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Guai agli inglesi: col Brexit, finiranno tra i nemici degli Usa
Guai se gli inglesi voterranno il Brexit: devono restare al guinzaglio dell’Ue, cioè di Washington. Guinzaglio corto, rappresaglie contro chi “sgarra” e rotta di collisione contro le potenze mondiali che aspirano a una piena autonomia: «La mia previsione è che la Russia e la Cina saranno presto di fronte a una decisione sgradita: accettare l’egemonia americana o andare in guerra», afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan nonché editore associato del “Wall Street Journal”. Impossibile non citare il britannico Ambrose Evans-Pritchard, che sul “Telegraph” ricorda come la Cia, negli anni ‘50 e ‘60, abbia direttamente finanziato gli attori che avrebbero creato l’Unione Europea. Motivo: è più facile controllare un solo governo, quello di Bruxelles, piuttosto che molti Stati separati. Washington ha fatto «un investimento a lungo termine nell’orchestrare l’Unione Europea», ed è per questo che Obama è appena andato a Londra «per raccontare al sua cagnolino, il primo ministro britannico, che non ci potrebbe essere alcuna uscita britannica dall’Ue».Come altre nazioni europee, scrive Craig Robers su “Information Clearing House”, i britannici non sono mai stati autorizzati a votare per scegliere di essere pienamente sovrani o sottoposti all’Unione Europea. «La natura oppressiva di leggi comunitarie irresponsabili e l’esigenza dell’Ue di accettare un massiccio numero di immigrati del terzo mondo hanno creato una grande richiesta per un voto britannico per decidere se rimanere un paese sovrano o di sciogliere il vincolo e rispedire a Bruxelles e le sue disposizioni dittatoriali». In vista del fatidico 23 giugno, la posizione degli Usa è che «al popolo britannico non deve essere consentito di decidere contro l’Ue, in quanto una tale decisione non è nell’interesse di Washington». Il lavoro di Cameron, dunque, è quello di «spaventare gli inglesi con presunte gravi conseguenze dell’“andare da soli”». Lo slogan: la “piccola Inghilterra” non può stare in piedi da sola. Al popolo britannico viene detto che l’isolamento segnerà la sua fine, e il paese diventerà uno stagno archiviato dal progresso. Tutto accadrà altrove, loro saranno lasciati fuori. Ma attenzione: «Se la campagna di paura non riesce e il voto britannico sarà per uscire dalla Ue – dice Craig Roberts – la questione aperta è se Washington permetterà al governo britannico di accettare l’esito democratico». In alternativa, il governo inglese potrebbe truccare le carte, raccontando di aver negoziato concessioni straordinarie.Una cosa è certa: Washington non permetterà agli inglesi di decidere liberamente: «Non devono essere autorizzati a prendere decisioni che non rispettano l’interesse di Washington». E’ lo stesso schema “egocentrico” grazie al quale gli Usa stanno trasformando in “minaccia” la Russia di Putin: flotte da guerra nel Baltico e nel Mar Nero, nonché basi missilistiche in Polonia vicino ai confini russi, con la volontà di incorporare Georgia e Ucraina in patti di difesa anti-russi. «Quando Washington, i suoi generali e i vassalli europei dichiarano che la Russia è una minaccia, significa che la Russia ha una politica estera indipendente e agisce nel suo proprio interesse, piuttosto che in quello di Washington». La Russia diventa una “minaccia”, perché ha dimostrato la capacità di bloccare l’invasione filo-americana della Siria e il bombardamento dell’Iran. Nel mirino di Washington anche piccoli paesi come Iraq, Libia e Yemen. Motivo: «Avevano politica estera ed economica indipendenti, non avendo accettato l’egemonia statunitense». Persino il Venezuela, per Obama, è diventato «una minaccia inusuale e straordinaria alla sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti», quando il governo di Caracas «ha messo gli interessi del popolo venezuelano davanti a quelli delle società americane».Analogamente, la Russia è diventata “una minaccia” quando Mosca ha neutralizzato le aggressioni di Washingon ai danni di Teheran e Damasco, e quando ha impedito agli Usa di appropriarsi della base navale della Crimea dopo il golpe neonazista in Ucraina promosso dalla Cia. «E’ assolutamente certo che la Russia non ha formulato minacce di alcun tipo contro i paesi baltici, la Polonia, la Romania, l’Europa o gli Stati Uniti», scrive Craig Roberts. Così come è certo che la Russia «non ha invaso l’Ucraina». Se l’avesso fatto, oggi «l’Ucraina non sarebbe più lì: sarebbe tornata una provincia russa». E in effetti, anche se i media occidentali si guardano bene dall’ammetterlo, «l’Ucraina appartiene alla Russia più di quanto le Hawaii appartengano agli Stati Uniti». Quanto alla Siria, quel paese «esiste ancora», solo «perché è sotto la protezione russa». Se davvero Cina e Russia fossero “una minaccia”, di certo non permettebbero la proprietà straniera («cioè riconducibile alla Cia») di molti dei loro media: è americana la proprietà del 20% dei media russi, mentre in Cina operano 7.000 Ong finanziate direttamente dagli Usa.«Solo il mese scorso il governo cinese si è finalmente mosso, seppure molto tardivamente, per introdurre alcune restrizioni su questi agenti stranieri che stanno lavorando per destabilizzare il paese», scrive Roberts. «Ma i membri di queste organizzazioni “a tradimento” non sono stati arrestati, sono stati semplicemente messi sotto sorveglianza della polizia. Una restrizione quasi inutile, dato che Washington può fornire montagne di denaro con cui corrompere la polizia cinese: Russia e Cina pensano forse che i loro poliziotti siano meno sensibili alle tangenti rispetto alla polizia americana e del Messico». Parla da sola la sconfitta storica della guerra ai narcos: la “guerra alla droga” è una miniera d’oro per gli agenti messicani e statunitensi, «sotto forma di mezzette». Altro che libertà: «Negli Stati Uniti, gli osservatori di verità sono perseguitati e imprigionati, o vengono liquidati come “teorici della cospirazione”, “anti-semiti” o “estremisti domestici”. Una distopia peggiore di quella descritta da Orwell. Per paura dei media occidentali, Mosca e Pechino «permettono a Washington di operare nei loro media, nelle loro università, nei loro sistemi finanziari, mentre i “buoni” delle Ong si infiltrano in ogni aspetto della loro società». Secondo Craig Roberts, russi e cinesi sono davanti a un bivio terribile: piegarsi allo Zio Sam o prepararsi alla Terza Guerra Mondiale.Guai se gli inglesi voteranno il Brexit: devono restare al guinzaglio dell’Ue, cioè di Washington. Guinzaglio corto, rappresaglie contro chi “sgarra” e rotta di collisione contro le potenze mondiali che aspirano a una piena autonomia: «La mia previsione è che la Russia e la Cina saranno presto di fronte a una decisione sgradita: accettare l’egemonia americana o andare in guerra», afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan nonché editore associato del “Wall Street Journal”. Impossibile non citare il britannico Ambrose Evans-Pritchard, che sul “Telegraph” ricorda come la Cia, negli anni ‘50 e ‘60, abbia direttamente finanziato gli attori che avrebbero creato l’Unione Europea. Motivo: è più facile controllare un solo governo, quello di Bruxelles, piuttosto che molti Stati separati. Washington ha fatto «un investimento a lungo termine nell’orchestrare l’Unione Europea», ed è per questo che Obama è appena andato a Londra «per raccontare al sua cagnolino, il primo ministro britannico, che non ci potrebbe essere alcuna uscita britannica dall’Ue».
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L’aristocrazia nera che si nasconde dietro ai presidenti Usa
L’aristocrazia nera, ovvero: storia occulta dell’élite che da secoli controlla la guerra, il culto, la cultura e l’economia. E’ il teama dell’ultima indagine di Riccardo Tristano Tuis, saggista e musicista. Punto di partenza: quali sono le origini della cosiddetta aristocrazia nera? Che cosa si nasconde dietro ai simboli, l’araldica e le gesta di certi casati nobiliari? Che rapporto hanno con il potere? «Nel corso dei secoli – scrive Tuis – i simboli e le religioni si sono trasformati in diábolos, strumenti d’inganno per separare anziché essere impiegati nella loro funzione naturale di unità (symbolon)», all’insegna del “divide et impera”, che «è stata da sempre la regina delle strategie finalizzata al mantenimento del potere dell’aristocrazia nera sul territorio». Poche famiglie, da sempre, controllano la nostra vita. «Le radici della sanguinaria storia dell’aristocrazia nera, che nel tempo prende le sembianze delle famiglie di banchieri europei legate alla Chiesa e ad alcune specifiche casate reali eurasiatiche, vanno cercate al di fuori dell’Europa, in popoli noti come Kazari, Sarmati e Sadducei che a un certo punto conversero all’interno di un gruppo noto come Ashkenaziti, mascherandosi come ebrei ortodossi o paladini della Cristianità, raggiungendo le più alte cariche in tutta Europa».Queste famiglie – scrive Uno Editori – iniziarono a spartirsi gli Stati europei, dando così vita a faide interne come quella dei guelfi e dei ghibellini e a uno scontro diretto con tutti i loro oppositori, fino a giungere all’attuale costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale con il suo occulto controllo globale attraverso una rete di organi sovranazionali, congregazioni religiose, corporazioni economiche e di comunicazione di massa». L’autore mostra inoltre alcuni dei più intimi segreti di questa oscura élite, smascherando l’intricata rete che lega le religioni con i movimenti spirituali e le società segrete con la politica e i servizi segreti. L’opera presenta come chiave di lettura il cosiddetto “criptosimbolismo” – ossia lo studio del simbolo nei suoi diversi livelli di significato e la sua applicazione occulta nella società – e di come sia stato praticato da una élite originariamente proveniente dai “Popoli del mare” che colonizzarono le aree in cui si fondarono la civiltà fenicia, del Mar Nero, della Valle dell’Indo, nonché quelle sumera, cinese, egizia e mesoamericana, per poi diversificarsi nei ceppi sarmato-sadduceo che diedero i natali all’élite sacerdotale del Tempio della Palestina e dei cavalieri nomadi degli Urali, da cui ebbero a loro volta origine le casate europee.«Questa élite ha rappresentato la casta sacerdotale, guerriera e mercantile del tessuto sociale ove si infiltrava e ha sempre detenuto il potere religioso, militare e finanziario e dunque politico fin dai tempi della Sumeria e dell’antico Egitto», continua l’ediore. «Solo negli ultimi secoli il suo potere si è esteso al punto che, per proteggersi, si è dovuta celare sotto falsi nomi e mansioni, senza così esporsi all’attenzione delle masse, tranne nel caso dei reali inglesi che sono pubblicamente a capo dello Stato e della Chiesa anglicana, caso che si ripresenta anche in Norvegia e Andorra». L’aristocrazia nera, infatti, «fa di tutto per mantenere nascoste le sue oscure origini e le sue trame per manipolare la storia: troppo spesso i tiranni o dittatori che muoiono ghigliottinati, fucilati o per mano della folla sono in realtà solo dei burattini, teleguidati dai veri governanti che si nascondono dietro di loro». Attraverso il Sacro Romano Impero, sostiene Tuis, questa élite occulta conquistò l’Europa e alcune aree limitrofe, poi con le Repubbliche marinare si espanse nel Mediterraneo ed esplorò nuove aree di colonizzazione, infine con l’Impero britannico raggiunse tutti e cinque i continenti che, attualmente, sono per la maggior parte posti sotto il protettorato militare degli Stati Uniti d’America.«Se gli Stati Uniti sono divenuti il braccio armato dell’aristocrazia nera, restano al momento ancora Roma e Londra le due capitali del loro potere». Spiegazione: «Roma è la caput mundi del culto in tutte le sue diversificazioni, mentre Londra è la stanza dei bottoni in cui si controlla il mondo attraverso l’ingegneria sociale, l’alta finanza e il signoraggio bancario». Quella dei grandi banchieri internazionali, che stampano moneta privata e la vendono agli Stati, «è la secolare truffa che ha permesso ad alcune specifiche famiglie di acquisire i mercati, i monopoli, le Repubbliche e monarchie infiltrandosi nelle casate europee al punto da sostituirsi a buona parte di esse». L’autore mostra come le famiglie di banchieri europei, legate alla Chiesa e ad alcune specifiche casate reali, non siano realmente europee ma provengano invece da alcune popolazioni asiatiche. «Tutti i presidenti degli Stati Uniti d’America provengono dalla schiatta dei Plantageneti, nello specifico da Re Giovanni d’Inghilterra». E la casata dei Plantageneti «è in realtà una ramificazione guelfa di quella che è stata la potente e stratificata casata europea, l’aristocrazia nera per eccellenza:i Welfen».(Il libro: Riccardo Tristano Tuis, “L’aristocrazia nera. La storia occulta dell’elite che da secoli controlla la guerra, il culto, la cultura e l’economia”, Uno Editori, 350 pagine, euro 16,70).L’aristocrazia nera, ovvero: storia occulta dell’élite che da secoli controlla la guerra, il culto, la cultura e l’economia. E’ il teama dell’ultima indagine di Riccardo Tristano Tuis, saggista e musicista. Punto di partenza: quali sono le origini della cosiddetta aristocrazia nera? Che cosa si nasconde dietro ai simboli, l’araldica e le gesta di certi casati nobiliari? Che rapporto hanno con il potere? «Nel corso dei secoli – scrive Tuis – i simboli e le religioni si sono trasformati in diábolos, strumenti d’inganno per separare anziché essere impiegati nella loro funzione naturale di unità (symbolon)», all’insegna del “divide et impera”, che «è stata da sempre la regina delle strategie finalizzata al mantenimento del potere dell’aristocrazia nera sul territorio». Poche famiglie, da sempre, controllano la nostra vita. «Le radici della sanguinaria storia dell’aristocrazia nera, che nel tempo prende le sembianze delle famiglie di banchieri europei legate alla Chiesa e ad alcune specifiche casate reali eurasiatiche, vanno cercate al di fuori dell’Europa, in popoli noti come Kazari, Sarmati e Sadducei che a un certo punto conversero all’interno di un gruppo noto come Ashkenaziti, mascherandosi come ebrei ortodossi o paladini della Cristianità, raggiungendo le più alte cariche in tutta Europa».
