Archivio del Tag ‘imprese’
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Mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce ci mangia le banche
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.
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Bifarini: l’Africa cambia padrone, ora è schiava della Cina
Con una politica apparentemente innocua ma fortemente competitiva, fatta di prestiti a tassi bassissimi con il fine di conquistare tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali, il Dragone cinese sta occupando l’intero continente africano. Forte di un passato che non presenta la macchia dell’imperialismo coloniale, la Cina può sperimentare e affinare indisturbata in Africa il proprio colonialismo di mercato, con il beneplacito della popolazione locale, che spera e si illude di trovare nei conquistatori cinesi dei salvatori dalla propria condizione di sottosviluppo e miseria endemica. Senza nessuna pretesa di esportare modelli di democrazia universale né alcun bisogno di riconoscimenti e glorie in ambito umanitario, l’ex Impero Celeste trova nello sterminato territorio africano quello spazio vitale necessario alle proprie esigenze demografiche e di mercato. L’intero continente è stato sventrato per l’estrazione di diamanti e oro: gigantesche miniere cinesi pullulano di nuovi schiavi africani che estraggono minerali preziosi in condizioni disperate. Non solo non viene posto alcun riguardo per i diritti dei lavoratori, ma gli stessi diritti umani vengono calpestati, in nome della logica spietata del profitto.Amnesty International ha segnalato la presenza di oltre 40 mila minorenni, a partire dai sette anni, che lavorano per 12 ore al giorno a 2 dollari per datori di lavoro cinesi. Pechino negli ultimi anni ha superato Washington quale principale partner commerciale in Africa: il commercio della Cina ha raddoppiato quello degli Usa, che sono così stati relegati al terzo posto, dopo il Dragone e l’Unione europea. Come afferma lo scrittore congolese Mbuyi Kabunda, «l’Africa è diventata il nuovo oro per la Cina». Attraverso la sua politica di credito accomodante e d’investimento lungimirante, il colosso asiatico è riuscito a ottenere il controllo dei principali settori economici e strategici: i cinesi detengono ormai più del 65% dei contratti di infrastrutture e amministrano le grandi imprese minerarie, petrolifere, di telecomunicazioni ed energetiche in gran parte dei paesi africani. Nel solo 2016 gli investimenti diretti non finanziari delle imprese cinesi in Africa sono cresciuti a un ritmo del 31%.Lamido Lanusi, il governatore della Banca Centrale della Nigeria, in un’intervista al “Financial Times” ha dichiarato: «La Cina si impadronisce delle nostre materie prime e ci vende prodotti finiti (…) Questa è proprio l’essenza del colonialismo. L’Africa sta spalancando le sue porte a nuove forme di imperialismo (…) La Cina, per esempio, ormai non è più una economia sorella del mondo sottosviluppato ma è la seconda economia più forte del mondo, un gigante capace di esprimere le stesse forme di sfruttamento che ha adottato l’Occidente nel passato… Servono scelte coraggiose, dobbiamo produrre in Africa e allo stesso tempo respingere importazioni cinesi frutto di politiche predatorie».(Ilaria Bifarini, “Il neocolonialismo cinese in Africa”, dal blog della Bifarini del 20 aprile 2018. Il testo è estratto dal saggio “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, che Ilaria Bifarini pubblicato su Amazon – 205 pagine, euro 11,80 nel formato cartaceo).Con una politica apparentemente innocua ma fortemente competitiva, fatta di prestiti a tassi bassissimi con il fine di conquistare tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali, il Dragone cinese sta occupando l’intero continente africano. Forte di un passato che non presenta la macchia dell’imperialismo coloniale, la Cina può sperimentare e affinare indisturbata in Africa il proprio colonialismo di mercato, con il beneplacito della popolazione locale, che spera e si illude di trovare nei conquistatori cinesi dei salvatori dalla propria condizione di sottosviluppo e miseria endemica. Senza nessuna pretesa di esportare modelli di democrazia universale né alcun bisogno di riconoscimenti e glorie in ambito umanitario, l’ex Impero Celeste trova nello sterminato territorio africano quello spazio vitale necessario alle proprie esigenze demografiche e di mercato. L’intero continente è stato sventrato per l’estrazione di diamanti e oro: gigantesche miniere cinesi pullulano di nuovi schiavi africani che estraggono minerali preziosi in condizioni disperate. Non solo non viene posto alcun riguardo per i diritti dei lavoratori, ma gli stessi diritti umani vengono calpestati, in nome della logica spietata del profitto.
