Archivio del Tag ‘Firenze’
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Maggiani: la rovina del mondo e il cuore dei nostri giovani
Cinquant’anni fa come oggi mio padre mi ha chiuso in casa a chiave, lo ha fatto in via precauzionale, volevo andare a Firenze, avevo quindici anni. Volevo andare all’alluvione, volevo salvare Firenze assieme a quelli più grandi di me, volevo andare alla grande avventura dei ragazzi che salvano il mondo. Questo vedevo mentre chiuso in casa piangevo come un bambino, che Firenze sarebbe stata rimessa a nuovo senza di me, che mi era negata una meravigliosa avventura, e siccome quell’avventura non avrebbe mai avuto fine, anche la soddisfazione di salvare subito dopo il mondo intero. Pareva a quel tempo che niente avesse peso per un ragazzo, di certo non il fango, e ogni cosa, anche la più tremenda, accadesse solo per poter mettere alla prova una generazione di energiche, forzute speranze. Oggi so che ero stato cresciuto per pensare a quel modo dall’uomo che per intanto mi aveva chiuso a chiave.Oggi ho tre nipoti, di venti, diciotto e sedici anni, tutti e tre ad agosto e poi in questi giorni volevano andare giù al terremoto, a dare una mano; nessuno li ha chiusi in casa, non ce ne sarebbe stata neppure l’evenienza, non ce li avrebbero voluti attorno, per come sono organizzati adesso i sistemi di soccorso, avrebbero dato solo intralcio e fastidio. Ma il pensiero conta pur sempre qualcosa, e il loro pensiero, ciascuno nella tonalità della sua età, non assomiglia nemmeno un po’ al mio di cinquant’anni or sono. Sarebbero partiti con tutto il cuore, ma il loro non è un cuore leggero, non è colmo di avventurose aspettative, non è un giovane cuore romantico. Il loro è un cuore gravido, pensoso, disincantato.A sedici anni, a diciotto, a venti, il loro cuore conosce il disincanto, la sofferenza del reale. Sarebbero partiti con il cuore carico del peso di una realtà rovinosa, volevano andare perché forse, almeno lì, almeno nelle rovine di sassi e cementi avrebbero potuto metterci una pezza. Almeno lì fare qualcosa che servisse a qualcosa. Mettere delle pezze alla rovina del mondo, almeno loro. Parlano e mi sembra di ascoltare degli adulti, già reduci, già invecchiati da molte sconfitte; li ascolto e non c’è giovinezza. No, la giovinezza gliel’hanno fregata, gliel’ha portata via chi li ha chiusi a chiave, ma con altre chiavi, con altre, perverse, ragioni.(Maurizio Maggiani, “Giovani chiusi a chiave”, dal “Secolo XIX” del 6 novembre 2016, articolo ripreso dal sito ufficiale di Maggiani).Cinquant’anni fa come oggi mio padre mi ha chiuso in casa a chiave, lo ha fatto in via precauzionale, volevo andare a Firenze, avevo quindici anni. Volevo andare all’alluvione, volevo salvare Firenze assieme a quelli più grandi di me, volevo andare alla grande avventura dei ragazzi che salvano il mondo. Questo vedevo mentre chiuso in casa piangevo come un bambino, che Firenze sarebbe stata rimessa a nuovo senza di me, che mi era negata una meravigliosa avventura, e siccome quell’avventura non avrebbe mai avuto fine, anche la soddisfazione di salvare subito dopo il mondo intero. Pareva a quel tempo che niente avesse peso per un ragazzo, di certo non il fango, e ogni cosa, anche la più tremenda, accadesse solo per poter mettere alla prova una generazione di energiche, forzute speranze. Oggi so che ero stato cresciuto per pensare a quel modo dall’uomo che per intanto mi aveva chiuso a chiave.
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Dezzani: Bergoglio scelto dal superclan Usa oggi perdente
Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente fine. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».Una pratica bizantina, ancora viva nell’Occidente moderno? Senz’altro: «La Chiesa di Roma subisce, dalla notte dei tempi, gli influssi del mondo esterno: re francesi, imperatori tedeschi, generali corsi e dittatori italiani hanno sempre cercato di ritagliarsi una Chiesa su misura». Dopo il 1945, il Vaticano è stato «inglobato come il resto dell’Europa Occidentale nell’impero angloamericano», subendone l’influenza politica, economica e ideologica: «Quanto avviene alla Casa Bianca, presto o tardi, si ripercuote dentro le Mura Leonine». Se poi il potere temporale si sente particolarmente forte e ha fretta di imporre la propria agenda alla Chiesa cattolica, «indebolita da decenni di secolarizzazione della società e in preda ad una profonda crisi d’identità», a quel punto – sostiene Dezzani – spinge più a fondo la “modernizzazione” dello Stato pontificio «cosicché il Papa “si dimetta”, come un amministratore delegato qualsiasi, e gli azionisti di maggioranza possano nominare un nuovo “chief executive officer” della Chiesa cattolica apostolica romana, sensibile ai loro interessi».Ratzinger “licenziato” dalla Casa Bianca? «Durante la folle amministrazione di Barack Hussein Obama, periodo durante cui l’oligarchia euro-atlantica si è manifestata in tutte le sue forme, dal terrorismo islamico all’immigrazione selvaggia, dagli assalti finanziari alle guerre per procura alla Russia – continua Dezzani nel suo blog – abbiamo assistito a tutto: comprese le dimissioni di Benedetto XVI, le prime da oltre 600 anni (l’ultimo pontefice ad abdicare fu Gregorio XII nel 1415), e alla nascita di un ruolo, quello di “pontefix emeritus”, sinora mai attribuito ad un Vicario di Cristo vivente». L’interruzione del pontificato di Joseph Ratzinger, seguita dal conclave del marzo 2013 che elegge l’argentino Jorge Mario Bergoglio, è una vera e propria “rivoluzione”: «Ad un pontefice “conservatore” come Benedetto XVI ne succede uno “progressista” come Francesco, a un difensore dell’ortodossia cattolica succede un modernista che vuole “rinnovare” la dottrina millenaria della Chiesa». Non solo: «Ad un Papa che aveva ribadito l’inconciliabilità tra Chiesa Cattolica e massoneria ne subentra uno che è in fortissimo odore di libera muratoria».E ad un pontefice «sicuro che solo nella Chiesa di Cristo c’è la salvezza» segue «un paladino dell’ecumenismo», talmente ardito da dichiarare ad Eugenio Scalfari nel 2013: «Non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Per Dezzani, il fondatore della “Repubblica”, «ben introdotto negli ambienti “illuminati” nostrani ed internazionali», in effetti «è un’ottima cartina di tornasole per afferrare il mutamento in seno alla Chiesa», strettamente sorvegliato dall’élite di potere. Si passa dall’editoriale “Da Pacelli a Ratzinger, la lunga crisi della Chiesa” del maggio 2012, dove Scalfari ragiona a distanza sul pontificato “lezioso” di Ratzinger, rinfacciandogli una scarsa apertura alla modernità, a Lutero ed all’ecumenismo, al dialogo tête-à-tête del novembre 2016, dove Scalfari discetta amabilmente con Bergoglio di “meticciato universale”, «tema tanto caro alla massoneria», interprete del sincretismo culturale che è alla base della modernità stessa, alla cui creazione proprio il network libero-muratorio contribuì, a partire dal ‘700.Federico Dezzani si concentra su Bergoglio, che considera «la versione petrina di Barack Obama», al punto che «si potrebbe sostenere che sia stato il presidente americano ad installare il gesuita ai vertici della Chiesa»? Sarebbe un’affermazione «soltanto verosimile», precisa, visto che «sono gli stessi ambienti che hanno appoggiato Barack Obama (e che avevano investito tutto su Hillary Clinton nelle ultime elezioni) ad aver preparato il terreno su cui è germogliato il pontificato di Bergoglio». In altre parole, è il milieu «della finanza angloamericana, di George Soros e dell’establishment anglofono liberal». Se si riflette sugli ultimi tre anni di pontificato, continua Dezzani, l’azione del Papa sembra infatti ricalcata sull’amministrazione democratica. Obama si fa il paladino della lotta al surriscaldamento globale, culminata col Trattato di Parigi del dicembre 2015? Bergoglio risponde con l’enciclica ambientalista “Laudato si”. Obama «ed i suoi ascari europei, Merkel e Renzi in testa», incentivano l’immigrazione di massa? Bergoglio «ne fornisce la copertura religiosa, finendo col dedicare la maggior parte del pontificato al tema». Ancora: Obama legalizza i matrimoni omosessuali? «Bergoglio si spende al massimo affinché il Sinodo sulla famiglia del 2014 si spinga in questa direzione».Gli “automatismi” continuano, estendendosi anche al welfare. La Casa Bianca vara una discussa riforma sanitaria che incentiva l’uso di farmaci abortivi? «Bergoglio allarga all’intera platea di sacerdoti, anziché ai soli vescovi, la facoltà di assolvere dall’aborto». Ma è possibile «insediare in Vaticano» un pontefice «in perfetta sintonia con l’amministrazione democratica di Obama» e, sopratutto, «espressione degli interessi retrostanti», che Dezzani definisce «massonici-finanziari»? E’ il tema della ricostruzione di Dezzani, che parte dalla “resa” di Ratzinger. Se si vuole attuare un “regime change”, il primo passo è «sbarazzarsi della vecchia gerarchia». Dinamica classica, «già vista in Italia con Tangentopoli, che spazzò via la vecchia classe dirigente italiana spianando la strada ai governi “europeisti” di Amato e Prodi». In Germania, la Tangentopoli tedesca «decapitò la Cdu e favorì l’emergere della semi-sconosciuta Angela Merkel». A Firenze, lo scandalo urbanistico sull’area Castello «eliminò l’assessore-sceriffo Graziano Cioni e avviò la scalata al potere di Matteo Renzi». O ancora, in Brasile, dove «lo scandalo Petrobas ha causato la caduta di Dilma Rousseff e la nomina a presidente del massone Michel Temer».Stesso schema, sempre: «Accuse di corruzione (fondate o non), illazioni infamanti, minacce, sinistre allusioni, carcerazioni preventive, battage della stampa, false testimonianze, omicidi: qualsiasi mezzo è impiegato per “scalzare” i vecchi vertici indesiderati». In Vaticano, nel mirino finirono «Ratzinger e il suo seguito di cardinali conservatori, da defenestrare a qualsiasi costo per l’avvento di un pontefice modernista». Ed ecco, puntale, lo scandalo “Vatileaks”, cioè lo smottamento – lungamente incubato – che ha condotto al ritiro di Ratzinger. L’analisi di Dezzani parte dagli Usa. Aprile 2009: Obama è insediato alla Casa Bianca da appena tre mesi «e con lui quell’oligarchia liberal decisa a sbarazzarsi di Benedetto XVI». In Italia esce “Vaticano SpA”, il libro di Gianluigi Nuzzi che “grazie all’accesso, quasi casuale, a un archivio sterminato di documenti ufficiali, spiega per la prima volta il ruolo dello Ior nella Prima e nella Seconda Repubblica”. Ovvero: «Mafia, massoneria, Vaticano e parti deviate dello Stato sono il mix di questo bestseller che apre la campagna di fango e intimidazione contro Ratzinger».L’autore, secondo Dezzani, «è uno dei pochi giornalisti italiani ad essere in stretti rapporti con il solitamente schivo Gianroberto Casaleggio: Nuzzi ottiene nel 2013 dal guru del M5S una lunga intervista e, tre anni dopo, partecipa alle sue esequie a Milano». Nuzzi è una prestigiosa “penna” del “Giornale”, di “Libero” e del “Corriere della Sera”: è lecito supporre che «confezioni “Vaticano SpA” e il successivo bestseller “Vatileaks”, avvalendosi delle fonti passategli dagli stessi ambienti che si nascondo dietro Gianroberto Casaleggio ed il M5S»? Ipotetici, veri manovratori: «I servizi atlantici e, in particolare, quelli britannici che storicamente vivono in simbiosi con la massoneria». Il biennio 2010-2011 vede Ratzinger «assalito da ogni lato dalle inchieste sulla pedofilia, il tallone d’Achille della Chiesa cattolica su cui l’oligarchia atlantica può colpire con facilità», infliggendo ingenti danni. “Scandalo pedofilia, il 2010 è stato l’annus horribilis della Chiesa cattolica” scrive nel gennaio 2011 il “Fatto Quotidiano”.È lo stesso periodo in cui l’argentino Luis Moreno Ocampo, primo procuratore capo della Corte Penale Internazionale ed ex-consulente della Banca Mondiale, valuta se accusare il pontefice Ratzinger di crimini contro l’umanità, imputandogli i “delitti commessi contro milioni di bambini nelle mani di preti e suore ed orchestrati dal Papa”. Poi arriva il 2012, ancora con gli americani in prima linea. Lo rivela Wikileaks, svelando l’esistenza di un documento «indispensabile per capire le trame che portano alla caduta di Ratzinger». È il febbraio 2012 quando John Podesta, futuro capo della campagna di Hillary, scrive a Sandy Newman un’email intitolata: “Opening for a Catholic Spring? just musing…” ossia: “Preparare una Primavera cattolica? Qualche riflessione…”. Già allora, Podesta era «un papavero dell’establishment liberal», capo di gabinetto della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, nonché fondatore del think-tank “Center for American Progress”, «di cui uno dei principali donatori è lo speculatore George Soros». E Sandy Newman? Creatore di potenti think-tanks progressisti (“Voices for Progress”, “Project Vote!”, “Fight Crime: Invest in Kids”) in cui si fece le ossa, fresco di dottorato, il giovane Obama.Scrive Newman: «Ci deve essere una Primavera cattolica, in cui i cattolici stessi chiedano la fine di una “dittatura dell’età media” e l’inizio di un po’ di democrazia e di rispetto per la parità di genere». E Podesta: «Abbiamo creato “Cattolici in Alleanza per il Bene Comune” per organizzare per un momento come questo, ma non ha ancora la leadership per farlo. Come la maggior parte dei movimenti di “primavera”, penso che questo dovrà avvenire dal basso verso l’alto». Lo scambio di email hacketrato ora da Wikileaks, aggiunge Dezzani, si inserisce perfettamente nel contesto degli ambienti anglosassoni liberal, «gli stessi dove si discute da anni della necessità di un Concilio Vaticano III che apra a omosessuali, aborto e contraccezione». Il mondo ha bisogno di un nuovo Concilio Vaticano, scrive nel 2010 un membro del “Center for American Progress”, che parla apertamente di una “primavera cattolica” «che ponga fine alla dittatura medioevale della Chiesa, sulla falsariga della “primavera araba” che ha appena sconquassato il Medio Oriente».Di lì a poche settimane, continua Dezzani, «parte infatti la manovra a tenaglia che nell’arco di una decina di mesi porterà alla clamorose dimissioni di Benedetto XVI: è il cosiddetto “Vatileaks”, una furiosa campagna mediatica che attaccando su più fronti (Ior, abusi sessuali, lotte di palazzo, la controversa gestione della Segreteria di Stato da parte del cardinale Bertone) infligge il colpo di grazia al già traballante pontificato del conservatore Ratzinger, dipinto come “troppo debole per guidare la Chiesa”». L’intero scandalo, insiste Dezzani, poggia sulla fuga di notizie, «un’attività che dalla notte dei tempi è svolta dai servizi segreti». Notizie «trafugate» sono quelle che consentono a Nuzzi di confezionare il secondo bestseller, il libro-terremoto che esce nel maggio 2012: “Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI”, poi tradotto in inglese dalla Casaleggio Associati con l’emblematico titolo “Ratzinger was afraid: The secret documents, the money and the scandals that overwhelmed the pope”.Chi è la fonte di Nuzzi, il cosiddetto “corvo”? «Come nel più banale dei racconti gialli, è il maggiordomo, quel Paolo Gabriele che funge da capro espiatorio per una macchinazione ben più complessa», sostiene Dezzani. Notizie “trafugate” sarebbero anche quelle che compaiono sul “Fatto Quotidiano”, utili a dimostrare che lo Ior, gestito da Ettore Gotti Tedeschi, per il giornale di Travaglio «non ha alcuna intenzione di attuare gli impegni assunti in sede europea per aderire agli standard del Comitato per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali», né di «permettere alle autorità antiriciclaggio vaticane e italiane di guardare cosa è accaduto nei conti dello Ior prima dell’aprile 2011». Gotti Tedeschi, ricorda Dezzani, verrà brutalmente licenziato dallo Ior il 25 maggio, lo stesso giorno dell’arresto del maggiordomo Gabriele, «così da alimentare il sospetto che i “corvi” siano ovunque, anche ai vertici dello Ior, Gotti Tedeschi compreso».Notizie “trafugate”, infine, sarebbero anche gli stralci pubblicati da Concita De Gregorio su “La Repubblica” e da Ignazio Ingrao su “Panorama” nel febbraio 2013, «estrapolati da un presunto dossier segreto e concernenti una fantomatica “lobby omosessuale in Vaticano”: sarebbe la gravità di questo documento, secondo le ricostruzione della stampa, ad aver convinto Ratzinger alle dimissioni». Si arriva così all’11 febbraio 2013: durante un concistoro per la canonizzazione di alcuni santi, Benedetto XVI, visibilmente affaticato, comunica in latino la clamorosa rinuncia al Soglio Pontificio. «Fu costretto alle dimissioni sotto ricatto? Era effettivamente spaventato?». Ratzinger smentisce nel modo più netto. Di recente ha ribadito che «non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte». E ha aggiunto: «Nessuno ha cercato di ricattarmi».L’11 febbraio 2013, Ratzinger aveva affermato di «non essere più sicuro delle sue forze nell’esercizio del ministero petrino». Lo si può capire: era «fiaccato da tre anni di attacchi mediatici, piegato dallo scandalo “Vatileaks”». Così, l’anziano teologo – 86 anni – ha scelto le dimissioni. Tutto calcolato? «Le disgrazie del “conservatore” Ratzinger ed il massiccio cannoneggiamento che ha indebolito i settori della Chiesa a lui fedeli, spianano così la strada ad un Papa modernista, che attui quella “Primavera cattolica” tanto agognata dall’establishment angloamericano», scrive Dezzani. «Il Conclave del marzo 2013 (durante cui, secondo il giornalista Antonio Socci, si verificano