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11 Settembre: l’uomo che condannò Moro accusa Israele
Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.La video-intervista, di 47 minuti, è stata diffusa, probabilmente non a caso, nel pieno della campagna americana per incolpare la monarchia saudita del mega-attentato dell’11 Settembre, con la minaccia di pubblicare le 28 pagine del rapporto della Commissione Senatoriale sul 9/11, secretate da Bush jr. proprio perché mostrerebbero il coinvolgimento dei sauditi ai più alti livelli. Steve Pieczenik corregge: sì, c’è stata la cooperazione di “agenti sauditi”, ma il mandante principale è Israele, insiste nell’intervista. Egli si dichiara disposto a testimoniare sotto giuramento davanti a un tribunale federale e rivelare lì le sue fonti, fra cui (dice) “un generale”. L’importanza del testimone non può essere sottovalutata. Il dottor Pieczenik (è psichiatra) fu in Italia nel marzo del 1978 e per tutti i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Br; speditovi dall’allora segretario di Stato Cyrus Vance, si inserì nel Comitato di Crisi allestito da Cossiga, allora ministro dell’interno (a fianco del criminologo Franco Ferracuti, l’esperto in difesa e sicurezza Stefano Silvestri, una grafologa e il magistrato Renato Squillante) ufficialmente per dare la sua esperta assistenza al salvataggio del politico italiano e negoziare con le Brigate Rosse. In realtà, come ha rivelato in un libro nel 2008, per assicurarsi che Moro non ne uscisse vivo: gli Usa avevano deciso che Moro doveva essere “sacrificato” per garantire “la stabilità dell’Italia” (nella Nato).Intervistato da “France 5” e poi da Gianni Minoli a “Mixer” nel novembre 2013, Steve Pieczenik ha confermato tutto: per esempio raccontando che silurò l’iniziativa di Paolo VI di raccogliere una grossa somma (pare di dieci miliardi di lire), per pagare un riscatto. «Stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate Rosse e il processo di destabilizzazione dell’Italia». Chiese Minoli: «Sostanzialmente, lei fin dal primo giorno ha pensato e ha detto a Cossiga: Moro deve morire». «Evidente», rispose il consulente: «Cossiga se ne rese conto solo nelle ultime settimane. Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell’Italia». Sic. Per questo la Procura di Roma, nel 2014, ha accusato l’americano di concorso in omicidio. E Gero Grassi, vicepresidente dei deputati Pd che voleva una nuova commissione d’indagine sul caso, disse: «Steve Pieczenik stava al ministero dell’interno per manipolare le Brigate rosse e arrivare all’omicidio di Aldo Moro».Non è stata la sua unica impresa. Nel Dipartimento di Stato, ai tempi di Reagan, il dottore è stato incaricato di architettare il “cambio di regime” a Panama, ossia il rovesciamento di Noriega (che lo accusò apertamente di essere “un assassino” che aveva ucciso vari suoi collaboratori). Ufficialmente capo-negoziatore in una quantità di prese di ostaggi e dirottamenti (ad opera di Farc colombiane, Abu Nidal, Idi Amin, Olp) ha contribuito a creare la Delta Force, il gruppo di teste di cuoio di intervento rapido in situazioni di crisi. Ha dato le dimissioni quando fallì il tentativo di liberare gli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran; decisione del presidente Carter, ma probabilmente scacco suo, del dottor Pieczenik. S’è rifatto però una carriera di successo ideando trame di thriller per Tom Clancy. Nel 2011 è tornato sotto i riflettori per denunciare che la “cattura di Bin Laden” messa a segno ad Abbottabad in Pakistan e passata come un grande successo del presidente Obama, era stata tutta una messinscena (ne abbiamo avuto tutti il sospetto): il vero Bin Laden, secondo lui, è morto fin dal 2001, di sindrome di Marfan.Non può esser casuale il fatto che adesso, a 72 anni e a 15 dal mega-attentato, il vecchio agente del Dipartimento di Stato con le mani in pasta in tante storie oscure di destabilizzazione e sovversione, esca ad accusare Israele mentre tutta la grancassa politico-mediatica sta additando gli spregevoli sauditi. Una campagna a cui partecipa stranamente anche Seymour Hersh, il grande giornalista investigativo con “gole profonde” nel settore militare, che ha condotto inchieste scomode per lo “stato profondo” americano. Pochi giorni fa, intervistato da “Alternet”, Hersh ha raccontato: nel 2011 «i sauditi hanno pagato i pakistani perché non ci dicessero [che Bin Laden si trovava ad Abbottabad, sotto la loro protezione] perché non volevano che noi (americani) interrogassimo Bin Laden perché ci avrebbe parlato – è la mia ipotesi – del loro coinvolgimento [nell’11 Settembre]». Ma quale Bin Laden nascondevano i pakistani nel 2011, se Pieczenik dice (confermando versioni solide del tempo) che è morto nel 2001, pochi mesi dopo l’attentato alle Towers e al Pentagono?Può esserci una lotta di informazione e contro-informazione all’interno stesso dello “Stato profondo” americano? Certo è che i media americani sono scatenati in esibizioni di spregio verso i monarchi wahabiti: “Royal Scum”, feccia regale, titolava il “New York Daily News” qualche giorno fa. Tanto insolito “coraggio” deve essere autorizzato. Naturalmente la “rivelazione” delle 28 pagine colpisce anche il presidente Bush jr., e la sua amministrazione, perché è evidente che, se hanno coperto la parte avuta dai sauditi, sono colpevoli. Lo scandalo anti-saudita va accuratamente controllato, perché è facile che debordi e i suoi liquami schizzino a colpire proprio gli israeliani o con doppio passaporto che erano al Pentagono ai tempi di Bush jr., e additati dall’agente Pieczenik: Paul Wolfowitz, rabbi Dov Zakhiem (e il terzo, ebreo anche lui, era Douglas Feith) più Michael Chertoff, capo dell’Homeland Security e grande insabbiatore-depistatore delle indagini.Questo scontro interno è senza dubbio in relazione con l’ascesa del candidato imprevedibile, Donald Trump, nella lizza presidenziale. Dopo il suo discorso sul suo programma in politica estera – liquidato con rabbia dal “New York Times” perché propone fra l’altro un accordo con Putin e la fine dell’interventismo – «gli americani sentono di avere, per la prima volta dopo molto tempo, una alternativa sobria e basata sull’interesse nazionale alle disastrose politiche dei neocon», ha detto Jim Jatras, l’ex consigliere repubblicano del Senato. Con grande dispetto dell’establishment, Trump non raccoglie voti solo tra i rozzi arretrati operai bianchi di basso reddito che odiano gli immigrati messicani e lo sentono volgare come loro. Negli exit poll delle primarie in Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut e Rhode Island – dove ha trionfato – s’è visto che hanno scelto lui la metà degli elettori repubblicani con alto titolo di studio e con reddito di 100 mila dollari annui: il suo discorso di politica estera ha convinto proprio la classe media benestante. Questo per l’elettorato repubblicano. Quanto a quello democratico: «Continuo a incontrare gente che non sa decidere se votare Bernie Sanders oppure Donald Trump», ha confessato al “Baltimore Sun” Robert Reich, ex ministro del lavoro sotto Bill Clinton e uomo molto di sinistra (nella misura statunitense). L’elettorato di “sinistra”, quello che ha favorito Sanders il “socialista”, sta pensando di votare Trump, non Hillary. Forse è proprio la grande liberazione da Israel….(Maurizio Blondet, “11 Settembre, l’uomo di Washington accusa Israele”, dal blog di Blondet del 29 aprile 2016).Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.
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Craig Roberts: i media sanno che la verità ufficiale è falsa
Gli americani vivono in una falsa realtà, creata con fatti inventati. «La maggior parte delle persone consapevoli e capaci di pensare hanno rinunciato a credere al sistema chiamato “media mainstream”». E le “presstitutes”, gli organi di stampa “prostituiti al potere” «hanno perso la loro credibilità pur di aiutare Washington a mentire», sostiene un autorevolissimo analista come Paul Craig Roberts, economista e politologo, già viceministro di Ronald Reagan. Il piano? Diffondere crescente insicurezza, in un vista di una svolta autoritaria. E’ un po’ uno schema che si va ripetendo, sia a livello nazionale che internazionale: le “armi di distruzione di massa” di Saddam, il “nucleare iraniano”, e poi l’uso delle armi chimiche attribuito ad Assad e “l’invasione russa” dell’Ucraina”. Dai media, solo la versione ufficiale, su tutto: l’11 Settembre, le bombe sulla maratona di Boston, le «presunte sparatorie sulle masse, come Sandy Hook e San Bernardino». Nonostante «le incongruenze lampanti, le contraddizioni e i fallimenti dei sistemi di sicurezza che sembrano troppo improbabili per essere credibili – aggiunge Roberts – i media mainstream non si fanno domande e non indagano: si limitano a raccontare, come un dato di fatto, tutto quello che dicono le autorità».Il segno di uno Stato totalitario o autoritario, scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, si ha quando i media non sentono più la responsabilità di dover indagare per cercare la verità, accettando invece il ruolo del propagandista. «Negli Stati Uniti la trasformazione dei giornalisti in propagandisti si è completata con la concentrazione di un sistema che era formato da parecchi media indipendenti in sei mega-società che ormai non sono più gestite da giornalisti». Di conseguenza, le persone più avvedute «fanno affidamento sempre più su media alternativi, quelli che si fanno domande, che seguono la logica dei fatti e che offrono analisi al posto di una linea ufficiale con storie incredibili». Il primo esempio fu l’11 Settembre, in cui la versione ufficiale è stata smontata da centinaia di esperti e tecnici. Nonostante ciò, grazie ai media, la versione ufficiale regge ancora: «Dobbiamo credere che alcuni sauditi, senza nessuna tecnologia che potesse andare oltre il coltellino da tasca e senza nessun appoggio dei servizi segreti di nessun governo, siano stati tanto abili da superare in astuzia la tecnologia di sorveglianza di massa creata dalla Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) e dalla Nsa (National Security Agency) e che siano stati capaci di affondare il colpo più umiliante mai subito da una superpotenza in tutta la storia umana».Invece di mettersi alla guida delle indagini su un fallimento tanto massiccio della sicurezza, la Casa Bianca ha continuato a resistere per più di un anno prima di cedere alle richieste delle famiglie delle vittime delle Torri Gemelle, e solo allora ha accettato di nominare una commissione d’inchiesta, che però «non investigò, ma semplicemente si insediò e scrisse la stessa storia che aveva raccontato il governo», anche se poi gli stessi protagonisti della commissione – presidente, co-presidente e consulenti legali – hanno scritto libri in cui si dichiara che ogni informazione era stata negata alla commissione, che i funzionari governativi avevano mentito e che la Commissione «era stata istituita per fallire». Eppure, le “presstitutes” ancora ripetono la stessa propaganda ufficiale, «e ci sono abbastanza americani che ci credono, tanto da evitare che debbano essere riconosciute le vere responsabilità». Continua Craig Roberts: «Qualsiasi storico competente sa che vengono usati degli eventi “false flag” per portare a compimento gli ordini del giorno che, altrimenti, non potrebbro essere raggiunti». L’11 Settembre? «Diede ai neocon, che controllavano l’amministrazione Bush, una nuova Pearl Harbor che, dicevano, era necessaria per lanciare le loro invasioni militari egemoniche sui paesi musulmani».E le bombe alla maratona di Boston? «Hanno permesso di testare la polizia americana», verificando «come si può isolare totalmente una grande città, mandando per le strade 10.000 soldati armati e squadre speciali con truppe che facevano perquisizioni casa per casa costringendo, con le armi, gli abitanti a lasciare le loro case». Una operazione senza precedenti, «giustificata come necessaria per trovare un ragazzino di 19 anni, ferito, che era chiaramente un capro espiatorio». In mezzo, un’infinità di anomalie, a cui nessuno si cura di dare una spiegazione. In un video, realizzato montando le copertine dei telegiornali, compare un uomo in lutto per la perdita del figlio. E’ la stessa persona che, in altre immagini, indossa l’uniforme delle squadre speciali Swat mentre è intenta a seguire la sparatoria di Sandy Hook. Si tratta di un attore conosciuto, scrive Roberts, che interpreta parti diverse: «Dobbiamo chiederci il perché di questo falso». I primi che dovrebbero farlo sono proprio i media, ma non lo fanno. Insieme a Mike Palecek, il professor Jim Fetzer ha scritto in un libro che Sandy Hook sarebbe stato un esperimento della Fema per promuovere il controllo delle armi. Si dice anche che non sia morto nessuno, a Sandy Hook. «Il libro era disponibile su Amazon, ma è stato improvvisamente vietato. Perché vietare un libro?».