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Sindacati e Confindustria uniti nella lotta contro i lavoratori
Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.L’accordo interconfederale programma la riduzione dei salari reali nei contratti nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell’impresa. A livello nazionale i soli aumenti previsti saranno quelli che rivalutano i minimi tabellari, che sono solo una parte della retribuzione effettiva di un lavoratore. Si dovrà calcolare quanto cresce il costo della vita, sottrarre da esso i costi energetici e dei beni importati – l’aumento della bolletta elettrica, del gas, della benzina che non si recupera in busta paga – e infine si arriverà a definire quanto sarà l’aumento reale in busta paga. Con questo sistema i metalmeccanici hanno ricevuto l’incremento favoloso di 3 euro mensili. Si crea così più spazio per la contrattazione a livello aziendale, come dicono i firmatari dell’accordo e i soliti esperti liberisti e confindustriali? Certo che no. I lavoratori non possono rivolgersi alla loro azienda dicendole: visto che il contratto nazionale non ci ha dato i soldi che ci spettano, ora ce li dai tu. Eh no, risponderà l’azienda, l’accordo interconfederale stabilisce che ogni centesimo in più debba essere guadagnato con lavoro in più e legato all’andamento dei profitti aziendali. Per essere chiari, se l’azienda va benissimo ai lavoratori tocca qualcosa, che però può essere loro tolto se la situazione cambia.Il salario aziendale diventata totalmente variabile, verso l’alto ma anche verso il basso. Il salario fisso vale sempre meno e quello che dovrebbe integrarlo è sempre più aleatorio: oggi c’è, domani no. Insomma i lavoratori vengono trattati come i manager, ma con retribuzioni mille volte inferiori. In sintesi con questo sistema contrattuale il salario reale può solo calare. Del resto lo stesso concetto di aumento della retribuzione viene bandito dalle regole del gioco. I sindacati non possono rivendicare più soldi solo perché i lavoratori non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Guai, questo significherebbe alimentare la vecchia lotta di classe e rifiutare la moderna collaborazione con l’impresa! Ci sono voluti quasi trenta anni di accordi, dal taglio della scala mobile negli anni ’80, alle varie intese degli anni ’90 e dell’ultimo decennio; alla fine l’obiettivo storico delle classi imprenditoriali è stato raggiunto: il salario costituzionale, quello che definisce la dignità del lavoro indipendentemente dal mercato, non esiste più. E con esso non esiste neppure più la contrattazione. I sindacati che accettano questo modello non possono e non devono chiedere più nulla, devono solo applicare delle formule rinunciando a fare il loro mestiere.I metalmeccanici tedeschi hanno raggiunto le 28 ore settimanali assieme all’aumento dei salari. L’accordo sul sistema contrattuale italiano non solo impedisce che simili risultati possano essere mai acquisiti, ma vieta persino che possano essere richiesti. La piattaforma della IgMetall, nel sistema sottoscritto da Camusso e compagnia, sarebbe semplicemente fuorilegge. Neppure i vertici della Ue avrebbero saputo imporre ai lavoratori italiani un sistema così capace di farli lavorare sempre di più e guadagnare sempre di meno. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria cancellano la possibilità per i lavoratori di ottenere contratti degni di questo nome, ma si mettono definitivamente assieme in affari. Fondi pensione, sanità privata, formazione e traffici vari sul lavoro, di questo si occuperanno davvero.Alla firma dell’intesa i leader sindacali e confindustriali si sono abbracciati e hanno fatto sapere alla politica che essa non deve occuparsi di loro, che i lavoratori sono cosa loro. Pensano così di essersi salvati dal crollo del Pd, partito che, pur con finte polemiche, hanno sempre sostenuto. Hanno organizzato un sindacato unico di regime in cui padroni e vertici sindacali operano affratellati in una sola corporazione. A sua volta lo Stato, con le parole della Corte dei Conti, ha teorizzato la riduzione dei salari dei propri dipendenti. Il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente si fanno contratto. È il tallone di ferro che schiaccia tutto il mondo del lavoro, un regime di austerità e di impoverimento permanente che si afferma con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. La ricostruzione del valore costituzionale del lavoro e del suo salario passa attraverso la rottura del sistema di relazioni sindacali che si è affermato in questo decenni. E ovviamente questa rottura dovrà anche riguardare i grandi sindacati confederali, che per salvare sé stessi hanno abbandonato i lavoratori al mercato ed ai tagli della spesa pubblica.(Giorgio Cremaschi, estratto da “E’ nato il nuovo sindacato unitario: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria”, da “Carmilla” del 22 aprile 2018).Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.
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Inciucio Pd e 5 Stelle, il governo dei servi richiesto dal Fmi
Il Fondo Monetario Internazionale di Washington, con la sua nota storia di sabotaggi e saccheggi delle economie dei paesi sottomessi attraverso le sue ricette economiche deliberatamente errate, torna ad occuparsi dell’Italia raccomandando di aumentare le tasse sul risparmio, sulla casa, sui consumi per alleggerire quelle sul lavoro. E’ la medesima ricetta che il Fmi attraverso il governo Monti impose nel 2011, producendo il crollo del Pil, del mercato immobiliare e dei consumi, in particolare svalutando il patrimonio immobiliare italiano di circa il 30%, ossia di oltre 2000 miliardi di euro. Più tasse su risparmio, immobili e consumi comportano riduzione della domanda interna e fuga dei risparmi e degli investimenti verso l’estero. Ecco l’obiettivo del Fondo Monetario Internazionale. Pensateci bene: se grazie alla riduzione delle tasse sui redditi di lavoro vi ritrovate con più reddito disponibile e insieme con un’Iva più alta, con tasse patrimoniali aggiuntive sulla casa e sugli investimenti immobiliari, che cosa fate? Non vi viene certo voglia di aumentare i consumi e gli investimenti di risparmio. Invece vi viene voglia di portare i soldi all’estero.E se invece il taglio delle