Archivio del Tag ‘Firenze’
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Il Fatto: Renzi è stato finanziato con 4 milioni. Da chi?
Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere due campagne nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito: niente rimborsi elettorali né fondi pubblici. Come c’è riuscito? Grazie ad associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi e ai suoi due “fund raiser”, Marco Carrai e Alberto Bianchi, incaricati di raccogliere soldi. Missione compiuta: oltre 4 milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del paese. Lo racconta sul “Fatto Quotidiano” Davide Vecchi, che – conti alla mano – ripercorre l’ascesa del rottamatore.«Bianchi e Carrai – scrive Vecchi – oggi fanno parte del consiglio direttivo della Fondazione Open, cioè l’evoluzione della Fondazione Big Bang a cui lo scorso novembre è stato cambiato nome e composizione: Renzi ha azzerato il vecchio consiglio, confermando solo Bianchi e Carrai, inserendo Luca Lotti e Maria Elena Boschi, nominando quest’ultima segretario generale». Nel 2013 la fondazione ha raccolto 980.000 euro di donazioni, 300.000 euro in più rispetto all’anno precedente, quello della sua fondazione. Negli anni precedenti, continua Vecchi, l’attività politica di Renzi era passata attraverso altre due associazioni: Link e Festina Lente, che «non hanno mai avuto siti Internet né rendicontazione pubblica». Ultima iniziativa di Festina Lente: 120.000 euro raccolti a Milano in una cena per Renzi nel gennaio 2012 al Principe di Savoia. «Questa associazione è citata solamente una volta: nel resoconto delle spese elettorali sostenute da Renzi per le amministrative del 2009».Il comitato dell’allora candidato sindaco dichiarò di aver speso 209.000 euro, 137.000 raccolti tra i sostenitori e gli altri 72.000 coperti da un mutuo acceso e garantito dalla Festina Lente. Mutuo concesso dalla banca di credito cooperativo di Cambiano (presieduta dal potente sostenitore Paolo Regini e usata anche per le ultime primarie) con a garanzia una fidejussione firmata da Bianchi. Ben più attiva, invece, la Link, nata nel 2007 quando Renzi era presidente della Provincia di Firenze. Oltre a Carrai, tra i fondatori figura buona parte dell’attuale staff del rottamatore: come Lucia De Siervo, direttore della cultura ed ex capo segreteria di Renzi, nonché figlia di Ugo, presidente della Corte Costituzionale, e moglie di Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua. C’è Vincenzo Cavalleri, ora direttore servizi sociali di Palazzo Vecchio, e c’è Andrea Bacci, oggi presidente della Silvi (società pubblica partecipata dal Comune), intercettato nel dicembre 2008 al telefono con Riccardo Fusi (ex patron del gruppo Btp condannato a due anni in primo grado per i lavori alla Scuola marescialli e imputato per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini e indagato per bancarotta fraudolenta) per organizzare un viaggio in elicottero a Milano per Renzi.Nell’atto costitutivo della Link, aggiunge il “Fatto”, oltre al presidente Marco Seracini compare anche Simona Bonafè, ex assessore e oggi onorevole. L’associazione ha la propria sede in via Martelli 5, dove poi nascerà la fondazione Big Bang. Nei primi due anni di vita la Link ha chiuso in attivo, dopo aver raccolto 200.000 euro. «Tutt’altra musica nel 2009, anno delle primarie e delle amministrative, quindi fondi che vanno ad aggiungersi a quelli dichiarati dal Comitato». Link ha speso 330.000 euro, perdendone 154.000. Perdita «in parte appianata nel 2010 attraverso erogazioni liberali ricevute per 156.350 euro e in parte nel 2011, ultimo anno di vita dell’associazione». Complessivamente, la Link ha sostenuto l’attività politica di Renzi con circa 750.000 euro. «Da dove arrivano queste “erogazioni liberali”?», si domanda Vecchi. «Abbiamo cercato per giorni inutilmente il presidente Marco Seracini sia nel suo studio, dove venne registrata l’associazione, sia al cellulare. Ci siamo rivolti a Carrai che pur rispondendo molto gentilmente al telefono e rendendosi inizialmente disponibile a incontrarci, ha poi preferito non rispondere né in merito alla Link né ad altro». Ha invece risposto Vincenzo Cavalleri, anche che «non alle domande sui donatori – “dei quali”, ha detto, “non so niente”». Però ha spiegato al “Fatto” che l’associazione è una “scatola”, costruita per organizzare incontri. Di che tipo? «Raccolta fondi ma non solo, non faceva attività politica però, erano incontri sociali diciamo». Sociali? «Sì, eventi promozionali per diciamo sviluppare le idee di cui Renzi era portatore». E cene elettorali? «Non ricordo».Nel 2009, continua Vecchi, dopo aver vinto le primarie fiorntine Renzi partecipò ad alcune iniziative organizzate anche da Denis Verdini, all’epoca coordinatore regionale di Forza Italia. Oggi, Verdini è l’uomo che deve scegliere il candidato sindaco da contrapporre a Renzi per le prossime amministrative di maggio. «Nel 2009 – racconta il “Fatto” – l’allora rottamatore sedette al tavolo d’onore insieme a Verdini e consorte alla festa de “Il Giornale della Toscana”, presenti tutti i parlamentari forzisti dell’epoca». Mesi dopo, Renzi partecipò a un evento organizzato dalla signora Verdini, Maria Simonetti Fossombroni. «Molti del Pdl ricordano inoltre che la scelta di candidare sindaco nel 2009 l’ex calciatore Giovanni Galli fu considerato un “regalino” al giovane prodigio Renzi. Che lo asfaltò. Verdini non ha mai negato la propria simpatia per il rottamatore». E dal centrodestra sono mai arrivati fondi alle associazioni di Renzi? «Gentile e disponibile quanto Carrai si dimostra anche Alberto Bianchi, che come Carrai alla domanda non risponde».Domande: da dove arrivano i fondi e come ha coperto il mutuo Festina Lente? E come è riuscito ad appianare il debito della Fondazione e a raccogliere il 30% in più l’anno successivo? «Neanche a queste domande riceviamo risposte», aggiunge Vecchi. «Una cosa è certa: l’imprenditore e l’avvocato fanno benissimo il loro lavoro di fund raiser. Sempre dall’ombra, mai in prima fila. Meno si parla di loro meglio è». La cena di finanziamento di Renzi a Milano nell’ottobre 2012, «che passò come un evento organizzato da Davide Serra», secondo “Il Fatto” «in realtà è stata opera esclusiva di Carrai». L’amico di Renzi «mal sopporta la pubblicità, i suoi interessi sono nel privato». Oggi, Carrai è presidente di Aeroporto Firenze, della C&T Crossmedia, della Cambridge Management Consulting e della D&C, mentre ha appena lasciato la carica di amministratore delegato della Yourfuture srl. Inoltre è socio dell’impresa edile di famiglia Car.im, società che ha realizzato la trasformazione della storica libreria fiorentina Martelli in un negozio Eataly, proprio davanti alla sede della Fondazione Open. «Ma certo, sono affari privati».Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere due campagne nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito: niente rimborsi elettorali né fondi pubblici. Come c’è riuscito? Grazie ad associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi e ai suoi due “fund raiser”, Marco Carrai e Alberto Bianchi, incaricati di raccogliere soldi. Missione compiuta: oltre 4 milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del paese. Lo racconta sul “Fatto Quotidiano” Davide Vecchi, che – conti alla mano – ripercorre l’ascesa del rottamatore.
