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Trump, battaglia contro la censura universale del regime
Donald Trump sembra quasi patetico, nell’annunciare la sua guerra legale contro Facebook, Twitter e Google. Naturalmente ha ragione da vendere: dai grandi social è stato escluso in modo pazzesco, completamente arbitrario, mentre era ancora in carica come presidente degli Stati Uniti. Twitter lo ha bannato a vita, Facebook fino al 2023. Tutto questo, mentre il voto postale (adottatato in massa grazie al panico da Covid) e le macchine di Dominion Voting Systems provvedevano a conteggiare magicamente le schede per la “vittoria” di Joe Biden, l’uomo che all’ultimo G7 ha annunciato un’epocale “rivoluzione” nella tassazione delle multinazionali, incluse le Big Tech. E’ così punitiva, la riforma fiscale verso i padroni del web, che le grandi major festeggiano: hanno scoperto che, in Europa, pagherebbero ancora meno tasse (il dovuto sarà molto inferiore all’Ires richiesta alle Pmi italiane, spiega il “Fatto Quotidiano”, che rileva come l’economista francese Thomas Piketty definisca «scandaloso» l’accordo emerso dal G7, strombazzato come un successo).La situazione appare decisamente comica: il potere atlantico, che spedisce navi da guerra del Mar Nero per infastidire la “democratura” di Putin, cui imputa orribili violazioni dei diritti umani, è lo stesso che pratica la tortura a Guantanamo, tiene in carcere Julian Assange e permette che venga silenziato – come in un qualsiasi regime dittatoriale – il politico che, secondo oltre metà degli elettori statunitensi (si vedano i sondaggi Gallup) è stato vittima di inaudite frodi elettorali, nell’autunno 2020. Brogli così vasti da determinare lo “scippo” delle presidenziali? Lo affermano le prove prodotte dalla difesa di Trump, ma mai valutate nel merito: le autorità giudiziarie (Corte Suprema) si sono finora rifiutate di analizzare il materiale, opponendo un diniego motivato da ragioni solo formali e procedurali, non sostanziali, dunque non basate sull’analisi della documentazione fornita dai legali di Trump. E dall’alto di questa incresciosa mortificazione della democrazia, senza la piena legittimità che solo la trasparenza conferisce, l’establishment di Washington assiste alla protesta legale di Trump contro la censura di cui è vittima, agendo come un qualsiasi privato cittadino.Se il Circo Biden e le Big Tech sono “più uguali” degli altri, come il Napoleone della Fattoria degli Animali, resta il fatto che Donald Trump è decisamente “meno uguale” di loro: tutta la stampa italiana ripete infatti che l’ex presidente è stato silenziato per le sue “istigazioni all’odio e alla violenza”, oltre che per le “false accuse sui brogli elettorali” e per “l’invito ad assaltare il Campidoglio”. Qualcuno se ne può davvero stupire, nel Meraviglioso Mondo del Covid in cui si ignorano le terapie per sdoganare i “vaccini genici” con procedura d’emergenza, operazione resa possibile solo fingendo che non esistessero cure? Idem per la Green Card e per la Terribile Variante Delta, grazie a cui già si incolpano gli incorreggibili non-vaccinati, compresi gli insegnanti, in un paese che minaccia di “stanare” i renitenti, casa per casa, dopo aver imposto un abuso come l’obbligo, per i sanitari, di sottoporsi all’inoculo delle terapie geniche sperimentali spacciate per “vaccino”. Trump si lamenta per essere stato oscurato? Sui social lo sono tutti, se appena si toccano certi temi. E meno male che siamo in democrazia: liberi di dire tutto quel che si vuole, tranne che la verità.Donald Trump sembra quasi patetico, nell’annunciare la sua guerra legale contro Facebook, Twitter e Google. Naturalmente ha ragione da vendere: dai grandi social è stato escluso in modo pazzesco, completamente arbitrario, mentre era ancora in carica come presidente degli Stati Uniti. Twitter lo ha bannato a vita, Facebook fino al 2023. Tutto questo mentre, grazie anche al voto postale (adottato in massa sfruttando il panico da Covid), le macchinette di Dominion Voting Systems provvedevano a conteggiare magicamente le schede per la “vittoria” di Joe Biden, l’uomo che all’ultimo G7 ha annunciato un’epocale “rivoluzione” nella tassazione delle multinazionali, incluse le Big Tech. E’ così punitiva, la riforma fiscale verso i padroni del web, che le grandi major festeggiano: hanno scoperto che, in Europa, pagherebbero ancora meno tasse (il dovuto sarebbe molto inferiore all’Ires richiesta alle Pmi italiane, spiega il “Fatto Quotidiano“, che rileva come l’economista francese Thomas Piketty abbia definito «scandaloso» l’accordo emerso dal G7, strombazzato come un successo).
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Segreti da 5.000 euro: i padrini del Covid contro Mosca
Qualcuno (come Guido Crosetto, di Fratelli d’Italia) può trovare quasi comico il fatto che si esibisca come super-traditore un ufficiale pronto a vendere ai russi “segreti strategici” dal valore di ben 5.000 euro, cioè pari alla multa prevista per la famiglia Rossi se violasse il lockdown di Pasqua? Crosetto non è il solo a sentire puzza di bruciato: parlando all’agenzia “Adn Kronos”, lo stesso generale Mario Mori, già a capo del Ros e del Sisde, conferma: «Di Maio ha parlato di “atto ostile”, ma gli atti ostili li fanno tutti, anche gli americani, gli inglesi, i cinesi. Si fa attività di spionaggio, la fanno i russi, la fa tutto il mondo». Piuttosto: il caso dell’arresto del capitano di fregata Walter Biot, “sorpreso” a passare documenti a un agente russo, sembra chiaramente ingigantito dai media, «perché tutto sommato quell’ufficiale, un tenente colonnello con quella collocazione – dice Mori – non è che potesse detenere grandissimi segreti militari della Nato». L’altra notizia – quella vera – parla invece della risposta russa in arrivo: Mosca ha “tirato fuori dai silos” i suoi missili nucleari, in previsione di un eventuale attacco, a guida Usa, nell’Est dell’Ucraina.
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Silicon Biden: guai a Londra, se alza le tasse a Big Web
Boris Johnson osa ventilare l’idea che i giganti del web debbano pagare anche loro le tasse, come tutti gli altri? Male: è pronta una durissima ritorsione da parte degli Usa. Se ne incarica Joe Biden, che proprio da Big Tech è stato (slealmente) ultra-favorito, nell’opaca battaglia elettorale contro Trump. «E stavolta sembra che le intenzioni dichiarate possano presto concretizzarsi in azioni che mettano nel mirino proprio un governo conservatore», scrive Andrea Morigi su “Libero”, ricordando che nelle presidenziali 2020 il candidato dei democratici è stato nettamente agevolato dai social network, «che hanno censurato l’avversario repubblicano», sia attraverso Twitter che per mezzo di YouTube, di cui è proprietaria Google. «Se per fornire un appoggio del genere i colossi dell’informazione si attendevano di essere ripagati in qualche modo, ecco come le promesse stanno per essere mantenute», scrive Morigi: il Regno Unito è avvisato, subirà gravi ripercussioni finanziarie.«A Londra è già arrivato il preventivo di un conto salato, che scatterebbe se i britannici osassero sfidare gli imperi finanziari dei cosiddetti Gafa, l’acronimo che sta per Google, Apple, Facebook, Amazon, cioè le aziende che si spartiscono il mercato mondiale della telematica». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che la scure del “Gafa” si è appena abbattuta su “ByoBlu”, oscurando il mezzo di informazione indipendente più amato e seguito dagli italiani (oltre 500.000 iscritti). «Mentre sono tornate di moda le sanzioni verso gli Stati colpevoli di violazioni di diritti umani – scrive Morigi – si rispolverano anche le ritorsioni commerciali nei confronti degli alleati». Così, l’amministrazione Biden «minaccia di applicare tariffe di esportazione fino al 25% sui prodotti britannici», come riporta la “Bbc” sul proprio sito.È stato sufficiente che un portavoce del governo guidato da Boris Johnson affermasse di volersi assicurare «che le aziende tecnologiche paghino la loro giusta quota di tasse» per far arrivare da Oltreoceano una lista di dazi che colpirebbero numerosi prodotti, tra i quali ceramica, trucchi, soprabiti, console di gioco e mobili, mirando a raccogliere 325 milioni di dollari, pari all’impatto che Washington si aspetta dalla “web tax” se entrasse in vigore nel Regno Unito. Solitamente, ma ancora di più dopo un anno di crisi nera degli interscambi internazionali dovuta alla pandemia – aggiunge “Libero” – è sufficiente che gli Usa facciano la voce grossa per far tornare a più miti consigli i paesi europei. Per quanto riguarda l’Italia, sono ormai stati stabiliti i criteri per l’imposizione fiscale (fissata al 3%) sui servizi digitali, che dipenderanno sia dai soggetti interessati che dai ricavi imponibili e dai criteri di geolocalizzazione, cioè su fatturati realizzati da imprese di grandi dimensioni, anche non residenti, con ricavi globali pari ad almeno 750 milioni di euro e almeno 5,5 milioni di euro di ricavi da servizi digitali realizzati in Italia.«Si attendono 708 milioni di gettito per le casse dell’erario nel 2021, recuperando anche i mancati introiti degli anni scorsi, quando la Digital Service Tax, introdotta con la legge di bilancio del 2019, era rimasta inapplicata, forse anche in attesa dell’esito della querelle ancora in corso fra la Francia e gli Stati Uniti». Sempre “Libero” ricorda che si renderà altrettanto cruciale, nel frattempo, anche un’intesa di tipo politico, ai massimi livelli internazionali, per evitare che le distanze fra Europa e Usa si trasformino in una guerra commerciale. Attualmente, vale il criterio di “approdo sicuro”: i colossi del web possono scegliere se versare le imposte nei paesi dell’Ocse o nei più convenienti Stati Uniti. Nel frattempo, Big Web spadroneggia: fa lettaralmente quello che vuole, anche in termini di censura, per silenziare le voci scomode. Formalmente, il gruppo Biden è allineato alla narrazione psico-terroristica del Covid: e si tiene ben stretti i suoi potenti “amici” della Silicon Valley.Boris Johnson osa ventilare l’idea che i giganti del web debbano pagare anche loro le tasse, come tutti gli altri? Male: è pronta una durissima ritorsione da parte degli Usa. Se ne incarica Joe Biden, che proprio da Big Tech è stato (slealmente) ultra-favorito, nell’opaca battaglia elettorale contro Trump. «E stavolta sembra che le intenzioni dichiarate possano presto concretizzarsi in azioni che mettano nel mirino proprio un governo conservatore», scrive Andrea Morigi su “Libero”, ricordando che nelle presidenziali 2020 il candidato dei democratici è stato nettamente agevolato dai social network, «che hanno censurato l’avversario repubblicano», sia attraverso Twitter che per mezzo di YouTube, di cui è proprietaria Google. «Se per fornire un appoggio del genere i colossi dell’informazione si attendevano di essere ripagati in qualche modo, ecco come le promesse stanno per essere mantenute», scrive Morigi: il Regno Unito è avvisato, subirà gravi ripercussioni finanziarie.
