e gli economisti, tutti perfettamente allineati e compiacenti, come avrebbe potuto realizzarsi un simile sogno? «Infatti si è realizzato. Adesso, però bisogna andarlo a spiegare agli altri sei miliardi».Come tenere in pugno il mondo. E’ «il decalogo che ha creato l’Impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra», dice Giulietto Chiesa, rispolverando le pagine scritte nel 2002 per il profetico “La guerra infinita”, edito da Feltrinelli. Dieci regole d’oro, anzi: di ferro. La prima: “Fai in modo che la tua moneta sia l’insostituibile moneta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi”. La seconda: “Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazione di moneta. Potrai così finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati”. La terza: “Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria”. Ancora sulla moneta la quarta regola: “Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d’interesse variabile espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capacità di pagare è minore. Li avrai in pugno”. E così – regola numero 5 – sarà possibile mantenere nelle proprie mani “le leve per determinate, all’occorrenza, situazioni di crisi e d’incertezza in altre aree del mondo”. Risultato: “Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore”.
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L’Estonia non tollera la verità e arresta Giulietto Chiesa
Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.Giulietto Chiesa è stato arrestato dalla polizia di Tallinn per essere poi espulso come “persona non gradita”: «Un fatto molto grave», per il suo avvocato, Francesco Paola: «Una violazione dei diritti politici». Già europarlamentare, eletto nel 2004 con la lista “Di Pietro – Occhetto” e poi passato come indipendente al gruppo socialista europeo, Chiesa si è ricandidato al Parlamento Europeo nel 2009 in Lettonia, rappresentando la minoranza russa del paese baltico. Uomo di vaste relazioni internazionali, promotore del “World Political Forum” presiduto dallo stesso Gorbaciov, Giulietto Chiesa ha anche insegnato negli Stati Uniti, al Woodrow Wilson International Center di Washington ed è stato inserito nel “panel” internazionale di New York per la verità sull’11 Settembre, dopo il bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli, 2002) e il documentario “Zero”, opere che contestano la verità ufficiale sui drammatici attentati alle Torri Gemelle.Un uomo scomodo, Giulietto Chiesa: al punto da essere impunemente espulso da un paese membro dell’Ue, solo per aver espresso le sue idee? Forte la sua denuncia sulle mistificazioni attorno alla crisi ucraina, completamente manipolata dai media mainstream a partire dal suo sanguinoso esordio, la strage di civili in piazza Maidan a Kiev. A “tradirsi”, rivelando la vera identità degli stragisti, fu proprio un politico estone, il ministro degli esteri Urmas Paet, al telefono con l’allora responsabile europea della politica estera, Catherine Ashton. Paet le disse di aver scoperto che a sparare sulla folla non erano stati gli agenti del regime di Yanukovich, ma cecchini addestrati dall’Occidente. Obiettivo: massacrare innocenti, per poi incolpare la polizia ucraina e scatenare una campagna di odio contro il regime di Yanukovich, non ostile a Mosca. Brutalità e cinismo denunciati con la massima fermezza da Giulietto Chiesa, chiarissimo anche nel rimarcare l’emergere di gruppi neonazisti e la pericolosa intolleranza, in Est Europa, verso chiunque si opponga al “pensiero unico” imposto dagli Usa. Al punto da finire arrestato, dopo aver messo piede in un paese che certo guarda con simpatia ai “golpisti” di Kiev?Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.