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Tenetevi pure Matteo Renzi e la sua legge-porcata
Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.Anche a questo serve la riforma della legge elettorale: a indorare la pillola e simulare l’esercizio democratico, che in realtà è completamente svuotato perché non esistono reali alternative al Programma Unico del sistema. Sicché, i commentatori si rassegnano ad analizzare il grigio dibattito in corso, anche in materia di ingegneria istituzionale. Se non altro, osservano alcuni, il vecchio Mattarellum costringeva almeno i partiti a sfidarsi sul terreno ristretto dei piccoli collegi uninominali, proponendo cioè candidati non impresentabili, non alieni, non ostili ai territori.Con Renzi invece si torna al listino bloccato, che il fiorentino – con inarrivabile faccia tosta – tenta di spacciare per qualcosa di diverso dalla “legge porcata” che si vorrebbe far dimenticare. Eppure, nonostante ciò, se solo si potesse scegliere (ma scegliere davvero) forse già oggi gli italiani lo farebbero. Se in un ipotetico referendum si potesse decidere tra le due opzioni – lasciare la legge elettorale in pasto ai partitocrati ma avere in cambio un’inversione radicale di rotta sulla sovranità finanziaria nazionale – non è difficile immaginare un plebiscito.Nel frattempo, l’attualità è generosissima di episodi sempre più incresciosi. Al pantheon degli orrori mancavano solo figure eleganti e colte come Laura Boldrini, smascherata dai deputati “5 Stelle”. Togliere la parola al Parlamento, ecco il problema. E’ per questa ragione che un altro impavido leader della sinistra italiana, Nichi Vendola, anziché scandalizzarsi per l’autoritarismo prussiano della presidente della Camera preferisce censurare il fuoco polemico dei grillini. Ora si banchetta sulle spoglie di Bankitalia, per amputare in via definitiva la residua sovranità virtuale della finanza pubblica italiana.Solo ieri è stata decisa la vivisezione di Poste Italiane, dopo quelle di Eni e Finmeccanica. Prossimo obiettivo, la Cassa Depositi e Prestiti. Possibile che gli italiani non capiscano? Ma sì, che capiscono. E quelli che ancora non l’hanno fatto, lo faranno. E’ semplice: se ti hanno rubato il portafoglio – divorzio tra Tesoro e Bankitalia, privatizzazione del sistema bancario, cessione del debito pubblico alla finanza privata, adesione all’euro e quindi impossibilità matematica di finanziare la spesa pubblica con moneta propria – è ovvio che, dovendo pur pagare, i soldi verranno richiesti ai contribuenti, in dosi sempre più micidiali, fino a strozzare l’economia, mettendo in ginocchio imprese e famiglie.Nell’Eurozona – caso unico al mondo – per finanziare l’azione del governo (funzione pubblica, servizi vitali) non si può più contare su libera emissione di valuta sovrana, ma solo sulla moneta già circolante, proveniente dalle banche private disposte ad acquistare titoli di Stato. In queste condizioni, per il tracollo – previsto anni fa solo da alcuni isolati economisti “eretici” – è solo questione di tempo, ma intanto la condanna è certa e l’esito è inesorabile, in un crescendo di sofferenze che ormai colpiscono decine di milioni di persone. E se il governo Letta-Napolitano-Draghi continua la sua recita europea raccontando la stessa fiaba di Mario Monti (la medicina amara produrrà la guarigione) il prode Renzi propone di rottamare la Costituzione e l’ordinamento istituzionale, a cominciare dal Senato, senza mai dire una sola parola sui dolori della grande crisi e su come si potrebbe tentare di uscirne.Tace, Renzi, perché sa che il suo mandato-farsa non prevede in nessun modo la salvezza dell’Italia. E così, giusto per parlar d’altro, il segretario del Pd trova pure il coraggio di presentare impunemente, truccata da “riforma”, l’ultima barzelletta elettorale, per di più condivisa con l’amato Cavaliere. Il tutto tra gli inchini del mainstream e i balbettii dei sindacati, che si agitano per l’Electrolux evitando però di chiedersi come mai in Italia un posto di lavoro costi all’azienda 2,5 volte lo stipendio in busta paga – il resto va a finanziare le casse esangui dello Stato immiserito dal neoliberismo predatore. Mancano soldi, guardacaso. E serve un Piano-B per procurarli. Subito, ora o mai più.E’ questo il primo obiettivo dell’agenda-Italia per l’alternativa: senza denaro, senza possibilità di spesa, non ci sarà nessuna ripresa, nessuna occupazione, nessuna riconversione ecologica verso nessuna economia sostenibile. Una forza politica organizzata su questa base, con proposte chiare e inequivocabili, travolgerebbe qualsiasi infame soglia di sbarramento e supererebbe gli ostacoli di qualunque truffa elettorale. C’è da augurarsi che la spietata durezza della crisi, quantomeno, consenta alla verità di farsi strada, in questo mare di frottole indecenti. E convinca gli italiani a rottamare in fretta maggiordomi e pagliacci, perché il paese si merita ben altro: qualcuno che sappia evitare la catastrofe.(Giorgio Cattaneo, “Tenetevi Renzi e la sua legge-porcata”, da “Megachip” del 31 gennaio 2014).Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
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La crisi morde, ma la Cgil si rintana alla corte del Pd
In un convegno organizzato dalla Fiom a Bologna Susanna Camusso ha affermato che lo sciopero generale non basta più. Siccome è difficile credere che con ciò la segretaria della Cgil volesse annunciare il passaggio a forme di lotta rivoluzionarie, è probabile che sia giusta la interpretazione che ne ha voluto dare la stampa: basta con lo sciopero generale. Ma quanti scioperi generali ha fatto la Cgil in questi ultimi anni? L’ultimo che tutti i lavoratori ricordano con rabbia è quello di tre ore per non fermare la riforma Fornero delle pensioni. Uno sciopero finto, fatto per circostanza e con la chiarissima intenzione di non procurare difficoltà al governo Monti appena insediato. Nessuno sentirà la mancanza di lotte come questa, fatte solo per far guadagnare spazietti nei telegiornali, lotte che i lavoratori hanno imparato a disertare. Gli ultimi scioperi di quattro ore di Cgil, Cisl e Uil, sparpagliati in giornate e territori diversi, sono stati semiclandestini. È fallito anche lo sciopero proclamato dalla Fiom in Emilia la scorsa settimana: poche centinaia di persone in piazza a Bologna.