«Se le informazioni fornite da Fetzer sono corrette – aggiunge Craig Roberts – risulta chiaramente che il governo degli Stati Uniti sta mettendo in atto un’agenda di lavori autoritaria e che sta usando eventi orchestrati ad arte per mostre una falsa realtà agli americani, per raggiungere gli obiettivi della sua agenda». Fetzer «non può essere liquidato come un semplice folle: è uno che si è laureato con lode all’università di Princeton, ha un dottorato di ricerca dell’Indiana University ed è stato “distinguished professor” alla McKnight University del Minnesota fino al suo pensionamento nel 2006. Ha avuto una borsa di studio della National Science Foundation e ha pubblicato più di 100 articoli e 20 libri di filosofia della scienza. E’ esperto di intelligenza articiale e di “computer science”, ha anche fondato la rivista internazionale “Minds and Machines”».Per una persona di media intelligenza, continua Craig Roberts, sia la storia ufficiale dell’assassinio del presidente Kennedy che quella dell’11 Settembre semplicemente non sono credibili, perché le storie ufficiali non sono coerenti con le prove. «Quello che mi disturba è che nessuno, né tra le autorità né tra i media mainstream, mostra un minimo interesse a controllare i fatti. Invece, quelli che hanno tirato fuori delle questioni scomode vengono additati come teorici della cospirazione». Sappiamo dall’Operazione Gladio e dall’Operazione Northwoods che i governi «si invischiano in cospirazioni criminali contro i propri cittadini: pertanto, il vero errore è concludere che i governi non si impegnino nelle cospirazioni». Spesso, si sente qualcuno che obietta che se l’11 Settembre fosse stato un attacco “false flag”, qualcuno avrebbe parlato. «Perché avrebbero dovuto parlare? Dovrebbe sapere qualcosa solo chi ha organizzato la cospirazione. E allora perché dovrebbe far venire altri dubbi su quella che è stata una sua congiura?».Ricordiamoci di William Binney, l’uomo che sviluppò il sistema di sorveglianza utilizzato dalla Nsa. Quando si rese conto che il suo sistema veniva usato contro il popolo americano, Binney si mise a parlare. «Ma non si era preso nessun documento con cui poter provare le sue affermazioni, cosa che lo salvò dall’essere condannato ma che non gli permise di produrre nessuna prova su quanto diceva», scrive Roberts. «Questo è il motivo per cui Edward Snowden si è preso tutti i documenti e li ha resi pubblici. Tuttavia, molti vedono Snowden come una spia, come uno che ha rubato dei segreti sulla sicurezza nazionale, non lo vedono come uno che ha saputo avvertirci che la Costituzione – quella cosa che ci protegge – è stata ribaltata».Funzionari governativi di alto livello hanno smentito varie parti della storia ufficiale sia dell’11 Settembre che della versione ufficiale che lega l’attentato alle Twin Towers all’invasione dell’Iraq, attraverso la fiaba delle “armi di distruzione di massa”. Il segretario ai trasporti, Norman Mineta, smentì il vicepresidente Cheney e la tempistica della storia ufficiale dell’11 Settembre, ricorda Craig Roberts. E il segretario del Tesoro, Paul O’Neill, affermò che il rovesciamento di Saddam Hussein fu oggetto della prima riunione di gabinetto dell’amministrazione di George W. Bush, molto prima dell’11 Settembre. Lo scrisse in un libro e lo disse a “Cbs News”. Anche la Cnn e altri organi di stampa ne parlarono, ma la cosa non ebbe nessun effetto. Gli informatori – quelli veri – pagano un caro prezzo e molti finiscono in carcere. «Obama ne ha perseguito e incarcerato un numero record. Una volta che li hanno buttati in galera, la domanda diventa: “Chi avrebbe creduto a un criminale?”».Per quanto riguarda l’11 Settembre, aggiunge Craig Roberts, hanno parlato persone di ogni tipo: oltre 100 poliziotti, vigili del fuoco e altri soccorritori hanno riferito di aver nettamente percepito un gran numero di esplosioni nelle Torri. Il personale della manutenzione ha raccontato di enormi esplosioni avvenute negli scantinati appena prima che gli edifici fossero colpiti dagli aerei. Ma nulla da fare: «Niente di tutte queste testimonianze ha avuto qualche effetto né con le autorità che erano dietro la storia ufficiale, né con le “presstitutes”». Ci sono 2.300 architetti e ingegneri che hanno scritto al Congresso chiedendo di aprire una vera indagine, ma invece di accogliere la richiesta con il rispetto che meritano 2.300 professionisti, sono stati liquidati come “teorici della cospirazione”. E ancora: una tavola internazionale di scienziati ha segnalato la presenza di un potentissimo esplosivo come la nanotermite nelle polveri del World Trade Center. Hanno offerto dei campioni alle agenzie governative e agli scienziati, per ottenere conferma. Ma nessuno potrà toccare quei reperti. «Il motivo è chiaro: oggi i finanziamenti per la scienza sono fortemente dipendenti dal governo federale e dalle aziende private che hanno contratti federali. Gli scienziati sanno bene che tirare fuori qualcosa sull’11 Settembre significa la fine della carriera».Il governo americano, conclude Craig Roberts, ci ha reso proprio come voleva: impotenti e disinformati, completamente privi di strumenti per capire quello che sta realmente accadendo, sulla nostra pelle. «La maggior parte degli americani sono troppo ignoranti per essere in grado di comprendere la differenza tra un edificio che crolla per danni strutturali (per asimmetria) e edifici che invece saltano in aria. I giornalisti mainstream non possono fare domante o fare indagini e contemporaneamente mantenersi il posto di lavoro. Gli scienziati non possono parlare se vogliono continuare ad essere finanziati». E così., sintetizza amaramente l’ex viceministro di Reagan, «dire la verità è un compito che ormai si permettono solo i media Internet alternativi, tra i quali io scommetto che il governo sta gestendo dei siti che gridano selvaggiamente alle cospirazioni, con il vero scopo di screditare tutti gli altri siti, quelli scettici».Gli americani vivono in una falsa realtà, creata con fatti inventati. «La maggior parte delle persone consapevoli e capaci di pensare hanno rinunciato a credere al sistema chiamato “media mainstream”». E le “presstitutes”, gli organi di stampa “prostituiti al potere” «hanno perso la loro credibilità pur di aiutare Washington a mentire», sostiene un autorevolissimo analista come Paul Craig Roberts, economista e politologo, già viceministro di Ronald Reagan. Il piano? Diffondere crescente insicurezza, in un vista di una svolta autoritaria. E’ un po’ uno schema che si va ripetendo, sia a livello nazionale che internazionale: le “armi di distruzione di massa” di Saddam, il “nucleare iraniano”, e poi l’uso delle armi chimiche attribuito ad Assad e “l’invasione russa” dell’Ucraina”. Dai media, solo la versione ufficiale, su tutto: l’11 Settembre, le bombe sulla maratona di Boston, le «presunte sparatorie sulle masse, come Sandy Hook e San Bernardino». Nonostante «le incongruenze lampanti, le contraddizioni e i fallimenti dei sistemi di sicurezza che sembrano troppo improbabili per essere credibili – aggiunge Roberts – i media mainstream non si fanno domande e non indagano: si limitano a raccontare, come un dato di fatto, tutto quello che dicono le autorità».
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Non credete a quelle bombe: sanno quando esploderanno
«Se sentite parlare di un’esercitazione antiterrorismo, fate come dice Crozza: portate via i coglioni, e alla svelta!». Parola di Massimo Mazzucco. «Attenzione: i terroristi esistono, le bombe esplodono davvero e le vittime muoiono. Il problema è chi li crea, i terroristi, chi li manipola: capire quello che c’è dietro. Abbiamo un problema, sì. Ed è l’informazione, che da molti anni non fa più il suo dovere». Non vede, non sente, non parla. Soprattutto, non ricorda. Finge di non accorgersi che il copione è sempre lo stesso: esercitazione “antiterrorismo” e attentato concomitante, guardacaso, proprio lì, a quell’ora. A seguire: cattura immediata del “patsy”, il colpevole di comodo, regolarmente incastrato a tempo di record e col medesimo sistema: l’ingenuo aveva portato con sé il passaporto e, combinazione, l’aveva dimenticato proprio sul luogo dell’attentato. Succede da decenni, dice Mazzucco, e nessuno ci fa caso. Teoria e pratica del “terrorismo fatto in casa”, da Jfk in poi, fino alle Torri Gemelle, agli attentati di Londra e a quelli di Parigi. Succede sempre. E nessuno lo denuncia, perché «è più comodo, per la carriera di tutti».Strategia della tensione, istruzioni per l’uso: Mazzucco, giornalista e regista di importanti documentari sull’11 Settembre (“Inganno globale”, “La nuova Pearl Harbor”) fornisce una sintesi sconcertante, in una recente conferenza in Friuli ripresa sul blog “Luogo Comune”. Tema: le modalità sistematiche con cui si ripetono i più recenti attentati, destinati – sempre – a impressionare profondamente il pubblico, diffondendo un senso generale di paura e insicurezza. «Pazienza se il pubblico non si accorge di essere preso in giro: il guaio è che sono i giornalisti a far finta di niente, come se non si accorgessero della ripetitività della trama», a partire dai primi due aspetti che saltano immediatamente all’occhio, l’esercitazione concomitante e la comparsa del “patsy”. Primo: «Quando c’è un attentato, c’è sempre la presenza contemporanea di esercitazioni di forze speciali che fanno esattamente, per finta, quello che poi succede davvero». Secondo: in brevissimo tempo, anche solo poche ore, viene individuato il “colpevole presunto”, perfetto per distrarre i media dalla scena del crimine: da quel momento, giornali e televisioni si occuperanno solo della biografia dell’arrestato, tralasciando di analizzare la dinamica reale degli eventi.Fa scuola, naturalmente, l’11 Settembre, con una decina di esercitazioni dell’aviazione programmate quella mattina, nonostante i ripetuti allarmi ricevuti dai servizi segreti di mezzo mondo, che da mesi parlavano di possibili attentati negli Usa, per giunta proprio con aerei di linea dirottati. Sicché, alcune di quelle esercitazioni prevedevano esattamente l’intervento dei caccia contro voli dirottati – ma nei cieli del Canada e dell’Alaska: a difendere il quadrante nord-est degli Stati Uniti, quello di New York e Washington, c’erano solo 4 intercettori. Troppo pochi, per