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Isis, finto nemico. Obiettivo: negare il petrolio alla Cina
Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».Quando, oltre dieci anni da, Giulietto Chiesa dava alle stampe “La guerra infinita” (Feltrinelli), prima coraggiosa indagine sulle menzogne ufficiali dell’11 Settembre funzionali all’imposizione imperialista del “Nuovo Secolo Americano”, i media mainstream si guardavano bene anche solo dal riportarne le tesi. Oggi, dopo anni di crisi catastrofica e focolai di guerra accesi praticamente ovunque, un editorialista in doppiopetto come Foa può permettersi si far sentire la sua voce indipendente dalle pagine del “Giornale”, attraverso il suo blog. «Sieti sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis?». Siamo seri: «L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia Saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto». E’ l’erede di Al-Qaeda, il nemico di ieri. «Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate», a carattere popolare in Tunisia e in Egitto, deflagrate in guerra civile prima in Libia e poi in Siria. «Guerra durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte».In Siria, a scendere in campo contro Assad sono stati «soprattutto guerriglieri provenienti da altri paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa». Una forza opaca, «composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi». Fanatici ultra-religiosi, ammiratori di Al-Qaeda. «Ovvero, quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici. E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori – continua Foa – Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis».La guerra civile si è prolungata, Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi: «Hanno girato i cannoni e i blindati e hanno iniziato a scorazzare verso sud-ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Baghdad e di Mosul, mentre l’America lasciava fare». Fino a ieri, «Obama snobbava l’Isis, o più verosimilmente faceva finta». Come dire: sono giovani teste calde, non ci preoccupano. «Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis». Poi, nelle ultime settimane, l’accelerazione: i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storie umane agghiaccianti, racconti di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani. Così, «l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno». L’opinione pubblica occidentale? «Scioccata, di fronte a immagini terribili». E indotta, ovviamente, «a invocare una reazione forte contro i fanatici». Si sa: «La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”».Obama, seguendo uno schema classico dello “spin”, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, «annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”» e capace di coinvolgere, nello sforzo finanziario, «proprio quei paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis». Sicché, «nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, poi diventati amici, ora tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare». Risultato: Golfo Persico, Medio Oriente e Nordafrica sono in fiamme, «a oltre 11 anni dalla “guerra lampo” che avrebbe dovuto liberare l’Iraq». Disordine, violenza e morte divampano ovunque: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Iraq. E gli americani, guardacaso, «si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare». Nel lontano 2002, Giulietto Chiesa l’aveva annunciata, col nome di “guerra infinita”. Oggi, il mainstream continua a evitare di collegare tra loro i singoli fotogrammi. E Foa aggiunge una possibile chiave di lettura: gli Usa infiammano il petrolio del Medio Oriente per toglierlo ai cinesi. E’ il piano per il “Nuovo Secolo Americano”: dall’attentato alle Torri Gemelle, di strada ne ha fatta parecchia.Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».
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Fallita la globalizzazione, gli Usa non sanno più che fare
Quando crollò l’Urss, e con essa l’ordine mondiale bipolare, le valutazioni furono in generale assai ottimistiche e molti si spinsero a prevedere che tutto ciò avrebbe portato ad un crollo nelle spese militari, non essendoci più alcuna gara negli armamenti, dirottando ingentissime cifre verso investimenti sociali. Si parlò addirittura di un incombente “Nuovo Rinascimento”. Non pare che le cose siano andate in questo modo: dopo un relativo calo nei primi anni Novanta, la spesa militare è invece sensibilmente aumentata, a danno di quella sociale e, quanto al “Nuovo Rinascimento”, chi lo ha visto? Quelle rosee previsioni si basavano sulla certezza di un nuovo ordine mondiale monopolare, nel quale gli Usa, senza neppure dover