Archivio del Tag ‘follia’
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Venite a visitare il mare di gioia che non riuscite a vedere
E’ difficile raccontare il mare senza mai staccarsi da terra. Può succedere solo se il mare ce l’hai dentro di te, senza neppure saperlo: e allora i prati in fiore diventano fondali rigogliosi, i cieli scogliere ventose, i rami degli alberi trame intricate di corallo. E’ un mare di stagioni, quello dipinto dai ragazzi che dipingono sulla riva del grande fiume, proprio là dove il fiume si rassegna a salutare gli argini erbosi e ad entrare nella prigione di cemento della città. La città è Torino e la riva dei pittori coraggiosi, poeti del mare, si chiama Moncalieri: i ragazzi arrivano puntuali ogni mattina, si fanno compagnia, pranzano insieme. E poi, si mettono in ascolto: fanno silenzio, e lasciano scrosciare tutto il mare che hanno dentro. E’ un mare segreto, incontaminato. E loro lo dipingono, sfiorando un viaggio che i comuni mortali, semplificando, a volte chiamano con un nome misterioso: felicità.
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Via banchieri e cialtroni, riprendiamoci il nostro denaro
Perché l’Eurozona è in crisi? Come si può uscire da questa situazione? Ci sono alternative alle teorie dominanti che ci hanno trascinati in questa voragine? Sì, eccome. Lo hanno spiegato, al meeting di Rimini promosso da Paolo Barnard e totalmente auto-finanziato dai partecipanti, i super-economisti “eretici” che la soluzione giusta l’hanno già confezionata, con grande successo, per la spettacolare rinascita dell’Argentina. Una sola strada: archiviare l’euro e tornare a una moneta sovrana creata per i cittadini e non contro di loro. Piccolo problema: l’attuale classe dirigente, italiana ed europea. Da spazzare via al più presto, con nuove elezioni capaci di selezionare idee utili e democratiche, per un futuro di speranza. Passaggio intermedio: diventare «il peggior incubo dei banchieri», per dirla con il professor William Black, uno degli economisti neo-keynesiani che hanno accettato la scommessa di Barnard.
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Moneta sovrana o falliremo, in 2000 a Rimini con Barnard
Erano oltre duemila da tutta Italia a seguire il summit di tre giorni sulla crisi economica e su un modo alternativo per uscirne, in cui cinque studiosi di fama mondiale hanno catturato l’attenzione del palasport di Rimini, pieno zeppo come per un concerto rock. E proprio come un concerto c’era un biglietto, 40 euro per tre giorni (vitto e alloggio esclusi) e un servizio d’ordine. Erano per lo più ragazzi. Del resto, se temi come lo spread e la recessione occupano le aperture di tutti i telegiornali, difficile stupirsi per una partecipazione così massiccia, in cui questi economisti controcorrente hanno ricevuto ovazioni da star.
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Più rigore, più crisi: l’Europa firma il suicidio di massa
Non c’è un altro modo di descriverlo. Una volta che abbiamo strappato il velo del gergo tecnico dei burocrati europei, il fiscal compact della Ue non rappresenta altro che una disperata accettazione del declino terminale. L’austerità si farà ora carico della forza della legge. Dimenticate la democrazia, come Angela Merkel ha inflessibilmente annunciato, sarà la Corte Europea di Giustizia ora a determinare le politiche economiche, e «non potrai più cambiarle attraverso una maggioranza parlamentare». L’Europa del sud sta per essere dilaniata dai programmi di austerità. Semplicemente non ci sono prospettive realistiche di ripresa se nel frattempo si prosegue con le politiche dei tagli.
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Salvare il pianeta? Prima, salviamo il genere umano
È più facile rimettere in discussione i nostri sistemi di consumo piuttosto che quelli di produzione? Se nessuno più ignora l’ampiezza della crisi ambientale che l’umanità sta affrontando, la crisi di civiltà a cui questa si accompagna rimane poco conosciuta. Non si può tuttavia uscire dall’impotenza se non la si diagnostica e non se ne misura l’effettiva gravità. Il pianeta Terra, modo di dire per designare il nostro habitat naturale, peggiora a vista d’occhio, ne siamo largamente consapevoli e non c’è formazione politica che non includa, almeno nei suoi discorsi, la causa ecologica. Il pianeta Uomo, modo di dire per designare il genere umano, peggiora in maniera altrettanto allarmante, ma non si è consapevoli del livello di gravità raggiunto e non c’è formazione politica in grado non foss’altro di attribuire alla causa antropologica un’importanza pari a quella ecologica.