districarsi nel caos che faceva impazzire i radar: «C’era in volo almeno il triplo dei velivoli, e gli addetti alla sicurezza non sapevano quali fossero quelli dirottati e quali no». Oltre ad allontanare i caccia e a creare confusione, secondo il giornalista investigativo Webster Tarpley le esercitazioni aeree programmate proprio quel giorno servivano anche a controllare dall’interno i computer della sicurezza, depistando le operazioni, grazie all’accesso diretto ai monitor della difesa, dietro a cui stavano ignare sentinelle. In più, quella mattina – stranamente – il grado di allerta era stato declassato a “normale”, il livello più basso. «Coincidenze o barzellette».Poi ci sono gli attentati a terra, i più diffusi. «Immancabile, la simultanea esercitazione antiterrorismo». Comodissima, peraltro: «Intanto perché qualcuno deve piazzarla, la bomba: se per caso viene colto in flagrante, può sempre dire che fa parte dell’esercitazione. Poi la bomba scoppia davvero, e un minuto dopo si sprecano le dichiarazioni di stupore: che combinazione, dicono tutti, è successo proprio mentre eravamo lì. E infine, proprio perché erano già lì – forze di sicurezza, soccorritori, ambulanze – si fa anche bella figura, soccorsi immediati e rapidissima cattura del “colpevole”». Sempre secondo Mazzucco, un caso da manuale è quello dei devastanti attentati dinamitardi di Londra, 7 luglio 2005: colpiti tre convogli della metropolitana e un autobus, 56 morti e 700 feriti. «In tutte e quattro le situazioni erano in corso esercitazioni anti-bomba. Dai responsabili della sicurezza, ovviamente “meravigliati” per la straordinaria coincidenza, giunse anche un’excusatio non petita: dissero che i loro uomini erano presenti in quei luoghi non a caso, ma per proteggere la City finanziaria». E attenzione: «In quelle ore, a Edimburgo, era in corso il G8: quale prefetto autorizzerebbe mai una esercitazione antiterrorismo nello stesso giorno in cui nel tuo paese è in corso un G8? Impensabile».Stessa dinamica negli Usa dieci anni prima, il 19 aprile ‘95. Oklahoma City: camion-bomba contro un edificio federale, il Murrah Building. Secondo la versione ufficiale, il veicolo era stato imbottito con oltre 2.300 chili di fertilizzante. Una strage: 168 morti, tra cui 19 bambini, e 680 feriti. Il più sanguinoso attentato terroristico entro i confini degli Stati Uniti prima dell’11 Settembre. «Mai, fino ad allora, gli americani si erano sentiti così vulnerabili», annota Mazzucco. «Furono le prove generali, per testare l’opinione pubblica prima del super-attentato delle Twin Towers?». Quella volta niente arabi, ma un estremista di destra, Timothy McVeigh, veterano della guerra del Golfo, arrestato e poi giustiziato sei anni dopo con iniezione letale. E l’esercitazione concomitante? C’era, naturalmente: Alex Jones, titolare dell’importante sito web “Prison Planet”, spiega che a Oklahoma City, nello stesso momento, erano in corso esercitazioni anti-bomba della polizia federale. Un’altra straordinaria coincidenza.Idem alla maratona di Boston, 15 aprile 2013: «Proprio sulla linea del traguardo – ricorda Mazzucco – si stava svolgendo un’esercitazione con cani anti-bomba». Gli altoparlanti ripetono l’annuncio, per il pubblico in apprensione che osserva le squadre di sicurezza: «Non preoccupatevi, è solo un’esercitazione». Tre secondi dopo l’ultimo annuncio, scoppia la bomba: 3 morti e 264 feriti. Dagli Stati Uniti alla Francia: Parigi, 13 novembre 2015, la carneficina del teatro Bataclan, 137 morti e 368 feriti. «L’indomani – rileva Mazzucco – il capo della protezione civile va in televisione e dice: ma tu guarda, proprio ieri mattina stavamo facendo un’esercitazione negli stessi posti. Una fortuna, per l’efficienza dei soccorsi». Ultimo capitolo, la mattanza di San Bernardino, California, 2 dicembre 2015. Marito e moglie sparano su un centro per disabili: 14 morti e 13 feriti. «E cos’era in corso, proprio lì, un attimo prima dell’attentato? L’esercitazione “Active Shooter”», sottolinea Mazzucco. «Non solo ci prendono in giro, ma contano sul fatto che non abbiamo memoria, capacità di collegare i fatti. Noi pazienza, ma i giornalisti dovrebbero farlo per mestiere: invece tacciono, guardano da un’altra parte, altrimenti perdono il lavoro».E’ successo ad Andrew “Judge” Napolitano, conduttore di una famosa trasmissione a “Fox News”: licenziato, dopo aver denunciato il ruolo dell’Fbi nella formazione e nell’assistenza dei terroristi di Oklahoma City. Stranamente, dopo aver fatto quel servizio, è stato liquidato. Napolitano parlava anche di 17 casi apparentemente sventati dall’Fbi, dove – diceva – era stata la stessa Fbi a infiltrare aspiranti terroristi, convincendoli: «Hanno reclutato islamici, giovani incazzati, e li hanno covinti ad agire, spiegando loro che avrebbero potuto cambiare il mondo ammazzando degli americani, per poi presentarli come “arabi dalla mentalità anti-americana”». Altre volte, «l’Fbi ha usato intermediari con precedenti penali, disponibili a collaborare in cambio di sconti di pena». Tra le illustri vittime del mainstream anche un grande giornalista come Dan Rather, prestigioso reporter della “Cbs”: «E’ stato liquidato con una “polpetta avvelenata” (una notizia falsa, fornitagli appositamente), per bruciargli trent’anni di grande giornalismo. La sua colpa? Aveva rivelato e denunciato lo scandalo di Abu Ghraib, il lager iracheno dove si infliggevano le peggiori torture ai soldati di Saddam».Non se ne esce, dice Mazzucco, se la stragrande maggioranza dei giornalisti si ostina a “non vedere”. Eppure, nell’attentato del 1993 al Wto – un camion-bomba nel parcheggio sotterraneo della Torre 1 – fu la stessa Fbi ad ammettere di essere implicata: stava infiltrando aspiranti terroristi e aveva fornito loro l’esplosivo, tramite l’ex militare egiziano Emad Salem, il quale confermò che il tutto avvenne addirittura con la supervisione del procuratore distrettuale. «L’Fbi sapeva, poteva evitare l’attentato», conclusero le televisioni americane. Perché la situazione “sfuggì di mano”? Forse lo si può dedurre da quanto dichiarò, poco dopo, l’ex direttore dell’Fbi di New York, Jim Kallstrom: «Quella bomba ha fatto tremare il nostro concetto di sicurezza nazionale, la convinzione di essere invulnerabili al terrorismo. Le crepe nella fiducia non potranno essere riparate. E’ successo una volta: potrà succedere ancora? E’ quello che ci domandiamo». Stesso retroscena nelle indagini dopo l’attentato di Boston, per il quale furono incolpati i giovani fratelli Dzokhar e Tamerlan Tsarnaev, di origine cecena. In piena caccia all’uomo, la madre dichiarò: «Perché fingono di non sapere dove siano? Da più di tre anni l’Fbi vive qui a casa nostra e segue i miei ragazzi».Proprio la fulminea cattura del “patsy” è l’ultimo capitolo di quella che, per Mazzucco, è chiaramente una farsa: «Nell’infernale caos dell’11 Settembre, già nelle prime ore, l’unica notizia data per certa era la responsabilità di Bin Laden». E qual è il modo più semplice per arrivare subito al “colpevole”? «Ovvio: trovi il suo passaporto. E’ noto, infatti, che tutti quelli che vanno a fare attentati se lo portano dietro». Nell’apocalisse di fuoco, fumo e macerie di Ground Zero, gli unici reperti intatti erano quelli: «Passaporti solo bruciacchiati un po’ ai lati con l’accendino, ma con foto e nomi sempre ben visibili: nemmeno un documento annerito o strappato». Il primo, trovato il giorno dopo il crollo delle Torri, a quattro isolati: apparteneva ad Abdul Aziz Alomari, quello che insieme a Mohamed Atta avrebbe dirottato il primo aereo. E nella “Buca di Shanksville”, in Pennsylvania, niente rottami di aereo (solo un cratere con ferraglia fumante) e 2 passaporti intatti, una bandana rossa (indumento “appartenente a un dirottatore”, secondo le presunte telefonate dei passeggeri di uno degli aerei), più la carta d’identità di un terzo terrorista, più la ricevuta di una lavanderia, con tanto di nome e cognome del quarto presunto attentatore.Ancora più clamoroso il ritrovamento all’aeroporto di Boston, dove viene ritrovata una valigia “dimenticata” da due dei presunti dirottatori del volo per San Francisco. Contenuto: il Corano, tute dell’American Airlines, manuali di volo del Boeing 767 e, addirittura, la lista completa dei terroristi. Passaporti provvidenziali anche in tasca ai terroristi di Londra, quattro pakistani, inizialmente dichiarati “membri di Al-Qaeda” (notizia poi smentita, nel silenzio dei media). Fondamentali, i documenti, per collegarli alle immagini filmate dalle telecamere del metrò. «Niente passaporti, niente identificazione». Stessa situazione per Charlie Hebdo: «Indossavano passamontagna per non farsi riconoscere, salvo poi “dimenticare” un passaporto in bella vista sul cruscotto dell’auto». Il caso più tragicomico? Quello di Oklahoma City, dove «la famosa “bomba al letame” avrebbe tirato quasi giù un intero edificio in cemento armato». E come venne arrestato, Timonthy McVeigh? Mezz’ora dopo l’esplosione, viene fermato alla guida di un’auto senza targa, lanciata al doppio della velocità consentita. Poi il poliziotto nota che ha la maglietta “macchiata di letame”, quindi si insospettisce, e nel baule scova – indovinate – un manuale per fabbricare le bombe col letame.Il copione non cambia, dice Mazzucco, e il primo della storia fu Lee Harvey Oswald, presentato al mondo come l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. «Non sono stato io», protestò, «io sono soltanto un “patsy”», cioè il diversivo perfetto per allontanare l’attenzione dalla dinamica del crimine, con tutte le sue incredibili incongruenze. Il caso è noto. Dopo la morte di Jfk, l’abitato di Dallas viene passato al setaccio. Ma Oswald, anziché sparire, prende con sé una pistola e se ne va in giro, armato, per la città. Lo ferma un poliziotto, l’agente Tippit, che gli chiede i documenti. Oswald estrae l’arma e gli spara. Poi si rifugia in un cinema, dove però si fa notare, perché entra senza pagare. Al che, la cassiera chiama la polizia, che lo arresta. Ma come lo collega a Tippit? Elementare: mentre estraeva la pistola gli è cascato il portafoglio, con dentro la patente. L’hanno trovato a terra, accanto al corpo dell’agente colpito. «Quindi – riassume Mazzucco – Oswald era andato ad ammazzare Kennedy pensando bene, anche lui, di portare con sé il documento di identità». Che altro aggiungere? «Siamo di fronte a una manipolazione totale. Ed è impossibile credere che i giornalisti non se ne rendano conto».«Se sentite parlare di un’esercitazione antiterrorismo, fate come dice Crozza: portate via i coglioni, e alla svelta!». Parola di Massimo Mazzucco. «Attenzione: i terroristi esistono, le bombe esplodono davvero e le vittime muoiono. Il problema è chi li crea, i terroristi, chi li manipola: capire quello che c’è dietro. Abbiamo un problema, sì. Ed è l’informazione, che da molti anni non fa più il suo dovere». Non vede, non sente, non parla. Soprattutto, non ricorda. Finge di non accorgersi che il copione è sempre lo stesso: esercitazione “antiterrorismo” e attentato concomitante, guardacaso, proprio lì, a quell’ora. A seguire: cattura immediata del “patsy”, il colpevole di comodo, regolarmente incastrato a tempo di record e col medesimo sistema: l’ingenuo aveva portato con sé il passaporto e, combinazione, l’aveva dimenticato proprio sul luogo dell’attentato. Succede da decenni, dice Mazzucco, e nessuno ci fa caso. Teoria e pratica del “terrorismo fatto in casa”, da Jfk in poi, fino alle Torri Gemelle, agli attentati di Londra e a quelli di Parigi. Succede sempre. E nessuno lo denuncia, perché «è più comodo, per la carriera di tutti».