spendere le cifre del passato, avrebbero assicurato una stabile governance mondiale. Si calcolava che, almeno sino al 2060, non avrebbe potuto esserci alcuna potenza in grado di sfidare l’egemonia americana, e sempre che la nuova potenza trovasse le risorse necessarie, mentre gli Usa segnassero il passo.Le cose sono andate, poi, molto diversamente: la Russia si riprese abbastanza presto dal ciclo negativo 1991-1998, la Cina crebbe a ritmi molto maggiori del previsto e così l’India; gli Usa dovettero misurarsi con le turbolenze mediorientali che ingoiarono montagne di dollari e ad esse si sommò la lunga serie di interventi minori in Africa (Sudan, Somalia, ecc.). I nuovi venuti, grazie ai sostenuti tassi di crescita, iniziarono ad armarsi (o riarmarsi) e la gara riprese: già nei primi anni 2000 le spese militari mondiali avevano superato di slancio quelle del periodo bipolare. Poi venne la crisi del 2008 e, pur se con molte incertezze e ritardi, è diventato chiaro a tutti che, come scrive Alessandro Colombo, «l’unipolarismo a guida americana è diplomaticamente, economicamente e persino militarmente insostenibile» (“Tempi decisivi”, Feltrinelli 2014. A proposito: ve ne consiglio caldamente la lettura).La crisi ha dimostrato che gli Usa non hanno il fiato economico per reggere l’Impero, che ha costi proibitivi e non solo per il sopraggiungere della crisi finanziaria, ma anche per le diseconomie della sua macchina militare. Il ritiro americano da Iraq e Afghanistan, prima ancora che i “regimi amici” vi si fossero consolidati, non meno che i mancati interventi in Siria e Iran, sempre annunciati e mai realizzati, hanno tolto credibilità alle minacce americane. Non che gli americani abbiano rinunciato alle pretese di essere l’Impero mondiale, da cui discendono moneta, lingua, diritto e legittimazione politica, ma non sanno più come fare. Dal 2011 hanno provato a consociare gli alleati europei negli interventi militari, ma l’esperimento libico è restato un caso isolato e di ben scarso successo; per il resto, c’è molto poco da aspettarsi dal vecchio continente. Stanno cercando di creare una cintura di alleati per contenere la Cina, ma anche qui le cose sono molto al di sotto delle aspettative.Nel frattempo i conflitti locali iniziano a sommarsi, descrivendo archi di crisi lunghissimi. Accanto ai conflitti non risolti che ci portiamo dietro da anni (dalle Farc colombiane alla Somalia, dal Sudan a Cipro e a Timor) si sono aggiunti altri punti di guerra o intervento straniero (Mali, Costa d’Avorio) mentre altre linee di confine si surriscaldano (Cina-Vietnam, India-Pakistan). Ma soprattutto si sono profilate due linee di frattura particolarmente lunghe e pericolose, come quella russo-ucraina e la sommatoria di conflitti e crisi mediorientali (Libia, Gaza, Iraq, Siria, Afghanistan, Turchia, Barhein, Yemen) mentre l’Iran è pronto a intervenire. L’elenco è incompleto, anzi appena accennato, ma basta a dire che, dal 1945 in poi, non c’è mai stata una situazione altrettanto conflittuale. Anche la crisi indocinese o quella arabo-israeliana erano ben più circoscritte e controllate, come pure le guerriglie africane e latinoamericane.Nel complesso, il “bipolarismo imperfetto” (c’erano anche i “non allineati”) aveva trovato un suo modo di funzionare e una lingua comune ai contendenti. Non dico che si debba rimpiangere quell’equilibrio, che aveva molti aspetti di assoluta negatività, ma insomma, era un equilibrio che assicurava un certo ordine mondiale, mentre oggi non ce n’è alcuno. Le ragioni di questo nuovo “disordine mondiale” sono molto complesse e richiederebbero molto più di un semplice articolo, per cui ci limitiamo solo ad abbozzare alcune possibili linee di approfondimento. La spiegazione più immediata e semplice (fatta propria da Prodi nella sua intervista all’“Espresso”) è quella del “ritiro” americano e dell’indisponibilità delle altri grandi potenze ad assicurare una efficace governance mondiale assumendosi la responsabilità di intervenire quando questo sia necessario.C’è del vero in questo (ammesso che l’intervento esterno sia la soluzione cui ricorrere, cosa di cui, in linea di massima, non saremmo poi così convinti), ma per certi versi questo è più il sintomo che la malattia, perché occorrerebbe spiegare perché una stagione ventennale di interventi esteri ha fatto registrare una lunga serie di fallimenti. Ci sono molti aspetti che vanno indagati; qui ci limitiamo a segnalarne uno di particolare rilevanza: lo schema concettuale con il quale gli americani sono entrati nella globalizzazione pretendendo di guidarla. Sia lo schema di Fukuyama dell’ “esportazione della democrazia” quanto quello di Huntington del “conflitto di civiltà”, si