tasse sul lavoro vi consente semplicemente di ottenere un impiego sufficiente a mantenervi coi magri salari che oggi vengono concessi, che cosa comprate? Comprate i prodotti che costano poco venduti nei discount, prodotti che vengono dall’estero, quindi i vostri soldi egualmente finiscono all’estero. Come con le rimesse degli immigrati. Tutto contribuisce a decapitalizzare l’Italia. Tutto questo porta a minor domanda di beni e servizi prodotti in Italia virgola quindi a recessione indotta dal calo della domanda interna e degli investimenti interni. Al contrario, da sempre, ciò che fa ripartire l’economia, l’occupazione, i consumi, e soprattutto la domanda di beni e servizi prodotti nel paese, è il mercato immobiliare, le costruzioni, l’arredamento, l’impiantistica, la progettazione, etc. L’Italia ha avuto i suoi migliori periodi di espansione quando avveniva proprio questo, l’investimento nel mattone da parte delle famiglie e delle imprese, che poi usavano i beni immobili come garanzia accettata dalle banche per finanziare l’acquisto di beni di consumo e strumentali, l’apertura di nuove aziende, la crescita. Ma le banche accettavano in garanzia i beni immobili quando gli immobili non erano tartassati dal fisco.È questo il senso malizioso della politica raccomandata dal Fondo Monetario Internazionale in passato come oggi: sabotare l’economia nazionale, impoverire, trasformare radicalmente l’Italia in territorio decapitalizzato e indebitato, passivo serbatoio di manodopera mal pagata (alimentato da scadente immigrazione) e sfruttata a disposizione della grande industria straniera, soprattutto tedesca, che si trattiene tutto il profitto della filiera. Un paese schiavo del debito pubblico e privato, gestito da una classe dirigente ad alta vocazione parassitaria alleata con gli interessi stranieri e che trae il grosso dei suoi consensi dalle regioni e dalle categorie che vivono di trasferimenti a carico delle aree produttive. Questo è lo spirito del governo servile che si sta cercando di impiantare a Palazzo Chigi con un inciucio M5S-Pd. Il M5S ormai, al di là dei suoi programmi, deve la sua forza elettorale a un voto motivato in gran parte da aspettative assistenzialistiche (reddito di cittadinanza, rectius di sussidio a chi risulta disoccupato, trasferimenti meridionalisti), quindi è legato a quelle aspettative; anche il Pd deve la sua residua forza a categorie ampiamente improduttive e ai legami col mondo bancario. La sinergia tra questi due partiti sarà quindi necessariamente nel senso di aumentare la tassazione e i trasferimenti, oltre che di obbedire alle richieste della cosiddetta Europa e dei cosiddetti mercati. E di proteggere il passato bancario di molti uomini del Pd, come spiegato nel mio precedente articolo.(Marco Della Luna, “Pd-M5S, un governo per il Fmi”, dal blog di Della Luna del 23 aprile 2018).Il Fondo Monetario Internazionale di Washington, con la sua nota storia di sabotaggi e saccheggi delle economie dei paesi sottomessi attraverso le sue ricette economiche deliberatamente errate, torna ad occuparsi dell’Italia raccomandando di aumentare le tasse sul risparmio, sulla casa, sui consumi per alleggerire quelle sul lavoro. E’ la medesima ricetta che il Fmi attraverso il governo Monti impose nel 2011, producendo il crollo del Pil, del mercato immobiliare e dei consumi, in particolare svalutando il patrimonio immobiliare italiano di circa il 30%, ossia di oltre 2000 miliardi di euro. Più tasse su risparmio, immobili e consumi comportano riduzione della domanda interna e fuga dei risparmi e degli investimenti verso l’estero. Ecco l’obiettivo del Fondo Monetario Internazionale. Pensateci bene: se grazie alla riduzione delle tasse sui redditi di lavoro vi ritrovate con più reddito disponibile e insieme con un’Iva più alta, con tasse patrimoniali aggiuntive sulla casa e sugli investimenti immobiliari, che cosa fate? Non vi viene certo voglia di aumentare i consumi e gli investimenti di risparmio. Invece vi viene voglia di portare i soldi all’estero.
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Cacciari e Farinetti, le altezze altezzose del pensiero in Tv
Ogni volta che vediamo il filosofo Massimo Cacciari in televisione ci coglie un mostruoso complesso di inferiorità. Cacciari parla sempre con un tale distaccato snobismo da indurti a relegare, seduta stante, gli astanti (conduttore, ospiti, contraddittori, pubblico e te medesimo) al rango di poveri analfabeti illetterati. È una sensazione strana, ma forse è la sensazione appropriata che, da che mondo è mondo, la gente normale sperimenta al cospetto del genio. Ogni volta che vediamo l’imprenditore Oscar Farinetti in televisione ci coglie un analogo moto di sbigottita ammirazione. Farinetti si esprime sempre con quell’erre lievemente moscia e con la consapevolezza dell’uomo d’impresa che ce l’ha fatta, sa perché ce l’ha fatta e vorrebbe spiegare alla politica, e al politico, il motivo per cui lui (l’Oscar) ce l’ha fatta mentre la politica e il politico non gliela fanno mai. Ecco, in questo Farinetti e Cacciari si somigliano: è del tutto evidente – da come si pongono, da come si esprimono, dai toni, dai modi, dai tic, dalla trattenuta alterigia di Cacciari nei confronti di un mondo troppo ignorante e troppo poco intelligente, dalla assertiva propositività di Farinetti rispetto a un mondo troppo ingessato e troppo poco intraprendente – che essi possiedono le risposte e vorrebbero darcele, ma noi – ahimè! – non vogliamo starli a sentire e comunque non riusciremmo a capire.Ne discende che incappare in Farinetti e Cacciari insieme, nello stesso programma Tv, è un bacio della buona sorte. È successo qualche sera fa dalla Gruber. C’è stato un attimo, parliamo di una ventina di secondi, non di più, imperdibile. Cacciari aveva appena elogiato i Cinque Stelle per la loro conversione a U sulla strada dell’europeismo e aveva asserito che, alla buon’ora, essi hanno compreso l’irreversibile ineluttabilità del progetto europeo (al cospetto del quale – mancava dicesse – persino lo Spirito del Mondo di Hegel è una caccola). Poi aveva preso la parola Farinetti, il quale si era lanciato in uno dei grandi classici di Monsieur Laqualunque: le contrapposizioni politiche sono buone per la campagna elettorale, ma poi bisogna marciare tutti insieme, tutti uniti nella stessa direzione. Quindi, Oscar ha aggiunto una frase del tipo: “Io sono un imprenditore e sono per natura filogovernativo”; il personaggio ha fiuto e necessità di riposizionarsi.A quel punto, Cacciari ha sogghignato compiaciuto versandosi dell’acqua minerale come per dire: questa te la concedo, questa è una condivisibile banalità, innocua e trasversale. Ecco, in questo patetico siparietto – di complicità esibita tra il sommo filosofo e l’eccelso imprenditore – c’è tutta l’Italia di oggi e, probabilmente, anche di domani. Se Farinetti e Cacciari rappresentano la nostra punta di lancia, rispettivamente imprenditoriale e intellettuale, e se quella testè esposta è la summa del loro pensiero migliore (l’Europa Unida jamás será vencida, canterebbero gli Inti Illimani) allora forse è un bene che la gran parte degli italiani non sia alla loro ‘altezza’.