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Archivio del Tag ‘infrastrutture’

  • L’Asilo Mariuccia da cui parla Saviano, intellettuale di scorta

    Scritto il 30/6/18 • nella Categoria: idee • (7)

    «Ciò che so con certezza è che dobbiamo far rimpiangere a questo governo il giorno in cui ha deciso per egoismo, interesse e cattiveria che per esistere bisognava diventare razzisti». Chi ha pronunciato questa frase memorabile, questo monito da brividi, questa autentica perla di indignazione civica? Stiamo scherzando, ovviamente. Le domanda giusta è: chi ha scritto questa puerile fesseria da bacio Perugina del qualunquismo universale? E la risposta giusta è: Roberto Saviano. Il grande intellettuale? Il grande intellettuale, proprio lui. Il quale – tra tutte le possibili (e serie) chiavi (politiche, sociali, economiche) di interpretazione critica dell’operato del nuovo esecutivo – ha scelto l’unica ridicola, da Asilo Mariuccia: quella moralistica che tutti noi usavamo, prima di varcare la soglia dell’età della ragione, di fronte a un supposto sopruso. All’indirizzo di chi l’aveva – secondo la nostra minuscola visione del mondo – perpetrato (genitore, maestro, catechista che fosse), urlavamo: sei cattivo! Con la cultura e il vocabolario di un buon intellettuale, avremmo aggiunto anche: sei razzista, e forse pure populista, se la moda di allora lo avesse consentito. Proprio come Saviano fa ora.
    Ogni epoca, ha detto qualcuno, ha gli intellettuali che si merita. Però, scusate, abbiamo una nostalgia canaglia di quando scrivevano giganti come Pierpaolo Pasolini e Oriana Fallaci. Essi, il primo in particolare, denunciavano le invisibili ‘infrastrutture’ corrotte e malate di un sistema apparentemente sano. Cioè svolgevano il compito di ogni intellettuale decente: permetterci di dare un’occhiata sotto l’opaco tappeto della cronaca (intessuto dai media ufficiali con il preciso intento di nascondere la polvere) per consentirci di vedere. Vedere in senso più che letterale: scorgere le inique linee di forza che uniscono i puntini di fatti, personaggi, istituzioni incensurate e, soprattutto, incensurabili. Oggi, gli intellettuali si guardano bene dal guardare sotto il tappeto. Forse perché non vogliono vedere, chissà. Magari vedono il male evidente dove c’è e meritoriamente lo denunciano (come fa, a suo rischio – e di questo gli va dato atto e merito – Saviano), ma non notano quello occulto, talora più grave del primo. Magari perché è occulto?
    Questo fatto, per un vero intellettuale, non costituisce un alibi, ma un’aggravante. Egli ha il preciso compito di disvelarlo, l’occulto. E può farlo sol che abbia acume, cultura ed intuito a sufficienza; e molti ce l’hanno, e dunque perché non lo fanno? Ma torniamo a Saviano che può insultare un ministro della Repubblica – dandogli del buffone e del malavitoso – senza che nessuno si senta in dovere di fare un plissè. Né le istituzioni (Salvini ormai è un topos letterario: il simbolo semovente della ‘cattiveria’, del ‘razzismo’, dell’’egoismo’ come scrive l’illuminata penna del Sommo Saviano) né soprattutto gli altri intellettuali. I quali si sono schierati, lancia in resta, a difesa del loro ‘compagno’ in nome della discutibilissima faccenda della ‘scorta’. Anche in questo caso, tra il dito e la luna, essi hanno scelto il dito. Per fortuna che ci sono. Così non abbiamo solo un grande intellettuale; abbiamo anche quelli di scorta.
    (Francesco Carraro, “Intellettuali di scorta”, da “Scenari Economici” del 25 giugno 2018).

    «Ciò che so con certezza è che dobbiamo far rimpiangere a questo governo il giorno in cui ha deciso per egoismo, interesse e cattiveria che per esistere bisognava diventare razzisti». Chi ha pronunciato questa frase memorabile, questo monito da brividi, questa autentica perla di indignazione civica? Stiamo scherzando, ovviamente. Le domanda giusta è: chi ha scritto questa puerile fesseria da bacio Perugina del qualunquismo universale? E la risposta giusta è: Roberto Saviano. Il grande intellettuale? Il grande intellettuale, proprio lui. Il quale – tra tutte le possibili (e serie) chiavi (politiche, sociali, economiche) di interpretazione critica dell’operato del nuovo esecutivo – ha scelto l’unica ridicola, da Asilo Mariuccia: quella moralistica che tutti noi usavamo, prima di varcare la soglia dell’età della ragione, di fronte a un supposto sopruso. All’indirizzo di chi l’aveva – secondo la nostra minuscola visione del mondo – perpetrato (genitore, maestro, catechista che fosse), urlavamo: sei cattivo! Con la cultura e il vocabolario di un buon intellettuale, avremmo aggiunto anche: sei razzista, e forse pure populista, se la moda di allora lo avesse consentito. Proprio come Saviano fa ora.