sono rivelati completamente fallimentari (e il primo molto più del secondo) nella loro incapacità di capire il mondo ed assumere le ragioni degli altri come qualcosa con cui confrontarsi.Bruciati dai fatti questi due schemi di azione, gli Usa sono rimasti senza strategia alcuna. Mirano a mantenere la loro posizione egemonica ma non hanno più un disegno credibile di ordine mondiale. Le esitazioni sui casi di Siria e Iran stanno lì a dimostrarlo. Certo l’idea di impantanarsi in un nuovo conflitto di lunga durata e di altissimo costo resta la ragione che (per fortuna!) scongiura l’ennesimo intervento a stelle e strisce, ma non si tratta solo di questo. Il problema principale, per gli americani, è che non sanno bene cosa verrà fuori una volta ingaggiato il conflitto. Prendiamo il caso siriano: forse non sarebbe neppure una guerra lunga e dispendiosa e, con un urto concentrato, si potrebbe ottenere la caduta del regime di Assad in un paio di settimane, ma dopo? A beneficio di chi andrebbe questa spallata? I contendenti non sono esattamente quanto di più rassicurante dal punto di vista occidentale, persino le fazioni sostenute da turchi e sauditi danno ben poche assicurazioni in questo senso.Anzi, ad essere chiari, in Siria gli alleati storici degli occidentali, a cominciare dai francesi nel 1919, sono proprio gli alauiti (il gruppo etnico di Assad) che, infatti, vengono visti dagli altri islamici come sorta di traditori alleati agli “infedeli”. Ce l’hanno un’alternativa ad Assad gli americani? Nel caso iraniano le cose potrebbero stare differentemente, perché c’è una opposizione “liberal” più solida e consapevole, però la maggioranza della popolazione sta dall’altra parte e anche gli alleati storici di Washington, come i sauditi, pur odiando furibondamente gli sciiti, non gradirebbero affatto un Iran “liberal” che potrebbe rappresentare una fonte di contagio di altre rivolte. Ed allora, come gestire la situazione? Anche nei confronti del “Califfato” non pare che gli Usa abbiano le idee chiare su cosa fare, fra una convergenza con gli iraniani o uno sforzo unilaterale americano. Di fatto la situazione si trascina, moltiplicando il rischio che questa buffonata di Califfato, che mette insieme fanatici religiosi, tagliagole, briganti e avventurieri di ogni risma, possa diventare un problema molto serio, qualora riuscisse a diventare un simbolo intorno al quale si riuniscano le masse islamiche. Questo vuoto di strategia degli americani diventa anche paralisi tattica con conseguenze tutt’altro che trascurabili.(Aldo Giannuli “Il vuoto strategico americano”, dal blog di Giannuli del 27 luglio 2014).Quando crollò l’Urss, e con essa l’ordine mondiale bipolare, le valutazioni furono in generale assai ottimistiche e molti si spinsero a prevedere che tutto ciò avrebbe portato ad un crollo nelle spese militari, non essendoci più alcuna gara negli armamenti, dirottando ingentissime cifre verso investimenti sociali. Si parlò addirittura di un incombente “Nuovo Rinascimento”. Non pare che le cose siano andate in questo modo: dopo un relativo calo nei primi anni Novanta, la spesa militare è invece sensibilmente aumentata, a danno di quella sociale e, quanto al “Nuovo Rinascimento”, chi lo ha visto? Quelle rosee previsioni si basavano sulla certezza di un nuovo ordine mondiale monopolare, nel quale gli Usa, senza neppure dover spendere le cifre del passato, avrebbero assicurato una stabile governance mondiale. Si calcolava che, almeno sino al 2060, non avrebbe potuto esserci alcuna potenza in grado di sfidare l’egemonia americana, e sempre che la nuova potenza trovasse le risorse necessarie, mentre gli Usa segnassero il passo.
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Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
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Streeck: decapitare quest’Europa, dittatura neoliberista
Wolfgang Streeck è il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia, ha diversi incarichi di ricerca e docenza in molteplici istituti tedeschi, europei ed americani; è un sociologo, che all’inizio della sua carriera fu dalle parti di Francoforte dove frequentò il sapere della Scuola di Adorno, Marcuse ed Habermas. E’ a tutti gli effetti un sapiente della knowledge factory che ha dato alle stampe un testo che ha innescato un dibattito forte e potente in Germania ed è stato appena pubblicato in Italia per i tipi di Feltrinelli (Wolfang Streeck, “Tempo guadagnato”, Campi del sapere, Feltrinelli, luglio 2013). Streeck fornisce una rilettura genealogica degli ultimi trent’anni in Europa, abbracciando nell’analisi l’economia e le coniugate riforme di politica economica, istituzionali e politiche.