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Schiavi dei nostri strozzini: subiremo altre 100 manovre
Mi stupisce la disperazione e lo stracciamento di vesti che si accompagna a questa manovra. “Lacrime e sangue”, viene definita. Ma quando mai? Si tratta di una manovra soft, una robetta da nulla, una cosina irrilevante. A lamentarsi a voce più alta sono spesso gli stessi che finora hanno ripetuto la lezioncina “i debiti si pagano!”, col severo tono moralista. Ebbene, sappiano questi signori che si tratta di una manovra da 20 miliardi in tre anni. Il nostro debito pubblico è pari a 1900 miliardi, e il conto è presto fatto: affinché “i debiti si paghino” occorrono altre 95 manovre come questa. E non si possono distribuire nel corso del prossimo secolo, vorranno mica che i nostri creditori aspettino così tanto: i debiti si pagano e in fretta, altrimenti sai che brutta figura.
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Referendum, Grecia-choc: l’Europa teme la democrazia
Pochi giorni fa le borse festeggiavano, euforiche, la notizia che il governo italiano assumeva ufficialmente l’impegno di realizzare le richieste della Bce e dell’Unione Europea: licenziamenti facili, tagli al bilancio statale, vendite di beni e servizi pubblici, attacco alle pensioni, sconvolgimento della Costituzione, distruzione del principio della divisione dei poteri. Annunciare una tremenda limitazione della democrazia determina immediatamente un’impennata degli indici di borsa: ed è logico, perché meno democrazia significa meno opposizione alle barbare esigenze della finanza internazionale. Oggi invece le borse crollano miseramente perché la Grecia ha annunciato un referendum sui piani di salvataggio
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Andraous: il popolo della galera e la giustizia ingiusta
Quante volte abbiamo scritto su quel perimetro deliberatamente dimenticato qual è il carcere, infinite volte ai silenzi assordanti sono seguiti sofismi e editti che sono rimasti lettera morta. Grosse fette della Società, delle Istituzioni, dei Governi, hanno speso parole e intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di morti sopravvenute e di utopie tutte a venire: nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane così profondamente deliranti. Senza più una professione di fede, neppure quella della strada.
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Battiato: scandali e menzogne, avanti così e lascio l’Italia
Franco Battiato si dichiara pronto a lasciare l’Italia, disgustato dai “rincoglioniti” in Parlamento, quelli al governo e quelli che fingono di fare opposizione. Lo afferma in un’intervista al “Fatto Quotidiano”, sull’onda del successo dell’ultimo singolo, “Inneres auge”, che Marco Travaglio definisce «una splendida invettiva che si avventa sugli scandali berlusconiani e sulla metà d’Italia che vi assiste indifferente e imbelle», scritta con parole definitive: “Uno dice: che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello Stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?”.
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Maoz: non c’è perdono, la guerra ci trasforma in assassini
In una situazione tra la vita e la morte, in cui la seconda è tangibile quanto la prima, non si può avere un codice etico. In guerra ogni morale sparisce. Se fai questioni morali, i tuoi soldati muoiono. Le persone normali non uccidono, ma la guerra crea una formula perché questo possa accadere. E’ facile: metti un soldato in una situazione di pericolo di vita e lui inizierà ad ammazzare, perché l’istinto di sopravvivenza è più forte di tutto. Al mondo ci sono buoni e cattivi, in guerra ci sono solo cattivi. Ma tutti sono vittime.
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Folle e irridente, l’incredibile Dylan natalizio
Ci crediate o meno, “Christmas in the heart”, l’annunciato disco natalizio di Bob Dylan (e già la notizia aveva creato un certo stupore) è proprio un disco di Natale, a tutti gli effetti. Inizia con un sentore di slitte e campanellini e un annuncio inequivocabile: “Here comes Santa Claus”. E succede davvero: un Dylan quasi disneyano, con coretti anni cinquanta e chitarrine country. Se non ci fosse la sua voce potrebbe essere un disco di Ray Conniff o di un gruppo di avvinazzati cowboy da balera.