(Francesco Carraro, “Altezze altezzose”, dal blog di Carraro del 22 aprile 2018).Ogni volta che vediamo il filosofo Massimo Cacciari in televisione ci coglie un mostruoso complesso di inferiorità. Cacciari parla sempre con un tale distaccato snobismo da indurti a relegare, seduta stante, gli astanti (conduttore, ospiti, contraddittori, pubblico e te medesimo) al rango di poveri analfabeti illetterati. È una sensazione strana, ma forse è la sensazione appropriata che, da che mondo è mondo, la gente normale sperimenta al cospetto del genio. Ogni volta che vediamo l’imprenditore Oscar Farinetti in televisione ci coglie un analogo moto di sbigottita ammirazione. Farinetti si esprime sempre con quell’erre lievemente moscia e con la consapevolezza dell’uomo d’impresa che ce l’ha fatta, sa perché ce l’ha fatta e vorrebbe spiegare alla politica, e al politico, il motivo per cui lui (l’Oscar) ce l’ha fatta mentre la politica e il politico non gliela fanno mai. Ecco, in questo Farinetti e Cacciari si somigliano: è del tutto evidente – da come si pongono, da come si esprimono, dai toni, dai modi, dai tic, dalla trattenuta alterigia di Cacciari nei confronti di un mondo troppo ignorante e troppo poco intelligente, dalla assertiva propositività di Farinetti rispetto a un mondo troppo ingessato e troppo poco intraprendente – che essi possiedono le risposte e vorrebbero darcele, ma noi – ahimè! – non vogliamo starli a sentire e comunque non riusciremmo a capire.
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Reddito di cittadinanza: è il piano (infernale) degli oligarchi
Mark Zuckerberg non ha bisogno di presentazioni: mister Facebook vale 64 miliardi di dollari. Altro paperone-prodigio: il sudafricano Elon Musk, patron di Tesla e Space-X. Cos’hanno in comune, a parte i giacimenti aurei? La fede nel reddito di cittadinanza. La pensano così anche l’americano Richard Branson della Virgin e il canadese Stewart Butterfield, l’inventore della banca-immagini Flickr e di Slack, applicazioni per messaggerie. Uomini d’oro e potenti oligarchi, improvvisamente anche umanitari: si stanno battendo a favore del reddito di base garantito, osserva Chris Hedges, a lungo corrispondente estero del “New York Times”. «Sembra che siano dei progressisti e che esprimano queste loro proposte con parole che parlano di morale, prendendosi cura degli indigenti e dei meno fortunati». Ma dietro questa facciata, scrive Hedges, c’è una cruda consapevolezza: soprattutto la Silicon Valley «vede un mondo – quello che questi oligarchi hanno contribuito a creare – tanto iniquo che i consumatori di domani, che dovranno sopportare la precarietà del lavoro, salari sotto i minimi, l’automazione e la schiavitù di un debito che blocca tutto, non saranno in condizione di spendere abbastanza per comprare i prodotti e i servizi offerti dalle grandi corporations».
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
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Perché alla fine Berlusconi dovrà cedere a Salvini e Di Maio
Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.Primo: perché ci sono un sacco di parlamentari di Forza Italia che seguirebbero Salvini in quest’avventura, magari attraverso una scissione, come fece Angelino Alfano col Nuovo centrodestra in direzione Pd. Al contrario, non abbiamo notizia di parlamentari leghisti che farebbero il percorso inverso. Secondo: perché le giunte regionali e gli enti locali, a dispetto delle minacce, non sarebbero in pericolo. Non la Liguria, di sicuro, dove il buon Toti se ne starebbe tranquillamente al suo posto. Non il Veneto, dove la rielezione di Zaia, anche col centrodestra diviso, non sarebbe in discussione. E nemmeno la Lombardia, dove già nella scorsa consiliatura la maggioranza di centrodestra non si era divisa né quando il Pdl aveva sostenuto Enrico Letta, né quando c’era stato lo scisma tra Berlusconi e Alfano. Terzo: perché per il Berlusconi imprenditore, a questo giro, avere un governo amico è fondamentale. Lo è per l’happy ending della sua carriera politica, che non vuole si concluda con un Nino Di Matteo ministro della giustizia, ad esempio. Lo è soprattutto per le sue aziende, in primis Mediaset, spettatrice interessata del balletto tra Telecom, Vivendi, Elliot e Cassa Depositi e Prestiti.Un balletto in cui si registra la convergenza d’interessi e intenti tra Cinque Stelle, Lega e Forza Italia, tutte e tre favorevoli alla mossa della fondazioni bancarie e di Costamagna. Al netto di ogni valutazione di merito, qualcosa vorrà pur dire. Ecco perché alla fine Berlusconi cederà: perché è uno abituato a fare bene i conti e sa che gli conviene star dentro, seppur defilato, anziché fuori. Perché sa che è fondamentale tenere unita Forza Italia, più che il centrodestra – magari trovando un leader in pectore in Antonio Tajani – se vuole cercare perlomeno di rallentare il disegno egemonico di Salvini. Perché mai come oggi il peso degli amici di sempre, quelli che lo chiamano Silvio o Dottore, come Confalonieri, Letta, Galliani, lo spingerà al pragmatismo. Un lieto fine val bene un pranzo con Luigi Di Maio. A volte bisogna sapersi accontentare di non prenderle. Anche se ti chiami Berlusconi e hai giocato all’attacco per tutta la vita.(Francesco Cancellato, “Berlusconi cederà: e (presto o tardi) sarà governo Lega-Cinque Stelle”, da “Linkiesta” del 9 aprile 2018).Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.