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Hanno spento ByoBlu: oscurato mezzo milione di italiani
Mezzo milione di lettori? Possono solo sognarseli, oggi, i grandi quotidiani: anche se occupano militarmente la televisione a reti unificate, coi loro giornalisti ospiti degli info-talk 24 ore su 24. Giornalisti scambiati per esperti e intervistati da colleghi, a chiudere il cerchio di un cortocircuito informativo, basato su una regola d’oro: non infrangere mai il dogma della verità ufficiale, quella ammissibile. Lo disse apertamente l’allora neo-direttore della “Stampa”, Massimo Giannini, a proposito della tempesta Covid: per ragioni di sicurezza è giusto perderla, una quota di libertà. Ed è esattamente per questo – la rinuncia collettiva a dire le cose come stanno – che il maggior video-blog italiano, “ByoBlu”, dall’inizio della crisi pandemica ha visto letteralmente esplodere i suoi numeri: tutti italiani ansiosi di avere informazioni finalmente attendibili, sull’emergenza in corso. Numeri enormi: 525.000 iscritti, che hanno garantito oltre 200 milioni di visualizzazioni ai duemila video pubblicati, nel corso di ormai 14 anni. Troppa gente, troppe spiegazioni: per questo, Google ha deciso di chiudere il canale YouTube di “ByoBlu”, il mezzo di informazione indipendente più seguito dagli italiani.In pratica, uno schiaffo a mezzo milione di cittadini. Un atto d’imperio che ricorda lo stile di governo dell’alto medioevo: il sovrano punisce chi vuole, senza legge e senza processo. Su “Visione Tv”, Enzo Pennetta sintetizza: ecco che cosa sono, davvero, questi nostri social. Servono a monitorare il dissenso, scoprendo l’identità di chi veicola informazioni scomode. A una condizione: che quella platea non cresca troppo, perché allora finisce per costituire una massa critica che può dare veramente fastidio. I conti sono presto fatti: oggi, da soli, gli iscritti di “ByoBlu” equivalgono alla somma dei lettori di tutti i quotidiani italiani, messi assieme. E quindi: muoia, Claudio Messora. Venga strangolato in silenzio, il suo newsmagazine, anche se nel frattempo è diventato una regolare testata giornalistica, con un direttore responsabile in grado di rispondere, per legge, di qualsiasi eventuale reato. Che equivoco: la legge – come nel far west – è ormai Big Tech a dettarla, scavalcando lo Stato nonostante l’oceanica elusione fiscale (enormi introiti pubblicitari intascati, a fronte di una tassazione letteralmente ridicola).Già, lo Stato: dov’è finito? Non avrebbe il diritto-dovere di esercitare almeno un’ombra di sovranità, tutelando le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione? E’ informato, Mario Draghi, dello scempio condotto ai danni di mezzo milione di cittadini? Perché certo, la prima vittima della implacabile, medievale “ghigliottina” di YouTube è Messora, il fondatore di “ByoBlu”, insieme alla sua giovane redazione; ma le vere vittime sono i 525.000 italiani che, dal 30 marzo 2021, non potranno più informarsi attraverso la fonte in cui riponevano fiducia. In un solo istante, scrive Messora in un messaggio, sono stati rimossi 14 anni di contenuti, tra i quali molti di altissimo livello, realizzati insieme a magistrati, presidenti della Corte Costituzionale, intellettuali, filosofi, economisti, politici, avvocati, scienziati. Messora definisce l’operato di ByoBlu «una fotografia cangiante delle trasformazioni che si sono avvicendate nella società da 14 anni a questa parte, viste con gli occhi dei cittadini e non con quelli dei media», spesso reticenti e sempre docilissimi con il potere.Scandaloso, anche in questo caso, il silenzio di un organo come l’obsoleto, anacronistico Ordine dei Giornalisti, residuato storico corporativo risalente all’epoca fascista (un organismo che ormai esiste solo in Italia). Scandaloso il silenzio dei grandi media: zitti, di fronte al massacro della libertà d’informazione, anche quando il governo di Giuseppe Conte fece istituire a Palazzo Chigi (sotto la guida di Andrea Martella, Pd) una orwelliana “task force contro le fake news”, cioè una commissione in grado di “depurare” il web da qualsiasi notizia scomoda, per il nuovo regime psico-terroristico di stampo sanitario. Scandaloso, a maggior ragione, lo stesso silenzio dei 5 Stelle, di cui Messora era stato portavoce parlamentare: e proprio sul web (il blog di Grillo) era nato, letteralmente, il movimento che si era candidato a mettere fine agli abusi della “casta” autoreferenziale di un potere politico stagnante, sottomesso al vero potere, che è economico-finanziario. L’abuso contro “ByoBlu” (e il mezzo milione di italiani che lo seguivano) è incommentabile: un atto barbarico, degno dei fasti dell’Inquisizione, sinistro come un monito minaccioso verso qualsiasi altra voce libera. Chiaro il messaggio: se superate una certa soglia di audience, il vostro destino è già scritto.In che girone infernale siamo finiti? Sul tema, la più celebre delle Cassandre italiane – Giulietto Chiesa – aveva condotto battaglie profetiche: ci faranno a pezzi, ripeteva, se non ci doteremo di mezzi di autodifesa, a livello di informazione, visto che il mainstream ha spento il radar, smettendo di raccontare quel che succede davvero. Caccerei dalle redazioni 9 giornalisti su 10, ha detto un cavallo di razza come Seymour Hersh, vincitore del Premio Pulitzer, all’epoca in cui il giornalismo esisteva ancora. Oggi siamo nel pianeta in cui Twitter “spegne” il presidente degli Stati Uniti (Donald Trump, quand’era ancora in carica), esibendo la sua onnipotenza impunita, che sta al di sopra di qualsiasi diritto. E’ un potere sfrontato, quello della menzogna: e si avvale della piena complicità di milioni di cretini, politicamente decerebrati, che semplicemente non capiscono che le vere vittime sono loro. Oggi tocca a Messora, ma domani toccherà a chiunque altro proverà a dire la verità proprio ai neo-sudditi “mascherati” che si piegano a qualsiasi diktat, ignari della sorte che li attende.L’ultima sfida di Messora – riparare sul digitale terrestre, acquistando un canale televisivo per mettersi al riparo della censura – è insieme titanica e perdente. Eroica, per l’impegno economico e la mobilitazione popolare che presuppone: possibile che “ByoBlu” riesca nell’impresa, se il suo mezzo milione di italiani darà una mano, offrendo un obolo di anche solo un euro a testa. Al tempo stesso, la “fuga” nella televisione classica (cioè nell’informazione unilaterale, monodimensionale, senza più le interazioni delle chat) rappresenta una clamorosa sconfitta: la rivelazione della reale identità del sistema web per come è oggi, interamente dominato dai grandi gruppi che – attraverso la globalizzazione mercantilista – hanno schiacciato le economie locali e plasmato, anche con l’aiuto del panico da virus, la nuova antropologia post-umana delle cavie da laboratorio, terrorizzate e distanziate, condannate a rassegnarsi a discutibili trattamenti sanitari obbligatori e alle strettoie quotidiane di una non-vita che fa tanto comodo ai padroni del discorso.Massimo Mazzucco, altro pioniere italiano dell’informazione libera, ragiona in questi termini: la platea del dissenso che si esprime sul web era letteralmente irrisoria, qualche anno fa. Oggi, invece – pur restando minoritaria – è diventata una maxi-nicchia in forte crescita: in un certo senso, i colpi di mannaia della censura (che prima non c’erano) oltre che “medaglie al valore” rappresentano un successo: dimostrano che l’informazione – quella vera – riesce a disturbare il sistema dominante. E’ un fatto: milioni di cittadini, finalmente, dispongono di conoscenze preziose, offerte in tempo reale dalla rete indipendente, che dà la parola a voci autorevoli e ormai escluse dal mainstream. Manca il punto di approdo (una piattaforma politica, in grado di rappresentare certe istanze) e manca anche una piattaforma informativa unificata, che possa fungere da moltiplicatore, incrementando l’impatto della diffusione di verità autentiche. Certo, il bavaglio a “ByoBlu” è una cannonata contro l’ammiraglia italiana della libertà di informazione. E’ il segno che la “guerra” non è più fatta solo di minacce (sospensioni, demonetizzazioni), ma ormai usa le maniere forti, il metodo antico della sopraffazione più plateale.E’ qualcosa di estremamente pericoloso, e al tempo stesso ambivalente: il potere oggi ha paura, persino di “ByoBlu”? E’ un potere così fragile, quello mediatico, se non sa più tollerare nemmeno la presenza di una semplice voce dissonante? C’è un che di apocalittico, negli sviluppi dell’attualità mondiale, a partire dalla sordida congiura del silenzio che ha coperto le sconcertanti manomissioni del risultato elettorale americano. Falsità a catena, a cascata, anche nella psico-narrazione del mostro epidemico che si è letteralmente impossessato del pianeta: uno spettro utilizzato come clava per imporre il cambiamento epocale delle abitudini delle persone, ancora ignare – in maggioranza – della vera posta in gioco. Diceva Giulietto Chiesa: senza informazione, non ci può essere nemmeno democrazia. Cosa aspettarsi, di buono, se la gente non sa quello che sta succedendo, davvero, perché i media hanno smesso di raccontarlo? Che fine abbia fatto, la democrazia, lo spiega il burocratese dei Dpcm. Al resto provvedono gli algoritmi di Google e Twitter, le censure di Facebook, gli oscuramenti medievali imposti da YouTube. E siamo solo all’inizio, a quanto pare. Se non altro, il re è nudo: il nemico si è dichiarato. E’ in guerra, contro di noi.(Giorgio Cattaneo, “YouTube spegne ByoBlu: oscurato mezzo milione di italiani”, dal blog del Movimento Roosevelt del 31 marzo 2021).Mezzo milione di lettori? Possono solo sognarseli, oggi, i grandi quotidiani: anche se occupano militarmente la televisione a reti unificate, coi loro giornalisti ospiti degli info-talk 24 ore su 24. Giornalisti scambiati per esperti e intervistati da colleghi, a chiudere il cerchio di un cortocircuito informativo, basato su una regola d’oro: non infrangere mai il dogma della verità ufficiale, quella ammissibile. Lo disse apertamente l’allora neo-direttore della “Stampa”, Massimo Giannini, a proposito della tempesta Covid: per ragioni di sicurezza è giusto perderla, una quota di libertà. Ed è esattamente per questo – la rinuncia collettiva a dire le cose come stanno – che il maggior video-blog italiano, “ByoBlu”, dall’inizio della crisi pandemica ha visto letteralmente esplodere i suoi numeri: tutti italiani ansiosi di avere informazioni finalmente attendibili, sull’emergenza in corso. Numeri enormi: 525.000 iscritti, che hanno garantito oltre 200 milioni di visualizzazioni ai duemila video pubblicati, nel corso di ormai 14 anni. Troppa gente, troppe spiegazioni: per questo, Google ha deciso di chiudere il canale YouTube di “ByoBlu”, il mezzo di informazione indipendente più seguito dagli italiani.