  • Via la Troika, la Grecia non esiste più: le hanno rubato tutto

    Scritto il 27/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (14)

    E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.
    La Grecia impiegherà decenni per riprendersi, perché non ha più beni. Né pubblici né privati. Tutto venduto. Svenduto. Francia e soprattutto Germania hanno acquisito a prezzi da Eurospin. La Grecia ha “goduto” di tre tranche di “aiuti” per un totale di circa 240 miliardi di euro usciti dai bilanci di 19 paesi. Sono serviti esclusivamente a mettere in sicurezza le banche tedesche e francesi dall’esposizione in titoli di Stato greci. Intanto emerge che la Germania è stata un grande beneficiario del “programma di salvataggio” della Grecia e ha guadagnato dal 2010 al 2017 in totale 2,9 miliardi dagli interessi, come è emerso dalla risposta del governo tedesco ad un’interrogazione del partito dei verdi. Evviva! Ma non finisce qui. La Troika lascia la Grecia con l’ultimo monito. Oltre a un ulteriore taglio delle pensioni a partire dal 2019 e a ulteriori privatizzazioni (non si sa cosa ci sia ancora da privatizzare) la Grecia deve mantenersi in avanzo primario. Fino al 2060 (per altri 42 anni!!) deve mantenere un avanzo primario del 2%.
    (Stefano Alì, “La troika lascia la Grecia: evviva, ma la Grecia non esiste più”, dal blog “Il Cappello Pensatore” del 24 giugno 2018. Mentre i media mainstream salutano la “fine della crisi” per Atene, con la cessazione del commissariamento formale – che la Troika Ue ora affida in esclusiva al governo Tsipras, la Grecia ha perso completamente il controllo su tutte le infrastrutture statali, ha falcidiato salari e pensioni, ha ridotto la popolazione la fame, ha lasciato i bambini senza i necessari medicinali, neppure negli ospedali. Porti e aeroporti non sono più in mani greche, ma straniere. E tutte le reti di servizi, ieri statali, oggi sono private. Tecnicamente, la Grecia “fuori pericolo” non esiste più, come Stato. «Se la Germania avesse dovuto passare ciò che ha passato la Grecia – scrive Efthymis Angeloudis in un post ripreso da “Gli Stati Generali” – una pensione di 1200 euro sarebbe ora ridotta a 750 euro, ad esempio; ci sarebbero 14 milioni di disoccupati, e negli ospedali i pazienti sarebbero costretti a portarsi le bende da casa»).

    E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.

  • Magaldi: Renzi riposi in pace, il progressista oggi è Salvini

    Scritto il 26/6/18 • nella Categoria: idee • (27)

    «I progressisti devono capire la gente: il mondo va verso situazioni molto dure e le persone chiedono, giustamente, protezione. Invece, sino ad oggi, il Pd ha trattato le persone che hanno paura come se fossero imbecilli». Viva la sincerità, anche se fuori tempo massimo. Suonano comunque lucide, finalmente, le parole dell’ex manager Ferrari e poi ministro post-renziano Carlo Calenda, nipote di Luigi Comencini, approdato al Pd dopo l’esordio politico prima con Montezemolo e poi con Monti. «Dobbiamo dar vita ad un progetto con nuove parole», dice Calenda a “Otto e mezzo”: «Ma pretendere questo dal Pd – ammette – non è possibile». Tra le macerie elettorali dell’ex centrosinistra, forse anche Calenda pensa al “partito che serve all’Italia”, su cui il Movimento Roosevelt si confronterà il 14 luglio a Roma con politologi e sociologi. Tra gli invitati anche il sindaco milanese Beppe Sala e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. A Matteo Renzi, che in un tweet dopo il disastro dei ballottaggi alle amministrative prova a gettare la croce sul povero Martina («con tutto il rispetto, nel Pd manca una leadership: per questo mi riprendo la guida del partito»), Zingaretti risponde a stretto giro: troppo tardi, «un ciclo storico si è chiuso». Tradotto: abbiamo sbagliato tutto, Renzi in primis. Primo errore, capitale: il Pd ha preso per cretini gli italiani spaventati dalla crisi. «Salvini invece li ha saputi ascoltare», dice Calenda, «e questo è il suo grande merito». Infatti, per Gioele Magaldi, il vero progressista sulla scena, oggi, è proprio il leader della Lega.

