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Vergogna Europa, critica Putin ma non tutela Snowden
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».In Ucraina, «l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia», scrive la Spinelli in un intervento su “Repubblica”, ripreso da “Micromega”. «Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe». Così, non sapendo parlare con Mosca, gli europei «lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos, inasprendolo: è Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est». L’Europa «sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita, quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario».Depoliticizzata, l’Europa «subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano», che vorrebbe fare di Kiev il nuovo scudo orientale della Nato, «nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità». Si pensa ad un’Ucraina «occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia». Ha ragione Mosca, che «chiede che il paese diventi una federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti». Strano, aggiunge Barbara Spinelli, che a domandarlo «non sia l’Europa, con le sue esperienze». Ma è questa Europa, assolutamente passiva nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). «Una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici».Anche Barbara Spinelli condivide l’allarme da più parti segnalato: «Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti». Salute a rischio: «I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost». E sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sulle emissioni di anidride carbonica. «Una controffensiva Ue contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa». Il piatto è magro: solo un aumento dello 0,5% del Pil, a pieno regime (nel 2027) secondo l’istito “Prometeia”, mentre l’istituto austriaco “Öfse” (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione del mercato del lavoro imposta dal Trattato Transatlantico.Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. «Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe». Tutto questo, in nome della “semplificazione burocratica”: «Parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa». Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè «parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci e molto altro ancora». Eppure, per l’Europa va bene così. D’altronde, questa è l’Europa della battaglia «indolente e infruttuosa» contro i piani di sorveglianza della Nsa disvelati da Edward Snowden nel 2013.Un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici: «Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza». I governi dell’Unione? «Hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente». In un messaggio al Parlamento Europeo, stesso Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati: totalmente impotenti di fronte al Datagate. «La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica», osserva Spinelli. «L’esistenza di smascheratori di misfatti – non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione – potenzia la democrazia». Proprio per questo, è paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso – il “soffiatore di fischietto” – abbia trovato riparo «non in un’Europa che promette nella sua Carta la “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, ma nella Russia di Putin».Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».
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Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».
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Stato e mafia: vent’anni senza verità per Ilaria Alpi
Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione umanitaria italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».Sebri dice di esser stato contattato in Italia da due personaggi-chiave della vicenda, il cui ruolo non è mai stato completamente chiarito: l’allora colonnello del Sismi Luca Rajola Pescarini e il trasportatore Giancarlo Marocchino. Oggi, scrive Palladino, il racconto di Sebri va oltre, arrivando ad ipotizzare un ruolo attivo della mafia nel doppio omicidio, maturato nel caos della Somalia sconvolta da tre anni di guerra civile dopo la caduta del dittatore Siad Barre, con la missione Unosom allo sbando e i caschi blu italiani ormai reimbarcati sulla nave Garibaldi. Ilaria e Miran caddero sotto i colpi di un commando composto da 7 persone. «Questa – sottolinea Palladino – è l’unica verità a distanza di vent’anni». Tutto il resto è «un’immensa nebulosa di depistaggi, di testimoni che spariscono, fuggiti o morti per overdose». Per le informazioni che aveva raccolto, Ilaria Alpi «era in grado di creare problemi enormi all’interno di governi e gruppi bancari», dice Sebri, che in tribunale sostenne che i servizi segreti gli avevano detto che quella giornalista era stata “sistemata”. Sebri venne querelato e infine prosciolto. Per Palladino, a pesare è «il silenzio dello Stato».La prima clamorosa contraddizione nasce proprio da un rapporto del Sismi: l’agente Alfredo Tedesco scrive che Ilaria Alpi è stata minacciata di morte a Bosaso il 16 marzo, e che l’attentato è stato pianificato con cura e poi eseguito da un commando ben addestrato. «Queste parole», scrive Palladino, «in buona parte spariranno», perché «una penna – ancora anonima – cancellò e modificò» i passaggi-chiave: scompaiono le minacce e quindi le tracce del movente. Il 24 marzo, lo stesso Tedesco accusa i militari dell’Onu: «Appare evidente la volontà dell’Unosom di minimizzare sulle reali cause». Ma l’agguato, dopo l’intervento della “mano anonima” che da Roma altera le carte, cambia natura: «L’Unosom sta orientando le indagini sulla tesi della tentata rapina». Ed ecco pronta la tesi di comodo, quella dell’incontro “sfortunato” con semplici banditi di strada. Ed è solo l’inizio: per quattro anni, le indagini non approderanno a nulla.Confusa anche la vicenda dell’unico ipotetico testimone rintracciato, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che racconta di esser stato presente sul luogo dell’agguato e dice di riconosce uno dei componenti del gruppo di fuoco, Hashi Omar Assan, detto Faudo, tradotto in Italia e arrestato dalla Digos subito dopo la sua deposizione davanti alla commissione parlamentare. Gelle, il testimone-chiave, tre mesi dopo l’interrogatorio sparisce: non deporrà mai davanti ai giudici. Nel 2002 arriva la condanna per Hashi, ancora oggi in carcere scontando la pena di 26 anni di reclusione. Ma accade qualcosa di imprevisto: un giornalista somalo di “Rai International”, Mohamed Sabrie Aden, riceve una telefonata proprio da Gelle – o da qualcuno che si spaccia per il testimone – e dice: «Ho inventato tutto, d’accordo con le autorità italiane». Interrogarlo di nuovo, rileva Palladino, sarebbe la prova del più clamoroso depistaggio. E soprattutto potrebbe portare a quelle “autorità” che hanno sempre avuto l’interesse a non far uscire la verità sull’agguato di Mogadiscio. «Eppure Gelle non si trova, spiegano gli uomini della Digos. Sanno che sta in Inghilterra, conoscono il suo nuovo nome, Abdi Ali Rage, il nome della moglie, il suo numero del sistema sanitario britannico, l’indirizzo dell’ufficio dove va a ritirare il sussidio ogni quindici giorni. Niente da fare, è una vera primula rossa per il governo italiano».L’elenco