gravi irregolarità che avrebbero potuto e dovuto invalidarne l’esito), sceglie così come vescovo di Roma l’argentino Jorge Mario Bergoglio: primo gesuita a varcare il soglio pontificio, dai trascorsi un po’ ambigui ai tempi della dittatura argentina». Duro il giudizio di Dezzani: «La ricattabilità è un tratto saliente dei burattini atlantici, da Angela Merkel a Matteo Renzi». Inoltre, il nuovo vescovo di Roma «è salutato con gioia dalla massoneria argentina, da quella italiana e dalla potente loggia ebraica del B’nai B’rith, che presenzia al suo insediamento».Lo stesso Bergoglio è un libero muratore? «Più di un elemento di carattere dottrinario, dal diniego che “Dio sia cattolico” all’ossessivo accento sull’ecumenismo, fanno supporre di sì», sostiene Dezzani. «Ma è soprattutto l’amministrazione democratica di Barack Obama e quella cricca di banchieri liberal ed anglofoni che la sostengono, a rallegrarsi per il nuovo papa». Bergoglio è il pontefice che «attua nel limite del possibile quella “Primavera Cattolica” tanto agognata (matrimoni omosessuali, aborto e contraccezione)». E’ il Papa che «sposa la causa ambientalista», che «fornisce una base ideologica all’immigrazione indiscriminata», che «sdogana Lutero e la riforma protestante». Ancora: è il pontefice che «sostanzialmente tace sulla pulizia etnica in Medio Oriente ai danni dei cristiani per mano di quell’Isis, dietro cui si nascondono quegli stessi poteri (Usa, Gb e Israele) che lo hanno introdotto dentro le Mura Leonine». È anche il primo Papa ad avere l’onore di parlare al Congresso degli Stati Uniti durante la visita del settembre 2015, prodigandosi per «sedare i malumori nel mondo cattolico americano contro la riforma sanitaria Obamacare».L’ultimo clamoroso intervento di Bergoglio a favore dell’establishment atlantico, continua Dezzani, risale al febbraio 2016, quando il pontefice etichettò come “non cristiana” la politica anti-immigrazione di Donald Trump. Un «incauto intervento», che per Dezzani rivela «il desiderio di sdebitarsi con quel mondo cui il pontefice argentino deve tutto», ma c’era anche «la volontà di mettere al riparo la sua opera di “modernizzazione” della Chiesa». La vittoria di Hillary Clinton, cioè della candidata di George Soros e dell’oligarchia euro-atlantica, «era infatti la conditio sine qua non perché la “Primavera Cattolica” di Bergoglio potesse continuare». Al contrario, «la sua sconfitta ha smantellato quel contesto geopolitico su cui Bergoglio ha edificato la traballante riforma progressista della Chiesa», sostiene sempre Dezzani. «Come François Hollande, come Angela Merkel e come Matteo Renzi, Jorge Mario Bergoglio, benché vescovo di Roma, oggi non è altro che il residuato di un’epoca archiviata». Dezzani lo considera «un figurante senza più copione, fermo sul palco, ammutolito ed estraniato, in attesa che cali il sipario».«Ultimo sussulto», da parte di Bergoglio, per «blindare la sua opera», il conferimento a tutti i sacerdoti della facoltà di assolvere dal peccato dell’aborto. A ciò si aggiunge «una terza infornata di cardinali (più di un terzo del collegio cardinalizio è ora formato da prelati a lui fedeli), così da imprimere un connotato “liberal” anche al futuro della Chiesa di Roma». Ma, per Dezzani, «è ormai troppo tardi», perché «la ribellione dentro la Chiesa alla sua “Primavera Cattolica” è iniziata». Quattro cardinali hanno di recente sollevato gravi contestazioni al documento “Amoris Laetitiae”, con cui Bergoglio ha chiuso i lavori del Sinodo sulla Famiglia, «contestazioni cui il pontefice non ha ancora risposto». E soprattutto: «Alla Casa Bianca non c’è più nessuno a proteggerlo. Anzi, c’è un presidente in pectore che, forte del voto della maggioranza dei cattolici americani, ne gradirebbe forse le dimissioni sulla falsariga di Benedetto XVI». Un’analisi buia, estrema e sconcertante. In premessa, Dezzani la definisce “verosimile”. Poi però la sottoscrive senza più incertezze: per Bergoglio, dice, «la fine si avvicina».Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente declino. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».
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I poteri forti voglion sfrattare Renzi. Il motivo? Terrificante
Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene. D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno.Confindustria e De Benedetti ne decantavano le lodi, vedevano nella sua figura l’uomo che avrebbe una volta per tutte infranto quei tabù che tutti i governi precedenti non avevano osato sfidare. È stato così per la riforma dell’articolo 18, un passaggio storico che ha inferto un duro colpo al già provato edificio dello Stato sociale e ha concesso un potere ancora maggiore al grande capitale dell’industria italiana. Nessuno era riuscito in questo, né i vecchi ex compagni di una volta come D’Alema avrebbero potuto riuscirci. Il motivo è apparentemente intuitivo quanto semplice: per approvare delle riforme del genere occorreva costruire un logos di novità, di immagine giovane e fresca di cui la classe dirigente del Pd era del tutto priva. I media hanno contribuito e alimentato quel logos falso e artificiale per permettere di descrivere le riforme renziane come un enorme passo in avanti per la società italiana, quando esse rappresentano un salto all’indietro di 60 anni, azzerando decenni di conquiste e lotte sindacali.Da qui la fiducia in bianco al rottamatore da tutti gli ambienti che contano: dalla finanza anglosassone per mezzo del “Financial Times”, dalla cancelliera Angela Merkel che vedeva in Renzi una garanzia che l’Italia non violasse il teorema dell’austerità e rimanesse ben salda all’euro, fino alle istituzioni europee sicure che il Belpaese nelle mani del governo Renzi non fosse più una minaccia per la stabilità dell’Ue. Ora l’idillio sembra essere finito. La Commissione Europea solamente pochi mesi fa ha descritto Renzi come un personaggio «inaffidabile», l’ingegner De Benedetti si schiera per il No al referendum e il “Financial Times” condanna la riforma costituzionale definendola come «un ponte verso il nulla». Dunque il potere attrattivo dell’uomo nuovo sembra esaurito, gli ambienti un tempo di casa lo considerano ora un ospite indesiderato al quale va mostrata l’uscita per fare spazio ad altri invitati più graditi. Se dunque gli sponsor di Renzi gli voltano le spalle, e preferiscono schierarsi apertamente per il No al referendum, appare evidente che l’intenzione è quella di provocare un cambio nella politica italiana.Sebbene le riforme costituzionali siano state pensate principalmente per dare ancora più potere alle istituzioni europee e abrogare il titolo V (ultimo ostacolo per le privatizzazioni delle municipalizzate ancora in mano agli enti locali) i poteri esteri e italiani preferiscono adesso votare No per favorire così una probabile crisi di governo i cui esiti porteranno a tutto tranne che a elezioni anticipate. Negli anni passati il Quirinale ha sempre rimandato l’opzione delle urne, viste come fonte di instabilità dai mercati, e ha preferito sempre cercare una soluzione per mantenere in vita la legislatura. Da Monti in poi, è stato impedito ai cittadini italiani di potersi esprimere nel nome di logiche sovranazionali che chiedevano la prosecuzione delle legislature, così da mantenere inalterato lo status quo e guadagnare terreno sullo smantellamento dello Stato sociale italiano.Ora però per continuare su quel cammino è necessario un altro cambio perché il tempo di Renzi è finito. E il referendum pare quasi diventato lo strumento migliore per dare il benservito a Renzi. In caso di un’eventuale sconfitta al referendum farà di tutto per restare al suo posto ma non ci riuscirà. È molto più probabile l’entrata in scena di un governo tecnico o di larghe intese: in entrambi i casi sarebbero approvate altre “riforme” che il premier precedente governo non aveva la forza di approvare. Il cammino degli ultimi 5 anni è stato così, si designa un premier dall’esterno e si giustifica la sua ascesa con la situazione interna di emergenza indotta. Una volta che lo scopo è stato raggiunto e occorre passare alla fase successiva, gli si dà il benservito e si passa al nuovo personaggio da sostenere, che può essere anche un vecchio riciclato. Monti, Letta e Renzi sono saliti al potere con questo schema. Chi verrà dopo di loro dovrà portare a termine il lavoro iniziato da questi. Svendere completamente gli asset più importanti dello Stato e aggredire il risparmio degli italiani.(Paolo Becchi e Cesare Sacchetti, “Ai poteri forti serve un nuovo governo. Il motivo? Terrificante”, da “Il Giornale” del 7 ottobre 2016).Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene. D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno.