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Putin a lezione di democrazia dal favoloso Tony Blinken
Un coraggio da leone, quello di Tony Blinken: l’uomo che impartisce lezioni di democrazia a Vladimir Putin, contestando la dura repressione delle manifestazioni pro-Navalny, è un tizio che oggi fa il segretario di Stato nell’amministrazione di Joe Biden, l’uomo che sostiene di essere stato eletto presidente degli Stati Uniti. E’ stato insediato col favore delle tenebre, grazie alla misteriosa sospensione notturna dello scrutino e al miracoloso afflusso di voti postali, anche fuori tempo massimo e in violazione delle norme elettorali previste dalla Costituzione di alcuni degli Stati in bilico. Un lavoretto completato dagli algoritmi della Dominion Voting Systems, che si sospetta siano stati taroccati in partenza e poi ri-tarati in corso d’opera, viste le inattese dimensioni della valanga di voti a favore del probabilissimo vincitore reale, Donald Trump, ultimo vero presidente degli Stati Uniti per la maggioranza degli americani (sondaggi Gallup) e primo nella storia ad aprire ora un Ufficio dell’Ex Presidente, in Florida. Ebbene: dall’alto di questo capolavoro di trasparenza squisitamente democratica, l’eterno scudiero di Sleepy Joe Biden – uno dei politici più mediocri e corrotti della storia politica americana – adesso si permette di ammonire lo Zar: non osi procedere oltre, nel fare strame delle libertà democratiche in Russia.Affabilmente, Giulietto Chiesa canzonò l’anziano Eugenio Scalfari per aver descritto Putin come “il capo del comunismo mondiale”, nientemeno, dimenticando il microscopico dettaglio rappresentato da un bruscolino come la Cina, il più esteso, popoloso e potente paese al mondo che sia mai stato retto da un partito comunista. Anni fa, lo studioso italiano Igor Sibaldi, di madre russa, espose la seguente tesi: già ai tempi dell’Urss, l’impero di Mosca era retto da una trentina di grandi famiglie, al di là della vernice cosmetica del Pcus. In piena sintonia con quella ristretta cerchia di oligarchi, secondo Sibaldi, il lungimirante Jurij Andropov – temendo l’inevitabile collasso socio-economico del “socialismo reale” – trasformò il vecchio Nkvd staliniano nel micidiale, efficientissimo Kgb, come nerbo irriducibile dell’élite, capace di sopravvivere all’eventuale disfacimento dell’Unione Sovietica. Non è un caso che venisse dal Kgb lo stesso Gorbaciov, storico pupillo di Andropov, né che provenga dai ranghi di quell’intelligence lo stesso Putin. Sono sempre quelle famose “trenta famiglie”, le detentrici del vero potere in Russia, al di là del ruolo che ha saputo ritagliarsi, di suo, uno statista di levatura mondiale come l’attuale uomo del Cremlino, da vent’anni ininterrottamente in sella?E’ noto che Putin fu chiamato in servizio quando il potere russo ne ebbe abbastanza dell’esausto Boris Eltsin, che aveva letteralmente svenduto il paese alle multinazionali americane. Qualcosa del genere, secondo uno schema invariabile, si ripeté nel 2014 con la finta “rivoluzione arancione” in Ucraina contro il corrotto presidente filorusso Yanukovic, accusato di aver truccato le elezioni dopo aver estromesso l’opposizione. All’arbitrio dell’autocrate ucraino si rispose gonfiando le piazze in modo pacifico, ma a un certo punto furono misteriosi cecchini a sparare sulla polizia, a Maidan, per provocare la repressione violenta che segnò la fine di Yanukovic e il passaggio di Kiev dall’orbita di Mosca a quella di Washington, secondo il più classico e opaco dei copioni, in mezzo a falangi di miliziani armati di fucili e bandiere neonaziste. Letteralmente automatica, a quel punto, la secessione dell’Est dell’Ucraina, il Donbass a maggioranza russa, e la scelta della Crimea di tornare sotto l’ala della madrepatria russa, di cui la penisola del Mar Nero aveva sempre fatto parte. Altrettanto scontata la reazione della “comunità internazionale”, alias Washington Consensus: dure sanzioni alla Russia (con anche gravissimi danni al made in Italy).Dettaglio non scontato, invece, la presenza della famiglia Biden nel ricco “affaire” ucraino: dopo gli infiniti viaggi a Kiev dell’allora vice di Obama, fu affidato a Hunter Biden l’opulento malloppo di Burisma, colosso del petrolio e del gas ucraino. Inutile aggiungere che l’attuale segretario di Stato americano, Tony Blinken, era già il braccio destro di Sleepy Joe (non così “addormentato”, a quanto pare, se si trattava di incassare cospicui dividendi, non solo politici). Lo stesso Blinken era accanto a Biden anche rispetto al teatro siriano, quando Obama – anche attraverso un falco come John McCain – favorì l’esplosione del bubbone Isis, a partire dall’Iraq, dove fu improvvissamente rilasciato un personaggio che poi si sarebbe fatto chiamare Abu Bakr Al-Bagdadi. Da quasi una decina d’anni, Vladimir Putin si trova di fronte lo stesso avversario, pronto a promuovere la guerra, che la scena si svolga in Ucraina o in Siria, dove è stata proprio la Russia a sgominare le bande di tagliagole dello Stato Islamico, che gli americani facevano finta di non conoscere.In questo, stando a Wikipedia, Tony Blinken è persino trasparente: «Non ho mai visto una decisione più coraggiosa presa da un leader», disse nel 2011, applaudendo il Barack Obama che aveva appena raccontato di aver fatto uccidere Osama Bin Laden, già operativo della Cia in Afghanistan, morto quasi certamente parecchi anni prima. Può sembrare ridicolo, almeno quanto la storiella dell’inabissamento in mare della presunta salma del redivivo Bin Laden, ma nessun tribunale statunitense ha mai potuto imputare legalmente al capo di Al-Qaeda alcuna responsabilità formale nel super-attentato che distrusse le Torri Gemelle, spalancando la strada al Nuovo Secolo Americano vagheggiato dai Bush con le loro guerre, approvate senza riserve dal democratico Joe Biden, presidente della commissione esteri del Senato. Gli era accanto sin da allora Tony Blinken, favorevole nel 2003 alla brutale invasione dell’Iraq motivata dalle (inesistenti) armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Blinken ha definito la determinazione a invadere l’Iraq «un voto per una diplomazia dura».Finita la prima parte del “lavoro”, scrive sempre Wikipedia, Tony Blinken «ha assistito Biden nella formulazione di una proposta al Senato per stabilire in Iraq tre regioni indipendenti, divise lungo linee etniche o settarie». Un orrore, trasformato in un fiasco: «La proposta è stata respinta in modo schiacciante in patria, così come in Iraq, dove il primo ministro si è opposto al piano di spartizione». Dal 2009 al 2013, Blinken è stato consigliere per la sicurezza nazionale dell’allora vicepresidente Biden. Dal 2015 al 2017 è stato poi vicesegretario di Stato di John Kerry e viceconsigliere della sicurezza nazionale dal 2013 al 2015, sotto la presidenza Obama. Ruoli molto importanti, che gli hanno permesso di «contribuire a elaborare la politica statunitense su Afghanistan e Pakistan», con esiti letteralmente imbarazzanti. Lo stesso Blinken si è anche impegnato «sul programma nucleare dell’Iran», al quale si era fermamente opposto Donald Trump. Invano: oggi, la squadra di Biden è già al lavoro per ripristinare buone relazioni con Teheran.«Può usare Twitter anche l’Ayatollah, ma non Trump», ha protestato in questi giorni un parlamentare trumpiano, denunciando la scandalosa censura di Big Web praticata in modo unilaterale a vantaggio di “democratici” come Biden e Blinken, nell’ex “paese della libertà” che si sente in vena di dare lezioni alla Russia. Parla da solo, del resto, il vasto curriculum di Blinken: «Un profilo del 2013 lo descriveva come “uno degli attori chiave del governo nella stesura della politica sulla Siria”», il paese letteralmente fatto a pezzi dall’Isis, mentre le truppe Usa stavano a guardare. Un recidivo, Blinken: già nel 2011 aveva «sostenuto l’intervento militare in Libia e la fornitura di armi ai ribelli siriani». Tecnicamente: un professionista del Nuovo Disordine Mondiale, a suon di bombe. «Nell’aprile 2015, Blinken ha espresso sostegno all’intervento guidato dall’Arabia Saudita nello Yemen». Ha detto che «come parte di questo sforzo, abbiamo accelerato le consegne di armi, abbiamo aumentato la nostra condivisione di intelligence e abbiamo istituito una cellula di pianificazione del coordinamento congiunto nel centro operativo saudita».Questo sarebbe dunque il profilo essenziale del nuovo Mister America in funzione di ministro degli esteri. Un uomo accorto, di origine ebraica, membro del potentissimo Council on Foreign Relations, santuario paramassonico del massimo potere. Politica e affari, come il suo maestro Biden: nel 2017, Blinken ha co-fondato WestExec Advisors, una società di consulenza strategica politica. Tra i clienti figurano Jigsaw (Google), la società israeliana di intelligenza artificiale Windward e il produttore di droni di sorveglianza Shield Ai, che ha firmato un contratto da 7,2 milioni di dollari con l’Air Force. “The Intercept” ha descritto «il ruolo di WestExec nel facilitare i rapporti tra le aziende della Silicon Valley, il Dipartimento della difesa e le forze dell’ordine», un po’ come nel caso della storica Kissinger Associates. Così come altri membri del “transition team” di Biden, tra cui il neo-ministro della difesa Lloyd Austin, Blinken è partner della società finanziaria (”private equity”) Pine Island Capital Partners, socio strategico della stessa WestExec. «Il presidente di Pine Island è John Thain, l’ultimo presidente di Merrill Lynch prima della sua vendita a Bank of America».