È colpa delle persone che non hanno più voglia di lottare? No, è colpa dei gruppi dirigenti sindacali, che proclamano lotte che servono solo a far vedere che si esiste e che hanno la sola funzione di creare frustrazione ed impotenza in chi le fa. Nella più grave crisi economica del dopoguerra la Cgil vivacchia tra un convegno e l’altro, senza pensare al conflitto vero, quello che i lavoratori son ancora disposti ad affrontare con grande coraggio, come hanno mostrato i tranvieri di Genova. Che questa Cgil sia ora spaventata e affascinata dalla nuova leadership del Pd è evidente e anche questo è un segno della sua profonda crisi. Accantonato e dimenticato il goffo tentativo della Spi di sostenere Cuperlo, ora tutto il gruppo dirigente della confederazione spera in una legittimazione da Renzi. Il più lesto è stato Maurizio Landini, che al convegno di Bologna si è ben guardato dal polemizzare con la segretaria della Cgil sugli scioperi, e invece ha parlato tanto del sindaco di Firenze. Che incontrerà nella sua città in un convegno tempestivamente organizzato dalla Fiom locale.Tra Camusso e Landini si è quindi aperta la gara a chi si presenti più innovativo e corrisponda di più al messaggio delle primarie del Pd. La grande informazione ha subito colto il segnale e si prepara a misurare i dirigenti della Cgil in termini di maggiore o minore affinità con il renzismo. Peccato che le due principali figure della Cgil si siano messe d’accordo di fare il congresso sulla stessa posizione, come se nel Pd non si fossero svolte le primarie e ci fosse stata una intesa preventiva di vertice sulla composizione dei gruppi dirigenti. In mancanza di un confronto trasparente sulla guida del principale sindacato italiano, la contesa andrà avanti a convegni e controconvegni, indici di gradimento, battute di corridoio. Naturalmente si potrebbe anche pensare che alla Cgil e ai suoi rappresentati converrebbe oggi allontanarsi dal Pd, principale partito dei governi che praticano quelle politiche di austerità che stanno devastando il mondo del lavoro.Converrebbe anche alla democrazia una Cgil che non lasciasse la protesta sociale ai forconi e che con i lavoratori, i disoccupati, i precari, i pensionati, provasse a bloccare il paese. Invece di rinunciare preventivamente ad uno sciopero generale che da tempo immemore non convoca più. Ma questo sarebbe accusato di essere il sindacato vecchio, vecchio come quello che, nel pieno della rivolta reazionaria di massa a Reggio Calabria, portava i metalmeccanici a sfilare nella città e così a cambiare il segno politico di quella protesta. Ma quello era il sindacato degli anni ‘70, quello che credeva nella funzione degli scioperi generali. Vuoi mettere quel vecchio modello sindacale con le infinite possibilità di cambiamento della realtà che oggi offrono la partecipazione a Ballarò o a Servizio Pubblico? Solo una minoranza di sognatori contrasta questo modo di fare sindacato in Cgil, e ha chiamato questa sua posizione: “Il sindacato è un’altra cosa”. Ma cosa volete che importi, c’è Renzi.(Giorgio Cremaschi, “Camusso e Landini alla corte di Renzi”, da “Micromega” dell’11 dicembre 2013).In un convegno organizzato dalla Fiom a Bologna Susanna Camusso ha affermato che lo sciopero generale non basta più. Siccome è difficile credere che con ciò la segretaria della Cgil volesse annunciare il passaggio a forme di lotta rivoluzionarie, è probabile che sia giusta la interpretazione che ne ha voluto dare la stampa: basta con lo sciopero generale. Ma quanti scioperi generali ha fatto la Cgil in questi ultimi anni? L’ultimo che tutti i lavoratori ricordano con rabbia è quello di tre ore per non fermare la riforma Fornero delle pensioni. Uno sciopero finto, fatto per circostanza e con la chiarissima intenzione di non procurare difficoltà al governo Monti appena insediato. Nessuno sentirà la mancanza di lotte come questa, fatte solo per far guadagnare spazietti nei telegiornali, lotte che i lavoratori hanno imparato a disertare. Gli ultimi scioperi di quattro ore di Cgil, Cisl e Uil, sparpagliati in giornate e territori diversi, sono stati semiclandestini. È fallito anche lo sciopero proclamato dalla Fiom in Emilia la scorsa settimana: poche centinaia di persone in piazza a Bologna.
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Chi è davvero Matteo Renzi: quello che Firenze insegna
Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».Nella vulgata renziana, continua Pardi in un intervento ripreso da “Micromega”, la sua candidatura a sindaco «passa come atto di coraggio: ingigantisce la difficoltà di sfidare una nomenclatura cittadina esausta per sopravvalutare il successo della sua parte di nomenclatura». Sulle sue gesta da sindaco è istruttiva la lettura di Tomaso Montanari, “Le pietre e il popolo” (Minimum Fax, 2013). «Voleva rivestire il San Lorenzo con una facciata posticcia; e bucare la Battaglia di Marciano per trovarvi sotto un improbabile Leonardo. La logica pubblicitaria domina: piazza della Signoria affittata per le nozze di un ricchissimo sultano, il Ponte Vecchio concesso alla festa della Ferrari. Ma questo è colore». La sostanza, continua Pardi, è l’assenza di una qualsiasi logica di governo del territorio. «Firenze è presentata come città a sviluppo edilizio zero, ma ci si dimentica di dire che il piano strutturale acquisisce come dato di partenza tutte le procedure insediative avviate in precedenza: una massa enorme di spazi è già impegnata».Secondo Pardi, anche il delicatissimo sottosuolo di Firenze è minacciato. «Si può sperare che i numerosi parcheggi sotterranei nel centro storico restino allo stadio di minaccia. Ma il sottopasso dell’alta velocità è un danno certo. Gli abitanti della striscia di città interessata stanno già preparando le cause civili. Qui il coraggio del sindaco tace». Eppure, la “tecnica del trampolino” sembra proprio funzionare: «Chi ha scelto il mestiere più bello del mondo dovrebbe portarlo a termine e sottoporsi al giudizio dei cittadini per il secondo mandato. Renzi invece vuole bruciare le tappe e prima di finirlo vuole già cominciare un altro lavoro che gli appare ancora più bello». Per fare cosa? «Basta sentirlo parlare. Presenta il responso delle primarie come il momento definitivo in cui comincia l’avvenire. L’egotismo forse supera perfino quello di Berlusconi».Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».