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Magaldi: serve ben altro che il taglio (irrisorio) dei vitalizi
Non penseranno di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi, vero? Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?Siamo nel mezzo di una torbida palude, dice un osservatore indipendente come Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché fustigatore pubblico della massoneria più onnipotente, il regno misterioso delle superlogge-ombra come quelle in cui milita George Soros, che firmerà un contributo speciale nel sequel di “Massoni”, saggio di prossima uscita. Già nel primo volume, Magaldi sostiene che l’Italia sia un campo di battaglia decisivo, riguardo al futuro dell’Europa, anche per il mondo esclusivo delle Ur-Lodges: da una parte la fazione dominante, reazionaria, che ha impugnato la clava del rigore finanziario demolendo benessere e diritti, e dall’altra i progressisti, riemersi dall’ombra con Bernie Sanders alle primarie americane e con Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti inglesi. La Francia? Dopo la grande delusione di François Hollande, sponsorizzato dalla “Fraternité Verte”, all’Eliseo è tornata una pedina dell’oligarchia destrorsa, il finto outsider Emmanuel Macron, sorretto dalla supermassoneria neo-aristocratica – che infatti annuncia tagli devastanti al welfare e storiche mutilazioni del pubblico impiego. “En Marche”, ma dalla parte opposta: quella raccomandata dall’élite cha trasformato l’Unione Europea in un bagno penale per “popoli superflui”, per usare un’espressione di Marco Della Luna.Siamo nella palude, dice Magaldi a “Color Radio”, ma non è detto che dal fango fertile non nasca qualche fiore. Purché, appunto, non si monti una gazzarra fuorviante sulla quisquilia dei vituperati vitalizi, pari a zero nel bilancio delle cose che contano davvero. Per esempio: reddito di cittadinanza e scure sulle tasse. Post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, Magaldi tiene ai suoi distinguo: non è saggio pensare a un’assistenzialismo permanente, né a una Flat Tax come quella promessa da Salvini in campagna elettorale, con l’aliquota al 15%. Ma il reddito pentastellato è qualcosa di diverso: se ben amministrato, può essere un ammortizzatore molto utile, almeno in via temporanea. Beninteso: è il lavoro, il faro della riscossa del paese. E la leva strategica sono gli investimenti pubblici, destinati alle imprese private. Non si contano le infrastrutture ormai cadenti cui mettere mano, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Idem, le tasse: passi la boutade elettorale del 15%, ma non è pensabile che si continui a taglieggiare le aziende, messe in croce da uno Stato che sa essere efficiente solo quando veste i panni di esattore. Sono argomenti forti, quelli sul tappeto. L’importante è cominciare a spacchettarli: soccorso finanziario a chi è nei guai, e riduzione netta della tassazione. Si farà sul serio? Sappiano, i vincitori del 4 marzo, che l’Europa li sta guardando – insieme agli italiani che li hanno votati.Non pensino di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi. Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?
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Bugie su Mosca da un’Europa in pezzi. L’Italia? Obbedisce
Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre a Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci: «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».Quanto alle dichiarazioni del governo britannico, la stessa May continua a dire che «è altamente probabile» che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. «Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi», aggiunge Foa. E nel comunicato congiunto diffuso da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma “sviluppato” non significa prodotto in Russia: «Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come “fabbricato” – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa», che pertanto «andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa, non come un verdetto». La stampa dovrebbe mostrare maggior cautela, specie dopo le maggiori “fake news” che ha propagato, dalle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein fino alle prove “incontrovertibili” (ma altrettanto inesistenti) della responsabilità di Assad nella strage coi gas nel 2013 (armi chimiche in realtà usate dai “ribelli” siriani per provocare un intervento della Nato).Come risalire addirittura a Putin nel giro di poche ore, soprattutto conoscendo l’efficienza dell’ex Kgb? Molto eloquente, sottolinea Ivan Giovi sul blog di Aldo Giannuli, la volontà di non mostrare la provetta che dimostrarebbe la produzione russa del gas nervino utilizzato contro Skripal, nonostante Boris Johson si sia scagliato contro il Cremlino, non a caso alla vigilia delle elezioni russe. Marcello Foa insiste: siamo regolarmente sommersi da “fake news” veicolate non dal web, ma dai grandi media. Penultimo esempio: sempre in Siria, nel 2107, Amnesty International e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un “formo crematorio” in cui venivano “bruciati i ribelli”, «rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano». Avverte Foa: «Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”».Le istantanee adesioni europee alla condanna unilaterale inglese contro la Russia, scrive Giovi, fanno pensare a un tentativo di compattamento dei ranghi della Nato, «che sembra ormai tutto tranne che un’alleanza». Ovvero: più che un alleato, la Turchia «ormai sembra sempre più una spina nel fianco di Europa e Usa», mentre la Germania «ha intrapreso una