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La meglio gioventù è questa, che scava tra le macerie
Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.Che la terra abbia tremato o si sia sciolta come il pianto dei disperati, la gioventù d’Italia ha risposto all’appello. Una corsa, vera, che fotografa i tempi. Non c’è colore, né distinzione. Un minimo comune multiplo, una linea di continuità, non esclusivamente tappe di un unico dolore. Tra drammi incredibili che piegano i rami carichi di una quercia stanca in mezzo al Mediterraneo. Tra drammi che sono, però, un segnale che incarna una speranza da non sottovalutare, rappresentano un esempio. Se il divenire storico vuole etichettare i propri eventi per ricordare dove li aveva messi, allora forse, ci siamo. Forse sarà questo che identificherà la “Generazione Duemila”, quella dei millenials – ufficialmente buona a nulla, lobotomizzata su un divano, costretta a pensarla alla stessa maniera, a frequentare vernissage o a fraternizzare con le Ong, a dimenticare davanti alla Playstation, annichilita e vecchia tuffarsi in un tormentone per avere un’overdose di vitalità, costretta a morire intirizzita ancora prima dei vent’anni – che come un milite ignoto, esiste senza un nome, un cognome, un volto. Allora sarà questo agire spontaneo e ripetuto che potrebbe offrirle un appellativo, fornendole una carta d’identità agli occhi della storia, come prima d’essa, ogni blocco generazionale.Tragedie in cui i giovani italiani c’erano, al pieno della loro gioventù, delle loro braccia forti e di un cuore pulsante. Come nel lontano 1966, con l’Inghilterra, per la prima ed unica volta, campione del mondo e Firenze sotto strati d’acqua e miseria, si rivedono i fanti della dignità. Volontari. Ragazzi e ragazze, figli della normalità, con i jeans sporchi ed i calli alle mani, come i loro padri. Con la divisa gialla e blu, con quella rossa. Una cordata che va oltre il senso bigotto e populista di solidarietà, un esercito armato di pala e piccone che supera le mode ed accorre, si scrolla da dosso la muffa da annichilimento ed accorre, lascia a casa fidanzata e genitori, curriculum, portfolio, disoccupazione ed accorre. Nessuna santificazione in un estasi di Gloria, piuttosto un segnale di vita: i giovani d’Italia ci sono. Spicca un ritorno all’origine che ossigena le anime e rinvigorisce la coscienza nazionale. Si torna a vedere esempi puliti tra i pezzi di case venuti giù come un apocalisse di stelle cadenti. Come per L’Aquila, l’Emilia Romagna, Genova, Amatrice e per tante altre ferite, c’erano i volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa Italiana, con le proprie divise, le chiamate a casa per rassicurare ed i panini a pranzo e cena tra una tenda da montare e brandelli di muro da buttar via.Dunque occorre necessariamente riflettere. Proprio come i coetanei classe ’66, divisi tra rivoluzioni culturali, pantaloni a zampa e capigliature alla Paul McCartney, anche i nostri, noti alle cronache per essere figli mai liberi della crisi di un’epoca, dei valori, dell’etica e del buon senso, lavoratori a prestazione gratuita, senza speranza, senz’arte né parte, tormentoni o stereotipi, bendati verso il futuro, stanno raggiungendo la redenzione agli occhi della storia? Forse l’emblema della Generazione Duemila potrà essere proprio il cuore grande, che va oltre ogni cosa, oltre il nichilismo, la velocità siderale, la plastica, il denaro, l’ingozzamento dei nostri tempi? Forse l’appellativo di questa generazione sarà “volontaria”. Potremmo pensare di ricordare, prima di sprofondare nell’oblio da Tablet sul divano, la generazione degli anni ’10 come i ragazzi del soccorso, la “Generazione Duemila”, quella dei volontari. E per pietà, non copriate ciò che vuole andare oltre con nessuna passerella elettorale, con nessuna passeggiata mediatica.(Emanuele Ricucci, “La meglio gioventù sta tra le macerie – la Generazione Duemila, quella dei volontari”, dal blog “Contraerea” su “Il Giornale” del 26 agosto 2016).Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.
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Roma e Torino sfrattano Renzi, l’Italia in cerca di un Piano-B
Non c’è ancora un Piano-B, ma intanto vanno bene anche i 5 Stelle per fermare il Pd che mette l’Italia alla frusta in ossequio ai diktat di Bruxelles. “Avviso di sfratto per Renzi”, titolano i giornali dopo i ballottaggi di Roma e Torino: cartellino rosso per la casta di potere allineata all’establishment del rigore europeista. «I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione», scrive Massimo Gramellini sulla “Stampa”. «All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo». A guidarla, c’è «un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere». Per Giulietto Chiesa, «il fallimento di Renzi è politico, non amministrativo, e le conseguenze saranno lunghe e drammatiche». Nella “rivoluzione” in atto, i 5 Stelle sono indispensabili per abbattere gli yesmen, ma non bastano a costruire un’alternativa credibile per uscire dalla crisi ribaltando i presupposti dell’assetto politico-economico.Per la prima volta nella storia, annota Gramellini, la rabbia dei romani e dei torinesi si è manifestata attraverso il rifiuto di chiunque avesse un’esperienza pubblica consolidata: «Era tale il disgusto per i professionisti del ramo che l’acerbità delle due signore Cinquestelle è stata considerata una medaglia al valore». La rivolta esplosa nelle urne «parte dalla pancia e quindi non fa sconti né differenze», né a Roma tra le macerie di Mafia Capitale, né a Torino, dove lo stesso gruppo di interessi «era al potere da troppi decenni e aveva creato un groviglio inestricabile di rapporti amicali e familiari». Il crollo del Muro di Torino, largamente inatteso, fa impressione: i cittadini “licenziano” un vertice trasversale, politico a affaristico, che ha retto per 23 anni l’ex capitale della Fiat, l’unica grande città italiana a non aver conosciuto alternanze, negli ultimi decenni. Un “regime” che si credeva granitico, al punto da ripresentarsi agli elettori con un volto archeologico come quello di Fassino.Se al ballottaggio arrivano un renzista e un grillino, a vincere è il grillino, scrive ancora Gramellini: «Un’indicazione da brividi per i geni che hanno compicciato la nuova legge elettorale». Gli elettori di Berlusconi e Salvini hanno scelto di premiare «quello tra i due candidati che si collocava a maggiore distanza dall’establishment europeista e finanziario, oggi identificato col renzismo». Ed è questa, conclude l’editorialista, la sentenza clamorosa che le urne consegnano al dibattito politico: «Sorto in opposizione alla Casta, dopo due soli anni di governo il renzismo ha finito per diventarne il simbolo». In altre parole, «è fallito il racconto del giovane politico di professione arrivato da Firenze per bonificare il suo partito e poi l’intero sistema, coniugando l’innovazione con la meritocrazia». Per Grasmellini, la crisi del renzismo ha «una data di implosione ben precisa», cioè la cacciata di Marino, il “marziano a Roma” che era «il simbolo plastico di una diversità politica: quanto di più vicino alla “narrazione” renzista si potesse immaginare. L’averlo cacciato in malo modo, quasi irridendolo come un corpo estraneo, ha simultaneamente appiccicato ai suoi epuratori l’etichetta di Casta 2.0. Ha cioè reso il renzismo uguale a ciò che prometteva di cambiare, almeno agli occhi dell’elettore tradizionale di sinistra».Negli anni del bipolarismo estremo, l’elettore Pd veniva spinto a votare il candidato indigesto “turandosi il naso”, per sbarrare la strada