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Susan George: è il golpe dei super-ricchi, ribellatevi all’Ue
L’establishment economico e finanziario non ha sensi di colpa per quello che è accaduto nel mondo negli ultimi sei-sette anni, nemmeno un dubbio. È uno dei paradossi di quest’epoca: i neoliberisti hanno capito il significato del concetto di egemonia culturale di Antonio Gramsci e l’hanno applicato benissimo. La loro ideologia è penetrata negli Stati Uniti, poi si è diffusa in tutte le organizzazioni internazionali e vanta un supporto intellettuale mai visto. Prendiamo l’Ue. Sono riusciti a ottenere consenso e supporto proponendo misure di austerità per uscire dalla crisi convincendo tutti che il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia sono la stessa cosa, per cui si può spendere solo in base alle entrate. Non è così: il debito pubblico storicamente finanzia la crescita, è altra cosa dagli sprechi. Per fare un esempio, due economisti della Bocconi di Milano, Alesina e Ardagna, a mio avviso hanno fornito una errata base teorica alla Banca centrale europea, ai governi e alle istituzioni europee, proponendo l’austerità per fronteggiare la depressione. E la gente è stata convinta dell’ineluttabilità delle scelte. La prova? In Grecia non hanno fatto la rivoluzione.
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Sinistra? No, grazie: ha fallito, e non vede la catastrofe
La tradizione comunista e socialista, dopo la disfatta dell’esperimento sovietico, non è stata capace di produrre nulla di alternativo in grado di contrastare il pensiero unico, che infatti ha vinto. Gli epigoni di quell’esperienza sono ormai – come scriveva acutamente Alexadr Herzen, pur riferendosi alla generazione del 1848 – «stranieri del tempo loro» e non capiscono di essersi lasciati «sfuggire il presente e il futuro», mentre continuano a «lottare contro il loro stesso passato». Non è questione di “tradimenti”; questi ci sono stati, ma sono stati piuttosto l’effetto che la causa. Il fatto è c’era un buco nella teoria, anzi una voragine. Marx non poteva averla vista, perché quella voragine si aprì dopo di lui, sebbene qualche importante intuizione lui e Friedrich Engels la ebbero. I loro epigoni, invece, ci cascarono dentro.
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Amoroso: l’euro ci porta in guerra, è da malati di mente
Gli economisti in genere, anche di altri paesi, criticano l’euro perché dicono che non ha consistenza economica. Cioè, le teorie economiche dimostrano quali sono le condizioni perché si possa fare un’unità monetaria. L’euro è stato fatto non tenendo conto di tutti quei criteri-base per cui si possa creare un’area monetaria omogenea che funzioni. Per questo Paul Krugman e molti altri hanno criticato l’euro. La moneta è uno strumento dell’economia, non è l’economia; quindi intestardirsi, insistere su un meccanismo che chiaramente non sta funzionando, rischia – e questo è l’aspetto doloroso – di minacciare e distruggere lo stesso progetto europeo. Dal momento dell’introduzione dell’euro fatta in modo così forzato, che è successo? Già l’introduzione dell’euro ha diviso l’Europa – volevamo un’Europa più larga, ma che crescesse insieme.
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Erri De Luca: il torto del soldato non è la sconfitta
La scrittura di Erri De Luca ha un ritmo spezzato, come le onde corte che si infrangono sugli scogli della sua Ischia. E’ un ritmo che, all’inizio, mi affatica sempre un po’. Poi, dopo poche pagine, entro in risonanza, divento onda, divento scoglio, e il suo ritmo si fa mio. Così, quando il libro finisce, mi rimane sulla pelle qualcosa che ha il sapore della nostalgia: di quelle onde e di quegli scogli. Persino dei ricci di mare che si fanno parole e pungono di nero. “Il torto del soldato” è tante storie, ma soprattutto la storia di due solitudini. Anzi tre. Lui è un uomo maturo, esperto di letteratura yiddish. Un taciturno, che affida le sue sensazioni alla parola scritta o alle mani con cui scala, anzi sente le montagne. «Uno che passa il suo giorno a frugare rocce a quattro zampe ha un mucchio di tempo per contarsi storie».
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Baricco: grazie a Voltolini, tutto diventa memorabile
Sono contento di presentare il libro nuovo di Dario Voltolini perché è uno degli scrittori che io ammiro di più: mi piace quello che fa, mi affascinano le vie in parte misteriose della sua crescita come scrittore. Quest’ultimo suo libro si intitola “Foravia”: sono tre scritti, credo scritti in un lasso di tempo abbastanza ampio e non credo per essere inseriti tutti e tre nello stesso libro, ma qualche cosa di sotterraneo ci sarà. Sarebbe più semplice dire che sono tre racconti, ma con Dario è un po’ difficile usare i termini che ci semplificano la decifrazione delle forme del genere letterario, perché lui non sta mai troppo fedelmente dentro nessuna forma letteraria.