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Renzi, il Pieraccioni della politica che rottamerà l’Italia
Non è semplice capire come nasca Matteo Renzi, ora alla guida del Pd: di certo è «il punto terminale di un tragitto costellato di vicende delle quali sono stati protagonisti, comprimari o comparse vari personaggi, figure e figuri, ora semplicemente inetti, ora più o meno squallidi, talvolta peggio». Per Angelo d’Orsi, quella dell’8 dicembre 2013 resterà una data storica, destinata ad avere riflessi decisivi sulla scena nazionale. Con Renzi si sarebbe infatti ultimata «la mutazione genetica del “partito della classe operaia”», quello che ha guidato l’opposizione al fascismo prima e la Resistenza al nazifascismo dopo, il partito «che più di ogni altro ha contribuito alla identità della Repubblica a cominciare dalla stesura della sua Carta costituzionale». Il Pci, difensore dei ceti subalterni e grande argine contro le derive autoritarie, da quelle della Dc all’autismo terrorista delle Br. A finire per sempre, con Renzi, sono i resti di un partito che ha saputo forgiare «una onesta classe dirigente democratica».Ora la “mutazione antropologica” è arrivata alla meta. Nel 2000, Vetroni proclamava: «Non siamo più a metà del guado, la nostra traversata è compiuta. Gramsci non ci appartiene più: siamo arrivati a Rosselli». Ride amaro, d’Orsi, su “Micromega”: «Al di là dell’ignoranza del poveretto (nel ‘37, quando morirono entrambi, variamente uccisi dal fascismo, Rosselli era, in certo senso, persino più a sinistra di Gramsci!), non c’è dubbio che Gramsci non appartenga più ai suoi pretesi eredi: e per fortuna! Del partito di Gramsci (e di Bordiga, non dimentichiamolo!), di Togliatti, di Berlinguer, nel Pd che oggi viene consegnato, a furor di popolo, all’oscuro Matteo Renzi, non rimane alcunché. La “trasformazione” è compiuta». Ora, ovviamente, si provvederà alla “rottamazione”, «in nome di inquietanti e ambigue parole d’ordine che richiamano il giovanilismo fascistoide, ma anche il “novitismo” dei forzitalioti, e di tutti i loro sodali politici, e dei loro tristi ideologi che per decenni hanno cantato le lodi del cambiamento: oggi, ricordiamolo, la destra è per il cambiamento».È una destra all’attacco, sottolinea d’Orsi. «Con vesti diverse, ma la sostanza è la stessa: cancellare il Welfare State, rimovendo ogni ostacolo sul cammino che conduce a tanto nobile obiettivo: e la Costituzione è l’ostacolo n. 1». Dopo la svolta «nefasta» della Bolognina guidata «dall’improvvido nocchiero Achille Occhetto» con il «grottesco abbraccio con i resti della Dc e le frattaglie residue del Psi», per d’Orsi la creazione del Pd è stata «l’esito di un processo di metamorfosi il cui risultato estremo, dopo gli ulteriori guasti compiuti da D’Alema, Fassino, Veltroni (soprattutto), Bersani e l’imbarazzante, ultima gestione di Epifani, è il Pieraccioni della politica, il berluschino Renzi». Il rottamatore: «Che vincesse era scontato, che stravincesse no». Nel suo trionfo hanno giocato «le miserie della classe politica, specie quella nuova del Pd» e i tumultuosi cambiamenti della politica, sempre all’insegna della “modernizzazione”.Quelli di Renzi è «populismo di tipo modernizzatore, a differenza di quello volgare di un Grillo (ma la sostanza non cambia)». Il sindaco di Firenze è il megafono della Confindustria su tutte le questioni chiave: economia, scuola, diritti del lavoro, welfare, immigrazione, sistema elettorale (maggioritario). «In realtà Renzi di programmi non ne ha: parla molto per non dire nulla, ma quel nulla lo dice bene, in modo che piaccia al suo popolo, ma non dispiaccia ai ceti dominanti e alle loro agenzie di comunicazione», continua d’Orsi. «Il suo è “lo smalto sul nulla”, per citare un verso di Gottfried Benn». Alla sinistra che non l’ha votato, resta una misera consolazione: la consapevolezza che solo dalla catastrofe si può sperare di risorgere.Non è semplice capire come nasca Matteo Renzi, ora alla guida del Pd: di certo è «il punto terminale di un tragitto costellato di vicende delle quali sono stati protagonisti, comprimari o comparse vari personaggi, figure e figuri, ora semplicemente inetti, ora più o meno squallidi, talvolta peggio». Per Angelo d’Orsi, quella dell’8 dicembre 2013 resterà una data storica, destinata ad avere riflessi decisivi sulla scena nazionale. Con Renzi si sarebbe infatti ultimata «la mutazione genetica del “partito della classe operaia”», quello che ha guidato l’opposizione al fascismo prima e la Resistenza al nazifascismo dopo, il partito «che più di ogni altro ha contribuito alla identità della Repubblica a cominciare dalla stesura della sua Carta costituzionale». Il Pci, difensore dei ceti subalterni e grande argine contro le derive autoritarie, da quelle della Dc all’autismo terrorista delle Br. A finire per sempre, con Renzi, sono i resti di un partito che ha saputo forgiare «una onesta classe dirigente democratica».