guerra commerciale con gli Stati Uniti trascinando con sé tutta Europa». Dal canto loro, gli Usa «si lamentano in continuazione con gli Stati europei perché non contribuiscono abbastanza alla difesa comune». Tendenza in corso: ricompattare i ranghi della Nato ingigantendo il reale potere dei russi e «trovando pretesti assurdi per incolparli di qualsivoglia evento accaduto nel mondo occidentale (leggasi hacker russi che interferiscono con elezioni di mezzo mondo)». Senza peraltro riuscire nello scopo, «perché l’influenza russa negli ultimi anni si è estesa sempre di più, basti pensare alla Turchia che ha palesemente cambiato sponda o alla in Siria dove il vincitore a breve sarà nettamente Vladimir Putin». In questo quadro, Maurizio Blondet inserisce anche il giro di vite contro l’uomo che per primo ha smontato la propaganda militare Usa, mettendo in piazza i crimini commessi in Iraq: Julian Assange. L’averlo isolato – senza più Internet – per ragioni diplomatiche (buon vicinato con gli inglesi) rappresenta «una stretta imposta dal governo britannico nell’ambito dell’offensiva europea e americana contro tutte le voci libere».Per Blondet, si tratta di «un atto di barbarie identico (e connesso) alle espulsioni dei diplomatici russi sotto accuse spudoratamente false: una vera congiura della dittatura totalitaria occidentale in corso di consolidamento, una volontà di precipitare il conflitto con la Russia». Lo stesso Blondet ricorda che la Commissione Europea ha appena presentato un “Piano d’azione sulla Mobilità Militare” che obbligherà tutti i paesi membri a lasciare libero il passo agli eserciti Nato sul proprio territorio. Come sottolinea Thierry Meyssan, non si parla solo di eserciti europei: nella Nato, oltre agli Usa, c’è la Turchia. Per Blondet, questa misura «è l’identificazione finale della “Unione Europea” con l’Alleanza Atlantica, l’inglobamento dell’organizzazione essenzialmente economica nella lega militare oggi in postura offensiva». A 25 Stati membri viene ordinato di fornire carte delle loro vie di comunicazione (ferrovie, porti, aeroporti) nonché di precisare i lavori necessari per rendere praticabili ponti e le loro gallerie per i mezzi cingolati. «Dovranno anche cancellare le leggi e i regolamenti in vigore che vietano – o regolamentano – il trasporto di armamenti e materiali bellici sul loro territorio: è una Schengen per la guerra».Trionfante, Federica Mogherini – ancora lei, benché il governo che l’ha piazzata a Bruxelles non esista più – accoglie il progetto con entusiasmo: «Facilitando la mobilità militare nella Ue, siamo più efficaci nel prevenire crisi, più efficienti nel dispiegare le nostre missioni e più rapidi nel reagire quando sorgono delle sfide». “Prevenire crisi”, secondo Blondet, va inteso nei due sensi: «Secondo documenti interni all’Alleanza, la mobilità militare non serve solo per far correre le forze alle frontiere contro la Russia; servirà anche in caso di sollevazione popolare all’interno di uno degli Stati membri». Noi italiani non potevamo fare altrimenti che espellere diplomatici russi, pur con il già defunto governo Gentiloni? Non è vero, sottolinea Blondet: sono sono tutti così servili. Austria, Grecia e Portogallo si sono rifiutati di accodarsi a Londra, Parigi, Berlino e Roma. L’ha fatto anche la Repubblica Ceca: «Voglio vedere le prove», ha avvertito il presidente ceco Milos Zeman, rifiutando di compiere azioni ostili contro Mosca. Una dignità politica inesistente in Italia, la cui nave della Saipem per trivellazioni marittime è stata allontanata dalle acque di Cipro (sotto minaccia della flotta turca) senza che fiatasse il governo di Roma, in cui soccorso non è intervenuto nessuno – né l’Ue, né la Nato, cioè le potenze che dall’Italia poi ottengono obbedienza immediata se si tratta di colpire Mosca.E vogliamo parlare del “partner” Germania? «Mentre noi applichiamo le sanzioni alla Russia – aggiunge Blondet – Berlino ha appena firmato e confermato il North-Stream 2, il gasdotto baltico con la Russia, a dispetto delle proteste di Polonia, paesi baltici e Usa. Con quale motivazione? Che il gasdotto è una realizzazione “economica”, non politica». Dalla “guerra” con la Russia, invece, l’Italia ha riportato enormi danni. Secondo dati ufficiali Eurostat, fino a inizio 2017 il trend delle esportazioni italiane nella Federazione Russa era in crescita, con 10,8 miliardi di euro. Le importazioni, invece, ammontano a circa 20 miliardi di euro, principalmente nel settore degli idrocarburi e delle materie prime. Oltre 400 sono le imprese italiane che operano in Russia e circa 70 gli stabilimenti produttivi realizzati nella Federazione (tra questi le installazioni Eni, Indesit, Marcegaglia, più le filiali Intesa SanPaolo e Unicredit). «E’ chiaro che il vero nostro partner è la Russia», non certo i nostri “alleati” euro-atlantici. E se il Pd è rimasto sempre allineato ai diktat “imperiali”, solo Salvini ha eccepito sull’ultima offensiva antirussa. Di Maio? «Sulla questione degli espulsi russi ha taciuto: zitto zitto, per non dispiacere all’ambasciatore Usa e ai padroni del vapore in generale». In sostanza: neppure la nuova politica emersa il 4 marzo protegge l’Italia dalle “pazzie” geopolitiche in corso, riesplose subito dopo l’annuncio di Putin: grazie a nuovissimi missili nucleari iper-sonici “imparabili”, la Russia è al riparo da attacchi atomici. Putin chiede pace? L’Occidente risponde con una guerra di menzogne.Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti, contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci: «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».