dei nodi irrisolti è infinito, come lo strano movimento di navi a Bosaso, proprio nei giorni del viaggio di Ilaria e Miran. Tra queste il peschereccio della compagnia italo-somala Shifco, sequestrato dai pirati della Migiurtina. Nel 2003, l’Onu indicherà la Shifco come una compagnia coinvolta nel traffico d’armi, ma la relazione verrà mai presa in considerazione dalla commissione d’inchiesta guidata da Carlo Taormina, che alla fine abbraccerà la tesi Unosom, l’omicidio casuale. Oggi, dopo una denuncia pubblica di “Greenpeace” e una petizione di “Articolo 21” per desecretare tutti i documenti, sul caso irrompono le dichiarazioni che Piero Sebri affida al libro di Palladino. «Ilaria Alpi era già stata minacciata e lei non se ne andava, anzi insisteva. E a mano a mano che andava avanti acquisiva sempre maggiori informazioni. A questo punto il lavoro del trafficante è di segnalare a chi di dovere, al politico, ai servizi: “Attenzione, che qua vanno a monte alcuni affari”. C’era solo una soluzione: eliminarla immediatamente».Secondo Sebri, nell’organizzazione di un traffico internazionale, la mafia è prima di tutto la garanzia assoluta dell’affidabilità di un’operazione delicata. «Se io sono in Somalia, e la giornalista non se ne va, io informo i politici, informo chi di dovere, magari gli stessi servizi. Anzi, magari sono proprio loro che m’informano, dicendo che c’è un problema. Mi dicono: attenzione, noi giriamo la faccia dall’altra parte… E adesso basta – mi dicono – questa persona va eliminata. A quel punto la questione è: a chi la faccio eliminare? Io, la elimino? Ma neanche per sogno. La faccio eliminare da un somalo? Può anche essere, ma devo avere la certezza assoluta che Ilaria Alpi e Hrovatin siano eliminati. Non si può sbagliare. Se fossero stati in quattro, dovevano essere eliminati in quattro, se erano in dieci ne ammazzavano dieci, non gliene fregava nulla».Da parte della mafia, dunque, una sorta di supervisione in un territorio ostile. «Se il somalo incaricato dell’omicidio – per ipotesi – sbaglia, ci deve essere una persona della mafia presente in quel posto. E chi è questo tipo di persona presente in quel momento a Mogadiscio? Qual è l’unica persona che ha dei debiti, ha delle cambiali personali nei confronti dell’organizzazione che stava agendo in quei mesi? Un’organizzazione di trafficanti, che a sua volta è in debito con i referenti politici italiani, che coprivano quei traffici». Il terreno, avverte Palladino, a questo punto diventa minato. Sebri pronuncia senza timore i nomi: personaggi che furono analizzati solo superficialmente dalla commissione parlamentare e mai interrogati dalla magistratura. Eppure, «secondo alcuni documenti attendibili, si trovavano nell’area di Bosaso nei giorni cruciali che hanno preceduto la morte di Ilaria Alpi. E – secondo alcune testimonianze – furono gli ultimi ad incontrare la giornalista del Tg3, poco prima dell’agguato, nella hall di un hotel».«Il nome che Sebri pronuncia – scrive Palladino – è quello di Giuseppe Cammisa, detto Jupiter, braccio destro di Francesco Cardella, per anni ambasciatore del Nicaragua in Arabia Saudita, con un passato burrascoso a capo della comunità terapeutica Saman, morto d’infarto il 6 agosto del 2011». Cammisa, originario di Mazara del Vallo, nella comunità Saman fondata da Cardella e Mauro Rostagno era entrato come tossicodipendente, per sottoporsi a un programma di recupero. Dopo l’omicidio di Rostagno – avvenuto il 26 settembre 1988 – divenne il braccio destro di Cardella, che prese in mano l’amministrazione di Saman. Il collaboratore di giustizia Rosario Spatola, imprenditore edile legato a Cosa Nostra già inquisito da Giovanni Falcone, alla Procura di Trapani descrisse Cammisa come «un buon conoscitore del procedimento di raffinazione dell’eroina», che per suo conto aveva pedinato anche un maresciallo dei carabinieri. Accusati di aver organizzato l’uccisione di Rostagno, Cardella e Cammisa vennero poi prosciolti: secondo la Dda di Palermo, Rostagno sarebbe stato ucciso da una cosca di Trapani, città utilizzata da Cosa Nostra come piattaforma logistica per i traffici illeciti con il Nord Africa.«Del possibile coinvolgimento di alcuni esponenti della Saman nei traffici illeciti non parla solo la Digos», scrive Palladino. «Tra gli atti acquisiti dalla commissione Alpi c’è un documento del Sismi – desecretato nel 2006 – che ipotizza il coinvolgimento della comunità terapeutica guidata da Cardella in rotte riservate verso la Somalia». L’ammiraglio Gianfranco Battelli, allora direttore dell’intelligence militare, nel 2000 scriveva che Cardella era proprietario di una motonave che nel 1994 aveva raggiunto la Somalia «con un carico di cibo e medicinali», dopo aver effettuato a Malta una strana riparazione che il Sismi definisce “riservata”. Sempre il servizio segreto militare smentisce l’esistenza della missione umanitaria che Saman dichiara di aver attrezzato a Las Korey, a cento chilometri da Bosaso. Su quella missione di aiuti – aggiunge Palladino – nulla risulta neppure dalla documentazione sulla cooperazione italiana in Somalia acquisita dalla commissione Alpi.Bosaso è una città cresciuta grazie alla cooperazione governativa italiana. Il porto e la principale strada di collegamento – la Bosaso-Garowe – nonché i pozzi per l’acqua potabile sono infrastrutture realizzate negli anni ‘80, all’epoca del governo di Siad Barre, dalle principali imprese italiane specializzate in infrastrutture. «Colossi come la Techint, la Lodigiani, la Federici, la Montedil e la Lofemon hanno lavorato per anni in questa zona strategica del Corno d’Africa». Dietro all’ufficialità della cooperazione, si domanda Palladino, si potrebbe nascondere «un intreccio micidiale tra traffico di armi e di rifiuti, che avrebbe utilizzato il porto della capitale della Migiurtinia come luogo riservato per affari segreti»? Per la Direzione investigativa antimafia di Genova, la provincia di Bosaso «è la zona interessata allo scambio di armi e di scaricamento di rifiuti nucleari e industriali». Un’area che già nel 1993 «era off-limits per i giornalisti, soprattutto italiani».Piero Sebri associa la presenza di Cammisa in Somalia nel marzo del 1994 con la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Secondo Palladino, risulta che il braccio destro di Cardella si trovasse nella zona di Bosaso proprio in quei giorni: un documento a lui intestato comprova che la comunità Saman importò dagli Emirati Arabi una Mitsubishi che sarebbe stata trasferita nel Corno d’Africa entro il 12 marzo 1994, cioè una settimana prima dell’agguato. «Ma c’è di più. Sempre negli archivi della Saman c’è un fax inviato da Gibuti – paese confinante con il Nord della Somalia – diretto a Francesco Cardella». Nel fax, firmato da un certo Omar e da Jupiter (il soprannome di Cammisa) si dice i due sarebbero partiti l’indomani, 16 marzo, «per Bosaso e oltre». Riassumendo: «L’8 marzo il braccio destro di Cardella importa negli Eau un’automobile, che trasporta – come? – in Somalia il 12 marzo. Il 15 marzo è a Gibuti, pronto per viaggiare il giorno dopo verso Bosaso “e oltre”. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano intanto giunti a Bosaso, per l’ultimo reportage, per quel “caso particolare” che non riuscirono poi a raccontare».Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».