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Benetazzo: scordiamoci l’Italia, sta per essere cancellata
Scordatevi questa Italia: sarà cancellata. Finito nella tagliola dell’euro che priva lo Stato della capacità di finanziarsi a costo zero, il governo di turno è “costretto” a super-tassare famiglie e aziende. E non potendo più far ricorso alla banca centrale per controllare il debito, ricorre alla svendita dei gioielli di famiglia: Sace, Enav, Fincantieri, Grandi Stazioni e per finire anche l’Eni. Enrico Letta si appresta a svendere per battere cassa, nella speranza di racimolare almeno 10 miliardi? «Ormai ci siamo: a farla grande, si tratta di aspettare ancora 18 mesi». Dopodiché, secondo Eugenio Benetazzo, «il destino di contribuenti, pensionati e risparmiatori italiani sarà presto delineato». E stavolta «non ci saranno mezze misure», perché «il declino del paese si trasformerà nella dipartita della nazione». Chi spera nell’avvento del “Regno di Renzi” si illude: anche il sindaco di Firenze pensa a una colossale dismissione del patrimonio pubblico. Eseguendo, alla lettera, il famoso diktat della Bce che detronizzò Berlusconi a fine 2011, aprendo la strada al governo Napolitano-Monti.La svendita del paese, ricorda Benetazzo sul suo blog, è una ingloriosa esclusiva del centrosinistra: prima Amato, poi D’Alema e quindi Prodi. «Si vende l’argenteria, per pagare i debiti contratti per giocare alle slot machine». Ormai ci siamo: senza un Piano-B, si salvi chi può. «Non ci saranno scialuppe per tutti, molti faranno la fine di tante povere pecore: scannati vivi». E non serviranno a nulla «il pianto in diretta presso il talk show di turno, l’appello di qualche autorità rinsavita o le esternazioni prosaiche formulate dagli ambienti cattolici». Non si scappa: la strada è segnata da quella maledetta lettera firmata da Draghi e Trichet, col pretesto di «mettere il paese in sicurezza economica e finanziaria», dopo l’esplosione dello spread gonfiato dallo stesso super-potere finanziario con l’obiettivo di mettere in crisi l’Italia per poi sbranarla comodamente, a prezzi di saldo, con la complicità del personale politico nazionale. Le chiamano “riforme strutturali”: quanto accadrà nei prossimi mesi non è altro che l’applicazione di quella lettera. «Andatevela a rileggere e studiare, nei minimi dettagli», scrive Benetazzo. Era tutto scritto: dopo aver messo mano a pensioni e risparmi, sarà “obbligatorio” intervenire su quei gangli vitali che finora nessuno ha avuto il coraggio di modificare.Quelli della lettera? Potranno sembrare «capisaldi di buon senso, necessari per sgravare il peso della attuale fiscalità diffusa», almeno per provare a rimettere in moto «un paese che tra otto anni sarà scalzato dal Messico e dal Brasile». Chi non ha “visto” subito il pericolo – lo smantellamento del sistema-Italia – tenterà una retromarcia per salvarsi. Ma ormai sarà troppo tardi anche per i «diversamente rinsaviti». Quelli che pagheranno il conto più amaro, continua Benetazzo, saranno proprio quei soggetti che hanno vissuto per decenni «dentro una cupola intoccabile», cioè i dipendenti pubblici e parastatali: «Finalmente capiranno che cosa significa, semanticamente, il termine di “equità sociale” quando calerà la scure del Memorandum of Undestanding affiancato dalle Omt, Outright Monetary Transactions». Sarà la fine del paesaggio socio-economico al quale siamo abituati da sempre. Se qualcuno dei tagli farà piazza pulita di alcune storture, il risultato sarà devastante: terra bruciata, là dove c’era la comunità nazionale italiana.Succederà a colpi di imposizioni europee, quando non avremo più risorse a cui attingere: aumento della concorrenza nei servizi pubblici (fine delle baronie e dei feudi di famiglia, ma probabilmente tariffe più care) e nuova fiscalità, per rendere le imprese italiane più competitive (fine dell’Irap e diminuzione dell’Ire). Poi: “razionalizzazione” dell’assistenza sanitaria, ovvero «assicurazioni private ove non sussista più l’intervento generico dello stato sociale», con tanti saluti al welfare sanitario universale. Il mercato del lavoro? Più “dinamico ed efficiente”. Traduzione: «Libertà di licenziamento senza obblighi di reintegro». In agenda anche la “liberalizzazione dei servizi professionali”, quindi la fine degli ordini professionali, e la “riforma della contrattazione sindacale”, cioè il ridimensionamento del potere contrattuale di sindacati ormai rassegnati a negoziare solo la perdita dei diritti del lavoro. Altro capitolo, il “miglioramento dell’efficienza amministrativa”, ovvero: «Inserimento di indicatori di performance per i dipendenti pubblici per la valutazione del loro operato». E naturalmente, “snellimento dei centri di responsabilità”. Leggasi: abolizione del Senato e delle Province, e accorpamento dei Comuni, cioè gli ultimi centri istituzionali ancora controllabili dai cittadini mediante l’istituto delle elezioni. A volte la democrazia ha funzionato? Niente paura: laddove rischia di ostacolare il business, verrà semplicemente rimossa.Scordatevi questa Italia: sarà cancellata. Finito nella tagliola dell’euro che priva lo Stato della capacità di finanziarsi a costo zero, il governo di turno è “costretto” a super-tassare famiglie e aziende. E non potendo più far ricorso alla banca centrale per controllare il debito, ricorre alla svendita dei gioielli di famiglia: Sace, Enav, Fincantieri, Grandi Stazioni e per finire anche l’Eni. Enrico Letta si appresta a svendere per battere cassa, nella speranza di racimolare almeno 10 miliardi? «Ormai ci siamo: a farla grande, si tratta di aspettare ancora 18 mesi». Dopodiché, secondo Eugenio Benetazzo, «il destino di contribuenti, pensionati e risparmiatori italiani sarà presto delineato». E stavolta «non ci saranno mezze misure», perché «il declino del paese si trasformerà nella dipartita della nazione». Chi spera nell’avvento del “Regno di Renzi” si illude: anche il sindaco di Firenze pensa a una colossale dismissione del patrimonio pubblico. Eseguendo, alla lettera, il famoso diktat della Bce che detronizzò Berlusconi a fine 2011, aprendo la strada al governo Napolitano-Monti.