  • Tav, binario morto: fine della Torino-Lione voluta dall’élite?

    Scritto il 19/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Sindaco di Torino dal 2001 al 2011, Chiamparino esprime al meglio la storica conversione neoliberista dell’ex sinistra piemontese, passata dalla lotta operaia sotto le bandiere del Pci alle platee del Lingotto all’ombra del Pd veltroniano e renziano. Dopo aver gestito le Olimpiadi Invernali 2006 che hanno ridato fiato all’economia torinese prostrata dal declino della Fiat, Chiamparino è passato – in modo disinvolto – dalla guida della città alla presidenza della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria del primo istituto di credito italiano, per poi tornare tranquillamente alla politica: oggi è presidente della Regione Piemonte. “Siete praticamente finiti”, disse cordialmente ai NoTav nel 2010, festeggiando quella che immaginava fosse la fine della resistenza popolare della valle di Susa contro la maxi-opera. “Siete rimasti in quattro gatti”, disse ai militanti, che risposero con una marcia di 40.000 persone. Da allora, la battaglia NoTav si è letteralmente incendiata, anche con pesanti strascichi giudiziari. E nel frattempo è cambiata la percezione nazionale del fenomeno: decine di personaggi pubblici – scrittori, cantanti, attori, registi – si sono schierati dalla parte dei valligiani, bocciando la Torino-Lione come una inutile, pericolosa devastazione.
    La novità è che, dopo le elezioni del 4 marzo, questo pensiero è diventato maggioranza, nel paese: il governo gialloverde frena, sui cantieri valsusini. I penstastellati dovranno “passare sul corpo di Chiamparino” se vogliono cestinare la Torino-Lione? Si tranquillizzi, gli risponde il ministro grillino Danilo Toninelli: in valle di Susa potrebbe non passare nessun treno. Al che, Chiamparino rilancia e “convoca” a Torino l’esecutivo, che però risponde picche. Un affronto, per il presidente della Regione: «L’esempio che arriva dal governo non è di rispetto istituzionale», dice Chiamparino, irritato anche con Salvini, “colpevole” di avergli ricordato che «il contratto di governo prevede, per tutte le grandi opere, una nuova analisi costi-benefici». Chiamparino attacca il neo-ministro dell’interno, definendolo «un primo ministro ombra, in campagna elettorale permanente, che non mostra alcun rispetto istituzionale». Davvero? «Se pensava di farsi da solo il monologo sulla Torino-Lione e altre opere che invece dovranno passare da una seria analisi costi-benefici previste nel contratto di governo, strumentalizzando ai fini politici la sua carica istituzionale, è stato servito», replicano i parlamentari piemontesi del Movimento 5 Stelle, chiudendo il caso della mancata partecipazione del governo al summit torinese.
    Ancora più dura la risposta leghista: «Se un governatore fantasma, sparito da Torino e dal Piemonte, si ricorda di esistere solo per attaccare Salvini e la Lega, significa che l’incontro sulle infrastrutture era solo un pretesto», dice Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera e segretario regionale del Piemonte. «Chiamparino sa bene che il mio ministero sta lavorando alacremente per una “project review” di certe importanti opere della sua regione», precisa lo stesso Toninelli: «Quando sarà il momento, saremo noi a convocare un tavolo istituzionale con tutte le parti in causa». E aggiunge: «Il governo è cambiato: forse il presidente Chiamparino ha difficoltà a farsene una ragione». L’esecutivo è cambiato perché gli italiani hanno votato, democraticamente. E hanno scelto Lega e 5 Stelle: di questo, proprio, l’establishment sembra non riuscire a capacitarsi. E tra le macerie dell’ex centrosinistra, tutto quello che riesce a pigolare il Pd è la paura che venga cancellato il maxi-appalto del secolo, per il super-treno che nessuno vuole – a parte Chiamparino e la potente lobby dell’alta velocità valsusina, che in trent’anni non ha mai trovato modo di spiegare, al popolo, a cosa (e a chi) servirebbe davvero, quel maledetto treno, destinato a restare in eterno – secondo tutti gli esperti – nient’altro che un patetico, miliardario binario morto.