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Nato, Quirinale e carabinieri: quei dossier restano segreti
Squilli di trombe, rulli di tamburo: Renzi cancella il segreto di Stato sulle stragi. Era ora! Solo che si tratta di chiacchiere. Perché già da una ventina d’anni il segreto di Stato non è opponibile alla magistratura che procede per reati di strage o eversione dell’ordine democratico. Di conseguenza, la magistratura, sia direttamente che tramite agenti di polizia giudiziaria e periti, ha abbondantemente esaminato gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, acquisendo valanghe di documenti che sono finiti nei fascicoli processuali. Anche le commissioni parlamentari che si sono succedute, sul caso Moro, sulle stragi, sul caso Mitrokhin, hanno acquisito molta documentazione in merito (anche se poi è finita negli scatoloni di deposito e non in archivi pubblici). Una larghissima parte della documentazione finita nei fascicoli processuali e nelle commissioni di inchiesta è stata resa consultabile dalla “Casa della Memoria di Brescia”, dove chiunque può accedere, e dalla Regione Toscana. Strano che Renzi non lo sappia.Già a suo tempo, la documentazione acquisita dai magistrati è stata consultata da giornalisti che l’hanno avuta dagli avvocati delle parti ed è finita in migliaia di articoli. Diversi consulenti parlamentari e giudiziari (a cominciare dal più importante, Giuseppe De Lutiis, a finire al sottoscritto) hanno successivamente utilizzato abbondantemente quella documentazione per i loro libri. Per cui, siamo alla “quinta spremitura” di queste olive: ci esce solo la morga, robaccia. Viceversa, restano ancora da risolvere i problemi degli archivi inarrivabili e per i quali occorrerebbe far qualcosa per renderli accessibili: quello della Presidenza della Repubblica, che ha sempre rifiutato ogni accesso, per quanto minimo, alla magistratura in nome dell’immunità presidenziale; quello dell’Arma dei carabinieri (alludiamo all’archivio informativo, non a quello amministrativo) che non si capisce dove stia; quelli delle segreterie di sicurezza dei vari enti e dei relativi uffici Uspa che sono protetti dal segreto Nato.Per cui, se Renzi vuol davvero fare qualcosa di nuovo sulla strada della fine dei segreti della Repubblica, può invitare il Capo dello Stato a valutare l’opportunità di rendere accessibile il proprio archivio oltre le carte del Protocollo attualmente visibili; può chiedere all’Arma dei carabinieri un rapporto ufficiale sulla sistemazione dei propri archivi informativi; può porre in sede Nato la questione del superamento del segreto dopo un congruo periodo di segretazione (per esempio, poco dopo la “Rivoluzione dei Garofani” in Portogallo, la Nato avocò a sé tutto il materiale della e sulla Aginter Presse: possiamo vederlo?). Ma soprattutto, se il presidente del Consiglio vuol fare sul serio, è bene che si ricordi che il suo ente è in ritardo di anni su precisi impegni presi.Nel 2007, per far digerire quell’orrore di legge di “riforma” sui servizi, venne inserito un complicato sistema che avrebbe dovuto assicurare la decadenza automatica della classifica di segretezza dopo un certo periodo; premessa necessaria per poter inviare i documenti agli archivi di Stato (non solo quelli sulle stragi, ma tutti). Però occorreva prima fare i regolamenti attuativi: stiamo ancora aspettando questi regolamenti, dopo sette anni. Poi il governo Monti promise che entro il 2012 avrebbe comunicato l’elenco dei vari archivi esistenti con le diverse sedi dei depositi (cosa che non è stato mai possibile avere). E stiamo aspettando ancora anche questo elenco. Se la sente Renzi di fare sul serio o è solo fumo elettorale?(Aldo Giannuli, “Segreto di Stato: Renzi vende solo fumo, ecco perché”, dal blog di Giannuli del 22 aprile 2014).Squilli di trombe, rulli di tamburo: Renzi cancella il segreto di Stato sulle stragi. Era ora! Solo che si tratta di chiacchiere. Perché già da una ventina d’anni il segreto di Stato non è opponibile alla magistratura che procede per reati di strage o eversione dell’ordine democratico. Di conseguenza, la magistratura, sia direttamente che tramite agenti di polizia giudiziaria e periti, ha abbondantemente esaminato gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, acquisendo valanghe di documenti che sono finiti nei fascicoli processuali. Anche le commissioni parlamentari che si sono succedute, sul caso Moro, sulle stragi, sul caso Mitrokhin, hanno acquisito molta documentazione in merito (anche se poi è finita negli scatoloni di deposito e non in archivi pubblici). Una larghissima parte della documentazione finita nei fascicoli processuali e nelle commissioni di inchiesta è stata resa consultabile dalla “Casa della Memoria di Brescia”, dove chiunque può accedere, e dalla Regione Toscana. Strano che Renzi non lo sappia.
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Ai vertici dell’Ue una banda di criminali: processateli
Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.A sua volta, aggiunge Luciano Gallino in un intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. «Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità, ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte Penale dell’Aja». Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone, dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, fino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un terzo documento, infine, che accusa i vertici Ue di gravi forme d’illegalità, è stato pubblicato a fine 2013 dal centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del Lavoro di Vienna.Documenti che «giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari», benché rinverditi da clamorose denunce come quella della rivista medica “Lancet” «circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in Grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni Ue». In pratica, «chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose», e «la quota di bambini a rischio povertà supera il 30%». In Grecia sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi, mentre i suicidi sono aumentati del 45% e chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione Hiv rilevati sono ormai centinaia. Attenzione: «L’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia», avverte Gallino.Il sistema sanitario nazionale italiano è alle corde: «Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati». Inoltre, le prestazioni sono sempre più costose, al punto che molti rinviano le analisi o «rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli». Paradossale: «Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket». Senza contare che «molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte».La Grecia è vicina, ammonisce il rapporto di “Lancet”: «Se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto perfino il Fmi». In altre parole, riassume Gallino, non soltanto i vertici Ue hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una «scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette», ma queste sciagurate politiche «si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate». Nel 2008, diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma nel caso della crisi europea non si tratta più di attori privati (banchieri-pirati), bensì dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della Ue, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi.I vertici dell’Ue «hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi», e hanno scelto di «favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni». Di fatto, «hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte». Soprattutto, «hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche». Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici Ue, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’Onu e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Domanda: «È mai possibile che non siano chiamati a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?».Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.