«Blinken – precisa ancora Wikipedia – è andato “in congedo” da Pine Island nell’agosto 2020 per unirsi alla campagna di Biden come consulente senior di politica estera. Ha detto che si sarebbe liberato della sua partecipazione in Pine Island, se confermato per una posizione nell’amministrazione Biden». Salvare le forme: non suona bene, l’espressione “conflitto d’interessi”. Lo scorso autunno, Pine Island ha raccolto 218 milioni di dollari «per una società di acquisizione di scopo speciale (Spac)», un’offerta pubblica per investire in «difesa, servizi governativi e industrie aerospaziali», nonché sulla gestione dell’emergenza Covid, considerata redditizia in quanto il governo Trump «si rivolgeva ad appaltatori privati per affrontare la pandemia». A dicembre, persino il “New York Times” ha sollevato domande sui potenziali conflitti d’interesse tra i dirigenti di WestExec, i consulenti di Pine Island (incluso Blinken) e loro ruolo nell’amministrazione Biden.«I critici hanno chiesto la piena divulgazione di tutte le relazioni finanziarie di WestExec e Pine Island, la cessione della proprietà di partecipazioni in società che fanno offerte per contratti governativi o godono di contratti esistenti», raccomandandosi che Blinken e altri «si ritirino dalle decisioni che potrebbero avvantaggiare i loro precedenti clienti». E’ questo, dunque, il background del Blinken che vorrebbe mantenere a Gerusalemme l’ambasciata americana in Israele e critica giustamente la Cina come feroce tecno-autocrazia: Blinken si schiera con le proteste di Hong Kong e si dichiara pronto a difendere Taiwan con ogni mezzo, di fronte alle minacciose provocazioni anche militari di Pechino. Non che gli antichi vizi siano scomparsi: lo stesso Blinken ha ribadito il suo sostegno a mantenere aperta la porta della Nato per la Georgia, destabilizzando così la frontiera con la Russia e violando gli storici accordi stupulati ai tempi di Gorbaciov. Fu George W. Bush a far precipitare la situazione nel Caucaso, incoraggiando il sanguinoso bombardamento della capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali, rimasta filo-russa. Gente dal grilletto facile, quella tornata alla Casa Bianca? Niente paura: sempre Wikipedia ci informa che Tony Blinken suona la chitarra e ha persino tre canzoni disponibili, su Spotify, con l’alias ABlinken (pronunciate come “Abe Lincoln”). Queste sì, sono notizie confortanti.Un coraggio da leone, quello di Tony Blinken: l’uomo che impartisce lezioni di democrazia a Vladimir Putin, contestando la dura repressione delle manifestazioni pro-Navalny, è un tizio che oggi fa il segretario di Stato nell’amministrazione di Joe Biden, l’uomo che sostiene di essere stato eletto presidente degli Stati Uniti. E’ stato insediato col favore delle tenebre, grazie alla misteriosa sospensione notturna dello scrutino e al miracoloso afflusso di voti postali, anche fuori tempo massimo e in violazione delle norme elettorali previste dalla Costituzione di alcuni degli Stati in bilico. Un lavoretto completato dagli algoritmi della Dominion Voting Systems, che si sospetta siano stati taroccati in partenza e poi ri-tarati in corso d’opera, viste le inattese dimensioni della valanga di voti a favore del probabilissimo vincitore reale, Donald Trump, ultimo vero presidente degli Stati Uniti per la maggioranza degli americani (sondaggi Gallup) e primo nella storia ad aprire ora un Ufficio dell’Ex Presidente, in Florida. Ebbene: dall’alto di questo capolavoro di trasparenza squisitamente democratica, l’eterno scudiero di Sleepy Joe Biden – uno dei politici più mediocri e corrotti della storia politica americana – adesso si permette di ammonire lo Zar: non osi procedere oltre, nel fare strame delle libertà democratiche in Russia.
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Censura universale: così cancellano la nostra libertà
Smettiamola pure di preoccuparci di un futuro senza più libertà. Quel futuro è presente, e non come realtà distopica alla George Orwell ma come grossolana quotidianità drammaticamente abituata senza battere ciglio a cedere porzioni di privacy e di indipendenza. Ce le stanno portando via, senza neanche troppi sforzi, concedendoci servizi gratuiti o garantendoci sempre più comodità. Così, appena abbiamo iniziato a chiederci qual è il prezzo di questo nuovo mondo iperconnesso, ecco che ci siamo accorti che forse è già troppo tardi per fare qualcosa. Ci aspettavamo un incubo dai contorni avveniristici come in “Blade Runner” o “Matrix”. Invece è qualcosa di più simile a un episodio di “Black Mirror”. E così un giorno ci siamo svegliati e ci siamo resi conto che è già tutto segnato. Troppo tardi per tornare indietro. Nessuna pillola blu per risvegliarsi dall’incubo, nessuna pillola rossa per sganciarci dalle catene. La realtà è molto più banale. È tale e quale a quella di cinquant’anni fa (niente macchine che volano, per intenderci), ma con una grande differenza: un mondo etereo, Internet, che conta molto pù di quello tangibile. Ed è lì dentro che ci stiamo affossando. Per colpa nostra. Perché il mezzo non è mai il male, dipende tutto dall’uso che se ne fa.Tanto per intenderci: se prendiamo una scopa, è più importante la chioma o il bastone? Alla maggior parte delle persone verrebbe probabilmente da rispondere la prima perché anche senza manico si riesce a pulire ugualmente. A fatica, ma si riesce. Scopare, invece, solo con il manico è impossibile. Ma David Foster Wallace butta la palla oltre e in “La scopa del sistema” (Einaudi) fa notare che dipende tutto dall’uso che se ne vuole fare: «Se la scopa ci serve per spaccare una finestra, allora la parte fondamentale è chiaramente il manico». Internet permette a tutti di essere connessi. Accorcia le distanze. Un bene, no? I social servono proprio a questo. Ma attenzione: cosa succede se regaliamo le nostre vite (i desideri, i gusti, i segreti, i sentimenti, le fotografie, la localizzazione nel mondo) a società private il cui unico scopo è generare profitti? Cosa succede se i servizi che ci offrono sono gratuiti e quindi devono trovare un altro modo per arricchirsi? Mark Zuckerberg e compagnia bella, per quanto ci tengano talvolta a passare per filantropi, non sono certo enti caritatevoli. Ma soprattutto non sono neutrali.Negli ultimi giorni abbiamo assistito, in un pericoloso silenzio anestetizzato, alla cacciata di Donald Trump da Facebook, Twitter e Instagram. Era nell’aria da mesi. Probabilmente in molti lo agognavano dal giorno in cui il tycoon ha iniziato a marciare verso la Casa Bianca. Zuckerberg ha colto l’occasione dopo gli scontri dello scorso 6 gennaio (l’assalto a Capitol Hill tra pagliacci vestiti da sciamani, assurde teorie cospirazioniste e morti vere) per spianare gli account dell’ormai prossimo ex presidente degli Stati Uniti. Il giro di vite non si è fermato lì. Molti sostenitori dell’alt right hanno fatto la stessa fine. “Hate speech”, l’accusa. Incitamento all’odio e alla violenza. Ma non solo: in 70mila sono saltati perché paladini della teoria cospirazionista Qanon. E, quando questi “profughi” sono sbarcati su Parler, Google e Apple hanno estromesso l’app dai propri negozi digitali mentre Amazon l’ha cacciata dai propri server rendendo in questo modo la piattaforma, che si stava imponendo come il Twitter di estrema destra, irraggiungibile.Nelle ultime ore le purghe dei big della Silicon Valley si sono abbattute anche su Ron Paul, figura di riferimento del movimento libertario statunitense che nell’ultimo mese aveva già ricevuto uno “strike” da YouTube per aver video pubblicato un comizio di Trump. Dovrebbe essere chiaro a tutti il fatto che il problema sia molto più imponente di quello che potrebbe anche non apparire in primissima battuta. Chi si trincera dietro al fatto che le big tech sono aziende private, e che quindi possono fare quello che vogliono, rischia di prendere una grandissima cantonata. Anche colossi come Facebook o Twitter sono, infatti, chiamati a rispettare i principi costituzionali. E la libertà di espressione è un diritto costituzionale da difendere sempre e comunque. Per questo nelle ultime ore sta facendo rumore anche la temporanea limitazione dell’account di “Libero” su Twitter. Al di là di chi è coinvolto nella stretta, il giro di vite dovrebbe spingere tutti a un’attenta riflessione.