all’avversario leghista o berlusconiano. Ma Raggi e Appendino «hanno facce e storie che non mettono paura a nessuno e contro di loro non poteva scattare il richiamo della foresta». Sullo sfondo, aggiunge Gramellini, «la crisi economica sta bruciando le carte della politica una dopo l’altra. Ci erano rimasti due jolly: il renzismo e il grillismo. Uno forse ce lo siamo giocati. Rimane l’ultimo, che per fortuna in Italia è sempre il penultimo». Tra quanti invece non hanno mai considerato “un jolly” il premier fiorentino, ma solo l’ultimo cavallo di Troia dei poteri forti, c’è Giulietto Chiesa, che teme che adesso Renzi farà il diavolo a quattro per recuperare il colpo: «Aspettiamoci mosse azzardate e colpi sotto la cintura. Soprattutto nel prossimo referendum di ottobre su Costituzione e Italicum». Il M5S ha raccolto il risultato di questa catastrofe, certo «giovandosi anche dell’assenza di una destra che è ormai anch’essa allo sfacelo». Un sistema di potere sta crollando, ma non c’è ancora un’alternativa praticabile. L’unica certezza è negativa: il quadro politico di ieri non vale più. «Lo stato del paese dice anche che il M5S, da solo, non sarà sufficiente».Non c’è ancora un Piano-B, ma intanto vanno bene anche i 5 Stelle per fermare il Pd che mette l’Italia alla frusta in ossequio ai diktat di Bruxelles. “Avviso di sfratto per Renzi”, titolano i giornali dopo i ballottaggi di Roma e Torino: cartellino rosso per la casta di potere allineata all’establishment del rigore europeista. «I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione», scrive Massimo Gramellini sulla “Stampa”. «All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo». A guidarla, c’è «un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere». Per Giulietto Chiesa, «il fallimento di Renzi è politico, non amministrativo, e le conseguenze saranno lunghe e drammatiche». Nella “rivoluzione” in atto, i 5 Stelle sono indispensabili per abbattere gli yesmen, ma non bastano a costruire un’alternativa credibile per uscire dalla crisi ribaltando i presupposti dell’assetto politico-economico.
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Matteo stai sereno, stanno già arrivando i titoli di coda
La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.Solo perché gli scricchiolii nei consensi stavano a indicare un pericoloso risveglio dall’incantamento, nei confronti di chi ha monopolizzato la scena pubblica con un’opera sistematica di colonizzazione degli immaginari; intasandoli di sogni infondati quanto apparentemente rassicuranti. Dalle erogazioni a sorpresa (ossia con la clausola mimetizzata – come nelle obbligazioni di Banca Etruria – per la loro restituzione a valore maggiorato; tipo l’abbattimento di tasse nazionali a fronte di incrementi locali) alle riforme bidone, il cui sapore rancido veniva mascherato dagli abbondanti inzuccheramenti lessicali: la “buona” scuola, il “buon” lavoro e così via. Difatti la dark lady in tailleur da fata turchina Boschi, forse avvisata dalle proprie antenne sensibilissime alle questioni di potere (come dimostrò alle elezioni per il sindaco di Firenze, mollando per tempo il candidato dalemiano Michele Ventura di cui era portavoce, per imbarcarsi sul carro renziano), già da qualche giorno si era premurata di mutare registro: dal trionfalismo al terrorismo.Difatti ora passa dal cinguettio molesto sui “partigiani buoni” al sibilo del «se vince il no si apriranno scenari di instabilità». Staremo a vedere cosa si inventerà il suo partner dai pantaloni a tubo di stufa, che solitamente funziona meglio quando può giocare all’attacco in chiave di seduzione; mentre le bugie difensive gli vengono peggio, perché tradiscono la sua cinica arroganza. Do you remember “stai sereno”? Certo, l’esito delle consultazioni domenicali è ancora aperto. Ma già emettono due messaggi importanti. Il primo è che in questo Paese, dove la condiscendenza al potere e ai potenti è un tratto caratteriale estremamente diffuso, alla fine ci si stufa del fenomeno di turno. E Renzi presumibilmente sta per essere investito da un effetto disaffezione che ricorda la metafora del “marziano a Roma” di Ennio Flaiano: l’alieno Knut atterrato nella capitale che, esaurito il primo effetto sorpresa, viene liquidato dal millenario scetticismo capitolino con un beffardo “ancora qui?”.La seconda questione è se dallo scombussolamento prenderà corpo una qualche proposta di governo credibile, che smentisca l’argomentazione (ricattatoria) che “a Renzi non ci sono alternative”. Oltre il (più che legittimo) voto punitivo che ha caratterizzato in larga misura gli esiti (liberatori) che abbiamo sotto gli occhi. Visto che oggi ci è data l’opportunità di meditare su una grande verità che Flaiano faceva pronunciare al suo “marziano”: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia».(Pierfranco Pellizzetti, “Elezioni amministrative 2016, dopo un po’ Renzi stufa”, da “Il Fatto Quotidiano” del 6 giugno 2016).La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.
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Luciano Canfora: attacco alla Costituzione, una lunga storia
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo. Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati». L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il “Corriere della Sera” pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ‘45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.(Luciano Canfora, “Attacco alla Costituzione, una lunga storia”, da “Il Manifesto” del 24 aprile 2015).L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
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Anonymous contro l’Isis (e King Kong contro Godzilla)
“Isis, annuncio video di Anonymous: l’attentato sventato era a Firenze”. Impareggiabile, il “Corriere della Sera”. Un esempio di giornalismo autentico, un modello per tutti quelli del mestiere. Non solo crede all’esistenza di qualcosa che si fa chiamare Anonymous, ma lo adotta seriamente come fonte d’informazione. Ne riporta infatti un comunicato, come fosse vero: «Il 25 dicembre 2015 abbiamo ricevuto una segnalazione relativa ad un profilo Twitter collegato ai vertici dell’Isis dove era in corso una prima comunicazione su un possibile obiettivo italiano, già stabilito e apparentemente pronto per essere colpito. Quel breve messaggio, in quel momento, indicava che Firenze sarebbe stato un obiettivo entro capodanno», dice Anonymous, aggiungendo di «essersi subito attivato per tentare di sventare questo attacco che, comunque, risultato reale o falso, non può essere sottovalutato tenendo conto dei soggetti che ne stavano parlando». Poi la spiegazione di come il gruppo di hacker si sarebbe mosso: «Abbiamo inscenato una “talpa” all’interno dello Stato Islamico sfruttando lo stesso account accreditato e facendo credere che qualche fratello infedele ad Allah avrebbe comunicato agli italiani il “giorno del giudizio di Dio”, così impedendo che questo attacco venisse attuato».Respiriamo di sollievo, Firenze è salva. La minaccia era concretissima, “tenendo conto dei soggetti che ne stavano parlando”. Sulla identità di questi “soggetti”, Anonymous resta sulle sue, e il grande giornalismo del grande giornale italiano non ha la minima curiosità. Sarebbe un’indiscrezione pretendere nomi e cognomi, una mancanza di rispetto: la parola di Anonymous, al “Corriere”, basta. Benché anche Anonymus, a voler sottilizzare, mica sia noto con nomi e cognomi. Non si sa cosa sia, per chi lavori e perché. Ma non sarebbe da giornalisti, poniamo, sospettare che Anonymous non sia altro che un qualche apparato di