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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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L’ipocrita Bono, falsa coscienza umanitaria dell’élite
La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.E proprio della star degli U2 e di Africa parla il libro del giornalista irlandese Harry Browne, “The Frontman”. Un volume smaccatamente che proviene dalla sinistra militante, pubblicato in Italia dalle edizioni no global Alegre e in Inghilterra dalla Verso, celebre per pamphlet di cultura alternativa e di critica al sistema. Il libro soffre dunque di eccesso di moralismo quando fa le pulci a Bono per i suoi soldi e la sua rete di banchieri, industriali e leader politici con legami con il Fmi e la Banca Mondiale, come Paul Wolfowitz. Ma il libro è audace nella critica all’umanitarismo di quello che Oprah Winfrey ha definito “il re della speranza in carica”. «Ovunque due o tre siano riuniti nel nome della ricchezza e del potere, là c’è anche Bono, a garantire per la loro bontà. Bono non si limita a riempire di belle parole posti come i meeting di Davos: lancia progetti, illustra piani d’azione, promuove cause. Tanto lavoro per l’eminenza planetaria della filantropia, per questo è certo di meritarsi il titolo».Alcuni giorni fa anche il “Daily Mail”, giornale di segno ideologico opposto a quello di Browne, ha massacrato Bono con un lungo articolo che ha messo insieme tutte le incoerenze del cantante e, soprattutto, tutte le sue sconfinate ricchezze: un patrimonio immobiliare da sceicco, un parco macchine da emiro, un tenore di vita da faraone e un’attrazione fatale per la grande finanza e per la Borsa, grazie al coinvolgimento di noti “squali” che gli permetteranno, se tutto andrà per il verso giusto, di raddoppiare in dieci anni il patrimonio personale, che lo stesso “Daily Mail” quantifica oggi in un miliardo di sterline. «Da quasi tre decenni, e soprattutto nel nuovo secolo, Bono ha quasi sempre fatto da megafono ai discorsi dell’élite, difeso soluzioni inefficaci, parlato dei poveri in modo paternalistico e leccato i culi dei ricchi e dei potenti».Browne non fa mistero di detestare la rock star: «Bono è ricco: indossa abiti firmati, vola su jet privati, guida cinque diverse automobili di lusso, adora i cibi e i vini più raffinati. Bono è famoso: è il leader del gruppo musicale più stabilmente popolare degli ultimi trent’anni, ha milioni di fan, è l’interprete di alcune delle canzoni più conosciute della nostra epoca. Indossa occhiali da sole che attirano l’attenzione su di lui anziché ripararlo dagli sguardi. Bono è potente: la sua opinione è ricercata, ascoltata e apprezzata ai più alti livelli governativi nazionali e internazionali». Browne è perfido con Bono, definito «ispirato cercatore di verità» e «ultrà dell’euro-postmodernismo», campione del «filantrocapitalismo» ed esponente del «potere taumaturgico dello sviluppo dell’Africa elaborato dalle élite occidentali». L’Africa di Bono e delle altre star come Bob Geldof, anziché essere un luogo reale, viene trasformato in «un progetto per la coscienza occidentale, una specie di vocazione».Secondo il giornalista irlandese, «i discorsi sulla grande benevolenza, sull’impegno e la compassione dell’Occidente, mentre sembrano con ogni apparenza occuparsi della vita di coloro che cercano di salvare e risollevare, in realtà collocano attivamente ‘i nostri ragazzi’ come le star dello spettacolo dello sviluppo, mentre chi è oggetto della benevolenza nazionale (e del nord del mondo) non è altro che lo sfondo di una storia che in realtà si occupa di ‘noi’, individui del Primo mondo». In altre parole, scrive Browne, la figura della celebrità umanitaria incarnata da Bono «funziona come fantasia di redenzione in cui gli abitanti del sud del mondo sono collocati retoricamente come lo sfondo su cui ‘i bravi ragazzi del Primo mondo’ possono mettere in risalto il senso di sé». Per usare le parole di Alex de Waal, «è il grande carnevale umanitario, la moda delle celebrità».(Giulio Meotti, “Un libro di sinistra contro Bono, «leccaculo di ricchi e potenti»”, da “Il Foglio” del 26 febbraio 2014. Il libro: Harry Browne, “The Frontman. Bono, nel nome del potere”, Edizioni Alegre, 283 pagine, 15 euro).La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.
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Computer lento? Il malware della Nsa ci sta spiando
A volte il pc risulta estremamente lento, poi ci accorgiamo che sta faccendo uno dei soliti aggiornamento-dati di routine. Tutto normale? In genere sì. Ma non sempre, o almeno non sempre per tutti. La Nsa, l’agenzia di intelligence degli Stati Uniti, utilizza su larga scala dei software dannosi, dei malware con cui effettua attività di monitoraggio. L’agenzia, le cui attività di sorveglianza sono regolarmente fonte di rivelazioni, ha sviluppato dei malware informatici che vengono utilizzati su larga scala e che permettono di “piratare” i dati di milioni di computer, come dicono gli ultimi documenti di Edward Snowden. Secondo i nuovi report presentati dall’ex consulente della Nsa e pubblicati mercoledì scorso sul sito della Intercept, rivista online dall’ex giornalista del “Guardian” Glenn Greenwald, la Nsa ha impiantato in milioni di computer dei malware che vengono utilizzati per rubare i dati provenienti dalle reti telefoniche e dalla rete Internet all’estero.Questo software, originariamente destinato solo a qualche centinaio di obiettivi che non potevano essere controllati con i normali mezzi convenzionali, è stato esteso «su scala industriale», secondo i documenti pubblicati da Greenwald. Il sistema di raccolta automatica dei dati – tramite un dispositivo chiamato “Turbina” – permette alla Nsa un minimo utilizzo dell’intelligenza umana. I dati raccolti vengono elaborati negli uffici centrali della Nsa, in Maryland (Stati Uniti orientali), ma anche nel Regno Unito e in Giappone. L’agenzia di controllo britannica, la Gchq, sembra aver svolto un ruolo molto importante in questa operazione. Il candidato scelto da Barack Obama per dirigere la Nsa, Michael Rogers, ha spiegato di volere «più trasparenza» nelle azioni dell’agenzia di informazioni americana.In certi casi, la Nsa usa Facebook come esca per infiltrare dei virus o dei cookies nei computer dei “bersagli” per rubare i file. Il software, che può essere installato in soli 8 secondi, può anche registrare le conversazioni dal microfono del pc o scattare foto con la webcam dello stesso computer. Questo software esiste dal 2004, ma sembra che venga utilizzato su larga scala dal 2010. Alla domanda di un giornalista di “Apf”, un funzionario della Nsa ha detto che queste operazioni sono state condotte «al solo scopo di contro-spionaggio o di spionaggio effettuato all’estero su affari nazionali o dipartimentali, e nient’altro». Questo è il primo documento pubblicato da Glenn Greenwald da quando lavora nel gruppo mediatico “First Look Media”, lanciato dal fondatore di eBay, Pierre Omidyar.(“Quel malware fastidioso che piace alla Nsa”, post editato da “20Min.Cr/Ro” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 14 marzo 2014).A volte il pc risulta estremamente lento, poi ci accorgiamo che sta faccendo uno dei soliti aggiornamento-dati di routine. Tutto normale? In genere sì. Ma non sempre, o almeno non sempre per tutti. La Nsa, l’agenzia di intelligence degli Stati Uniti, utilizza su larga scala dei software dannosi, dei malware con cui effettua attività di monitoraggio. L’agenzia, le cui attività di sorveglianza sono regolarmente fonte di rivelazioni, ha sviluppato dei malware informatici che vengono utilizzati su larga scala e che permettono di “piratare” i dati di milioni di computer, come dicono gli ultimi documenti di Edward Snowden. Secondo i nuovi report presentati dall’ex consulente della Nsa e pubblicati mercoledì scorso sul sito della Intercept, rivista online dall’ex giornalista del “Guardian” Glenn Greenwald, la Nsa ha impiantato in milioni di computer dei malware che vengono utilizzati per rubare i dati provenienti dalle reti telefoniche e dalla rete Internet all’estero.