«La possibilità di interferire nella libertà di espressione – ha dichiarato Angela Merkel – è data solo nei limiti stabiliti dalle leggi e non può venire dalla decisione autonoma di un’impresa privata». Che cosa significa togliere il diritto di parola? Quali sono i rischi e le conseguenze di questa limitazione? Le big tech si limiterà all’oscuramento dei profili o troveranno il modo di stringere ulteriormente i cordoni? Da sempre, per esempio, i motori di ricerca hanno il potere di “premiare” o nascondere una notizia. Quali sono i principi che sottendono l’algoritmo che regola cosa possiamo leggere e cosa no? E ancora: chi controlla i censori delle nostre libertà? Quest’ultimo punto non è certo meno importante degli altri. Dobbiamo tenere presente, infatti, che mentre questi colossi decidono cosa farci leggere o comprare, mentre plasmano i nostri gusti, mentre indirizzano le nostre scelte, ingrassano anche grazie ai dati che noi stessi diamo loro.Se da una parte ci mostrano quello che vogliamo vedere (azzeccando sempre quello che ci piace), dall’altra compiono un “soft power” che con il passare del tempo permette loro di intervenire attivamente sui nostri interessi pilotando in questo modo le nostre scelte e, quindi, i nostri acquisti. È soprattutto dalla predizione dei nostri comportamenti futuri che traggono il loro vero potere. Il punto è che siamo noi stessi a permetterglielo. Lo facciamo non appena mettiamo piede in un social network e continuiamo a farlo ogni volta che flagghiamo una casella in più nelle sfilza di criteri che regolano l’utilizzo dei dati personali. Spuntiamo la casella “accetto” senza farci troppi problemi (e probabilmente senza nemmeno leggere quello che ci viene proposto) e gli consegniamo la nostra anima. Lo faremo anche con WhatsApp (anche questa di proprietà dell’onnipresente Zuckerberg) quando nei prossimi giorni ci chiederà di vidimare l’ultimo aggioramento dei diritti sulla privacy.D’altra parte è già così con tutti i social network che, oltre a immagazzinare miliardi di fotografie e video, stipano nei loro server un’infinità di terabyte di chat private. I big data sono la materia prima su cui si fonda quel “nuovo ordine economico” che, come spiega Shoshana Zuboff in “Il capitalismo della sorveglianza” (Luiss Edizioni), concentra «ricchezza, sapere e potere» in pochissime società. «Alcuni di questi dati – scrive la docente di Harvard – vengono usati per migliorare prodotti o servizi, ma il resto diviene un surplus comportamentale privato, sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come ‘intelligenza artificiale’ per essere trasformato in prodotti predittivi in grado di vaticinare cosa faremo immediatamente tra poco e tra molto tempo». Da sempre la tecnica punta a dominare la persona per concentrare nelle mani di pochi quante più ricchezze. Mai come oggi, però, c’è in gioco la nostra libertà. Non tanto quella che ci permettere di fare quello che vogliamo o di andare dove vogliamo. Quanto quella che ci permette di pensare e pertanto di agire come vogliamo. Per questo la cacciata di Trump dai social network ha in qualche modo a che fare anche con la nostra libertà.(Andrea Indini, “Ci tolgono la libertà”, dal “Giornale” del 12 gennaio 2021).Smettiamola pure di preoccuparci di un futuro senza più libertà. Quel futuro è presente, e non come realtà distopica alla George Orwell ma come grossolana quotidianità drammaticamente abituata senza battere ciglio a cedere porzioni di privacy e di indipendenza. Ce le stanno portando via, senza neanche troppi sforzi, concedendoci servizi gratuiti o garantendoci sempre più comodità. Così, appena abbiamo iniziato a chiederci qual è il prezzo di questo nuovo mondo iperconnesso, ecco che ci siamo accorti che forse è già troppo tardi per fare qualcosa. Ci aspettavamo un incubo dai contorni avveniristici come in “Blade Runner” o “Matrix”. Invece è qualcosa di più simile a un episodio di “Black Mirror”. E così un giorno ci siamo svegliati e ci siamo resi conto che è già tutto segnato. Troppo tardi per tornare indietro. Nessuna pillola blu per risvegliarsi dall’incubo, nessuna pillola rossa per sganciarci dalle catene. La realtà è molto più banale. È tale e quale a quella di cinquant’anni fa (niente macchine che volano, per intenderci), ma con una grande differenza: un mondo etereo, Internet, che conta molto pù di quello tangibile. Ed è lì dentro che ci stiamo affossando. Per colpa nostra. Perché il mezzo non è mai il male, dipende tutto dall’uso che se ne fa.
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Fuga da WhatsApp: addio privacy, Facebook monitora tutti
Fuga da WhatsApp: il colosso mondiale della messaggistica, controllato da Facebook, cambierà la sua “policy” l’8 febbraio 2021. «Sarà l’inizio di un monitoraggio senza più argini: ogni aspetto della nostra vita verrà “fotografato” e servirà a compilare un profilo accurato di ognuno di noi», avverte un giornalista indipendente come Roberto Mazzoni, attraverso il canale “MazzoniNews” su “Rumble“, la piattaforma video (senza censure) alternativa a YouTube. A far esplodere il caso – e l’abbandono in massa del social media acquisito da Zuckerberg – è stato un tweet di Elon Musk, patron di Tesla: «Passate a Signal», ha scritto, invitando gli utenti di WhatsApp a “traslocare” nel social di messaggistica considerato più sicuro, oltretutto ideato e realizzato dagli stessi realizzatori di Whatsapp, poi delusi dalla gestione imposta da Facebook. «Signal – scrive “GuruTech“, che raccomanda invece Telegram come piattaforma ultra-sicura per i messaggi – è in realtà un’app finanziata da Brian Acton, il co-fondatore di WhatsApp e della chat di Facebook, ossia Messenger. Signal è stato finanziato anche da Edward Snowden, l’ex contractor della Nsa riparato in Russia dopo aver ha dato il via al Datagate», lo scandalo della “sorveglianza digitale di massa” promossa all’epoca di Barack Obama.
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Evviva: il mondo libero festeggia la sconfitta del demonio
Ora è tutto chiaro: gli Stati Uniti sono popolati da 75 milioni di “terroristi interni”, che però sono stati finalmente sgominati dai cavalieri virtuali di Dominion Voting System, a volte rappresentati in forma umana, a beneficio dei fedeli, dall’ologramma di Joe Biden. L’ora è grave: a nulla è valsa l’eroica resistenza dei 7-8 poliziotti schierati a Washington davanti al Parlamento, per arginare quella che si annunciava come una manifestazione oceanica. Sicché i barbari hanno potuto agevolmente commettere l’empio sacrilegio: sono penetrati nel Tempio della Democrazia, mettendo fine (prima ancora che cominciassero) alle procedure di contestazione delle presidenziali 2020, inclusa la richiesta di una commissione d’inchiesta per esaminare, una buona volta, le migliaia di prove a suffragio dell’accusa. Prove che finora le autorità giudiziarie si sono sempre rifiutate di analizzare, accampando dinieghi solo formali e procedurali. La buona notizia è che le Forze del Bene hanno infine prevalso, schiacciando la coda del Serpente e togliendogli la parola, il microfono e l’accesso ai social, dopo avergli già tolto la stampa, la televisione e infine la Casa Bianca.Va tutto bene, è giusto così: succede sempre, quando il Bene prevale sul Male. Accadde già nel 1963, a Dallas, quando fu prontamente assicurato alla giustizia Lee Harvey Oswald, che aveva assassinato John Kennedy su ispirazione di Batman e dell’Uomo Ragno. A volte il Bene, per scatenarsi, ha bisogno che le coscienze si risveglino, anche attraverso eventi traumatici: accadde l’11 settembre 1973, quando in Cile fu rovesciato e ucciso il presidente Salvador Allende per mano del generale Augusto Pinochet, assistito spiritualmente da Mazinga Zeta e altre divinità infere. Accadde anche nel 2001 (casualmente, in un altro 11 settembre), quando a New York i due grattacieli più indistruttibili del mondo, per la cui demolizione il Comune aveva previsto l’impiego della bomba atomica, furono rasi al suolo da due Boeing pilotati da scolaretti: i velivoli eseguirono manovre da jet militari a velocità folle, e fu la stessa Boeing ad ammettere che – a quella quota, a 8-900 chilometri all’ora – le ali avrebbero dovuto staccarsi dalla fusoliera. Ma niente può fermare il Male, quando si manifesta, secondo l’oscuro disegno che poi porta, infine, al trionfo del Bene.La trama provvidenziale si dipanò negli anni seguenti, quando Moloch, Ahriman e George Walker Bush mossero guerra contro la più grave minaccia per il mondo libero, i Talebani, e subito dopo