    «Dovranno passare sul mio corpo», avverte Sergio Chiamparino, ultimo guardiano politico della linea Tav Torino-Lione. Clinicamente morto, come progetto strategico, il Tav della valle di Susa resta il supremo totem del super-potere oligarchicoche ha fatto carne di porco della democrazia europea, criminalizzando ogni voce di dissenso. Banche, partiti, mafia e maxi-opere: per 25 anni le grandi lobby hanno dettato legge, affidando interi tratti della rete ferroviaria superveloce direttamente alla criminalità organizzata, come denunciato da Ferdinando Imposimato. Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, un analista come Ivan Cicconi vede “il futuro di Tangentopoli”, tra «scelte note e occulte, bugie consapevoli e inconsapevoli», come il “finto” finanziamento privato. Il giallista Massimo Carlotto spiega che le grandi opere sono notoriamente «una lavanderia per riciclare denaro sporco». Rischi sistemici inevitabili? Inconvenienti in agguato in ogni maxi-appalto? Ma nel caso della valle di Susa è peggio: perché l’ipotetica linea-doppione, fotocopia dell’attuale Torino-Modane che già collega Italia e Francia via traforo del Fréjus, è completamente inutile. Lo dicono 360 esperti dell’università italiana e lo conferma la stessa autorità elvetica incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti transalpini. L’utilità della Torino-Lione? Una leggenda metropolitana. Ma non per Sergio Chiamparino e il gruppo di potere che rappresenta.

  • Magaldi: l’ottimo Salvini e gli ipocriti che uccisero Sankara

    Scritto il 19/6/18 • nella Categoria: idee • (14)