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Col Ttip gli Usa ci arruolano nella guerra contro la Cina
Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.Lo scopo del trattato che Washington e Bruxelles stanno mettendo a punto, lontano dai riflettori e con “l’assistenza” di 600 super-lobbysti, è quello di creare la maggiore zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. L’area formata da Usa ed Europa rappresenta quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e un terzo del commercio mondiale. L’Ue è la principale economia del mondo, ricorda Ramonet in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: i suoi 500 milioni di abitanti dispongono in media, pro capite, di 25.000 euro di entrate all’anno. «Ciò significa che l’Ue è il maggior mercato mondiale e il principale importatore di manufatti e di servizi, dispone del maggiore volume di investimenti all’estero ed è il principale ricettore planetario di investimenti stranieri». L’Unione Europea è anche il primo investitore negli Usa, la seconda destinazione dell’esportazione statunitense e il maggior mercato per l’esportazione statunitense di servizi.La bilancia commerciale dei beni destina alla Ue un attivo di 76.300 milioni di euro; e quella dei servizi, un deficit di 3.400 milioni. Gli investimenti diretti dell’Ue negli Usa, viceversa, si aggirano sui 1.200 miliardi di euro. Washington e Bruxelles vorrebbero chiudere il trattato Ttip in meno di due anni, prima che scada il mandato del presidente Barack Obama. «Perché tanta fretta? Perché, per Washington, questo accordo ha un carattere geostrategico. Costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese», accompagnata da quella degli altri Brics, ovvero Brasile, Russia, India e Sudafrica. «Bisogna precisare che tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è più che quadruplicato: le sue esportazioni sono aumentate del 474% e le importazioni del 403%. Conseguenze? Gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership come prima potenza commerciale del mondo che ostentavano da un secolo». Prima della crisi finanziaria del 2008, gli Usa erano il socio commerciale più importante per 127 Stati del mondo; la Cina lo era solo per 70 paesi. Questo bilancio si è invertito: oggi, la Cina è il socio commerciale più importante per 124 Stati, mentre gli Usa solo per 76.«Pechino, al massimo in dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan, l’altra grande divisa dell’interscambio internazionale e minacciare la supremazia del dollaro», spiega Ramonet. «È anche sempre più chiaro che le esportazioni cinesi non sono solo più di bassa qualità a prezzi accessibili grazie alla sua manodopera conveniente. L’obiettivo di Pechino è alzare il livello tecnologico della sua produzione e dei suoi servizi per essere leader domani anche nei settori (informatica, finanza, aereonautica, telefonia, ecologia) che gli Usa e altre potenze tecnologiche occidentali pensavano di poter preservare». Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente per evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale, Washington desidera «blindare grandi zone di libero scambio dove i prodotti di Pechino avrebbero difficile accesso». Lo si sta facendo anche nel Pacifico, con un trattato gemello come la Tpp, Trans-Pacific Partnership.Tema cruciale, ma escluso dall’agenda-news dei grandi media: i cittadini “non devono sapere”, in modo che i tecnocrati di Bruxelles possano procedere indisturbati, cioè in modo opaco e non democratico, obbedendo ai “consigli” delle più grandi multinazionali del pianeta. Obiettivo finale: abbattere tutti i vincoli che oggi in Europa tutelano i consumatori, esponendo gli Stati al rischio di pesantissime penali – inflitte da tribunali speciali formati da legali d’affari – nel caso in cui le grandi compagnie accusassero i governi di “ostacolare il business” difendendo i lavoratori, l’ambiente, la salute pubblica, la sicurezza alimentare, la sopravvivenza di servizi non privatizzati. Pia Eberhardt, della Ong “Corporate Europe Observatory”, denuncia che i negoziati si sono tenuti senza alcuna trasparenza democratica: con la Commissione Europea solo impresari e lobby, esclusi tutti gli altri: giornalisti, ambientalisti, sindacati, organizzazioni per la difesa del consumatore. Un grande pericolo, denuncia Eberhardt, viene «dagli alimenti non sicuri importati dagli Usa, che potrebbero essere transgenici, o i polli disinfettati con cloro, procedimento proibito in Europa».Altri critici temono le conseguenze del Ttip in materia di educazione e conoscenza scientifica, inclusi i diritti intellettuali. In questo senso, la Francia, per proteggere il suo importante settore audiovisivo, ha già imposto una “eccezione culturale”, in modo che l’industria della cultura francese sia esclusa dal trattato. «Varie organizzazioni sindacali – continua Ramonet – avvertono che, senza dubbio, l’Accordo Transatlantico sprofonderà nei tagli sociali, nella riduzione dei salari, e distruggerà l’impiego in diversi settori industriali (elettronica, comunicazione, attrezzature dei trasporti, metallurgia, carta, servizi per le imprese) e agrari (pastorizia, agrocombustibili, zucchero)». Gli ecologisti europei spiegano inoltre che il Ttip, eliminando il principio di precauzione, potrebbe facilitare l’eliminazione di normative per la difesa dell’ambiente o di sicurezza alimentare e sanitaria.Alcune Ong ambientaliste temono che anche in Europa si incominci a introdurre il fracking, ossia l’uso di sostanze chimiche pericolose per le falde acquifere, per poter sfruttare il gas e il petrolio di scisto. Il maggior pericolo del Trattato Transatlantico resta il capitolo sulla “protezione degli investimenti”, che metterebbe fine alla residua sovranità degli Stati, costretti a piegarsi per non pagare sanzioni esorbitanti, inflitte per il “reato” di “limitazione dei profitti”. «Per il Ttip i cittadini non esistono», conclude l’analista di “Le Monde Diplomatique”: «Ci sono solo consumatori e questi appartengono alle imprese private che controllano i mercati. La sfida è immensa. La volontà civica di fermare il Ttip non deve essere da meno».Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.