riuscirono ad annientare le micidiali Armi di Distruzione di Massa che si celavano in Iraq, ora trasformato nel paese più felice del pianeta. La stessa mano divina guidò il successore, l’impavido Barack Obama, che riportò la giustizia sulla Terra mettendo fine all’Impero di Wall Street e alla vita di migliaia di “terroristi esterni”, meticolosamente assassinati con i droni, settimana dopo settimana, attraverso ordini esecutivi firmati ogni lunedì. Gli eroici sforzi di Bush e Obama, è vero, non debellarono del tutto la minaccia rappresentata dalle incarnazioni del Male, prima Al-Qaeda e poi l’Isis. Ma si sa, le vie del Signore sono imperscrutabili. Nel 2016, infatti, il Male abbandonò il Medio Oriente e le città europee (fino ad allora devastate dagli attentati) per insediarsi direttamente a Washington, alla Casa Bianca. Da allora, il Bene ingaggiò una lotta senza quartiere per liberare il mondo dal più grave pericolo che fosse mai sorto, nella storia dell’umanità: il demonio chiamato Donald Trump.Da allora, i cavalieri alati hanno dato battaglia senza risparmiarsi: tanto per cominciare hanno svelato che è la Russia, in realtà, a stabilire chi vince le elezioni in America. E’ vero, Donald Trump aveva smesso di fare guerre nel resto del mondo: ma si sa che il demonio conosce mille trucchi. La sua perfidia è illimitata: può arrivare a far scomparire la disoccupazione, a resuscitare l’economia, a moltiplicare il benessere diffuso. E’ un inganno: lo hanno dimostrato gli arcangeli di Antifa, anche incendiando interi quartieri – e sparando, e uccidendo – mentre la polizia stava a guardare. Il demonio comunque dilagava, nei sondaggi: la sua rielezione era data per scontata. Fu allora che si manifestò la Volontà Divina nella sua potenza, con due fenomeni miracolosi: l’Influenza Cinese e l’epifania metafisica del Voto Postale, celestialmente corroborato dal pallottoliere elettronico di Dominion.Ora, fortunatamente, l’incubo è finito: la vittoria del Bene è di portata storica. Onore quindi ai nuovi eroi della virtù, ai soavi censori di Facebook e Twitter, agli algoritmi di Google, ai sabotatori che oscurano puntualmente i video che i seguaci del demonio provano ancora a pubblicare su YouTube. Il Male va rimosso alla radice: deve tacere, scomparire. Può godersi, al massimo, lo spettacolo spensierato del capodanno di Wuhan, mentre tutti gli altri bipedi (saggi e prudenti) se ne stanno rintanati come topi. Il Bene parla chiaro: parla da Pechino, la nuova patria della civiltà, spiegando che i frutti avvelenati del demonio – la libertà, i diritti, la salute, la serenità – erano solo squallide illusioni, quelle di cui è lastricata la strada per l’inferno, come l’effimera felicità terrena e la certezza dello Stato di diritto, l’umana dignità, l’impegno a esercitare a mezzo stampa l’arte della verità, della sincerità. Sgombrato il campo dai “terroristi interni”, finalmente si festeggia: Batman e l’Uomo Ragno brindano con Dominion, in una sala delle cerimonie in cui – se state attenti – in fondo, potrebbe anche apparire il premio più gradito, l’incarnazione del soprannaturale: l’ologramma del tenero Joe Biden.Ora è tutto chiaro: gli Stati Uniti sono popolati da 75 milioni di “terroristi interni”, che però sono stati finalmente sgominati dai cavalieri virtuali di Dominion Voting System, a volte rappresentati in forma umana, a beneficio dei fedeli, dall’ologramma di Joe Biden. L’ora è grave: a nulla è valsa l’eroica resistenza dei 7-8 poliziotti schierati a Washington davanti al Parlamento, per arginare quella che si annunciava come una manifestazione oceanica. Sicché i barbari hanno potuto agevolmente commettere l’empio sacrilegio: sono penetrati nel Tempio della Democrazia, mettendo fine (prima ancora che cominciassero) alle procedure di contestazione delle presidenziali 2020, inclusa la richiesta di una commissione d’inchiesta per esaminare, una buona volta, le migliaia di prove a suffragio dell’accusa. Prove che finora le autorità giudiziarie si sono sempre rifiutate di analizzare, accampando dinieghi solo formali e procedurali. La buona notizia è che le Forze del Bene hanno infine prevalso, schiacciando la testa del Serpente e togliendogli la parola, il microfono e l’accesso ai social, dopo avergli già tolto la stampa, la televisione e infine la Casa Bianca.
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Facebook pigliatutto: dovrà cedere Instagram e WhatsApp?
Brutte notizie per Facebook. Secondo un report dell’Antitrust americana il colosso dei social media esercita dei veri e propri “poteri di monopolio” sul mondo dei social network, scrive “Money.it”. Pertanto Mark Zuckerberg potrebbe essere costretto, in futuro, a mettere in atto dei rimedi, fra cui la scorporazione della società. Negli Usa, la Commissione Antitrust della Camera ha stilato un rapporto sulle 4 big tech americane. La commissione, guidata dalla maggioranza democratica, ha sollevato preoccupazioni nei confronti di Amazon, Apple e della parent-company di Google, Alphabet. L’Antitrust raccomanda al Congresso di considerare ogni acquisizione da parte delle big tech come anticompetitiva. Ma per il momento le attenzioni dell’Antitrust si concentrano su Facebook, che avrebbe mantenuto la propria posizione di monopolio «acquisendo, copiando o uccidendo la concorrenza». Nel report, la commissione rimanda al Congresso il compito di elaborare dei rimedi, fra cui si include la «separazione strutturale». Nel caso di Facebook, questo significherebbe vendere Instagram e WhatsApp.«Il potere monopolistico di Facebook è affermato e difficilmente eliminabile con la pressione competitiva di nuovi ingressi o di aziende già esistenti», afferma il report. Nel rapporto si cita anche uno scambio fra Zuckerberg e il suo Cfo risalente al 2012, poco prima dell’acquisizione di Instagram (per 1 miliardo di dollari, cifra ritenuta allora scioccante per un’azienda che aveva solo 13 dipendenti). «Quello che stiamo davvero comprando è il tempo», avrebbe detto Zuckerberg. «Anche se spuntano nuovi competitor, comprare Instagram adesso ci darebbe più di un anno per integrare le loro dinamiche prima che chiunque si avvicini al loro livello di nuovo», avrebbe detto allora il Ceo. «Competiamo con una grande varietà di servizi con milioni, anche miliardi di persone che li usano», ha aggiunto un portavoce di Facebook in un comunicato. «Le acquisizioni sono parte di ogni industria, e sono uno dei modi in cui introduciamo nuove tecnologie per fornire più valore alle persone».«Facebook è una storia di successo americano», ha concluso il portavoce della compagnia, che oggi vanta 2,6 miliardi di utenti in tutto il mondo, non senza ricevere forti critiche: manipolazione politica ed elusione fiscale, ad esempio nei paesi europei (altissimi ricavi pubblicitari e irrisoria contribuzione tributaria). Come anche gli altri social, poi, Facebok è accusata di praticare l’arbitrario oscuramento (parziale e a volte totale) dei contenuti che i governi oggi ritengono “inappropriati”, riguardo al coronavirus. A non stupirsi delle critiche rivolte a Facebook è lo scrittore e saggista Gianfranco Carpeoro, per trent’anni avvocato (all’anagrafe, Pecoraro): Facebook – ha ricordato – è nato in ambito Cia, a scopo spionistico. Un classico prodotto dell’intelligence: «All’indomani dell’11 Settembre, quando la sicurezza americana scoprì di dover “schedare” milioni di persone, un dirigente della Cia propose: ma perché non fare in modo che ciascuno “si schedi” da solo, e per giunta gratis, spiegando chi è, dove vive, cosa pensa e quali sono i suoi contatti». Solo in seguito, dice Carpeoro, comparve Zuckerberg: presentato, ovviamente, come il classico enfant prodige venuto dal nulla.Brutte notizie per Facebook. Secondo un report dell’Antitrust americana il colosso dei social media esercita dei veri e propri “poteri di monopolio” sul mondo dei social network, scrive “Money.it“. Pertanto Mark Zuckerberg potrebbe essere costretto, in futuro, a mettere in atto dei rimedi, fra cui la scorporazione della società. Negli Usa, la Commissione Antitrust della Camera ha stilato un rapporto sulle 4 big tech americane. La commissione, guidata dalla maggioranza democratica, ha sollevato preoccupazioni nei confronti di Amazon, Apple e della parent-company di Google, Alphabet. L’Antitrust raccomanda al Congresso di considerare ogni acquisizione da parte delle big tech come anticompetitiva. Ma per il momento le attenzioni dell’Antitrust si concentrano su Facebook, che avrebbe mantenuto la propria posizione di monopolio «acquisendo, copiando o uccidendo la concorrenza». Nel report, la commissione rimanda al Congresso il compito di elaborare dei rimedi, fra cui si include la «separazione strutturale». Nel caso di Facebook, questo significherebbe vendere Instagram e WhatsApp.