propaganda, allarmismo e disinformazione – magari emanato dalle stesse centrali che hanno armato, finanziato e addestrato l’Isis o, magari, da una qualunque Rita Katz. No, questi sospetti non sono degni del grande giornalismo del “Corriere”. Li lascia ai complottisti di mezza tacca, perché gli basta la nobile battaglia che Anonymous ha sferrato contro Daesh.Lotta che è lo stesso Anonymous a documentare, e che il “Corriere” riporta come oro colato: «Attacco globale di Anonymous a Isis – A livello globale, l’operazione anti-Isis ha portato, sino ad oggi, all’oscuramento di 15.500 obiettivi, tra account sui social network e siti web legati direttamente alle operazioni o alla propaganda dell’Isis. Ma altri 4.000 account sono nati nelle ore successive: “Il nostro scopo è rallentarli”, sottolinea Anonymous». Sottolinea Anonymous. Sostiene Pereira. La polizia italiana non conferma… Del resto, il vero giornalismo di questi tempi non si stupisce di tanta vaghezza della fonte: Anonymous è vago e sfuggente perché combatte un nemico ancor più vago e sfuggente: l’Isis. No, non l’Isis che ripiega sotto i bombardamenti russi in Siria, e i cui capi a Ramadi vengono evacuati dagli elicotteri Usa. L’Isis che fa chiudere due stazioni ferroviarie a Monaco di Baviera, per un allarme terrorismo che poi è passato; che ha fatto cancellare tutti i festeggiamenti di Capodanno a Bruxelles e a Parigi.Eccome no: a Liegi e nel Brabante la polizia belga ha fatto degli arresti, «pianificavano attentati»; anche se (si rincrescono i media) «non sono stati rinvenuti armi o esplosivi durante le perquisizioni, ma materiale informatico, uniformi di tipo militare e materiale di propaganda dello Stato Islamico sono stati sequestrati e vengono attualmente esaminati». E a Vienna? «500 poliziotti hanno vigilato nel centro storico. A Berlino 900 agenti e 600 vigilantes “a guardia” dello show alla Porta di Brandeburgo»: l’Isis può colpire dovunque. «Negli Stati Uniti l’Fbi ha informato il presidente Barack Obama del rischio di attentati a New York, Washington e Los Angeles durante il veglione di Capodanno». L’Isis ha come campo il mondo. E non solo domina lo spazio, ma può viaggiare nel tempo, all’indietro. A Londra (leggo dai giornali) «cinque estremisti islamici legati ad Al-Qaeda sono stati condannati ieri all’ergastolo per aver organizzato, tra il gennaio 2003 e il marzo 2004, una serie di assalti (fortunatamente sventati) contro un centro commerciale nel Kent, il popolare night club londinese Ministry of Sound e alcune linee elettriche e del gas». Fortunatamente sventati.Ma l’Isis era già lì nel 2003, si chiamava Al-Qaeda, e aveva già la stessa ampiezza globale di azione, già la Terra intera era il suo campo di battaglia. Ha colpito a Londra, a Madrid, a New York, a Bali, a Giacarta, in Somalia… sempre imprendibile ed onnipresente. Adesso è l’Isis. E non avete ancora visto niente: «Per il 2016, l’Isis annuncia decine di migliaia di morti in decine di paesi; attiverà decine di cellule dormienti in vista della battaglia finale»: chi lo dice? Non l’Isis in persona; lo ha rivelato il dottor Theodore Karasik, un ebreo americano che lavora per la tv del Golfo “Al Arabyia” come “analista di geopolitica”, ed «ha molto studiato il comportamento dello Stato Islamico»: quasi quanto Anonymous, se non di più. Cosa aspetta il “Corriere” ad intervistarlo? Anzi, a farne un collaboratore pagato e fisso?Meglio riportare i comunicati di Anonymous che queste notizie dell’Interpol: che uno dei fucili M29 utilizzati da jihadisti massacratori di Parigi proveniva da una ditta situata in Florida, e facente capo a un Ori Zoller, indicato come «un ex membro delle forze speciali israeliane», già noto alle cronache nere per avere, con un mercante di diamanti ebreo di nome Shimon Yelinek, «trafficato in diamanti con Al-Qaeda» (ohibò) nel 2003, nel quadro di una fornitura di armi in Nicaragua: armi contro diamanti. Un classico, documentato da un rapporto della Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Nel rapporto, Zoller è citato anche come rappresentante in Guatemala della Israel Military Industries, una compagnia controllata dal governo israeliano. Vero è che l’ex agente del Mossad adesso ha cambiato genere: vende “cyber sorveglianza” ai governi. Un’attività non lontana da quella di Anonymous?Non siamo in grado di rispondere alla domanda. Siamo invece in grado di sapere chi ha scoperto e diffuso il messaggio di Al Baghdadi, il Califfo, un audio di 24 minuti in cui il Califfo minacciava Roma e il Papa, il 26. Il messaggio è stato scoperto ed autenticato dal “Site”, come ha reso noto “Le Monde”. Senza dire che cosa è il “Site” chi è la sua fondatrice, Rita Katz. Certe volte a scavare troppo si scopre che i jihadisti di Parigi sono armati da ebrei, e che erano già noti e stranoti ai servizi di Parigi stessi. E’ meglio invece fare da grancassa all’allarmismo pubblico voluto dai governi: abbiate paura, l’Isis vi sta sul collo! Vi può colpire ovunque! Per fortuna Anonymous sventa gli attentati, la polizia vi protegge, l’esercito fa la guardia, Hollande emana leggi speciali. Vi siete chiesti perché questo megafono? Questo allarmismo pubblico?Se l’è chiesto il filosofo Giorgio Agamben, che intervistato in Francia ha detto: «Il rischio è la deriva verso la creazione di una relazione sistemica verso il terrorismo e lo Stato di emergenza: se lo Stato ha bisogno della paura per legittimarsi, bisogna allora, al limite, produrre il terrore, o almeno non impedire che si produca. Si vedono così paesi perseguire una politica estera che alimenta il terrorismo che bisogna combattere all’interno». Ma naturalmente tutte queste sono speculazioni. Che non interessano al “Corriere”. Perché questa scuola suprema di giornalismo si occupa solo della realtà concreta: Anonymous ha sventato l’ attentato dell’Isis a Firenze. Mattarella, la disoccupazione è causata dall’evasione fiscale. Maciste abbatterà a mani nude il Riscaldamento Globale. Il Pentagono ha comunicato di aver ucciso Charaffe al Moudan, noto pianificatore degli attentati di Parigi, a colpi di missili in Siria. Godzilla s’è risvegliato, ma per fortuna King Kong lo combatte. Quindi l’immancabile vittoria ci appartiene.(Maurizio Blondet, “Anonymous contro Isis, e Godzilla contro King Kong”, dal blog di Blondet del 2 gennaio 2016).“Isis, annuncio video di Anonymous: l’attentato sventato era a Firenze”. Impareggiabile, il “Corriere della Sera”. Un esempio di giornalismo autentico, un modello per tutti quelli del mestiere. Non solo crede all’esistenza di qualcosa che si fa chiamare Anonymous, ma lo adotta seriamente come fonte d’informazione. Ne riporta infatti un comunicato, come fosse vero: «Il 25 dicembre 2015 abbiamo ricevuto una segnalazione relativa ad un profilo Twitter collegato ai vertici dell’Isis dove era in corso una prima comunicazione su un possibile obiettivo italiano, già stabilito e apparentemente pronto per essere colpito. Quel breve messaggio, in quel momento, indicava che Firenze sarebbe stato un obiettivo entro capodanno», dice Anonymous, aggiungendo di «essersi subito attivato per tentare di sventare questo attacco che, comunque, risultato reale o falso, non può essere sottovalutato tenendo conto dei soggetti che ne stavano parlando». Poi la spiegazione di come il gruppo di hacker si sarebbe mosso: «Abbiamo inscenato una “talpa” all’interno dello Stato Islamico sfruttando lo stesso account accreditato e facendo credere che qualche fratello infedele ad Allah avrebbe comunicato agli italiani il “giorno del giudizio di Dio”, così impedendo che questo attacco venisse attuato».