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Appello alla Boldrini: fuori quel dossier su Ilaria Alpi
Un grazie alle oltre trentamila persone, molte delle quali lettrici e lettori di questo giornale, che, in un solo giorno, hanno firmato la petizione per reclamare verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le ragioni di questa iniziativa sono già state descritte, nel suo blog, dal direttore di “Articolo 21” Stefano Corradino. Tra qualche giorno, il prossimo 20 marzo, saranno passati 20 anni dal giorno della esecuzione di Ilaria e Miran. I due stavano portando a compimento una rigorosa inchiesta sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia e, stando alle ricostruzioni, si erano “pericolosamente” avvicinati alla cupola che gestiva gli affari e alle connessioni tra il ciclo dei rifiuti, la criminalità organizzata, e i protettori politici. Le indagini e la vicenda processuale hanno ripercorso il copione già visto in tanti altri processi simili: depistaggi, amnesie, segreti di stato, veline di regime.A combattere questa battaglia civile sono restati i familiari di Ilaria e di Miran, gli amici di sempre, le ragazze e i ragazzi del Premio Ilaria Alpi, giornalisti e legali coraggiosi che non hanno mai mollato la presa. Tra qualche giorno, in tutta Italia, ci saranno le iniziative per ricordare il 20 marzo di 20 anni fa, una delle più importanti si svolgerà alla Camera dei deputati, alla presenza di Laura Boldrini. Alla vigila di questa ricorrenza il legale della famiglia Alpi, Domenico D’Amati, che ha dedicato la vita a contrastare bavagli, censure, oscurità, ha rivolto un appello alle istituzioni affinché siano desecretati tutti gli atti relativi non solo a questo caso, ma anche al materiale acquisito dalla commissione parlamentare che ha indagato sul ciclo dei rifiuti tossici ed anche sui rapporti tra Italia e Somalia.Questo appello, raccolto da “Articolo 21”, é stato rilanciato dalla piattaforma “Change.org” e ha trovato l’adesione di migliaia di cittadine e di cittadini. La speranza è che, in occasione del ventennale, possa arrivare una risposta positiva che consenta alla Procura della Repubblica di Roma di acquisire documenti utili alla ricerca della verità e della giustizia. Non sappiamo se quelle carte contengano elementi dirompenti, ma abbiamo tutti il dovere di tentare il tentabile, di non fornire altri alibi ai depistatori, di provare ad illuminare quello che hanno voluto oscurare e cancellare. Per queste ragioni vi chiediamo non solo una firma, ma anche un aiuto a far conoscere e a condividere l’appello “Niente segreti sulla morte di Ilaria Alpi e sul traffico di armi e rifiuti”.I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Erano in Somalia per indagare su un traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici illegali. Ed è per questa ragione che sono stati assassinati. Ma a venti anni di distanza siamo ancora in attesa di conoscere tutta la verità su quella vicenda. Questa verità potrebbe essere contenuta nella pila di carta (ottomila documenti) che i servizi di sicurezza militare, l’ex Sismi, oggi Aise, hanno accumulato su fatti che attengono all’esecuzione dei due giornalisti. Carte messe sotto chiave negli archivi della Camera a cui sembra essere stato negato l’accesso dall’Agenzia Aise – come rivela un’inchiesta de “Il Manifesto” firmata dai giornalisti Andrea Palladino e Andrea Tornago – che pare «abbia negato l’autorizzazione a un ufficio di Montecitorio che chiedeva la declassificazione dei documenti riservati acquisiti dalla Commissione parlamentare sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella».«E’ fondamentale che queste carte siano rese pubbliche e che ai cittadini sia data la possibilità di sapere», ha affermato sul sito di “Articolo 21” Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi. «C’è molto da fare e speriamo che tutti gli organi dello Stato collaborino. In primo luogo la Camera dei deputati che deve desecretare questi documenti fondamentali sui traffici dei rifiuti tossici». Per questo, facciamo appello al Presidente della Camera Laura Boldrini, di cui conosciamo e apprezziamo la sensibilità umana e civile, affinché si possa consentire l’accesso ai dossier, per squarciare “il muro di gomma” dei poteri che hanno ostacolato la ricerca della verità.(Giuseppe Giulietti, “Niente segreti sulla morte di Ilaria Alpi e sul traffico di armi e rifiuti”, da “Micromega” del 13 marzo 2014).Un grazie alle oltre trentamila persone, molte delle quali lettrici e lettori di questo giornale, che, in un solo giorno, hanno firmato la petizione per reclamare verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le ragioni di questa iniziativa sono già state descritte, nel suo blog, dal direttore di “Articolo 21” Stefano Corradino. Tra qualche giorno, il prossimo 20 marzo, saranno passati 20 anni dal giorno della esecuzione di Ilaria e Miran. I due stavano portando a compimento una rigorosa inchiesta sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia e, stando alle ricostruzioni, si erano “pericolosamente” avvicinati alla cupola che gestiva gli affari e alle connessioni tra il ciclo dei rifiuti, la criminalità organizzata, e i protettori politici. Le indagini e la vicenda processuale hanno ripercorso il copione già visto in tanti altri processi simili: depistaggi, amnesie, segreti di Stato, veline di regime.
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Osservatori-farsa, la Russia si liberi degli euro-clown
Ho appena visto un altro pezzo di pura propaganda della Bbc che mostra alcuni osservatori dell’Osce (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) respinti da un checkpoint in Crimea, come risulta da certi filmati di repertorio dove si vede un giornalista che viene picchiato e si odono alcuni spari che, la Bbc dice, miravano alle gomme di un’auto. Cercherò di ignorare tutte le sciocchezze che racconta questo cosiddetto “giornalista”, che Alain Soral definirebbe “une pute”, ma voglio mettere a fuoco il punto centrale di questo evento: in Crimea sbagliano o hanno ragione se negano l’accesso agli “osservatori militari disarmati”? A parer mio, hanno assolutamente ragione. Ecco perché. La Russia ha già visto questi cosiddetti “osservatori” in Cecenia, in Bosnia, in Kosovo, in Ossezia del Sud ed è sempre la stessa identica storia: questi ragazzi sono “ciechi professionisti” e non vedranno mai nulla che potrebbe contraddire i fatti su cui si basa la versione ufficiale dei loro capi gerarchici.Per prima cosa, buona parte di loro sono agenti dei rispettivi servizi di intelligence militare (e, a stento, lo nascondono). Per questo hanno un modo di fare che dimostra una cultura militare. Riuscite a immaginare che un “osservatore” polacco o uno estone riuscirebbe a trovare qualcosa di buono in quello che fanno i militari russi? Certo che no. Ho incontrato questi ragazzi personalmente e posso attestare che non c’è nessuna possibilità. Ma c’è un’altra cosa, ancora più importante: l’Osce, come tutte le altre organizzazioni europee, è una organizzazione marcia fino al midollo, gestita da burocrati che vogliono solo fare carriera. Francamente, credo che la Russia farebbe bene a ritirarsi dall’Osce, dovrebbe chiudere gli uffici che ha in Russia e semplicemente ignorarla. E dico ancora di più, credo che la Russia dovrebbe ritirarsi da tutte le organizzazioni europee, tutte, non solo l’Osce.Che cosa ha fatto finora il Consiglio d’Europa per la Russia? E il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico: ha mai fatto qualcosa di buono per la Russia? Che hanno fatto il Consiglio di Cooperazione Euro-Atlantico, e