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Donald Trump: l’Isis deve tutto a Obama e a Hillary Clinton
«Lei era il segretario di Stato e Obama il presidente: due autentici geni». Intervistato da “Fox News”, il candidato repubblicano Donald Trump, ovvero il politico “impresentabile” che sta crescendo nei sondaggi con la sua violentissima polemica anti-Islam, ha incolpato Hillary Clinton e Barack Obama come primi responsabili del disastro in Medio Oriente, regione devastata dal terrorismo direttamente promosso dagli Usa. Trump accusa l’ex segretario di Stato e l’attuale presidente, indicandoli come responsabili del conflitto in Siria e della carneficina in Libia. Obama e la Clinton,«responsabili della morte di centinaia di migliaia di siriani e di libici». Colpa loro l’ascesa dell’Isis. Ed è stata la Clinton «a causare questo problema, con le sue stupide politiche», ha dichiarato testualmente Trump a “Fox News Sunday”. «Guardate quello che ha fatto in Libia e quello che ha fatto con la Siria: è stata veramente uno dei peggiori segretari di Stato della storia del nostro paese. Sostiene che io sarei pericoloso, ma è stata lei a far uccidere centinaia di migliaia di persone con la sua stupidità».Grande imbarazzo, da parte dellintervistatore della Fox News, di fronte alle affermazioni di Trump «che contrastano e smentiscono tutta la falsa propaganda del Pentagono delle “guerre civili” causate dai “tiranni sanguinari” (Gheddafi ed Assad)», scrive “Sponda Sud”. Alla fine, osserva Luciano Lago sul magazine di geopolitica, «alcune verità vengono fuori anche nel marasma della disinformazione e della becera propaganda condotta dai grandi media», persino grazie a un “mostro” politico come Trump. «La guerra in Siria, realizzata mediante l’appoggio di alcuni paesi occidentali e di alcuni paesi arabi ai terroristi sostenuti ed armati dall’estero, ha causato la morte di oltre 250.000 persone fino al momento attuale», ricorda Lago su “Sponda Sud”. «La narrazione dei media occidentali aveva cercato di presentare il conflitto siriano come una “guerra civile”, ignorando il fatto che in Siria erano stati infiltrati decine di migliaia di mercenari jihadisti, di varie nazionalità, armati dagli Usa e finanziati dalle monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Qatar e Kuwait), sulla base di un progetto concepito dal Pentagono di rovesciare il regime di Assad».Obiettivo occulto degli Usa, «arrivare ad uno smembramento del paese arabo per facilitare il controllo delle risorse e creare uno stato sunnita sotto la “protezione” saudita e occidentale, isolando la parte sciita e filo-iraniana del paese». I terroristi dei vari gruppi jihadisti «erano stati inizialmente addestrati in appositi campi creati dalla Cia nel 2012 in Giordania, successivamente in Turchia, con l’obiettivo di rovesciare il governo di Bashar al-Assad, giudicato ostile agli interessi degli Usa e delle potenze regionali come (fra gli altri) l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia», continua Lago. «I servizi di intelligence Usa già da anni avevano finanziato i gruppi radicali sunniti della Siria per sobillare un conflitto inter-confessionale e provocare una rivolta popolare all’interno del paese». A questo scopo «avevano fatto infiltrare, nel 2011, diversi loro agenti con il compito di creare scontri a fuoco ed episodi di rivolta, in modo da screditare il governo di Assad e provocare una rivolta popolare».Le cose però non sono filate lisce: il piano ha trovato un forte ostacolo nella resistenza della popolazione siriana e nella dura reazione dell’esercito di Damasco «contro i gruppi terroristi inviati dall’estero, veri e propri tagliagole al servizio dei monarchi sauditi». Anche la creazione dello Stato Islamico e del suo esercito jihadista, sembra certo che abbia trovato la collaborazione della Cia, della Dia e dei servizi israeliani, prosegue Lago. Il tutto sotto la copertura degli Usa, «interessati a creare il pretesto per l’intervento militare della Nato e per attuare il piano di divisione dei due paesi-chiave della regione, Siria e Iraq, entrambi collegati con l’Iran». Poi è arrivato l’intervento militare russo, iniziato il 30 settembre. La mossa di Putin «ha guastato i piani del Pentagono, oltre a quelli dell’Arabia Saudita e della Turchia che già contavano di spartirsi il territorio e le risorse della Siria». L’intervento russo «ha impedito il crollo del regime siriano e ha imposto un alt all’avanzata dello Stato Islamico che, in teoria, le potenze occidentali dichiaravano di voler combattere ma che contava su forti complicità e sul patrocinio delle monarchie del Golfo».«Lei era il segretario di Stato e Obama il presidente: due autentici geni». Intervistato da “Fox News”, il candidato repubblicano Donald Trump, ovvero il politico “impresentabile” che sta crescendo nei sondaggi con la sua violentissima polemica anti-Islam, ha incolpato Hillary Clinton e Barack Obama come primi responsabili del disastro in Medio Oriente, regione devastata dal terrorismo direttamente promosso dagli Usa. Trump accusa l’ex segretario di Stato e l’attuale presidente, indicandoli come responsabili del conflitto in Siria e della carneficina in Libia. Obama e la Clinton,«responsabili della morte di centinaia di migliaia di siriani e di libici». Colpa loro l’ascesa dell’Isis. Ed è stata la Clinton «a causare questo problema, con le sue stupide politiche», ha dichiarato testualmente Trump a “Fox News Sunday”. «Guardate quello che ha fatto in Libia e quello che ha fatto con la Siria: è stata veramente uno dei peggiori segretari di Stato della storia del nostro paese. Sostiene che io sarei pericoloso, ma è stata lei a far uccidere centinaia di migliaia di persone con la sua stupidità».
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Scie chimiche, persino Grillo minimizza (come i nuovi troll)
«La causa delle scie chimiche sono gli aeroplani col motore Volkswagen» (Beppe Grillo, 24/9/2015). Assolutamente non richiesto, Beppe Grillo ci dà un esempio di come opera la disinformazione di regime: prendere un tema drammatico, anzi disumano, e normalizzarlo inserendolo in un contesto comico. Per chi ancora avesse dei dubbi sulla reale gestione/funzione del M5S (opposizione con-trollata), a dispetto dell’onestà e dell’impegno della grande maggioranza degli iscritti e dei votanti, compreso chi scrive. Se solo volesse, Grillo potrebbe sfruttare la sua esposizione mediatica internazionale per denunciare pubblicamente questo crimine contro l’umanità e fare i nomi dei responsabili, invece di normalizzarlo con battute di (dubbio) spirito. Basterebbe un video di 10 minuti, ma non lo farà mai, perché i responsabili sono gli stessi che lo hanno messo dov’è ora. Colgo l’occasione per ricordare che molti troll in rete usano la vicinanza al M5S per ottenere una sorta di “patente di credibilità”, uno schermo dietro cui nascondersi per esercitare al meglio la loro “mission”.Ultimamente sto notando lo stesso schema di like/appartenenza a gruppi “misti” (pro e contro geoingegneria) di un certo tipo di troll, il “finto possibilista”, che interviene nei gruppi con post “descrittivi” senza foto, al massimo una decina di righe che spesso culminano in una domanda, apparentemente sensata ma in realtà mirata a distogliere l’attenzione dai veri scopi delle scie chimiche (per quanto mi riguarda, l’obiettivo principale è il controllo mentale / comportamentale / umorale delle persone attraverso le nanotecnologie). Sono ormai più di due anni che quotidianamente studio la geoingegneria da diversi punti di vista; negli ultimi mesi su richiesta di un caro amico sono diventato co-amministratore di un gruppo a tema, e ho potuto così approfondire le tecniche di disinformazione dei vari gruppi di trollaggio: provenienza geografica e ideologica, strategie di intervento e di like tra di loro, format dei commenti, pagine “strategiche” cui fanno riferimento, apparati statali che li proteggono.Essere “admin” mi ha dato modo di notare anche le ondate di iscrizioni dei troll, da chi vengono invitati e soprattutto da chi vengono prontamente (almeno fino al mio arrivo) accettati, che nel caso del mio gruppo è sempre la stessa persona. Ho cominciato a studiare quindi i meccanismi di iscrizione anche negli altri gruppi cui partecipo, e la conclusione è che molti di questi 100 gruppi sono infiltrati per quasi la metà del numero di iscritti. A volte metto dei “post esca”, o commenti esca, per stanare questi delinquenti, che infatti nel tempo si palesano per quello che sono e la mission che devono compiere. Soprattutto mi sono reso conto che i troll ricevono dei veri e propri input a livello internazionale (sono iscritto anche in diversi gruppi stranieri), quindi all’improvviso e dal nulla ci troveremo con lo stesso articolo-bufala (magari di un anno prima) spammato in tutti i gruppi e con gli stessi commenti sotto… tradotti in tutte le lingue. Ciò è davvero allucinante, perché prevede una regia internazionale solidissima e molto molto intelligente, più una struttura organizzativa capillare che arriva fin nei gangli minimi della nostra società.Il grosso del lavoro “sporco” viene fatto da giovani reclutati all’interno delle facoltà tecnico-scientifiche delle università, cooptati da professori-baroni legati alla massoneria internazionale. Ci sono poi i troll di provenienza “politica”, foraggiati cioè sempre dallo Stato ma passando per la mangiatoia dei partiti: i piddini, quelli di destra, e quelli che appunto usano lo schermo del Movimento 5 Stelle per dotarsi di una “patente” di credibilità… Altro criterio di distinzione dei troll è quello geografico: due zone in particolare (guardacaso fortemente condizionate dalla presenza della Nato) costituiscono un serbatoio di addetti alla disinformazione: Friuli-Veneto e Sardegna: in queste regioni la corrente “nera” e indipendentista storicamente si è legata ai servizi segreti e oggi viene telecomandata ai fini dell’occultamento della verità, della manipolazione anche emotiva dei lettori con tecniche di Pnl, e addirittura dell’intimidazione nei confronti degli attivisti genuini.Per tutti questi motivi, il ruolo dell’admin nei nostri gruppi è importantissimo… basterebbe riflettere sul fatto che “loro” spendono milioni per contrastare la nostra presa di coscienza e iniziativa, e se non fosse così importante non lo farebbero. E’ fondamentale che nei gruppi italiani di riferimento ci sia la capacità di resistere ai tentativi di infiltrazione e di sottile manipolazione mentale che ultimamente stanno aumentando a ritmo esponenziale, e questo è possibile perché appunto diversi membri (e a volte “admin”) finti attivisti “ad orologeria” stanno scoppiando, e mandando in confusione / sfiducia decine di persone che per anni li hanno seguiti ciecamente, certi della loro buona fede.(Mario Quaranta, “Grillo, le scie chimiche e i nuovi troll”, dalla pagina Facebok di Mario Quaranta, post aggiornato il 28 settembre 2015. Ricercatore indipendente, Quaranta ha partecipato alla puntata della trasmissione web-radio “Border Nights” del 7 ottobre 2015).«La causa delle scie chimiche sono gli aeroplani col motore Volkswagen» (Beppe Grillo, 24/9/2015). Assolutamente non richiesto, Beppe Grillo ci dà un esempio di come opera la disinformazione di regime: prendere un tema drammatico, anzi disumano, e normalizzarlo inserendolo in un contesto comico. Per chi ancora avesse dei dubbi sulla reale gestione/funzione del M5S (opposizione con-trollata), a dispetto dell’onestà e dell’impegno della grande maggioranza degli iscritti e dei votanti, compreso chi scrive. Se solo volesse, Grillo potrebbe sfruttare la sua esposizione mediatica internazionale per denunciare pubblicamente questo crimine contro l’umanità e fare i nomi dei responsabili, invece di normalizzarlo con battute di (dubbio) spirito. Basterebbe un video di 10 minuti, ma non lo farà mai, perché i responsabili sono gli stessi che lo hanno messo dov’è ora. Colgo l’occasione per ricordare che molti troll in rete usano la vicinanza al M5S per ottenere una sorta di “patente di credibilità”, uno schermo dietro cui nascondersi per esercitare al meglio la loro “mission”.