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Cuperlo e Renzi, pokeristi del bluff: non cambierà nulla
Sul tavolo verde delle primarie Pd due gambler stanno giocando la loro partita all’insegna del bluff, inteso come finzione (“to bluff”, ingannare), sotto gli occhi di un terzo giocatore smarrito e di un pubblico che va assottigliandosi, sempre meno disponibile a lasciarsi affascinare dalle manovre dei prestigiatori politici. Difatti il protrarsi nel tempo di questo confronto sta smascherando le tattiche furbesche in campo. Gli ultimi giorni sono stati decisivi al riguardo: giovedì scorso (“Servizio Pubblico”) per portare alla luce lo stile del pokerista Gianni Cuperlo, venerdì (“Agorà”) quello di Matteo Renzi. “Pompierista” il primo, “Benaltrista” l’altro. Due fumisterie diverse, accomunate dall’obiettivo di catturare consensi attraverso posizionamenti verbali di esclusiva valenza simbolica. Il deputato triestino vuole assicurarsi il voto dell’elettorato tradizionale sopravvissuto alle innumerevoli mutazioni del vecchio Pc, il sindaco fiorentino promuove campagne di conquista nei territori della destra, della protesta e del non voto.Il primo pensa che per vincere bisogna tenersi stretto in bocca il vecchio osso, l’altro lo dà per acquisito e si preoccupa di incettarne altri. Fin qui niente di male, ovvio. Ma quali sono i retropensieri (azzardati) che stanno venendo alla luce? Il pompierismo di Cuperlo, dietro rituali riferimenti a tutto il politicamente corretto di sinistra (priorità del lavoro, politiche distributive, programmazione per lo sviluppo, ecc.), funziona (se funzionerà) da foglia di fico per consentire l’ennesima operazione camaleontica alla nomenklatura e all’apparato burocratico superstiti; quanti hanno svenduto quello stesso patrimonio in cambio della propria perpetuazione. Operazione da promuovere sotto le coltri di quelle larghe intese all’insegna della stabilità immobile assicurate dal governo Napolitano-Letta, a cui una segreteria Cuperlo risulterebbe altamente funzionale. Difatti, interrogato sull’attuale compagine governativa e sul suo personal sponsor Massimo D’Alema, l’aspirante segretario preferisce tessere le lodi degli ipotetici successi riformistici (?) di chi ha concorso a preservare il berlusconismo come asse portante della Seconda Repubblica, assicurando a lungo l’impunità “inciucesca” al suo copyrighter, a scapito della salute morale e materiale del paese.Il benaltrismo di Renzi funziona come sciorinatura di un’agenda dei problemi roventi ad alta condivisione, spostando sempre più in là l’indicazione del nodo da sciogliere. Lo si è visto quando su Rai 3 si è avventurato sul terreno insidioso della riforma della giustizia, la cui enunciazione raccoglie consensi trasversali mentre qualsivoglia soluzione non può che dividere: separazione delle carriere? Ben altro! Amnistia? Ben altro! Bossi-Fini? Ben altro! Depenalizzazione delle droghe leggere? Ben altro! E così via, trasformando la politica in un supermercato di preliminari, in cui tutti possono trovare esposto il contenitore del problema che più gli sta a cuore (anche se poi l’imballaggio si rivela vuoto). In cui il “fare” ripetuto fino allo sfinimento diventa un messaggio subliminale, a jingle per indurre sensazioni artificiali di attivismo. Un po’ come il “partiam, partiamo” o l’arditismo mussoliniano dell’“armiamoci e partite”.Dunque una tecnica propagandistica imbonitoria che agli occhi dei veri sponsor renziani (la parte di nomenklatura che vuole tornare a puntare sul veltronismo del “partito a vocazione maggioritaria”, liquidando le stabilizzazioni napolitano-lettiane) sembra in grado di contrastare e terminare l’ennesimo ritorno sul terreno elettorale del campione ventennale di pokerismo Silvio Berlusconi. Insomma, pompierismo e benaltrismo come ennesimi azzardi per tenere sotto controllo la democrazia dei cittadini. Quanto sembra avere ben chiaro il terzo incomodo della partita – lo smarrito Pippo Civati – a cui non manca acume e franchezza. Semmai difetta di quel quid (spina dorsale? Fegato?) per tradurre buoni propositi in azione politica. Visto che siamo in pieno revival kennediano, valga il commento di Bob: «Il coraggio morale è ancora più prezioso del coraggio in battaglia o di una grande intelligenza. È la dote indispensabile di chi voglia cambiare un mondo che accetta così faticosamente il cambiamento». Purtroppo siamo assai lontani dallo spirito di qualsivoglia “Nuova Frontiera”. Come ne darà puntuale conferma il flop annunciato di partecipazione a queste primarie da casinò.(Pierfranco Pellizzetti, “Cuperlo e Renzi, pokeristi del bluff”, da “Micromega” del 24 novembre 2013).Sul tavolo verde delle primarie Pd due gambler stanno giocando la loro partita all’insegna del bluff, inteso come finzione (“to bluff”, ingannare), sotto gli occhi di un terzo giocatore smarrito e di un pubblico che va assottigliandosi, sempre meno disponibile a lasciarsi affascinare dalle manovre dei prestigiatori politici. Difatti il protrarsi nel tempo di questo confronto sta smascherando le tattiche furbesche in campo. Gli ultimi giorni sono stati decisivi al riguardo: giovedì scorso (“Servizio Pubblico”) per portare alla luce lo stile del pokerista Gianni Cuperlo, venerdì (“Agorà”) quello di Matteo Renzi. “Pompierista” il primo, “Benaltrista” l’altro. Due fumisterie diverse, accomunate dall’obiettivo di catturare consensi attraverso posizionamenti verbali di esclusiva valenza simbolica. Il deputato triestino vuole assicurarsi il voto dell’elettorato tradizionale sopravvissuto alle innumerevoli mutazioni del vecchio Pc, il sindaco fiorentino promuove campagne di conquista nei territori della destra, della protesta e del non voto.