la Cooperazione per la Pace e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo? C’è qualcuna di queste organizzazioni che ha mai fatto qualcosa di buono per la Russia? Certo che no! Queste organizzazioni europee hanno solo due scopi: per prima cosa, far sembrare che l’Europa sia veramente preoccupata e, seconda cosa, trovare dei buoni posti di lavoro ben pagati per un esercito di burocrati. La realtà, naturalmente, è che c’è una sola entità che conta in Europa: la Nato, la longa manu dell’ amministrazione coloniale degli Stati Uniti. Se i russi hanno veramente bisogno di parlare con il Boss, basta che facciano il numero della Casa Bianca o che parlino con l’ambasciatore Usa. Anche quando si tratta dei “cosiddetti affari europei”. Perché – come entità politica – l’Europa non esiste.E se qualcuno ha qualche dubbio su quello che dico, mi basta che risponda a una semplice domanda: quando mai una organizzazione europea ha mai alzato la voce per dire “no” allo Zio Sam? Okay, va bene, qualche volta l’ha fatto, ma solo su questioni banali e per qualche affare commerciale. Ma su una questione politica internazionale importante? Mai. Così tutto quello che fa la Russia, come membro di queste organizzazioni, è solo dare credibilità al mito che ci sia un’Europa indipendente là fuori, mentre non ce n’è proprio nessuna. La triste realtà è che l’Europa è la cagna dell’America, e farà tutto quello che dice lo Zio Sam e la bandiera dell’Ue potrebbe essere sostituita da con una in cui si vede sventolare un barboncino sottomesso. Quindi, se la Russia, o la Crimea, hanno deciso di far entrare in Crimea qualche “osservatore”, che è in realtà agli ordini dello Zio Sam, non farebbero prima e meglio a far entrare direttamente degli osservatori della 82° Airborne o degli agenti speciali della Cia, senza perdere tempo con questi euroclown che arrivano dall’Estonia o dalla Slovenia? Almeno gli americani sarebbero veri professionisti, non farebbero finta di essere soldati… La Ue non merita nessun rispetto e la Russia dovrebbe smetterla di comportarsi come fanno gli europei, quando è chiaro che non vorrebbero obbedire.(The Saker, “Perché la Russia dovrebbe ritirarsi da tutte le organizzazioni europee”, dal blog “Vineyard Saker”, ripreso da “Come Don Chisciotte” l’8 marzo 2014).Ho appena visto un altro pezzo di pura propaganda della Bbc che mostra alcuni osservatori dell’Osce (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) respinti da un checkpoint in Crimea, come risulta da certi filmati di repertorio dove si vede un giornalista che viene picchiato e si odono alcuni spari che, la Bbc dice, miravano alle gomme di un’auto. Cercherò di ignorare tutte le sciocchezze che racconta questo cosiddetto “giornalista”, che Alain Soral definirebbe “une pute”, ma voglio mettere a fuoco il punto centrale di questo evento: in Crimea sbagliano o hanno ragione se negano l’accesso agli “osservatori militari disarmati”? A parer mio, hanno assolutamente ragione. Ecco perché. La Russia ha già visto questi cosiddetti “osservatori” in Cecenia, in Bosnia, in Kosovo, in Ossezia del Sud ed è sempre la stessa identica storia: questi ragazzi sono “ciechi professionisti” e non vedranno mai nulla che potrebbe contraddire i fatti su cui si basa la versione ufficiale dei loro capi gerarchici.
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Il regno della Tv è finito, ora tocca al web dei giovani
Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.Gli italiani la considerano e la rispettano come un’istituzione, pur con la consapevolezza che si tratta della longa manus dell’establishment democristiano. Impaginata in un dignitoso bianco e nero, la tv costruisce l’identità nazionale a colpi di Tg monocratici, di sceneggiati e quiz a premi. Sono gli anni del boom economico e della Guerra Fredda, della Fiat e dell’Iri e la Rai, in quanto parte sostanziale del grande conglomerate parastatale, gode di immensi sostegni che le consentono di diventare la più grande industria nazionale della cultura. Siamo nell’era Bernabei e Agnes, i due instancabili alfieri di una cavalcata quasi trentennale. Il braccio tecnologico della Rai erige tralicci dovunque. La ricezione del segnale tende con fatica al 90% dell’aspro territorio italiano. C’è perfino una sezione nazionale dell’industria che costruisce Tv set e li alloca a rate nelle case. Tutti appaiono soddisfatti. La pubblicità è ridotta al mitico Carosello e la globalizzazione passiva non s’è ancora manifestata al suo peggio.Il matrimonio e la fedeltà tra il servizio pubblico e i suoi telespettatori cominciano ad incrinarsi verso la fine degli anni ‘70. In questo periodo la pressione della globalizzazione aumenta inverosimilmente. L’organizzazione dei consumi di massa ha bisogno della tv e certo Carosello non basta. I legislatori, ossequiosi delle richieste dell’industria internazionale e delle lobbies, non alzano vere barriere che impediscano la messa in discussione del monopolio. Del resto l’estetica e il gusto degli italiani, bramosi di costumi liberalizzati (costumi già sottoposti alle incursioni delle cosiddette radio libere che hanno fatto da apripista), esigono che ci sia un’alternativa alla limitata scelta dei tre canali offerti dalla Rai. Entra nella scena Silvio Berlusconi dopo aver prontamente sgominato i suoi competitors: Mondadori e Rusconi.L’imprenditore (che in realtà è un mercante di telespettatori) è sostenuto immediatamente dall’Upa – Utenti Pubblicitari Associati, un marchio che vede al suo interno un’agguerrita compagine di industrie multinazionali (travestite dalla loro sezione “Italy”), le quali pretendono e ottengono che nei palinsesti delle nuove tv, il 10-12% del tempo sia destinato ad ospitare filmati promozionali di merci e servizi. Il partito di Craxi prima e il suo governo poi, sostengono a loro volta. Il Pci non capisce, o fa finta di non capire che cosa sta succedendo, e si limita a una opposizione fiacca. La Dc appare molto divisa ma alla fine accetta di trasformare la Rai in quello che verrà definito il “sistema misto”: in parte servizio pubblico, in parte commerciale. A metà degli anni ‘80 la scena è profondamente mutata. Dall’idea di “qualità tv” si passa a tappe forzate all’idea di “quantità di audience”. Comincia con l’Auditel la “misurazione” e la conseguente compravendita di telespettatori inconsapevoli che vengono ridotti, anch’essi, a merce.Neanche il sindacato dei giornalisti Rai capisce un granché. Irrimediabilmente convinti che il consenso politico si costruisca solo con l’informazione, continuano per decenni una battaglia di retroguardia finalizzata a ridurre l’influenza dei partiti sulle nomine dei vertici Rai e dei Tg, senza rendersi conto che il consenso, e quello che a Madison Avenue chiamano puntualmente lo stile di vita, si organizza molto a colpi di film, miniserie e tanta, tanta pubblicità. L’infrastruttura tecnologica è ancora più o meno la stessa. La tv è analogica, diffusa da grandi antenne poste sui tralicci. Il passaggio, ormai digerito, da bianco e nero a colore, ha solo consolidato un parco utenti che esisteva. Debutta il videoregistratore, che modifica in modesta parte i consumi tv, ma in realtà il suo contributo alla storia della tv non è essenziale. Il suo vero contributo è quello di favorire il fenomeno della pirateria.La vera grande novità in questa fase è la frequentazione dei manager e di pochi autori ai mercati di Tv internazionale: Mip tv di Cannes, London Multimedia Market e Natpe di Las Vegas, oscurano progressivamente il ruolo svolto dal Mifed di Milano. In queste sedi internazionali si comprano al quintale (loro dicono “a