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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Errore fatale, trattare i migranti come i Goti di Alarico
Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».Questa è l’impostazione politically correct di Amalia Signorelli. Commenta una lettrice: «E purtroppo l’autrice dell’articolo ha ragione, ha dannatamente ragione: i muri non bastano, non basteranno a fermare questa invasione barbarica che produrrà soltanto distruzione, come d’altronde tutte le invasioni. Non è più un fenomeno di immigrazione, è un’incontenibile invasione. Ha ragione l’autrice a paragonarla con quanto successe durante le guerre gotiche. Ma l’autrice omette colpevolmente di ricordare gli episodi di atroce crudeltà. Roma in cinquant’anni passò da un milione di abitanti a trentamila. Fu una carneficina e fu il crollo di una civiltà. Siamo arrivati, purtroppo, a una scelta: o noi o loro». Questa opinione è sostanzialmente condivisa da oltre il 90% dei lettori che commentano. Perciò parliamone apertamente e senza moralismi, o magari utilizzando la storia come metafora. Che vuol dire: “O noi o loro”? Dovremmo sterminarli, riportarli da dove vengono, o cosa?Lo so che il genocidio (non è già in corso?) è un reato, e l’apologia di reato non si può fare; e chi lo commette si autodistrugge. Ma proviamo a ridurre il divario fra opinione pubblica e establishment. I Goti e i loro successori non volevano abbattere l’impero romano, anzi: ma solo inserirsi in un’area sicura (dagli attacchi degli Unni) e ricca. Sounds familiar? Però ne provocarono il crollo. Il declino del reddito pro-capite durò circa mille anni. O più: i contadini del V secolo abitavano case pavimentate e con le tegole sul tetto; in Veneto cento anni fa molti contadini vivevano in abitazioni di paglia. Come gestirono la pressione migratoria nel V secolo? In modi diversi a Oriente e a Occidente. A Costantinopoli, in un caldo giorno di luglio dell’anno 400, fu pogrom. La folla inferocita trucidò tutti i Goti presenti in città: uomini, donne, bambini. Il governo di Arcadio completò la pulizia etnica, anche in Anatolia. La città festeggiò (3 gennaio 401)! I Visigoti di Alarico, invitti da 25 anni, vista la brutta aria, lasciarono la Tracia per l’Italia. E dei Goti in Oriente non si sentì più parlare. Problema risolto.In Occidente, in un caldo giorno di agosto del 405, Stilicone sconfisse un’orda di Goti che (dopo aver messo a ferro e fuoco l’Italia del Nord) assediava Firenze. Fece prigionieri forse 30.000 guerrieri: li risparmiò. Ne inserì 12.000 nell’esercito romano, alloggiando (in servitù) le rispettive donne e bambini presso famiglie padane; tutti gli altri li vendette schiavi. Ma nel 408 Stilicone cadde, e in Padania fu subito pogrom: la folla trucidò le donne e i bambini dei Goti. Allora i padri-mariti disertarono l’esercito romano (gli schiavi abbandonarono i padroni) e si unirono ad Alarico, portando l’esercito visigoto a circa 30.000 soldati. Fino ad allora battuto e ricacciato in Pannonia, Alarico così rinforzato riuscì ad espugnare Roma (410).Morale della favola. O li facciamo fuori tutti, ma proprio tutti, e in un colpo solo, come a Bisanzio. Ma ce la sentiamo di diventare dei genocidi? Oppure è meglio che li trattiamo bene. Perché anche in Oriente, nel 376, quando tutto cominciò, i forse 100.000 Goti che si presentarono alla frontiera sul Danubio chiesero ‘asilo politico’ all’imperatore, aspettarono due mesi la risposta di là dal fiume, entrarono disarmati, e non crearono problemi. Fino a quando – raccontano le fonti romane, non gote – traditi, umiliati, e affamati si ribellarono. E furono 25 anni di saccheggi. Tre strade. Il genocidio. La ri-emigrazione verso altri lidi (Cina? Antartide? I paesi di origine?). L’integrazione: attribuire loro dei diritti e rispettarli. Oppure il caos e la fine della civiltà. Quale preferite?Ps: il padre di Stilicone era Vandalo. E Stilicone fu l’ultimo baluardo di Roma! L’integrazione porta anche benefici. I romani avevano controlli sugli ingressi alle frontiere molto efficaci; e politiche dell’immigrazione molto restrittive (oggi Obama dice: fate di più contro i trafficanti di uomini). Il più bel libro che ho letto sull’argomento è di un italiano (Alessandro Barbero, “Barbari: Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, Laterza). I migranti di oggi non sono come quelli del V secolo. Nella società agraria latifondista romana un Goto che arrivava da solo non aveva nessuna possibilità di migliorare la sua condizione economica: poteva fare solo lo schiavo o il servo della gleba. La produzione agricola essendo più o meno data, l’impero non traeva benefici economici dall’immigrazione (a parte l’esercito).Perciò per i migranti al di là delle frontiere l’unico modo per partecipare al benessere romano era organizzare spedizioni armate di massa e costringere con la forza (e i saccheggi) lo Stato romano a venire a patti, a concedere terre e diritti di stanziamento (Alarico fino al 410 non chiese altro). Ma in tal modo i migranti del V secolo impoverirono l’impero, anche fiscalmente (i barbari non pagavano tasse), fino allo stremo. Oggi l’industria e i servizi cambiano la situazione: gli immigrati aumentano la capacità produttiva del paese ospite (perciò si presentano da soli, disarmati, pronti a creare valore e pagare le tasse). Il problema è nostro: organizzarci, investire su di loro per renderli produttivi. E prima ancora, farla finita con la crisi di domanda che non consente neanche a molti europei potenzialmente produttivi (disoccupati) di lavorare.(PierGiorgio Gawronski, “I migranti di oggi non sono come i Goti del V secolo”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 agosto 2015).Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».
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La mafia Ue uccide Atene per impaurire noi, infami codardi
Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.«Il “no” massiccio al referendum – scrive Cremaschi su “Micromega” – andava sanzionato in quanto tale, per insegnare ai popoli tentati di ripeterlo quanto alto potrebbe esserne il prezzo. Il taglio delle pensioni minime sotto i 400 euro al mese, quello dei salari dello stesso livello, l’aumento del prezzo dei farmaci là ove la sanità pubblica è scomparsa, l’obbligo a rivedere le minime misure di sostegno ai poveri, agli sfrattati, la cancellazione delle poche riassunzioni, tutte queste non sono misure di grande valore economico, sono rappresaglie sociali. Anche per questo, dopo la firma della capitolazione, la Bce ha deciso di continuare a negare i fondi Ela di emergenza. Le file ai bancomat devono continuare fino a che restino ben stampate nella memoria», di ogni greco e di ogni altro europeo. «Le rappresaglie terrorizzano e puniscono, ma il loro scopo è il dominio. La Grecia è il primo Stato europeo che dal 1945 diventa formalmente una colonia. In questo c’è anche la punizione politica che viene somministrata al governo Tsipras». Massima perfidia, costringere lo stesso Tsipras a firmare condizioni-capestro, peggiori di quelle inizialmente respinte, demolendo così la credibilità del premier “ribelle”.«Il Parlamento greco avrà solo il compito di votare il proprio suicidio accettando la resa», continua Cremaschi. «Poi ogni decisione sarà presa dai tecnici, espressione delle potenze occupanti, che supervisioneranno l’operare del governo coloniale. Tutto questo è meticolosamente definito nel protocollo dell’Eurogruppo». Colpo di Stato, come quello dei colonnelli nel 1967: «Allora fu la Nato ad organizzarlo, ora è la Troika». La differenza? «Allora non erano in discussione le proprietà pubbliche, mentre ora sono in svendita». La Grecia continua ad essere «cavia di trattamenti che vengono somministrati in dosi estreme ad essa e più caute agli altri, ma la medicina è la stessa: il Fiscal Compact e il Semestre Europeo si son aggiunti ai già precedenti trattati che hanno legato indissolubilmente euro e austerità». Ora, poi, ci sono poteri formali per far applicare le peggiori decisioni prese dall’Ue: «Se un Parlamento fa un bilancio dello Stato che le autorità di Bruxelles considerano troppo poco rigoroso, queste stesse autorità possono intervenire per modificarlo. I parlamenti nazionali non hanno più la disponibilità del bilancio dello Stato, ragione per cui 200 e più anni fa sono nati».Sopra di loro sta un’autorità tecnocratica e finanziaria che esercita il potere vero: «La Ue è quindi oggi un colpo di Stato permanente, che sulla Grecia ha esercitato una sperimentazione, per ora, estrema». Ma la riduzione allo stato coloniale della Grecia, oltre che la funzione di esempio, che scopo economico ha? Qui le poche cifre chiare disponibili non lasciano dubbi. «Il paese verrà saccheggiato dai “creditori”. Degli 