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La Cina sa che persino la corruzione fa volare l’economia
La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.La questione centrale non è se la Cina possa continuare a trasgredire o confondere le norme, semmai quanto gli è richiesto di farlo. E ciò, come sempre, dipende dal fatto che il governo cinese possa trovare un equilibrio tra l’intervento statale e le forze di mercato. Il potere autoritario centralizzato ha i suoi pregi, inclusa la capacità – per gli imprenditori che lo “subiscono” – di costringerli a correggere rapidamente la rotta. Ciò ha permesso ai leader cinesi di mettere l’economia su un binario di crescita più sostenibile negli ultimi anni. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo è rimbalzato lo scorso anno. I salari sono aumentati. La recente abolizione dei limiti di mandato per i termini della carica di presidente e vicepresidente fornisce al presidente Xi Jinping più tempo e margine per promuovere la sua visione di una Cina prospera, moderna e potente, e con l’aiuto di consulenti fidati: il suo ex zar della corruzione, Wang Qishan, dovrebbe essere nominato vice-presidente e Liu He, vice-capo responsabile dell’economia.Gli scettici sul futuro della Cina di solito indicano il debito in crescita nel paese. In verità si tratta di un aumento abbastanza nella media: superiore a quello della maggior parte delle economie dei mercati emergenti, ma inferiore a quello della maggior parte dei paesi ad alto reddito. Onere al debito della Cina: nella media ma in decisa impennata… Il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia sul fatto che altre economie che hanno registrato rapporti di indebitamento così rapidamente in aumento – il Brasile e la Corea del Sud qualche decennio fa, e diversi paesi europei più recentemente – alla fine hanno ceduto a una crisi finanziaria. Perché la Cina dovrebbe essere diversa? Una ragione è che non tutto il debito è stato creato uguale. Come alcuni ottimisti osservano, il debito della Cina è pubblico, non privato, il che significa che i rischi sono in gran parte sostenuti dallo Stato. Il prestito viene in gran parte dall’interno, piuttosto che dall’esterno. E nonostante l’aumento dei mutui, le famiglie cinesi hanno un peso del debito complessivo basso rispetto alle loro controparti in giro per il mondo. Nonostante tutta la sua crescita inebriante, il sistema finanziario cinese rimane relativamente semplice, senza l’incubo della cartolarizzazione esotica che ha fatto crollare l’economia americana un decennio fa.Anche il rapporto debito/Pil della Cina – che sembra così preoccupante – è spesso frainteso. Le banche cinesi non servono più solo gli attori statali; ora servono anche il settore privato, in particolare dopo la privatizzazione delle abitazioni di proprietà pubblica alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 ed hanno creato un ampio mercato immobiliare commerciale. La rapida crescita del credito riflette in gran parte una crescita della finanza, piuttosto che una bolla immobiliare. Secondo i miei calcoli, i prezzi delle proprietà in Cina sono aumentati di sei volte dal 2004. Tuttavia, le transazioni immobiliari non sono incluse nelle valutazioni del prodotto interno lordo. Si dice che la corruzione impedisca la crescita inibendo gli investimenti. Non così in Cina, dove lo Stato controlla le maggiori risorse, come i terreni e l’energia, eppure genera rendimenti più bassi su tali attività di quanto non faccia il settore privato. Privatizzare quelle risorse è stato un inizio di vita sotto il comunismo, e così la corruzione è servita come opportunità di fare successo, consentendo a più attori privati di utilizzare risorse statali dopo aver stretto accordi con i funzionari. Poiché le pratiche di questi attori sono state redditizie, l’economia ne ha tratto beneficio in generale.Alcuni osservatori cinesi temono anche che la rapida crescita della Cina non possa essere sostenuta a meno che il consumo non sostituisca gli investimenti come principale motore dell’economia (il governo cinese sembra d’accordo, o almeno lo afferma.) Sottolineano che mentre gli investimenti rappresentano una quota insolitamente elevata del prodotto interno lordo, il consumo rappresenta una quota insolitamente bassa. Ma dire questo è fraintendere la natura della crescita squilibrata della Cina. La causa principale di questo squilibrio è l’urbanizzazione. Negli ultimi quattro decenni il rapporto di urbanizzazione della Cina è aumentato da meno del 20% a quasi il 60%. Nel processo, i lavoratori delle attività rurali ad alta intensità di lavoro sono passati a lavori industriali ad alta intensità di capitale nelle città. E così, una quota sempre maggiore del reddito nazionale è andata in investimenti. Ma anche i profitti delle imprese sono aumentati, portando a salari più alti, che hanno stimolato i consumi. Il consumo è cresciuto molto più velocemente in Cina che in qualsiasi altra grande economia.(Massimo Bordin, “La corruzione non ha fatto per niente male all’economia cinese”, dal blog “Micidial” del 14 marzo 2018).La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.
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Dopo Tillerson, Pompeo: il super-lobbista dei fratelli Koch
La sostituzione del segretario di Stato americano Rex Tillerson con il direttore della Cia, Mike Pompeo, era prevedibile: secondo gli analisti geopolitici russi di “Fondsk”, dietro ai dissidi delle ultime settimane – caso Skripal, nucleare iraniano, Corea del Nord, Gerlusalemme capitale “unilaterale” di Israele – si celano in realtà «profonde contraddizioni tra le realtà imprenditoriali rappresentate da Tillerson e quelle che fanno riferimento a Trump». Come ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Tillerson «ha difeso gli interessi di quella parte di business americano che ha già messo radici in Medio Oriente e che non è interessata ad un peggioramento ulteriore delle relazioni con il mondo islamico». Allo stesso tempo, la scelta di promuovere Pompeo a capo della politica estera Usa «mostra chiaramente chi brama alla nuova spartizione delle sfere di influenza economica nella zona e al rafforzamento dell’infrastruttura militare statunitense in essa». Pompeo, ricorda “Fondsk” in un’analisi tradotta da “Come Don Chisciotte”, ha dato ampiamente prova di essere «una creatura dei fratelli David e Charles Koch, comproprietari della