pacchetti”) film, telefilm, serie e miniserie e si avviano coproduzioni faraoniche. Il prezzo dei contenuti tv si impenna vertiginosamente, mentre i messaggi da loro veicolati diventano sempre più orientati al liberismo qualunquista, alla violenza e sottostanno alla legge imperiale: “Chi prende il piatto ha sempre ragione”. Cominciano a scorrere fiumi di denaro per assicurarsi storie patinate, un po’ insulse ma seducenti, con le quali fare audience e conseguentemente soddisfare gli appetiti dei pubblicitari. Rai e Mediaset, con un finto terzo polo costituito da Telemontecarlo, si contendono di tutto: libraries, managers, uffici legali e intermediatori d’affari abili a sottrarre percentuali vistose nel corso delle compravendite (qualcuno finisce sotto inchiesta altri espatriano con il bottino).Sono gli anni di All Iberian e delle grandi manovre di Mediaset e dei suoi consulenti per evadere le norme fiscali e valutarie, che comunque appaiono esili e aggirabili. Il telespettatore medio è sempre più bombardato. Il “broadcasting” tipico della tv generalista comincia a lasciare spazio al “narrowcasting” mirato a audience segmentate e individuabili dalle tv “specializzate”. È nei primi anni ‘90 che appare con forza nella scena la prima grande innovazione tecnologica: i satelliti per televisione “diretta a casa”. L’Italia diventa velocemente un feudo Eutelsat, dopo che Giuliano Berretta, un ingegnere vicentino al comando del colosso parigino, sgomina il competitor Astra di base in Lussemburgo. I costruttori di apparati per ricezione tv esultano: oltre ai tv set, che diventano sempre più grandi e sempre più piatti, ora si apre lo sterminato mercato dei decoder.Tutto avviene ancora con tecniche analogiche ma si comincia ad intravvedere la grande rivoluzione digitale che gode delle esperienze informatiche. La parola d’ordine comincia ad essere “convergenza”: Tv, Pc e reti telefoniche tutti insieme appassionatamente. La tv è finalmente una vera industria, fondata su aree che interagiscono tra loro e determinano la scena complessiva: contenuti, reti e (ciò che in seguito verrà definito) modello di business. A questo punto i contenuti sono già tipici della globalizzazione passiva. A parte alcuni grandi sceneggiati da prime time nazional popolare, il calcio e alcuni programmi da studio, il resto della programmazione di successo arriva soprattutto dagli archivi internazionali, in barba alle “quotas” sancite dall’Europa e con grande gioia dell’industria del doppiaggio.Le reti di distribuzione e diffusione sono due: tralicci e satelliti. Il cavo è interdetto. Si accendono i riflettori sul modello di business, ovvero “quali sono le risorse che consentono alla tv di sopravvivere e eventualmente prosperare”? Se ne individuano 3. La prima è la risorsa pubblica: in arrivo dallo Stato o raccolta per legge. Parliamo del canone tv destinato (a quel tempo) solo ed esclusivamente alla Rai ma (come vedremo più avanti) posto in seguito in discussione. La seconda è la risorsa da pubblicità, gestita con mano sapiente e perversa dall’Upa e dalle agenzie non italiane, ovvero la compravendita di spot nei palinsesti, eventualmente integrata con sponsorizzazioni e product placement (dapprima occulto poi autorizzato). La terza (grande novità in Italia) è la risorsa “pay”, ovvero abbonamenti basic più costi addizionali per eventi speciali (pay per view). Il decoder è il vero protagonista di questa novità. I satelliti sono i primi a passare da trasmissioni analogiche a digitali e portano nelle case i decoder digitali, connessi eventualmente anche alla rete telefonica.È una opportunità imperdibile per alcuni soggetti, rigorosamente non italiani, che si avvicendano a godere dell’italica stoltezza. Prima Canal Plus e poi l’ineffabile Rupert Murdoch di Sky, a colpi di porno a notte alta e calcio, convincono 5 milioni di italiani a sottoscrivere abbonamenti alla pay tv. Uno scandalo di proporzioni inaudite, sul piano della sottrazione di risorse al mercato italiano, ma. Murdoch invita a cena tutti i politici e li convince a dargli di fatto il monopolio. Poi getta qualche piccola fiches sul tavolo dell’Anica e i produttori cinematografici fanno buon viso a cattivo gioco. Con la Lega Calcio continuerà a litigare per anni. La cavalcata trionfale della tv giunge a questo punto al guado. Di fronte ai protagonisti si pone il grande fiume che separa l’antico territorio della produzione e distribuzione analogica dal nuovo territorio sconfinato, promettente e sconosciuto del digitale. La Tv, da regina incontrastata dell’audiovisual, sta per abdicare al trono. Attorno a lei un coro di media digitali allevati nella rete internet e dalla telefonia le sottraggono il primato giorno dopo giorno.Sul piano dei contenuti la grande innovazione arriva prima da modesti siti internet, poi si afferma con le spallate di YouTube e altri social network. I contenuti generati dagli utenti mettono spesso in crisi i produttori di intrattenimento. Tremano perfino le grandi agenzie internazionali con le quali si imbottivano i Tg di news dall’estero. Comincia a saltare tutta la gerarchia di selezione talenti. Per far fronte al fenomeno la tv ricorre ai realities, grazie a format che danno lustro a sconosciuti nell’estremo tentativo di creare identificazione. La conta dell’audience però fa acqua. Nel frattempo la ripolarizzazione del mondo convince i pubblicitari a ridurre gli investimenti nelle tv occidentali a favore di quelle dei paesi del Brics. Nel 2009 si spostano con un solo colpo masse di risorse che non esisteranno più. Internet e i suoi succedanei, derivati dalla convergenza (smartphones, tablets, etc), cominciano una marcia trionfale che mette sempre più in discussione l’autorevolezza e il ruolo della tv.La digitalizzazione e il cosiddetto “riordino” dello spettro elettromagnetico (frequenze) tramutano le reti di distribuzione e diffusione in un groviglio sterminato difficile da tener sotto controllo, a meno di investimenti e capacità gestionali che le Old Tv non sembrano in grado di manifestare. È vero che si moltiplicano i canali ma l’audience – nella migliore delle ipotesi – resta la stessa. In realtà l’esodo dalla tv delle nuove generazioni è massiccio. Unico colpetto: Mediaset, approfittando della possibilità digitale, tenta con una sua “pay tv” la competizione con Sky di Murdoch. La Rai soffre: resta interdetta dal fare tv a pagamento, subisce l’avvicendarsi ai vertici di manager manovrati e inetti, assiste impotente al calo delle risorse pubblicitarie e comincia a tremare all’idea – ampiamente ventilata – che nel prossimo rinnovo di contratto del servizio pubblico possa essere affiancata da altri soggetti con i quali dovrà spartire la risorsa canone.È stato bello, vecchia Signora Tv. Ci hai dato tante gioie e tanti dolori. I tuoi addetti ai lavori hanno goduto di privilegi tali che, pur di non perderli, si sono prestati a mille ricatti da parte delle élites, prima nazionali e poi internazionali. Sei stata una degli strumenti più rilevanti della modernità. Tu, il telefono, gli aerei, le automobili, etc… avete aperto le porte del terzo millennio ad un’Italia comunque attonita e rimasta in gran parte inconsapevole delle mutazioni globali, anche grazie ai giornalisti e ai manager della tv. Resterai ovviamente nell’Olimpo dei grandi media insieme al cinema, alla radio e all’editoria. Ma d’ora in poi sarai chiamata a fare solo la tua parte, privata di quella maestà di cui hai goduto nel secolo scorso.(Glauco Benigni, “La Tv ha 60 anni ed è pronta ad abdicare”, dal blog di Benigni del 21 febbraio 2014).Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.