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Baricco, Lou Reed e Matteo Renzi, l’ambidestro farlocco
«All’Italia serve una leadership risonante», dice Andrea Guerra, ad di Luxottica. Nella domenica in cui scompare Lou Reed, uno degli ultimi artisti pop capaci di raccontare la dannazione del mondo con occhi non ancora drogati dalla televisione, sui media impazza la gloriosa epifania di Matteo Renzi nella sua Emmaus, la mitica Leopolda. Alla fine, scrive Jacopo Jaoboni sulla “Stampa”, tra le frasi evocative resta quella di una studentessa della Scuola Holden, Andrea Marcolongo: «Siamo cresciuti a pane e sciatteria». L’altra, «la migliore», è del fondatore della Holden, il romanziere Baricco: «Il futuro è un ritorno». Citazione di Friedrich Holderlin, il poeta amato da Martin Heidegger, quello della poesia come forma del pensiero: «Io non faccio che tornare a casa, tornare a casa da vent’anni». Un altro pensatore, Marcello Veneziani, definisce il sindaco fiorentino «l’ambidestro per tutte le stagioni», e sintetizza: «In una notte buia e tempestosa, Berlusconi e Veltroni s’accoppiarono nel sonno e dalla loro unione nacque Matteo Renzi».Nessun rapporto carnale fu in realtà consumato, precisa Veneziani nel suo blog sul “Giornale”: si trattò piuttosto d’impollinazione involontaria e fecondazione a distanza, col telecomando. «Infatti il piccolo Matteo ebbe per culla la tv, che è poi il punto in comune tra i suoi genitori. Dal suo papà, Matteo prese la piacioneria spiritosa, il vincismo e l’egocentrismo, il fiuto del target e l’amore per i sondaggi; prese il dire, non il fare. Dalla sua mamma, Matteo prese il guscio, cioè la casa materna, detta la Sinistra, e ne condivise i cibi, le usanze, i parenti, l’arredo, il gergo». Ma, attenzione: «Non disse mai una cosa progressista che non fosse seguita da una cosa moderata». Da ambidestro, «è contro l’amnistia ed è per il reato di clandestinità. È governativo fuori e antigovernativo dentro, graffia i poteri forti ma poi si fa lisciare, compiace la sinistra attaccando il padre putativo d’Arcore, compiace la destra perché disubbidisce al nonno putativo del Colle».Altra aria, ovviamente, dalle parti di Baricco: ridicolo, dice, accusare Renzi di essere senza cultura – come se la politica media ne avesse. Ma cosa dice lo scrittore di così sorprendente alla Leopolda? Semplice, si risponde Jacoboni: mentre in sala vedi saltare un mucchio di improbabili sul carro del vincitore («i Franceschini, i Latorre, i Passigli, i tanti bersaniani trasmigrati, le vibrazioni negative di un modo d’essere che ha distrutto la sinistra in Italia»), Baricco avverte: il carro, semplicemente, non c’è. Non perché – come pure qualcuno capisce, il vero vincitore del momento è l’asse Letta-Napolitano, non Renzi – ma semmai perché «il giocattolo per Matteo è a portata di mano, ma proprio in questo momento la gente ha le pile scariche. E non è che io incontri solo fighette intellettuali, sto sempre in mezzo ai ragazzi, li ascolto. La gente non ha energia». Ecco il problema: l’energia. Ora la strettoia in cui s’è incuneato Renzi è più larga di un anno fa, ma è l’Italia che s’è ristretta. Tutti finto-renziani: «Gli danno il partito, non l’Italia. E l’Italia sta lì, moscia o esasperata».«Le pile sono scariche», dice l’autore di “Novecento”. E spiega: «Noi volevamo ridare contenuti a questa passione, che è l’essere di sinistra, ma per far questo dicevamo di abbandonare fiabe, leggende e miti che la sinistra si è raccontata per anni». Fiabe e miti come la giustizia sociale, l’eguaglianza, il welfare e i diritti del lavoro, la difesa delle comunità dagli artigli della globalizzazione predatoria? Ma dov’è stato, Baricco, in tutto questo tempo, in cui – mentre il vecchio mondo stava crollando – la sua maggiore preoccupazione sembrava quella di metterci in guardia dalla paura superstiziosa del futuro? Sfortunatamente, il peggiore futuro si sta avverando. Meno male che ci salverà il rivoluzionario Matteo Renzi. «Il suo sogno americano è Obama Fallaci, un mix», scrive Veneziani. «È bipolare in tutti i sensi». Boy scout a doppio taglio, «versione frivola e trendy dei Dc più una zaffata grillina», Renzi è leader in pectore grazie a tre requisiti: l’anagrafe, i sondaggi e le comparsate in tv dove è un magnifico venditore di se stesso. «Un curriculum adatto per promuovere un ipermercato, non per affidargli le sorti dell’Italia. Ma, pur di fermare Berlebù la sinistra è pronta a sposarne l’imitazione farlocca».«All’Italia serve una leadership risonante», dice Andrea Guerra, ad di Luxottica. Nella domenica in cui scompare Lou Reed, uno degli ultimi artisti pop capaci di raccontare la dannazione del mondo con occhi non ancora drogati dalla televisione, sui media impazza la gloriosa epifania di Matteo Renzi nella sua Emmaus, la mitica Leopolda. Alla fine, scrive Jacopo Jaoboni sulla “Stampa”, tra le frasi evocative resta quella di una studentessa della Scuola Holden, Andrea Marcolongo: «Siamo cresciuti a pane e sciatteria». L’altra, «la migliore», è del fondatore della Holden, il romanziere Baricco: «Il futuro è un ritorno». Citazione di Friedrich Holderlin, il poeta amato da Martin Heidegger, quello della poesia come forma del pensiero: «Io non faccio che tornare a casa, tornare a casa da vent’anni». Un altro pensatore, Marcello Veneziani, definisce il sindaco fiorentino «l’ambidestro per tutte le stagioni», e sintetizza: «In una notte buia e tempestosa, Berlusconi e Veltroni s’accoppiarono nel sonno e dalla loro unione nacque Matteo Renzi».