più grande società privata d’America, la Koch Industries (i guadagni per il 2017 ammontavano a 100 miliardi di dollari, il numero di dipendenti superiore a 120 mila persone)».I fratelli Koch sono noti per i loro punti di vista ultra-conservatori, per il sostegno a movimenti corrispondenti (come il “Tea Party”) e per un livello eccezionalmente alto di “sponsorizzazione politica”. «Le loro elargizioni annuali per “attività sociali” ammontano a decine di milioni di dollari. Per questa famiglia, il concetto di “oligarchi” è pienamente applicabile». Il loro campo di attività riguarda principalmente la raffinazione del petrolio, nonché la costruzione e l’esercizio delle condutture, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Avendo una vasta rete di filiali e vasti investimenti all’estero, i fratelli Koch fino a poco tempo fa avevano scarsa presenza in Medio Oriente, regione chiave per le loro attività». E ora, con Mike Pompeo, hanno finalmente la possibilità di rimescolare le carte, estromettendo la concorrenza. «Pompeo è strettamente associato ai fratelli sin dalla fondazione di una grande azienda per la produzione e la manutenzione delle attrezzature per la produzione di petrolio, la Sentry International, che ha sede nella per loro fondamentale città di Wichita, nel Kansas». L’ex capo della Cia era membro del consiglio di amministrazione del Kansas Policy Institute, centro informativo-analitico dello schieramento dei conservatori, fondato dai fratelli.«Con il sostegno finanziario della famiglia Koch – continua “Fondsk” – nel 2010, Pompeo ha condotto la campagna per la sua elezione alla Camera dei rappresentanti del Congresso, dove ha sufficientemente salvaguardato le loro opinioni e interessi: prima nel comitato dell’energia e del commercio, e poi nel comitato speciale per l’intelligence». Tra i colleghi, ha ricevuto il soprannome “Congressman dei fratelli Koch”. Durante la sua permanenza al Congresso, «Pompeo ha ricevuto legalmente, dalla famiglia Koch, 375.500 dollari». A favore dei suoi sostenitori, il futuro segretario di Stato «ha fatto pressione per le leggi di diminuzione dei provvedimenti normativi nei confronti delle compagnie petrolifere e del gas, nonché per il blocco delle agevolazioni fiscali per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili. Basti dire che il capo dello staff di Pompeo nel Congresso era l’avvocato corporativo della Koch Industries, Mark Chenoweth. E nel 2012, Pompeo ha persino scritto per “Politico” un articolo dal titolo dal carattere forte, “Stop Harassing the Koch Brothers”» (finitela di tormentare i fratelli Koch).Per questa famiglia, Pompeo è un affermato promotore degli interessi che la coinvolgono: dati i forti legami con le forze di sicurezza, è una figura ideale per il nuovo incarico. «Il successore di Rex Tillerson è adeguato sia per le forze armate che per il complesso militare-industriale», assicura “Fondsk”. Formatosi all’accademia militare di West Point e cresciuto nell’esercito durante la guerra fredda in Est Europa, nel 1991 – crollata l’Urss – Pompeo (nel frattempo laureatosi in legge a Harvard) è passato ai fratelli Koch gestendo la società aerospaziale Thayer Aerospace, legata al complesso militare-industriale del Pentagono. «Gli esperti collocano univocamente Mike Pompeo nel novero dei falchi», sottolinea l’analisi pubblicata da “Come Don Chisciotte”. «La sua posizione si distingue per particolare intransigenza nei confronti dell’Iran, contro il quale ha invocato l’uso della forza militare già nel 2014». Come direttore della Cia, alla fine del 2017 ha messo l’Iran e lo Stato Islamico (Isis) sullo stesso piano. «È facile presumere che Pompeo sosterrà l’uscita promessa da Trump dall’accordo nucleare con l’Iran, al quale Tillerson, in tutta franchezza, si è opposto».Ugualmente rigide sono le opinioni di Pompeo su ciò che sta accadendo in Siria: «Ha ripetutamente affermato che non può immaginare una Siria “stabile”, con Bashar Assad al potere». Ha definito il processo di riconciliazione nazionale e la cessazione delle ostilità «uno stratagemma degli ayatollah e di Vladimir Putin». Si è anche convinto che scambiare con la Russia informazioni di intelligence sulla Siria è «un’idea dannosa», dato che Mosca può usare queste informazioni per colpire i jihastisti siriani fedeli a Washington. Non proprio all’unisono con il capo della Casa Bianca, Pompeo ha dichiarato addirittura che «l’ingerenza della Russia» nella vita politica degli Stati Uniti non era cosa sporadica, che era una “costante minaccia” esistente già «da molti anni». In generale, quello dei falchi di Washington (ex e attuali) è mix pericoloso: pensano ancora di dominare in esclusiva il Medio Oriente, cioè l’area più esplosiva della Terra. «Rimane la speranza che il caratteristico pragmatismo che si configura come professionale e militare li costringa a essere guidati ancora prima di tutto dal buon senso, piuttosto che dalle chimere della geopolitica e dell’ideologia», chiosa “Fondsk”. Sempre che i piani dei fratelli Koch non prevedano proprio la guerra, per incrementare il loro business.La sostituzione del segretario di Stato americano Rex Tillerson con il direttore della Cia, Mike Pompeo, era prevedibile: secondo gli analisti geopolitici russi di “Fondsk”, dietro ai dissidi delle ultime settimane – caso Skripal, nucleare iraniano, Corea del Nord, Gerlusalemme capitale “unilaterale” di Israele – si celano in realtà «profonde contraddizioni tra le realtà imprenditoriali rappresentate da Tillerson e quelle che fanno riferimento a Trump». Come ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Tillerson «ha difeso gli interessi di quella parte di business americano che ha già messo radici in Medio Oriente e che non è interessata ad un peggioramento ulteriore delle relazioni con il mondo islamico». Allo stesso tempo, la scelta di promuovere Pompeo a capo della politica estera Usa «mostra chiaramente chi brama alla nuova spartizione delle sfere di influenza economica nella zona e al rafforzamento dell’infrastruttura militare statunitense in essa». Pompeo, ricorda “Fondsk” in un’analisi tradotta da “Come Don Chisciotte”, ha dato ampiamente prova di essere «una creatura dei fratelli David e Charles Koch, comproprietari della più grande società privata d’America, la Koch Industries (i guadagni per il 2017 ammontavano a 100 miliardi di dollari, il numero di dipendenti superiore a 120 mila persone)».