84 miliardi promessi, solo 10 potrebbero finire in investimenti, cioè produrre interventi nell’economia reale. Tutti gli altri son una partita di giro, soldi che tornano alle banche e al Fmi», e il meccanismo si ripete con gli interessi. «Infatti a garanzia del prestito la Grecia deve impegnarsi in tagli di bilancio e tasse per un cifra vicina ai 15 miliardi e privatizzare beni per 52 miliardi». E’ un paese alla fame, con un Pil 8 volte inferiore a quello dell’Italia. «Da noi, la manovra imposta alla Grecia varrebbe 120 miliardi di tagli e oltre 400 miliardi di privatizzazioni. Riusciremmo a farle noi senza vendere Venezia, Firenze e il Colosseo?».Il via libera ad altri licenziamenti di massa e la fine dei contratti collettivi, imposti dall’Eurogruppo, secondo Cremaschi ridurranno alla schiavitù ciò che resta del lavoro: ci saranno più profitti, ma non ci sarà certo una ripresa in grado di pagare i debiti. «Come ogni usuraio, i creditori potranno allora dire che la Grecia non fa fronte a tutti gli impegni e quindi non può avere tutti i prestiti. Così continueranno a fare affari saccheggiando il paese e terranno in ostaggio tutti gli altri popoli: se non volete finire come loro dovete continuare ad accettare le politiche di austerità. La Troika sarà aiutata in questo ricatto permanente dal controllo totale esercitato sui mass media, che con la loro menzogna sistematica in questi giorni ci han già fornito un’anteprima di fascismo 2.0». Conclusione: «La vicenda greca dimostra una sola verità inconfutabile: questa Unione Europea non è riformabile; se si vuole una politica diversa da quella del massacro sociale e dell’austerità bisogna essere disposti alla rottura completa con essa. Il governo greco non era disposto a questo, e quindi ha capitolato».Il popolo greco, invece, aveva risposto “no” al 62%. «E’ stato un segnale che lor signori han ben colto, e per questo han reagito con tanta brutalità. Ma le rappresaglie, i massacri, possono impaurire una, due, tre volte, poi alla fine ottengono l’effetto opposto, alimentano la rivolta. Per questo la Ue, mostrando la sua vera faccia con la Grecia, ha decretato la sua fine». La rottura «va costruita in mezzo ai popoli, che per vivere liberamente debbono saper reggere il ricatto dell’euro e di tutto quanto è ad esso collegato». Nel 1938, la Cecoslovacchia si arrese alla Germania di Hitler, sostenuta da tutta l’Europa, che pensava così di essersi salvata. Scrisse Churchill: «Scegliemmo il disonore per non avere la guerra, e ottenemmo entrambi». Aggiunge Cremaschi: «Il 13 luglio 2015 è la giornata del disonore europeo, tutti i governi che hanno imposto la resa alla Grecia sono colpevoli d’infamia, ma la condanna morale deve diventare rovescio politico. Starà ai greci decidere come organizzare resistenza e sabotaggio verso il Memorandum, con o senza Tsipras, dipende da lui. Ma resistere alla tirannia Ue è il compito da assumere in ogni paese e in tutto il continente».Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.
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Falange Armata? No: 007, Gladio, mafia. Scalfaro sapeva?
Coincidenze. Probabilmente per certi apparati dello Stato è più comodo parlare in questi termini. Ma il binomio servizi segreti-Falange Armata emerso dalle dichiarazioni dell’ex capo del Cesis, Francesco Paolo Fulci, è decisamente impattante. Nella sua testimonianza odierna al processo sulla trattativa riaffiora il ricordo di due cartine geografiche mostrategli da un suo fidato analista: una con i luoghi da dove partivano le telefonate targate “Falange Armata” e l’altra con le ubicazioni delle sedi periferiche del Sismi. Risultato? Le due cartine erano perfettamente “sovrapponibili”. Ancora coincidenze? Certo è che queste ambigue circostanze vanno ad infittire i tanti misteri nascosti dietro a questa strana sigla, utilizzata ad intermittenza per rivendicare stragi e omicidi eccellenti, fino a sparire inghiottita nei buchi neri del nostro disgraziato Paese, per poi tornare in auge nel febbraio del 2014 all’interno di una strana lettera di minacce indirizzata a Totò Riina.Il racconto di Fulci affonda le radici nella lista dei 15 nomi di agenti dei servizi addestrati a maneggiare esplosivi. A questi nominativi l’ex ambasciatore ne aggiunge un altro: quello del colonnello Walter Masina, che però non fa parte della “VII divisione” e degli “Ossi”. «Non avrei dovuto farlo ma volevo fargliela pagare – aveva dichiarato a verbale – dato che Masina era quello che spiava la mia abitazione». Nei suoi ricordi riemerge anche la prospettiva di una indagine del Cesis con un obiettivo ben definito: verificare se nei giorni delle stragi del ‘93 di Roma, Firenze e Milano quegli stessi 007 si fossero trovati nei paraggi dei luoghi degli attentati. Su sollecitazione del pm Tartaglia l’ex ambasciatore ricorda la richiesta esplicita dell’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, di fornire quei nominativi all’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Ma perché Scalfaro sapeva di quella lista, quasi in tempo reale, quando su quell’affaire si sarebbe dovuta mantenere la massima segretezza?Lo stesso Fulci a distanza di anni ammette di non avere mai saputo se quell’indagine fosse stata fatta o meno. Quello che rammenta perfettamente sono invece le microspie piazzate in tutta la sua casa, l’arma del dossieraggio, con tanto di macchina del fango – ben oliata – contro di lui e contro la sua famiglia. «Avevo detto a mia moglie: se mi succede qualcosa andate a vedere se qualcuno di quei nomi era nei paraggi». La lista di Fulci era peraltro finita in Parlamento il 16 novembre 1994, inserita in un’interrogazione parlamentare dell’onorevole di Rifondazione Comunista Martino Dorigo. Al processo sulla trattativa Stato-mafia sembra di assistere ad una spy-story. Ma la storia grigia del nostro paese supera di gran lunga qualsiasi sceneggiatura cinematografica. «Due giorni prima di assumere l’incarico al Cesis – ricorda in aula Fulci – telefonarono dicendo: “Qui Falange Armata, uccideremo l’ambasciatore Fulci”. Io dissi: “Cominciamo bene, ma come fanno a sapere del mio incarico quando tutto è coperto da assoluto riserbo?”. Un messaggio che si ripeté due o tre giorni dopo l’inizio del mio incarico. Della Falange Armata avevo sentito parlare sui giornali».Di sicuro la nomina di Fulci da parte dell’allora premier Giulio Andreotti non era stata oggetto di pubblicità sui media. «Ci fu una campagna violentissima di un giornaletto che circolava negli ambienti dei servizi, si dicevano sul mio conto e su quello di mia moglie le nefandezze più terribili. Al momento del primo messaggio della Falange Armata, comunque, erano a conoscenza del mio insediamento al Cesis parecchie persone nell’ambito degli addetti ai lavori, soggetti dei servizi e del ministero degli esteri». Tartaglia rilegge quindi in aula uno stralcio delle dichiarazioni di Fulci tratte dal suo verbale di interrogatorio del 2014. «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata – dichiarava l’ex ambasciatore solamente un anno fa – faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (Gladio, ndr): facevano esercitazioni, come si può creare il panico in mezzo alla gente, creare le condizioni per destabilizzare il paese, questa è sempre l’idea». Il pm osserva che quando erano cominciate le rivendicazioni della Falange Armata, l’operazione “Gladio” non esisteva più (per lo meno ufficialmente); a chi si riferiva, quindi? La replica di Fulci è alquanto schietta: «Vuole che gliela dica tutta? Qualche nostalgico». Che potrebbe essere utilizzato ancora su “chiamata diretta” di uno Stato-mafia bisognoso di una nuova destabilizzazione?(Lorenzo Baldo, “Trattativa: Fulci, la Falange Armata e il mondo sommerso dei Servizi”, da “Antimafia Duemila” del 26 giugno 2015).Coincidenze. Probabilmente per certi apparati dello Stato è più comodo parlare in questi termini. Ma il binomio servizi segreti-Falange Armata emerso dalle dichiarazioni dell’ex capo del Cesis, Francesco Paolo Fulci, è decisamente impattante. Nella sua testimonianza odierna al processo sulla trattativa riaffiora il ricordo di due cartine geografiche mostrategli da un suo fidato analista: una con i luoghi da dove partivano le telefonate targate “Falange Armata” e l’altra con le ubicazioni delle sedi periferiche del Sismi. Risultato? Le due cartine erano perfettamente “sovrapponibili”. Ancora coincidenze? Certo è che queste ambigue circostanze vanno ad infittire i tanti misteri nascosti dietro a questa strana sigla, utilizzata ad intermittenza per rivendicare stragi e omicidi eccellenti, fino a sparire inghiottita nei buchi neri del nostro disgraziato paese, per poi tornare in auge nel febbraio del 2014 all’interno di una strana lettera di minacce indirizzata a Totò Riina.