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Giorno: Napolitano riceva sindaci e parlamentari No-Tav
«Odio le cattive massime più delle cattive azioni» (Jean-Jacques Rousseau). Giorgio Napolitano ha scritto al direttore de “La Stampa” Mario Calabresi perché Massimo Numa ha ricevuto una pacchetto anonimo con all’interno un guscio di hard disk con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità diretta o indiretta («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene il movimento NoTav all’origine della spedizione (ha addirittura pubblicato ampi stralci di due mail di solidarietà provenienti da attiviste). Dunque l’accostamento è come minimo prematuro, arbitrario o – più subdolamente – strumentale, in un periodo in cui sembra che sia necessario come mai prima distogliere l’attenzione da “altre” indagini di magistratura, che hanno fatto emergere collegamenti diretti e inequivocabili di una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone con alte cariche istituzionali, esponenti di primo piano dei partiti, “grand commis” dello Stato che dalle poltrone di comando di imprese pubbliche graziosamente trasformate in SpA usano i beni e i denari comuni come fossero propri.Il presidente della Repubblica, trascinato letteralmente nel suo secondo settennato da una faida senza precedenti del suo partito che stava “suicidando” uno dopo l’altro tutti i candidati a succedergli, richiama i cittadini della valle di Susa che si ostinano a non accettare il colpo definitivo alla residua abitabilità della loro terra «al superamento di ogni tolleranza e ambiguità nei confronti di violenze di stampo ormai terroristico». Molti dei cittadini cui è stato rivolto il suo vibrante monito hanno l’età che aveva lui quando aderì alla Gioventù Universitaria Fascista, ma sono tra i più giovani e attivi iscritti alle locali sezioni dell’Anpi. Altri hanno l’età di quando lui – nel 1957, come ha ammesso di recente in una apprezzabile autocritica scritta a due mani con un altro grande vecchio che si atteggia a papa laico – Eugenio Scalfari – plaudeva all’ingresso in Budapest dei carri armati sovietici, i cui cingoli grondavano del sangue di coloro che avevano osato sperare che nel paradiso stalinista potesse essere garantito il diritto all’autogoverno democratico del paese.Ma la maggior parte di coloro che hanno dato vita – un quarto di secolo fa – a un «profilo di pacifico dissenso e movimento di opinione» appartiene a fasce di età che arrivano fino a quella dello stesso presidente, e qualcuno di loro non si limita ad avere la tessera dell’associazione dei partigiani, ma ha partecipato in prima persona alla lotta di Liberazione. Averli avuti e averli tuttora accanto ci da un conforto che nessuna “scomunica” può appannare. Chi tra loro ha ancora recentemente parlato ai più giovani della loro esperienza di Resistenza lo ha fatto in modo autorevole, equilibrato, responsabile: lo ha ricordato anche Erri De Luca ieri sera a Susa in uno dei suoi passaggi più applauditi: c’è un abisso tra l’oppressione di un popolo da parte di un regime dittatoriale ed esterno e il tentativo di imporre (anche attraverso l’uso della forza) un uso del territorio che chi vi risiede non vuole dover subire.Ma ci sono anche delle analogie che autorizzano a richiamarsi a quel diritto-dovere di opporsi a decisioni che possono anche scaturire da percorsi di democrazia formale ma che hanno violato la democrazia sostanziale. Decisioni che comportano (qui come a Taranto, oggi, o nel Vajont ieri) il venir meno di quel principio di precauzione che dovrebbe presiedere a qualunque scelta progettuale, prima ancora di una analisi costi-benefici che però – come sappiamo – è negativa persino circa la desiderabilità di quest’opera per l’intera comunità nazionale (senza contare le perplessità riscontrate in ambito europeo verso un intero programma di grandi opere che sembrano avvantaggiare soltanto il circuito finanziario, che vi individua redditività e garanzie che solo un uso scellerato del denaro pubblico può assicurare ad istituzioni peraltro privatizzate in modo assai discutibile).Annotiamo infine che – stando a quanto scrive “La Stampa” – il presidente Napolitano avrebbe un filo diretto con l’architetto Mario Virano, che in val di Susa ha svolto (su nomina di un gruppo d’impresa coinvolto nella realizzazione e gestione di grandi opere infrastrutturali) l’ad dell’autostrada del Fréjus prima di diventare, per nomina governativa, presidente dell’Osservatorio che doveva stabilire l’utilità dell’opera, e poi commissario per la sua realizzazione. Si tratta di un personaggio certamente informato, ma non per questo in grado di fornire una descrizione obiettiva delle dinamiche in atto, non fosse altro perché la deriva da lui stesso denunciata certifica il fallimento del suo ruolo.Ne discenderebbe il diritto per i cittadini e il dovere per il Capo dello Stato di ascoltare almeno anche le nostre ragioni e “il nostro racconto” della situazione, direttamente o attraverso i nostri sindaci democraticamente eletti. Ma visto che lo stesso presidente oggi in carica si è più volte rifiutato di farlo (e quando non c’erano neanche le avvisaglie di un possibile inasprimento del confronto e quindi nessun “alibi”) potrebbe almeno “sforzarsi” di ricevere i parlamentari eletti nel nostro collegio, che sono motivatamente contrari all’opera. In fin dei conti, dovrebbe essere garante della loro agibilità politica almeno al pari di quella di chi rappresenta le forze di governo.(Claudio Giorno, “Immodesto e non deferente giudizio su un Presidente e le sue iniziative”, 7 ottobre 2013. Ambientalista valsusino già candidato al Parlamento, Giorno è un esponente del movimento No-Tav).«Odio le cattive massime più delle cattive azioni» (Jean-Jacques Rousseau). Giorgio Napolitano ha scritto al direttore de “La Stampa” Mario Calabresi perché Massimo Numa ha ricevuto una pacchetto anonimo con all’interno un guscio di hard disk con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità diretta o indiretta («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene il movimento NoTav all’origine della spedizione (ha addirittura pubblicato ampi stralci di due mail di solidarietà provenienti da attiviste). Dunque l’accostamento è come minimo prematuro, arbitrario o – più subdolamente – strumentale, in un periodo in cui sembra che sia necessario come mai prima distogliere l’attenzione da “altre” indagini di magistratura, che hanno fatto emergere collegamenti diretti e inequivocabili di una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone
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No-Tav, Giunti: e se Napolitano ascoltasse i valsusini?
Montaigne ci ha insegnato a distinguere tra gli uomini politici e le cariche che temporaneamente ricoprono. E’ quindi con il massimo rispetto per la Presidenza della Repubblica italiana che la lettera spedita ieri al direttore de “La Stampa” merita qualche riflessione, amara ma deferente. Giorgio Napolitano ha scritto perché Massimo Numa ha ricevuto una busta anonima con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene i NoTav autori della spedizione. Dunque l’accostamento è come minimo prematuro o arbitrario. Altri poteri dello Stato, come la magistratura e la Corte dei Conti, hanno investigato sulle imprese e sui bilanci che ruotano attorno al sistema Av italiano. Alcune sentenze hanno stabilito responsabilità rilevanti, tutte a carico di funzionari e politici, privati e pubblici. E’ giusto attendere gli esiti di inchieste appena iniziate, come a Firenze, ma le notizie disponibili descrivono una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone.
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Larghe intese e larghi affari, a cominciare dal magico Tav
Si fingono avversari in televisione, ma dietro le quinte sono amici. Anzi: soci. Negli ambienti giudiziari la chiamano «larga intesa degli affari». Destra e sinistra: «Tutti insieme appassionatamente, in un gioco abilissimo e sotterraneo di nomi e prestanome», rivela Lirio Abbate in un reportage su “L’Espresso”. Professionisti e tecnici, segretari di partito e ministri, capi-corrente, deputati e senatori. «I pupari e le marionette. Per muovere affari di milioni, velocizzare pratiche di appalti pubblici, approvare decreti per favorire imprese amiche, cambiare componenti di commissioni di vigilanza e authority». Di fatto, questo significa «svuotare le istituzioni e piegare le regole democratiche in uno spoil system che genera un sistema viziato», che diventa «un magma rovente che fonde gli appetiti meno nobili, una suburra in cui tutti si scambiano favori e dialogano per concretizzare interessi senza badare a casacche e stemmi di partito», a cominciare dalla madre di tutti i subappalti, la famigerata Tav.