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Atzmon: noi pecore, agli ordini della non-scienza del Covid
«Non sono Trump o l’Fbi che hanno cancellato i sette milioni di post su Facebook che dissentivano con la narrativa ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non sono stati i Tories o Boris Johnson a far sparire da YouTube migliaia di video importanti. È stata l’opera di gigantesche società tecnologiche che operano tutte di comune accordo per mettere a tacere le opinioni dissenzienti». Ci voluti solo pochi giorni dall’inizio della pandemia di Covid-19 per rendersi conto che dissentire dalla narrativa ufficiale sul coronavirus suscitava simili, drastiche risposte. Lo afferma Gilad Aztmon, jazzista e intellettuale di origine ebraica, spesso in polemica con gli eccessi anti-palestinesi del sionismo israeliano. Il risultato della censura, dice Atzmon, è stato devastante: a sei mesi dall’inizio della “crisi” sappiamo ancora molto poco del virus, e in ogni caso la prima vittima è prpprio la scienza, vista la scomparsa dell’ethos scientifico e culturale occidentale. «Tremila anni di tradizione occidentale sono stati sostituiti da una cultura di tipo mercantile che falsifica l’mmagine del pensiero scientifico». Invece di chiedersi cos’è che mette in pericolo alcuni segmenti della popolazione, scrive Atzmon, «le nostre istituzioni sanitarie e le nostre aziende sono interessate ad un unico problema: come poter trasformare il Covid-19 in una macchina da soldi».A dare spettacolo non sono gli scienziati, che dovrebbero confronarsi liberamente sul virus, ma sono le start-up, che «competono tra loro in una disperata gara per i vaccini», mentre esplodono le quotazioni di Wall Street. «Davanti ai nostri occhi, Amazon estende il suo monopolio globale, mentre i rivenditori più piccoli cadono come mosche e, durante questo periodo, le aziende tecnologiche ci hanno mostrato la loro vera natura e il loro vero scopo».La verità è innegabile, scrive Atzmon: «Google non è un motore di ricerca, è un apparato di indottrinamento orwelliano, il suo fratello maggiore, 2020». Facebook e Twitter? «Non sono social network, in realtà sono filtri anti-sociali». Di fatto, «bloccano ciò che non vi è permesso dire o pensare, ma che sicuramente stavate iniziando a capire». Eppure, osserva l’analista, non è una novità: i prodromi di questo cambiamento autoritario erano già stati intuiti da molti, a cominciare da Orwell. E non solo: «Alcuni decenni fa, il contesto di questa svolta draconiana era stato probabilmente definito meglio da due grandi filosofi, l’austriaco Otto Weininger e il tedesco Martin Heidegger». Già all’inizio del XX secolo, il Weininger si era reso conto che la scienza medica stava perdendo la visione olistica del corpo umano, inteso come organismo, e stava iniziando a considerarlo «una mera collezione di organi».Weininger – scrive Atzmon – aveva intuito che la scienza medica era destinata a trasformarsi «in una questione di farmaci, una semplice somministrazione di sostanze chimiche». Ebreo di nascita, nel suo libro “Sesso e carattere”, Weininger «aveva lanciato un attacco senza precedenti alla cultura ebraica e alla sua influenza sulla scienza medica e sul pensiero scientifico in generale». L’attuale svolta della scienza medica, ha scritto Weininger nel 1903, è in gran parte dovuta «all’influenza degli ebrei, che in gran numero hanno abbracciato la professione medica». Ancora: «Dovremmo abbandonare questa scienza giudaica e ritornare ai più nobili concetti di Copernico e Galileo, Keplero ed Eulero, Newton e Linneo, Lamarck e Faraday, Sprengel e Cuvier. I liberi pensatori di oggi, senz’anima e non credenti nell’anima, sono incapaci di colmare il vuoto lasciato da questi grandi uomini e di rendersi umilmente conto dell’esistenza di segreti intrinseci nella natura». Secondo Atzmon, l’ebreoWeininger «voleva solo che la scienza si emancipasse da un paradigma materialista emergente. E il suo genio, per quanto controverso, è stato quasi completamente eradicato da coloro che controllano il nostro discorso pubblico.Mezzo secolo dopo “Sesso e carattere” di Weininger, fu diffiso il testo della conferenza “Il problema riguardante la tecnologia”, tenuta da Heidegger nel 1954. Tra i due eventi culturali, ricorsda Atzmon, il mondo aveva visto visto due guerre mondiali e la bomba atomica, una rivoluzione comunista, e il grandioso sviluppo inustriale. «Heidegger considerava la tecnologia principalmente come una modalità di rivelazione: attraverso la tecnologia, le cose si svelano a noi fino al punto in cui impariamo a conoscere il mondo che ci circonda, ma anche il nostro ruolo, il nostro significato, i nostri limiti e il nostro destino nel mondo». La tecnologia, in quanto tale, ha creato il mondo in cui viviamo e ci fornisce una finestra sul significato dell’essere. «Ma la tecnologia moderna, secondo Heidegger, ha introdotto un cambiamento nella dualità tra uomo e universo: piuttosto che rivelarci e svelarci il mondo, la tecnologia si è trasformata in una modalità di sfruttamento che rende il mondo in qualche modo inaccessibile a noi». A causa della tecnologia, osservava Heidegger, «tutte le distanze nel tempo e nello spazio si stanno riducendo», eppure questo «non porta ad alcuna vicinanza, perché la vicinanza non consiste in una ridotta quantità di distanza».Nonostante i rapidi progressi tecnologici, noi non siamo in grado di sperimentarla, questa “vicinanza” (figuriamoci poi di comprenderla). Invece di una graduale comprensione di come gli oggetti si manifestano a noi come tecnologici, li vediamo e li trattiamo come ciò che Heidegger definiva una “riserva permanente”, oggetti da tenere in magazzino o da esporre in una mostra. «Il mondo sta diventando una raccolta di oggetti tecnologici, gadget, pezzi di inventario da ordinare, catalogare, consumare, digerire, caricare, trasmettere in streaming, assemblare e smontare». E così, scrive Atzmon, «trattiamo anche le capacità e le malattie umane come se fossero solo dei mezzi per procedure tecnologiche e strumenti di produzione». Vale anche per il Covid-19, e qualunque altra apparente minaccia per la salute. «Anche prima che potessimo renderci conto di cosa fosse, il Covid-19 era già stato ridotto ad una risorsa tecnologica, ad una “riserva permanente” heideggeriana. Che si tratti del dibattito sulle mascherine, sulle vaccinazioni future o sui ventilatori, il Covid-19, oltre che un rischio per la salute, è diventato anche una “macchina da soldi”».Di fatto, «siamo ben lontani dall’ethos ateniese occidentale che sottoscrive il pluralismo, l’apertura e – cosa più importante – una ricerca incessante (e aperta) della verità, attraverso la saggezza». La verità, insiste Gilad Atzmon, è che «siamo lieti di avere paura, e accettiamo di farci terrorizzare da sempre nuovi scenari apocalittici», seguendo docilmente «chi ci spoglia dei nostri diritti più elementari». Così, «accettiamo la soppressione del libero pensiero fino a nuovo ordine, e preferiamo seguire leggi, regolamenti e “mitzvoth”» (cioè comandamenti, come quelli impartiti da Yahwè al popolo biblico). «In un mondo del genere – conclude Atzmon – Heidegger e Weininger sono nemici pubblici». E così Orwell, la cui sinistra profezia «non farà parte ancora per molto del programma scolastico occidentale». In sostanza, «il Covid-19 ci ha rivelato che non siamo poi così liberi come avremmo potuto credere». L’unica domanda che ci rimane, conclude Atzmon, è drammatica: come persone, potremo risorgere? E se mai, quando?(Gilad Atzmon, “Covid-19 e tecnologia”, dal blog di Atzmon del 29 agosto 2020; post tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).«Non sono Trump o l’Fbi che hanno cancellato i sette milioni di post su Facebook che dissentivano con la narrativa ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non sono stati i Tories o Boris Johnson a far sparire da YouTube migliaia di video importanti. È stata l’opera di gigantesche società tecnologiche che operano tutte di comune accordo per mettere a tacere le opinioni dissenzienti». Ci voluti solo pochi giorni dall’inizio della pandemia di Covid-19 per rendersi conto che dissentire dalla narrativa ufficiale sul coronavirus suscitava simili, drastiche risposte. Lo afferma Gilad Aztmon, jazzista e intellettuale di origine ebraica, spesso in polemica con gli eccessi anti-palestinesi del sionismo israeliano. Il risultato della censura, dice Atzmon, è stato devastante: a sei mesi dall’inizio della “crisi” sappiamo ancora molto poco del virus, e in ogni caso la prima vittima è prpprio la scienza, vista la scomparsa dell’ethos scientifico e culturale occidentale. «Tremila anni di tradizione occidentale sono stati sostituiti da una cultura di tipo mercantile che falsifica l’mmagine del pensiero scientifico». Invece di chiedersi cos’è che mette in pericolo alcuni segmenti della popolazione, scrive Atzmon, «le nostre istituzioni sanitarie e le nostre aziende sono interessate ad un unico problema: come poter trasformare il Covid-19 in una macchina da soldi».
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Covid, sapevano tutto: potere di vita o di morte su di noi
Avrebbero potuto proteggerci dalla pandemia e non l’hanno fatto: perché? Già il fatto che non ci abbiano protetto è una notizia. I grandi media ci hanno raccontato che il coronavirus è stato uno tsunami che ci ha preso alla sprovvista, e per questo motivo non avevamo difese. Io invece ho scoperto altro, facendomi domande: e non capisco perché gli altri giornalisti non se le siano poste, in questi mesi. Noi viviamo in un mondo in cui il bene più prezioso che esista è il possesso delle informazioni che riguardano il nostro futuro. Vale in ogni ambito: politico, sociale, di sicurezza, meteorlogico, economico-finanziario. Tutti i soggetti investono enormi risorse per capire in anticipo che cosa accadrà, e quindi agire di conseguenza. Questo è il mondo del XXI secolo: è fatto così. Quindi trovavo assurdo che, in un mondo del genere, nessuno avesse nemmeno provato a prevedere l’arrivo di un virus. Ho fatto ricerche anche banali, consultando fonti ufficiali: quelle prodotte dai governi, dagli istituti di ricerca, dalle organizzazioni internazionali. E così ho scoperto che il coronavirus è stato l’evento più annunciato del XXI secolo, il più previsto. Allora, se tutti lo sapevano (tutti quelli che dovevano saperlo), è possibile che non ce ne sia stato uno che abbia mosso un dito per cercare di proteggerci? Non uno che abbia avvertito la popolazione mondiale, tutti noi, dell’arrivo di questo virus, per trovare il modo di proteggerci prima ancora che arrivasse.