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Segreto di Stato su Charlie Hebdo, killer armati dagli 007
I giudici non potranno indagare: il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha bloccato ogni ulteriore inchiesta sull’eccidio compiuto da Amedy Coulibaly, il 32enne nero che s’era asserragliato nel piccolo supermercato Hyper Casher di Porte de Vincennes, uccidendo cinque clienti e finendo crivellato dai colpi dei corpi speciali. Facendo valere – si noti – il segreto militare. Certamente ricordate. Era il 9 gennaio 2015; il 7, due terroristi, urlando “Allahu Akbar!”, avevano trucidato praticamente l’intera redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Avevano agito da freddi professionisti: poi però nella Citroen che avevano abbandonato nel XIX Arrondissement scappando su un’altra vettura, uno dei due aveva dimenticato la carta d’identità; era il documento di Said Kouachi, il che aveva permesso di identificare senza alcun dubbio gli autori della strage con i fratelli Kouachi, Said e Chérif, già noti alla polizia come estremisti islamici. Mentre i due erano in fuga, Coulibaly si asserragliò deliberatamente nel supermercato kosher; perbacco, un attentato antisemita in piena Parigi!Tutte le tv del mondo si concentrarono davanti alle vetrine, e ripresero la tragica e spettacolare scena dell’uccisione di Coulibaly, cosa che per qualche ora fece dimenticare la fuga dei due fratelli Kouachi. Nessuno ha visto la loro morte, che ufficialmente è avvenuta dopo una sparatoria con gli agenti a Dammartin en Goele, a una settantina di chilometri dalla capitale, il 9, alla stessa ora del tardo pomeriggio in cui è stato ucciso, davanti alle tv, Coulibaly a Parigi. E’ stato lo stesso Hollande a ordinare che le due irruzioni avvenissero in contemporanea; dell’uccisione dei fratelli Koauchi è stato diffuso un video che mostra un bagliore nel buio: a gennaio, le cinque di sera è già notte. Ma torniamo a Coulibaly, il cui cadavere rimase per ore sul marciapiede. Era entrato in quell’Hyper Cocher armato di un mitra Skorpion, un fucile d’assalto Vz 58 (simile al Kalashnikov), due pistole Tokarev. Tutte armi di provenienza cecoslovacca. Armi da guerra, che in Francia non sono ovviamente in libera vendita. Dove se l’era procurate, Amedy?Era questa la domanda a cui stavano cercando risposte i giudici istruttori del tribunale di grande istanza di Lille: ed è sulla loro inchiesta che è calata la mannaia del segreto. Per ingiunzione del ministro dell’interno. Si cessi ogni ricerca: sécret défense. Perché è segreto “militare”? Perché i giudici erano troppo vicini alle verità nascoste dietro la tragedia di “Charlie Hebdo”, e al suo fondo che resta inspiegato. In breve – come già aveva rivelato a suo tempo il giornale di Calais “La Voix du Nord” sulla base di indiscrezioni degli inquirenti, quelle armi erano state fornite da «una rete costituita da forze dello Stato» che le comprava, attraverso intermediari pregiudicati ma collaborativi, per spedirle ai ribelli jihadisti in Siria. Forze dello Stato? Per la precisione, secondo il sito alternativo “Mediapart”, «poliziotti di Lille e uno dei loro informatori sono al centro del traffico d’armi con cui è stato armato Coulibaly… la loro posizione è abbastanza delicata da indurli a trincerarsi dietro il “sècret défense”»; il ministro Cazeneuve ha tolto quei suoi agenti dai guai, avallando la loro difesa: sì, ciò che hanno fatto è segreto. Militare.Praticamente,è ammissione che lo Stato è coinvolto nella selezione e nell’armamento di giovani francesi d’origine islamica da impiegare in Siria come terroristi. Si può indovinare che i fratelli Kouachi, e quasi certamente anche Coulibaly, erano stati arruolati di Parigi per andare in Siria. Come e perché siano stati invece dirottati, con quelle armi, a compiere la doppia strage di Parigi, è un mistero forse troppo profondo. Quel che hanno scoperto i giudici istruttori di Lille è però abbastanza. Pochi giorni dopo la strage, il 20 gennaio, «i dirigenti della Brigata penale della sotto-direzione anti-terrorismo” (Sdat; una specie di Digos), portano ai giudici la relazione tecnica sulle armi del delitto. Ma tacciono un fatto preciso: la loro provenienza. Eppure già dal 16 Europol aveva fornito allo Sdat le informazioni in suo possesso: le armi «sono state acquistate dall’azienda slovacca Agf Security da una ditta di Lille che fa capo a Claude Hermant».La ditta slovacca vende sul web armi da guerra decommissionate; Hermant è un confidente della polizia, mezzo agente e mezzo spia, di idee neofasciste. E non ha comprato solo le armi da fuoco usate da Coulibaly: dalla Agf ha acquistato 200 pezzi «poi rivenduti», e anche (ritengono i giudici) altre novanta fra pistole e mitragliatori d’assalto attraverso un intermediario belga di Charleroi. E’ evidente che queste armi da guerra non hanno potuto essere importate in Francia senza l’assenso delle cosiddette autorità di pubblica sicurezza. In specie, con la complicità dello Sdat. Quanto al contatto belga di Hermant, è risultato essere (anche lui) un detective di Charleroi; interrogato, ha detto che «Hermant era il mio cliente principale», che «mi comprava il 95% delle armi demilitarizzate provenienti dalla ditta slovacca Afg – decine e decine. Che cosa ne facesse in seguito, non lo so».La difesa di Hermant ha rigettato questa versione: le transazioni saranno state «al massimo quattro-sei». Qualcuna delle armi comprate da Hermant è stata usata per altri misteriosi delitti commessi lo stesso giorno della strage di “Charlie Hebdo”: una poliziotta uccisa a Montreux e il tentativo di omicidio di un “jogger” a Fontenay-aux-Roses. Entrambi i delitti sono stati dalla polizia attribuiti a Coulibaly, che ormai defunto non poteva smentirli. Ma il “jogger”, sopravvissuto, non ha mai riconosciuto nella foto di Coulibaly il suo aggressore («Non era un nero»), e ha invece additato un nordafricano, che ha visto per caso durante un reportage televisivo sull’Hyper Cacher: tale Amar Ramdani. Personaggio cruciale: Ramdani, rapinatore, ricercato internazionale per spaccio, aveva stretto amicizia con Coulibaly in carcere; s’era atteggiato ad islamista voglioso di violenza, gli aveva dato appoggio logistico (le armi?) e sarebbe stato lui a scortarlo fino al negozio kosher alla Porte de Vincennes; certamente il cellulare di Coulibaly e quello di Ramdani hanno occupato la stessa “cellula” il 6, 7 ed 8 gennaio.Il punto è che questo pregiudicato Ramdani, come hanno scoperto gli agenti che lo hanno pedinato, entrava e usciva quando voleva dal centro operativo dei “servizi” francesi, a Rosny-sous-Bois. Poi è risultato – o è stato asserito – che lì andava a trovare la sua amante: Emanuelle C. (il cognome è ignoto) che è una agente dei servizi, che aveva preso una sbandata per lui tanto da “convertirsi all’Islam” in segreto, tanto da “indossare il velo” quando usciva dall’ufficio: un tipico travestimento per un’agente che vuole infiltrarsi in ambienti islamici. E poi: come può un ricercato entrare nel “Forte” (così chiamano la centrale d’intelligence) senza mostrare un documento, senza avere un badge che ne legittimi l’accesso? Il peggio è che quando Ramdani (su indicazione del blogger) è stato arrestato, Emmanuelle ha cercato di accedere ai fascicoli dell’inchiesta Coulibaly.Un’altra donna fatale è quella che ha fatto innamorare Coulibaly e l’ha reso – oltreché pazzo d’amore – un islamista pronto a tutto: si chiama Hayat Boumedienne, indicata dai media come “la moglie” del terrorista ucciso. Molte le foto, diffuse dopo, dove i due sono insieme e si addestrano ad usare pistole – lei è in chador nero. Altre foto però la mostrano in bikini, incollata voluttuosamente a Coulibaly. Il giorno 9, quando il nero si asserraglia nel negozio ebraico, qualcuno spiega subito ai giornalisti che la fanatica islamista Hayat Boumedienne è lì con lui, nel negozio. Così passano le ore e nessuno la cerca. Hayat non è affatto nel negozio; ha preso comodamente il largo. Poi si farà viva coi familiari e darà la sua versione, ovviamente ripresa dai media: “Sono in Siria a combattere con lo Stato Islamico contro Assad”. Lo Stato Islamico addirittura la intervista – il Califfo ha infatti anche una rivista patinata in francese, “Dar Islam” – e diffonde la sua versione. Lei si dichiara felice di vivere «in una terra dove vige la legge di Allah» e fa un elogio funebre del ‘marito’ Coulibaly (lo chiama Abu Baly al-Ifriki) che ha dato il buon esempio.Naturalmente, l’articolo è privo di foto della ragazza nella sua nuova incarnazione: sarebbe antislamico, perbacco. Il fatto è che addirittura l’Isis conferma la versione ufficiale. Poi, sono comparsi video in cui Coulibaly, ancor vivo, si dichiarava spontaneamente un seguace del Califfato. Una tv ebraica francese riuscirà ad intervistarlo mentre è asserragliato nel negozio: uno scoop. Come quelle immagini prese dal tetto che mostrano i due teroristi all’uscita dalla strage di “Charlie Hebdo”: immagini riprese, si disse, da un giornalista israeliano che si trovava per caso lì… versione poi cambiata. Facciamola breve. Insomma: qualcosa ci suggerisce una nostra versione, orribilmente complottista: il povero Coulibaly, reso scemo dal sesso la sua Hayat Boumedienne, che è una agente dei servizi, viene gestito da Ramdani, che lo arma con le armi fornite da Hermant per i servizi in gran quantità, perché solitamente destinate alla guerriglia in Siria (dove i francesi hanno una filiale di Al-Qaeda, fatta di militanti maghrebini nati in Francia); la fidanzata o moglie, e il Ramndani, lo convincono a compiere la grande impresa di alto valore mediatico.Il povero Coulibaly viene usato e sacrificato per qualche motivo, forse per distogliere l’attenzione dai fratelli Kouachi che in quelle ore sono in fuga? Per qualche altro motivo? In ogni caso, è abbastanza spiegabile come mai occorra seppellire questa sporca faccenda come “segreto di Stato”, segreto militare da sottrarre ai giudici. Chi vuole sviscerare tutti i particolari strani di questa vicenda, può – se sa il francese – consultare il sito “Panamza”. E’ una miniera di informazioni, risultato di indagini personali di un vero giornalista (che immagino non sia apprezzato dai media). Fra le altre, segnalo questa: fin dalle prime ore un importante giornale online americano, l’“International Business Time” (il terzo nel mondo fra i giornali economici sul web, per numero di contatti) dice: l’attentato di “Charlie” sembra una vendetta del Mossad contro la Francia. Un’ora dopo, il giornale online ritira il pezzo, e si scusa coi lettori.(Maurizio Blondet, “Su Charlie Hebdo piomba il segreto militare”, dal blog di Blondet del 12 ottobre 2015).I giudici non potranno indagare: il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha bloccato ogni ulteriore inchiesta sull’eccidio compiuto da Amedy Coulibaly, il 32enne nero che s’era asserragliato nel piccolo supermercato Hyper Casher di Porte de Vincennes, uccidendo cinque clienti e finendo crivellato dai colpi dei corpi speciali. Facendo valere – si noti – il segreto militare. Certamente ricordate. Era il 9 gennaio 2015; il 7, due terroristi, urlando “Allahu Akbar!”, avevano trucidato praticamente l’intera redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Avevano agito da freddi professionisti: poi però nella Citroen che avevano abbandonato nel XIX Arrondissement scappando su un’altra vettura, uno dei due aveva dimenticato la carta d’identità; era il documento di Said Kouachi, il che aveva permesso di identificare senza alcun dubbio gli autori della strage con i fratelli Kouachi, Said e Chérif, già noti alla polizia come estremisti islamici. Mentre i due erano in fuga, Coulibaly si asserragliò deliberatamente nel supermercato kosher; perbacco, un attentato antisemita in piena Parigi!
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Charleston, il mostro stragista e l’apposita esercitazione
A Charleston, South Carolina, il 21 enne Dylan Roof è entrato nella chiesa negra ed ha sparato all’impazzata, uccidendo nove presenti, fra cui il senatore democratico Clementa Pinckney, 41 anni, padre di due figli. Era il 17 giugno. Quello stesso era in corso a Charleston un’esercitazione federale che prevedeva esattamente un eccidio: i poliziotti partecipanti dovevano prepararsi nel caso di “Active Shooter”. Si tratta di una definizione inventata dal Department of Homeland Security, che designa uno scenario di una strage di massa rapida e imprevedibile, dove alla fine l’uccisore si toglie la vita. Come potete verificare, di esercitazioni del genere, in Usa, se ne tengono di continuo. E’ una coincidenza che si ripete sistematicamente. L’11 Settembre 2001, la Federal Emergency Management Agency (Fema, la protezione civile) aveva in programma una esercitazione, chiamata “Tripod”, che simulava un attacco chimico al World Trade Center e l’evacuazione delle Torri; sicchè il personale e i mezzi della Fema erano già sul posto la notte del 10; quanto ai militari, avevano in corso varie esercitazioni proprio allora.A Londra il 7 luglio 2005, quattro “terroristi islamici” insospettabili fecero saltare quattro stazioni della metropolitana. Immediatamente un cittadino di nome Peter Power, direttore di “Visor Consultants”, un’azienda privata sotto contratto con la polizia della città di Londra, telefona alla Bbc radio tutto eccitato e racconta come lui, per conto di un cliente anonimo, aveva in corso una esercitazione che simulava attacchi simultanei «esattamente dentro le stazioni del metro dove si sono poi verificate quella mattina, ho ancora i capelli dritti quando ci penso». Il giovane Dylan, squilibrato, drogato, arrabbiato e razzista, è la tipica figura dell’assassinio solitario, venuto dal nulla, ricorrente in America. Voleva provocare la guerra civile razziale, bianchi contro neri, dice al primo interrogatorio. I media sono stati lesti a riportare tutto delle foto e delle frasi d’odio che aveva postato sul suo sito: lui con la pistola, lui con la bandiera confederata.Quello su cui sorvolano è che il sito, “lastrhodesian.com”, è situato a Mosca, capitale della Federazione Russa. Come e perché un ragazzo del South Carolina, con conoscenze Internet alquanto elementari, e pochi “amici” nei social media, abbia ritenuto di usare un e-mail host russo, “yandex.com” (preferito da esperti hacker che vogliono sfuggire alle infiltrazioni Nsa) ed un host del web di Mosca (“reg.ru”), è un mistero. Ma dalla Russia emana il Male, come si sa… Ammesso poi che le foto sul sito siano state postate da lui. Alcune sembrano aggiunte dopo, quando lui ormai era in galera, o ritoccate con Photoshop (in due foto identiche, appare con una bandierina diversa appuntata sul giubbotto). Anche un suo lungo “Manifesto” di odio razziale trovato “sul web” ha l’aria di essere falso.La sera in cui è entrato nella chiesa episcopale metodista africana “Emanuel”, Roof ha chiesto chi fosse il reverendo: pare avesse dunque un bersaglio preciso nel pastore Clementa C. Pinckney, che era anche senatore democratico dello Stato, figura rispetatta e di fama crescente nella comunità locale. Il senatore aveva proposto da poco che i poliziotti fossero obbligati per legge a indossare una telecamera sul petto, proposta che aveva avanzato dopo che un negro di nome Walter Scott, disarmato, era stato preso a revolverate nella schiena da un agente di polizia mentre scappava: tragedia dell’odio avvenuta a North Charleston solo nell’aprile scorso. Probabilmente era quello che chi controlla la mente di Dylan voleva eliminare. Le altre vittime saranno state danni collaterali.(Maurizio Blondet, “Charleston, c’era un’esercitazione simulante il massacro”, dal blog di Blondet del 23 giugno 2015).A Charleston, South Carolina, il 21 enne Dylan Roof è entrato nella chiesa negra ed ha sparato all’impazzata, uccidendo nove presenti, fra cui il senatore democratico Clementa Pinckney, 41 anni, padre di due figli. Era il 17 giugno. Quello stesso era in corso a Charleston un’esercitazione federale che prevedeva esattamente un eccidio: i poliziotti partecipanti dovevano prepararsi nel caso di “Active Shooter”. Si tratta di una definizione inventata dal Department of Homeland Security, che designa uno scenario di una strage di massa rapida e imprevedibile, dove alla fine l’uccisore si toglie la vita. Come potete verificare, di esercitazioni del genere, in Usa, se ne tengono di continuo. E’ una coincidenza che si ripete sistematicamente. L’11 Settembre 2001, la Federal Emergency Management Agency (Fema, la protezione civile) aveva in programma una esercitazione, chiamata “Tripod”, che simulava un attacco chimico al World Trade Center e l’evacuazione delle Torri; sicchè il personale e i mezzi della Fema erano già sul posto la notte del 10; quanto ai militari, avevano in corso varie esercitazioni proprio allora.
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Maastricht? Non ci risulta: la rovina dell’Italia siamo noi
L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.I governi che si sono succeduti a partire dagli anni ottanta, scrive Davanzati su “Micromega”, hanno rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria, fidando nella filosofia del “piccolo è bello”. La costante riduzione della domanda interna, aggiunge l’analista, è derivata non solo dalla riduzione di consumi e investimenti privati, «ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale». Chi e perché ha indotto quelle politiche? Davanzati non lo spiega, preferendo concentrarsi sul loro esito disastroso: i tagli alla spesa hanno indebolito il sistema e il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, mettendo in crisi la maggioranza delle aziende (medio-piccole), fortemente dipendenti dal credito bancario. Poi, la crisi dei mutui subprime negli Usa è rimbalzata nella cosiddetta crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona, con caduta della domanda globale, riduzioni dell’export, austerity, esplosione paurosa della disoccupazione.Unica mossa tentata: detassare e precarizzare il lavoro. Misura ingiusta e comunque insufficiente: «Se le aspettative sono pessimistiche gli investimenti non vengono effettuati e il solo effetto che può verificarsi è un aumento dei profitti netti». Giocare al ribasso, inoltre, disincentiva l’innovazione delle imprese. Servirebbe il contrario del Jobs Act, e cioè regole rigide e tutele per i dipendenti. Davanzati cita Keynes: «Se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale». In altri termini, sostiene Davanzati, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione che aiuta le imprese a migliorare e crescere, puntando proprio sull’innovazione, senza contare che salari più alti «contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo virtuoso di alta domanda ed elevata produttività».E’ esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, chiosa Davanzati. Già, ma perché è accaduto? Italiani pasticcioni o traviati da manovratori occulti? Nino Galloni, economista della Sapienza e già super-tecnico al ministero del bilancio, chiarisce: prima ancora del terremoto della globalizzazione, i guai veri per l’Italia sono cominciati nel 1981, quando la Banca d’Italia ha cessato di fare da “bancomat del governo”, costringendo l’esecutivo ad avvalersi dei titoli di Stato, acquistati dalla finanza internazionale, come fonte primaria di finanziamento pubblico. Immediata l’esplosione del debito, divenuta catastrofica con l’adozione dell’euro, moneta non più emessa dall’Italia. Galloni sintetizza: l’Italia non stava sulla luna, ma nell’Europa in cui la Francia di Mitterrand impose l’euro alla Germania che voleva la riunificazione tedesca del 1989. Kohl accettò a una condizione: che venisse sabotato il sistema industriale italiano, cioè il maggior concorrente dell’export di Berlino. A valle, quindi, gli inevitabili “errori” nella politica industriale, gli “incomprensibili” ritardi, i fallimenti a catena.Craxi fu il primo a profetizzare che, con Maastricht, l’Italia ci avrebbe rimesso le penne. Andreotti provò a resistere. E Galloni racconta che lo stesso Kohl fece pressioni, personalmente, per allontanare dal governo i funzionari come Galloni, che i “titoli di coda” per l’economia nazionale li avevano già visti alla fine degli anni ‘80. Fino a qualche anno fa, il fatidico meeting del Britannia per la svendita dell’Italia e la sua deindustrializzazione forzata era relegato tra le pieghe della letteratura “cospirazionista”, così come le pagine di libri usciti in questi anni, per esempio “Il golpe inglese”, di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Chiarelettere). A bordo del Britannia nel ‘92 c’era Draghi, allora al Tesoro, poi promosso governatore di Bankitalia e oggi alla guida della Bce. Ciampi, al vertice della Banca d’Italia all’epoca del divorzio dal governo, venne eletto addirittura al Quirinale. Nessi impossibili da ignorare, a proposito di “strano” declino del made in Italy.Un altro luogo comune, citato dallo stesso Davanzati che parla di “ipertrofia” dell’apparato pubblico (in linea con la retorica padronale di Renzi), riguarda il presunto peso della pubblica amministrazione: secondo l’Eurispes, in Italia si contano 58 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti contro i 135 della Svezia, i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito, i 65 della Spagna e i 54 della Germania. Inoltre, negli ultimi 10 anni l’Italia ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri hanno assunto: +36,1% in Irlanda, +29,6% in Spagna, +12,8% in Belgio e +9,5% nel Regno Unito. Il pubblico impiego da noi pesa per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche in questo caso, la vituperata burocrazia pubblica italiana si attesta in realtà su numeri tra i più bassi in Europa: in Danimarca il costo del pubblico impiego è pari al 19,2% del Pil, in Svezia e Finlandia al 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del Pil. Tutti, ma proprio tutti, più dell’Italia.Paolo Barnard ha spesso citato analoghe statistiche sul tasso di produttività: quello dei lavoratori italiani surclassa, storicamente, la capacità produttiva dei mitici lavoratori tedeschi. Com’è noto, Barnard si distingue per l’acutezza spietata dall’analisi: il sabotaggio dell’economia italiana a vantaggio dell’élite finanziaria straniera, con la necessaria complicità di “collaborazionisti” nostrani ricompensati con carriere d’oro, si sviluppa negli ultimi decenni in perfetta ottemperanza del famigerato “Memorandum” di Lewis Powell, l’avvocato di Wall Street incaricato già all’inizio degli anni ‘70 di stilare un vademecum per consentire agli oligarchi di liquidare la sinistra negli Usa e in Europa. Istruzioni eseguite alla lettera: “comprare” i leader di partiti e sindacati per indurli a varare norme contro i lavoratori, infiltrare università, giornali, televisioni e sistema editoriale per forgiare il dogma del pensiero unico neoliberista, cioè la fine dello Stato sovrano, la Costituzione democratica nata dalla Resistenza per tutelare i cittadini con pari diritti e pari opportunità.Con Renzi siamo all’atto finale, la privatizzazione universale definitiva. Non manca chi invoca una politica diversa e magari salari più alti. Già, ma con che soldi? Senza più moneta sovrana, lo Stato ora è in bolletta ed è costretto a super-tassare: lo Stato “risparmia”, quindi condanna aziende e famiglie. Siamo arrivati al puro delirio del pareggio di bilancio: lo Stato ridotto a colonia, impossibilitato a spendere, costretto a restituire ogni centesimo e con gli interessi, come se non fosse più un ente pubblico ma una semplice azienda privata, una normale famiglia alle prese con un debito contratto con la banca. Eppure, il mainstream continua a trascurare la portata termonucleare dell’euro-cataclisma, la fine dell’interesse pubblico, la morte clinica degli investimenti capaci di produrre occupazione. E in pieno 2015 preferisce continuare a parlare di errori, ataviche pigrizie e imperdonabili miopie nella piccola e provinciale Italietta, incapace – per tara genetica – di sviluppare una seria politica industriale.L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.
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Foa: i killer di Charlie Hebdo non potranno parlare mai più
La vita dei fratelli Kouachi, gli sterminatori della redazione di “Charlie Hebdo”, non valeva un bottone. Lo si “sapeva” benissimo, fin dall’inizio. Se catturati vivi, avrebbero potuto parlare. E magari raccontare retroscena imbarazzanti. Dietrologie? Forse. Ma resta la domanda-chiave: perché giustiziarli, quando era possibilissimo catturarli vivi? Quesito che Marcello Foa rilancia, dal suo blog sul “Giornale”: perché mai sparare, visto che i due killer non stavano minacciando nessun ostaggio? E’ normale prassi, nelle operazioni di polizia: solo catturando gli esecutori è possibile interrogarli e quindi risalire agli eventuali mandanti. Viceversa, tappando loro la bocca – come già accaduto al kamikaze “solitario” Mohammed Merah (poi risultato addestrato e infiltrato dalla Dgse, l’antiterrorismo francese) si può stare sicuri che il colpevole non parlerà mai più. «Non riesco ad aggiungere la mia voce al coro di plauso ai servizi di sicurezza francesi», premette Foa. «Un blitz non può essere considerato un successo se si conclude con la morte di ben 4 ostaggi». Peggio: «E’ emersa in queste ore una serie di errori e anomalie che per ora resta senza risposta».Per Foa, l’ultimo dubbio in ordine cronologico è il più grave: «Perché i fratelli Kouachi, due terroristi che hanno sterminato i redattori di “Charlie Hebdo”, sono stati uccisi?». Mentre l’assalto al negozio kosher era «impegnativo e rischioso a causa della presenza di ostaggi e pertanto rendeva quasi inevitabile l’uccisione di Amedy Coulibaly», il blitz contro i fratelli Kouachi «è avvenuto in condizioni ben diverse, quasi ideali per catturali vivi». Ora lo sappiamo con certezza, aggiunge Foa: i due «erano asserragliati nella tipografia senza ostaggi». Nell’edificio «c’era un solo dipendente quando hanno fatto irruzione», ma i due killer non l’avevano visto. L’uomo «ha avuto la prontezza di riflessi di nascondersi in uno scatolone e i fratelli Kouachi non si sono mai accorti della sua presenza, che è stata provvidenziale per le forze di sicurezza: via sms costui ha inviato alle forze dell’ordine importanti indicazioni sulle mosse dei due terroristi. Le condizioni, dunque, erano ottimali per catturarli vivi. E invece sono stati entrambi uccisi».Secondo le ricostruzioni di stampa, i due sarebbero usciti dalla tipografia, nella quale si erano asserragliati, sparando all’impazzata contro le forze di polizia dopo che queste – probabilmente – avevano iniziato a lanciare lacrimogeni nel locale. Un contesto difficile e confuso, ammette Foa, ma di certo non insolito per delle teste di cuoio altamente preparate a questo tipo di eventi e addestrate sia ad uccidere sia a neutralizzare tenendo in vita. «Ed è evidente che la cattura è altamente preferibile all’eliminazione, tanto più in assenza di ostaggi. Vivi, i due sarebbero stati interrogati, si sarebbe potuto scoprire la loro rete di contatti, i loro mandanti, approfondire la storia del reclutamento nello jhadismo, E invece sono stati uccisi entrambi. Era davvero indispensabile?». A queste domande se ne aggiungono altre. Fino a poche settimane fa, la redazione di “Charlie Hebdo” era sorvegliata da una camionetta 24 ore su 24, poi la misura è stata revocata e a proteggere l’ufficio è rimasto solo un poliziotto. «Nonostante proprio prima di Natale le autorità fossero in allarme per possibili attentati, la protezione di uno dei siti più ovvi, sensibili e prevedibili di Francia non è stata aumentata, con una leggerezza inspiegabile e imperdonabile».Per Foa, «è il più grande regalo che si potesse fare a dei terroristi jihadisti». E dunque, «chi risponde di questa scelta? Quali le motivazioni?». E poi: «Com’è possibile che due terroristi altamente addestrati, in grado di compiere con straordinaria freddezza e professionalità una strage come quella del “Charlie Hebdo”, si rechino sul luogo dell’attentato con la carta di identità e per di più la dimentichino nell’auto usata per la fuga? Nella mia vita ne ho viste tante – aggiunge Foa – ma una doppia leggerezza così sciocca da parte di guerriglieri che da settimane preparavano l’attentato è davvero molto insolita». Inoltre c’è la storia, molto confusa, dell’ipotetico terzo complice. Che fine ha fatto? «Perché le forze dell’ordine hanno additato, sin dalle prime ore, un giovane che in realtà è risultato completamente innocente (al momento del blitz si trovava a scuola)? C’era o no? E se sì, chi era? E’ ancora in fuga?». Ma non è finita. «Dalle immagini dell’assalto a “Charlie Hebdo” si nota che l’auto, una Citroën, era ferma in mezzo alla strada. Com’è possibile che sia stata lasciata lì durante il blitz, col rischio di bloccare il traffico e di attirare l’attenzione? O era parcheggiata altrove?». E cos’è successo quando, subito dopo la strage, l’auto dei terroristi è stata bloccata da un’auto della polizia nella via di “Charlie Hebdo”?Sulla tragedia di Parigi pesano infine interrogativi molto imbarazzanti, sui quali l’attenzione dei media mainstream evita accuratamente di concentrarsi. «I fratelli Kouachi erano noti da tempo ai servizi di sicurezza francesi, a quelli americani, persino a quelli italiani. Com’è possibile che il loro ritorno in Francia sia passato inosservato?». Altamente improbabile, come chiunque può capire. «Qualcuno monitorava le loro mosse? Li controllava? Se no, perché? Se sì, perché non sono stati fermati in tempo?». Già, perché? Forse “dovevano” compiere quella missione sanguinosa, sotto la protezione di chi conosceva tutto del loro piano? «Io non ho risposte a queste domande, che restano fondamentali per capire fino in fondo i tragici attentati di Parigi. Mi limito a formularle», conclude Foa. «Certo, invece, è il giudizio sui servizi di sicurezza francesi: sono stati disastrosi sia prima, sia durante, sia alla fine». Servizi che, come spiega Aldo Giannuli, sono considerati – per efficienza – tra i primi in Europa, perfettamente preparati a contrastare il terrorismo jihadista.La vita dei fratelli Kouachi, gli sterminatori della redazione di “Charlie Hebdo”, non valeva un bottone. Lo si “sapeva” benissimo, fin dall’inizio. Se catturati vivi, avrebbero potuto parlare. E magari raccontare retroscena imbarazzanti. Dietrologie? Forse. Ma resta la domanda-chiave: perché giustiziarli, quando era possibilissimo catturarli vivi? Quesito che Marcello Foa rilancia, dal suo blog sul “Giornale”: perché mai sparare, visto che i due killer non stavano minacciando nessun ostaggio? E’ normale prassi, nelle operazioni di polizia: solo catturando gli esecutori è possibile interrogarli e quindi risalire agli eventuali mandanti. Viceversa, tappando loro la bocca – come già accaduto al kamikaze “solitario” Mohammed Merah (poi risultato addestrato e infiltrato dalla Dgse, l’antiterrorismo francese) si può stare sicuri che il colpevole non parlerà mai più. «Non riesco ad aggiungere la mia voce al coro di plauso ai servizi di sicurezza francesi», premette Foa. «Un blitz non può essere considerato un successo se si conclude con la morte di ben 4 ostaggi». Peggio: «E’ emersa in queste ore una serie di errori e anomalie che per ora resta senza risposta».