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Rivoluzione e nausea, nell’oceano delle fake news ufficiali
Il 14 luglio 1789 venne presa d’assalto la Bastiglia, simbolo della tirannide assolutistica dell’Ancien Régime, mentre il 14 luglio 2016 fece 86 morti e oltre 300 feriti il camion bianco del franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, lanciato come una bomba sulla folla dopo esser stato distrattamente “dimenticato” per giorni sulla Promenade des Anglais, il lungomare accuratamente sgomberato per accogliere l’anniversario nel migliore dei modi, coi fuochi d’artificio scintillanti sulle onde notturne della Costa Azzurra. Gli specialisti in oscuri presagi potrebbero almanaccare decine di indizi, per illuminare l’opacissima vigilia di questo indimenticabile 2020. In Italia lo spettacolo si declina in modo più casereccio, coi giornali che sparano in prima pagina il grido di un infermiere di Cremona che annuncia il ritorno dell’inferno; poi l’ospedale lo smentisce all’istante, ma per i narratori la notizia della direzione sanitaria (nessun allarme in corso, a Cremona) è del tutto trascurabile. Non fanno eccezione i colleghi francesi che nel 2015 archiviarono come suicidio la morte del commissario Helric Fredou, all’indomani della strage di Charlie Hebdo, su cui il poliziotto indagava. Silenzio anche sull’esito delle indagini, “tombate” dal segreto di Stato dopo la scoperta della manina della Dgse, i servizi segreti parigini, nella fornitura di armi ai terroristi, subito uccisi, non senza prima aver aver lasciato un passaporto in bella vista sull’auto usata per raggiungere la redazione del giornale satirico.Viviamo nel migliore dei mondi possibili, del resto. Wikipedia racconta ancora che a sparare a John Kennedy fu Lee Harvey Oswald, con un vecchio fucile Mannlicher-Carcano. L’arma rinvenuta nella stanza di Oswald era invece un Mauser 7,65: lo disse alla “Cnn” il vice-sceriffo di Dallas, Roger Dean Craig, presente nel corso della perquisizione. A beneficio del pubblico, magicamente, il fucile cambiò identità nei giorni seguenti, quando chi pilotava le indagini si accorse che il Mauser non avrebbe potuto esplodere i proiettili del Carcano, ritrovati sulla scena del crimine. A sparare a Kennedy – da una palazzina attigua a quella di Oswald – fu il mafioso Charles “Chuck” Nicoletti, coordinato da ganster trasportati a Dallas con un volo della Cia: lo racconta il pilota, Tosh Plumlee. A vuotare il sacco, in punto di morte, fu Howard Hunt, allora numero due dell’agenzia di intelligence: Jfk fu liquidato da loro, in complicità con l’Fbi, usando manovalanza mafiosa. La sera prima, a Dallas, il via libera definitivo scaturì da un summit a cui parteciparono il vicepresidente Lyndon Johnson e due futuri presidenti americani, Richard Nixon e George Bush senior. Anni dopo, l’agente Zack Shelton (Fbi) passò a un investigatore privato, Joe West, il nome di un secondo possibile killer: James Files. Il killer ha confermato di aver sparato a Kennedy il colpo letale con un fucile Fireball, facendogli esplodere il cranio.Detenuto fino al 2016 per altri reati, James Files attende ancora che qualcuno si degni di interrogarlo sulla vicenda, dopo quello che ha detto. Ovvero: se riesumerete il corpo di Kennedy gli troverete nella testa evidenti tracce di mercurio, minerale di cui era stato imbottito il proiettile del Fireball. Di Kennedy ha riparlato Bob Dylan il 27 marzo 2020 pubblicando sul web la canzone “Murder Most Foul”, che rievoca l’omicidio di Dallas. Il brano appartiene all’album “Rough and Rowdy Ways”, uscito il 19 giugno dopo altre anticipazioni, tra cui “False Prophet”, presentato da un’immagine eloquente: la morte vestita a festa sta bussando alla porta, con sottobraccio un pacco regalo e nell’altra mano una siringa. «Mettetevi al riparo», ha scritto Dylan accompagnando il brano su Kennedy: un modo per mettere il coronavirus in relazione diretta con il complotto che decretò la morte del presidente della New Frontier. Come dire: gli eredi di quella gente sono ancora in giro, e ora pensano di minacciare e terrorizzare il mondo, confiscando la libertà grazie a “falsi profeti” che si affrettano a somministrare ricette inquietanti e trattamenti sanitari obbligatori, dopo averci spiegato che non torneremo mai più alla vita di prima.I rumeni ricordano ancora il pallore di Nicolae Ceaușescu, travolto dalle proteste di piazza che il 21 dicembre 1989 interruppero il suo discorso dal palazzo presidenziale di Bucarest, tanto da spingerlo a scappare come un ladro, in elicottero. Nove anni prima, in una situazione analoga, il dittatore somalo Siad Barre fece sparare sulla folla che lo contestava. Non pochi dietrologi oggi considerano la tempesta Covid una sorta di colpo di coda, sferrato da un regime imparuito e forte morente, esteso da Wall Street a Pechino, infinitamente pervasivo e protetto dal grande mainstream che ancora oggi racconta che la colpa di ogni disgrazia è sempre da imputare ai cittadini comuni, incorreggibili. Non importa se persino il governo francese ha accreditato la versione del professor Jean-Luc Montagnier, scopritore del virus Hiv, secondo cui il Sars-CoV-2 uscito dal laboratorio di Wuhan era chiaramente un Rna modificato da mani umane, come quelle che da trent’anni tentano inutilmente di fabbricare un vaccino contro l’Aids. Fredde, in Italia, le reazioni alle parole di Montagnier: notoriamente, il Premio Nobel per la Medicina viene conferito a emeriti imbecilli.Non importa nemmeno che il laboratorio di Wuhan fosse strettamente controllato dall’Oms, il cui primo finanziatore privato è il “falso profeta” Bill Gates. Non importa che il primo farmaco impiegato con successo contro il Covid, l’idrossiclorochina, sia stato messo all’indice da “The Lancet” (e a ruota, da svariati governi), salvo poi assistere all’incresciosa ritrattazione degli autori dello studio, costretti ad ammettere che quell’antimalarico impedisce effettivamente che un malato di Covid si possa aggravare. E non importa neppure che trenta medici e scienziati italiani abbiano segnalato inutilmente al ministero della sanità l’efficacia decisiva di un altro farmaco, a base di normalissimo cortisone, senza aver avuto il minimo riscontro né da parte del ministro, né da funzionari del ministero. Due mesi dopo, la notizia del cortisone – la cui efficacia è stata certificata addirittura dall’Oms – ha fatto il giro del mondo, ripresa da medici inglesi che sono giunti alle stesse conclusioni dei colleghi italiani. Non importa nemmeno questo, ai padroni del discorso: l’unica cosa che pare interessi è mantenere l’allarme attorno a un fenomeno che sembra sia stato creato appositamente per scatenare il panico, nonostante le stesse statistiche – Istat, Iss – dimostrino che nei primi mesi del 2020 in Italia sono morte meno persone, per esempio, di quelle decedute negli anni precedenti, durante inverni caratterizzati da virulente epidemie influenzali.Non fa notizia neppure il fatto che il super-speculatore George Soros – fonte, il “Guardian” – abbia appena richiesto all’Unione Europea “una stretta sui social network”, che sarebbero ormai “una minaccia pubblica”. Lo sanno benissimo anche i giornalisti reclutati a Palazzo Chigi dal sottosegretario Andrea Martella, Pd, che dal suo Ministero della Verità monitora con attenzione le voci sgradite, in modo che poi i social media e i motori di ricerca – da YouTube a Google – trovino il modo di rimuovere o almeno rendere invisibili le voci più scomode. Inutile aggiungere che nemmeno questo fa notizia, nemmeno la nausea che milioni di italiani ormai provano per il disprezzo reiterato della verità, per la facilità con cui ogni possibile indizio finisce alla velocità della luce tra la cosiddetta spazzatura complottista, la discarica delle fake news, il paradiso delle bufale. E tutto questo, mentre il governo più sconcertante della storia – Conte e Di Maio, il fido Gualtieri, l’incredibile Azzolina, il grottesco Speranza (coi loro accessori Ricciardi, Arcuri e Colao) – ora si attrezza per blindare il paese ed eventualmente barricarlo in casa un’altra volta, dopo averlo lasciato senza assistenza economica. Gli spari sulla folla, nella storia italiana, risalgono a Portella della Ginestra (le cannonate, mezzo secolo prima, a Bava Beccaris). Memorabile lo spettacolo recente dei droni che inseguono pensionati, a spasso col cane. Per qualcosa che assomigli a una rivoluzione, invece, in Italia bisogna risalire agli anni che precedettero le gesta di Garibaldi.(Giorgio Cattaneo, “Rivoluzione”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 luglio 2020).Il 14 luglio 1789 venne presa d’assalto la Bastiglia, simbolo della tirannide assolutistica dell’Ancien Régime, mentre il 14 luglio 2016 fece 86 morti e oltre 300 feriti il camion bianco del franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, lanciato come una bomba sulla folla dopo esser stato distrattamente “dimenticato” per giorni sulla Promenade des Anglais, il lungomare di Nizza accuratamente sgomberato per accogliere l’anniversario nel migliore dei modi, coi fuochi d’artificio scintillanti sulle onde notturne della Costa Azzurra. Gli specialisti in oscuri presagi potrebbero almanaccare decine di indizi, per illuminare l’opacissima vigilia di questo indimenticabile 2020. In Italia lo spettacolo si declina in modo più casereccio, coi giornali che sparano in prima pagina il grido di un infermiere di Cremona che annuncia il ritorno dell’inferno; poi l’ospedale lo smentisce all’istante, ma per i narratori la notizia della direzione sanitaria (nessun allarme in corso, a Cremona) è del tutto trascurabile. Non fanno eccezione i colleghi francesi che nel 2015 archiviarono come suicidio la morte del commissario Helric Fredou, all’indomani della strage di Charlie Hebdo, su cui il poliziotto indagava. Silenzio anche sull’esito delle indagini, “tombate” dal segreto di Stato dopo la scoperta della manina della Dgse, i servizi segreti parigini, nella fornitura di armi ai terroristi, subito uccisi, non senza prima aver aver lasciato un passaporto in bella vista sull’auto usata per raggiungere la redazione del giornale satirico.