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Strage di Parigi, polizia ridicola. Chi ha depistato gli agenti?
«Com’era facilmente prevedibile, i due fratelli Kouachi sono stati entrambi uccisi durante un blitz delle teste di cuoio, portandosi nella tomba le risposte a molti interrogativi sull’attentato a “Charlie Hebdo”, che ha tutte le fattezze del terrorismo ascrivibile alla “strategia della tensione”». Un attentato falsa bandiera in stile New York 9/11? No, risponde Federico Dezzani su “Come Don Chisciotte”: «A ragion veduta è un’operazione di infiltrazione e sovversione in stile anni ’70, dove i fratelli franco-algerini rappresentano i brigatisti di basso rango che premono il grilletto», mentre «chi si occupa dalla pianificazione, organizzazione e logistica, il Br Mario Moretti del caso, probabilmente non sarà mai preso perché legato ai servizi». L’intelligence francese? Ne esce «sconfitta secondo i media che leggono il copione», ma invece «vincente in base agli obbiettivi programmati, e marcia fino al midollo per chi analizzi a fondo la vicenda in divenire». Il politologo Aldo Giannuli, storico dei servizi segreti, è più cauto: salvo restando l’idea di una strage di matrice islamica, «è possibile che ci siano stati inserimenti di altri, in una eterogenesi dei fini». Un’ipotesi, non ancora una verità.Said e Cherif Kouachi, franco-algerini di 32 e 34 anni, per Dezzani sono invece «terroristi talmente perfetti che sembravano coltivati in vitro: nati e cresciuti a Gennevilliers, banlieue a Nord di Parigi, rimangono orfani, poi sono dati in affidamento e suonano un po’ di rap crescendo nel mondo della piccola criminalità; il maggiore è arrestato nel 2008 in quanto affiliato alla rete Buttes-Chaumont che recluta volontari da spedire in Iraq. Sono perciò da almeno cinque anni nei radar delle forze di sicurezza». Dopodiché, in base alle informazioni che piovono a catinelle già a poche ore dall’attacco, sarebbero passati nei campi di addestramenti di Al-Qaeda in Yemen e avrebbero partecipato alla guerra in Siria. «Il primo grande quesito da porsi è: com’è possibile che non fossero pedinati a vista? Le informazioni in possesso dei giornali dopo un giorno dall’attentato non erano negli archivi dell’intelligence? Sembra assurdo, anche perché i due fratelli erano nella lista nera compilata dal “Terrorist Screening Center” statunitense». Il 7 gennaio, continua Dezzani, i due fratelli fanno irruzione della sede di “Charlie Hebdo” e uccidono 12 persone, urlando i nomi dei vignettisti. L’assalto avviene durante la riunione di redazione del giornale: quindi è altamente probabile che l’attentato sia stato accuratamente pianificato, gli orari della redazione studiati, memorizzati i nomi e il viso delle vittime.«Forse per dare un tono di dilettantismo all’operazione, è diffusa la notizia che gli attentatori non conoscessero il numero civico della redazione. Ma è possibile che chi conosce il nome dei vignettisti e gli orari della riunione settimanale della redazione non sappia dov’è la sede dell’attentato? Nessuno dei fratelli ha mai fatto un sopralluogo?». Altra incredibile leggerezza, per un efficiente commando che si sarebbe formato nei campi Al-Qaeda: “dimenticare” la carta d’identità nell’auto, abbandonata dopo l’attentato. «I due fratelli franco-algerini non sanno che la regola base per qualsiasi rapinatore o terrorista è di liberarsi di documenti, telefoni, orecchini o qualsiasi mezzo di riconoscimento per non essere identificati? Perché indossare i passamontagna per poi dimenticare il documento in auto?». Probabilmente, continua Dezzani, «il documento è stato aggiunto sulla scena del crimine dall’intelligence su soffiata della mente dell’operazione, il Br Mario Moretti del caso, che conosce il nome e il piano degli attentatori, perché è stato lui a progettarlo».Con il ritrovamento della carta si desiderava quindi instradare rapidamente la polizia sui colpevoli per liquidarli in poche ore? «Tutta la vicenda ha un triste e fresco precedente, che stranamente pochi ricordano: nel marzo del 2012 il franco-algerino Mohamed Merah uccide sette persone, sparando da uno scooter, prima di asserragliarsi in un appartamento dove è ucciso durante il blitz delle teste di cuoio. Si scoprirà che anche lui era nei radar dell’intelligence francese da tempo, essendo stato un collaboratore della Dgse per cui si era recato in Afghanistan raccogliendo informazioni sugli islamisti francesi». L’insuccesso della polizia dipende da errori e incapacità oppure da non volontà di prendere i responsabili? «La polizia e i servizi francesi sono ad un elevato livello di professionalità», ammette Aldo Giannuli: «I servizi francesi, per chi non lo sapesse, hanno sofisticate teorie di intelligence riflesse in una corposa produzione pubblicistica». Vero, «non sempre a un elevato livello teorico corrisponde altrettanta capacità operativa». Però «non appare probabile una serie di errori, lacune, incertezze di questo genere».Certo, non è da escludere «l’ipotesi della cattiva volontà e magari di una “manina” poliziesca nella vicenda, sul modello della strategia della tensione: la “sicurezza” ci sta facendo una tale figura che un comportamento del genere sarebbe masochistico». Ma strategia della tensione per cosa? «Qui ad avvantaggiarsene sarebbe l’opposizione lepenista, non il governo», ragiona Giannuli. Che aggiunge: «In via subordinata si può pensare anche a un settore di polizia che lo stia facendo per far cadere l’attuale gruppo dirigente della stessa polizia o favorire una sconfitta elettorale di Hollande». Anche qui «ipotesi possibile, ma molto poco probabile: soprattutto in assenza di elementi concreti, resta una congettura come un’altra». Dezzani però insiste sulle stranezze della vicenda: la fuga dei fratelli Kouachi, barricatisi insieme a un ostaggio in una tipografia di Dammartin-en-Goële, a nord-est di Parigi, dopo un inconcludente peregrinare nelle campagne del dipartimento Senna e Marna. «Perché uscire in fretta da Parigi nelle ore successive all’attentato per poi trascorre 36 ore da latitanti nella campagna francese e finire asserragliati in una piccola azienda?».Domande senza risposta: «Era previsto un punto di raccolta dove avrebbero dovuto essere prelevati e portarti in salvo, mentre sono stati ingannati e all’appuntamento non c’era nessuno?». Di certo, «eliminandoli si è persa ogni traccia per risalire ai vertici dell’organizzazione, dove si annida probabilmente il collegamento con i servizi d’informazione», ipotizza Dezzani. Nel frattempo un altro presunto terrorista, Amedy Coulibaly, è stato liquidato dopo aver preso in ostaggio cinque persone in un negozio kosher di Porte de Vincennes: sarebbe l’assassino della vigilessa uccisa l’8 gennaio. «Una rete quindi di tre o più terroristi, molti dei quali noti da anni alle forze dell’ordine, avrebbe tenuto in scacco Parigi per tre giorni quando i servizi algerini avrebbero allertato il 6 gennaio le autorità francesi che era in preparazione un attentato. Perché nessuno ha agito? A chi fa comodo quanto sta avvenendo?». Particolarmente inquietante, infine, la notizia della morte di uno degli investigatori, che si sarebbe suicidato nel suo ufficio di Limoges sparandosi con l’arma di servizio. Secondo il quotidiano “Le Populaire du Centre”, stava lavorando all’indagine della polizia giudiziaria sul caso “Charlie Hebdo”.Aldo Giannuli invita a riflettere con calma, evitando conclusioni poco lucide. Spesso, ricorda, nei delitti opachi e “mediatici” «c’è una catena di comando che va dal vertice politico a quello operativo, passa per i livelli dell’organizzazione, per arrivare agli esecutori che, spesso, sono assistiti nella fuga da uomini di copertura e poi nascosti in covi dell’organizzazione». Tanti passaggi, «durante i quali è possibile che ci siano infiltrazioni e intromissioni», in cui un “soggetto terzo”, con «interessi diversi da quelli degli attentatori», può «intervenire facilitando l’azione oppure forzando e deviando la mano agli esecutori o anche, dopo l’attentato, indirizzare gli investigatori verso una direzione piuttosto che un’altra». Attenzione: «Più sono le persone coinvolte e i gradi di passaggio, più è alta la probabilità che ci possano essere state interferenze». Per Giannuli, l’ipotesi più credibile è che «la polizia e i servizi siano caduti vittime di un colossale depistaggio», a cui fa pensare la strana faccenda della carta d’identità fatta ritrovare sul posto. «Una “intossicazione ambientale” partita sin da prima dell’attentato», per infilare gli inquirenti in un tunnel di errori. «Risultato che si può ottenere inquinando le fonti, producendo false prove, alimentando voci». Questo ovviamente «presuppone che non di una micro-cellula si tratti, ma di una organizzazione capace di agire a livelli professionali piuttosto alti».«Com’era facilmente prevedibile, i due fratelli Kouachi sono stati entrambi uccisi durante un blitz delle teste di cuoio, portandosi nella tomba le risposte a molti interrogativi sull’attentato a “Charlie Hebdo”, che ha tutte le fattezze del terrorismo ascrivibile alla “strategia della tensione”». Un attentato falsa bandiera in stile New York 9/11? No, risponde Federico Dezzani su “Come Don Chisciotte”: «A ragion veduta è un’operazione di infiltrazione e sovversione in stile anni ’70, dove i fratelli franco-algerini rappresentano i brigatisti di basso rango che premono il grilletto», mentre «chi si occupa dalla pianificazione, organizzazione e logistica, il Br Mario Moretti del caso, probabilmente non sarà mai preso perché legato ai servizi». L’intelligence francese? Ne esce «sconfitta secondo i media che leggono il copione», ma invece «vincente in base agli obbiettivi programmati, e marcia fino al midollo per chi analizzi a fondo la vicenda in divenire». Il politologo Aldo Giannuli, storico dei servizi segreti, è più cauto: salvo restando l’idea di una strage di matrice islamica, «è possibile che ci siano stati inserimenti di altri, in una eterogenesi dei fini». Un’ipotesi, non ancora una verità.