    Prima rapinano l’Africa, poi uccidono chi vuole salvarla. Quindi costringono gli africani a emigrare in massa, esponendo i lavoratori europei (già in crisi) a una concorrenza sleale, al ribasso. Ma naturalmente è tutta colpa di Salvini, il Signor No della nave Aquarius. Hanno avuto il coraggio di attaccarlo gli spagnoli, che hanno sparato sui migranti provenienti dal Marocco, e naturalmente i francesi, che hanno respinto in modo infame i profughi alla frontiera di Ventimiglia, senza alcuna pietà per donne e bambini. Quello che sta crollando – proprio grazie a Salvini – è un muro vergognoso di ipocrisia: per Gioele Magaldi, l’affare migranti non è che un capitolo della grande guerra in corso, a partire proprio dall’Italia, tra democrazia e oligarchia. Se l’Italia vincerà la sua battaglia contro i sepolcri imbiancati di Parigi, Berlino e Bruxelles, allora sarà un’ottima notizia per tutta l’Europa, dice il presidente del Movimento Roosevelt, che si prepara a celebrare – in autunno, a Milano – un convegno su Olof Palme, leader socialista svedese assassinato alla vigilia della svolta autoritaria da cui è nata l’attuale Unione Europea. Ma, accanto a Palme (e a Carlo Rosselli, martire antifascista e teorico del socialismo liberale) il convegno milanese accenderà i riflettori anche sull’ultimo grande eroe africano, Thomas Sankara, trucidato dal potere globalista per impedirgli di attuare la sua politica di riscatto per l’Africa, basata sulla sovranità economica del continente nero.
    Sembrano storie lontane, ma sono vicinissime: probabilmente non sarebbe mai neppure esistita, una nave Aquarius carica di profughi, se il leader rivoluzionario del Burkina Faso non fosse stato assassinato nel 1987, dopo aver chiesto ad alta voce la cancellazione del debito per l’Africa e, al tempo stesso, la fine degli “aiuti” della Banca Mondiale e del Fmi. «I vostri prestiti diventano la nostra schiavitù», ripeteva. «L’Africa ha tutto, per farcela benissimo da sola; basta che ci lasciate in pace, liberi di svilupparci senza più il peso del debito, e delle multinazionali che portano via le nostre risorse». Il prestigio di Sankara stava infiammando paesi decisivi come il Senegal e la Costa d’Avorio, il Kenya, il Camerun. Che Africa avremmo, oggi, se in quei paesi fosse cresciuta una generazione di politici come Sankara? Certo non se lo domandano i buonisti della domenica stile Roberto Saviano, prontissimi ad aprire il fuoco contro i partiti del governo gialloverde, a cui la ex sinistra italiana (insieme ai media mainstream) non perdona di aver vinto le elezioni, il 4 marzo. Ragione in più per smascherare l’impostura dei finti amici dei migranti, che utilizzano la disperazione dei profughi solo per gettare fango sul neonato esecutivo.
    Finalmente abbiamo un governo all’altezza della situazione, dichiara Magaldi a “Colors Radio”, «dopo tanti anni di premier imbelli e ministri imbelli, figure veramente mediocri che si sono succedute sulle poltrone ministeriali». Per il presidente del Movimento Roosevelt, «Salvini ha mostrato il minimo sindacale di carattere e di fermezza – e con lui Conte, che è un signore dai modi aristocratici ma che ha avuto posizioni ferme. E anche nel Movimento 5 Stelle c’è stata perfetta solidarietà rispetto alle posizioni di Salvini». Tra parentesi: gli italiani apprezzano. Sondaggi alla mano, in 7 su 10 approvano senza riserve l’operato del leader leghista. Certo, si registra anche l’inevitabile strascico polemico di apparati politici ormai alla deriva, completamente spiazzati dalla svolta italiana: «Rimangono ovviamente i latrati di alcune testate giornalistiche e di alcuni ambienti politici che giocano a mistificare la questione gridando al razzismo, al fascismo, alla xenofobia», dice Magaldi. «Peccato che poi scopriamo (con piacere) che anche in casa Pd e in alcuni ambienti della cosiddetta sinistra qualcuno ha detto: intanto Salvini ha fatto quello che Minniti avrebbe voluto fare e non ha potuto fare per via di quel baciapile un po’ ipocrita di Del Rio, che all’epoca – come ministro delle infrastrutture – impedì cose analoghe».
    Perfettamente allineato a Salvini, invece, il neo-ministro Danilo Toninelli, che ha competenza sui porti e sulla Guardia Costiera. In sintesi: «Il governo Conte e il ministro Salvini hanno agito benissimo», scandisce Magaldi. «Hanno messo un freno a quella che è una modalità inaccettabile di gestione del problema immigrazione nel Mediterraneo». Attenzione: è un problema italiano, ma anche europeo e globale: «Dovrebbe farsene carico la Nato e magari anche l’Onu, se esistesse ancora e avesse una capacità di intervento». Già, appunto: dove sono, le Nazioni Unite? Non fanno altro che «promuovere le proprie agenzie – accusa Magaldi – ingrassando funzionari che spesso di tutto si occupano, tranne che di diffondere i principi di quella dichiarazione universale dei diritti umani che proprio all’Onu era stata approvata settant’anni fa». Brutto spettacolo: «Una struttura super-burocratica, l’Onu, che al pari dell’Europa è molto al di sotto delle sue potenzialità e anche delle sue retoriche». L’Aquarius? Siamo seri: «Non era una zattera alla deriva, ma una nave perfettamente funzionante. Ed è stata accompagnata, scortata, assistita con opportuni soccorsi sanitari». Parliamoci chiaro: «Ci sono Ong che lucrano sulla tratta di migranti, spesso poi utilizzati anche da associazioni criminali».
    Molti, una volta sbarcati, vivono “fuorilegge”, non avendo titolo per essere accolti come rifiugiati. Beninteso: «Hanno titolo, giustamente, per sognare una vita migliore in un nuovo paese: ma allora dovrebbero essere inquadrati in un progetto», sostiene Magaldi, che si dichiara «a favore dell’accoglienza a prescindere, e anche della libertà di emigrare». Ma qui non si tratta di scelte libere: è un esodo di disperati in fuga, di fronte al quale trionfa l’ipocrisia. «Nessuno si fa carico di andare a risanare i paesi di provienienza dei migranti, in mano a dittature sanguinose, con popolazioni tenute in condizioni di vita non dignitose. Si preferisce invece farsi carico di trasportare questi poveretti nelle nostre società, dove già sono compressi i diritti, non c’è un clima di socio-economico espansione. E così si fomenta una guerra al ribasso: perché i poveri migranti lavorano spesso in nero, peggiorando ulteriormente le condizioni dei lavoratori italiani: diventano una concorrenza semi-schiavile al ribasso rispetto ai ceti meno abbienti occidentali». E poi, sinceramente: «Quanti di loro sono utilizzati dalla criminalità organizzata?». E ancora: «Che senso ha che vi siano addirittura navi che, per mestiere e per lucro, vanno a prendere i migranti e li scaricano in Italia, anziché in Spagna o in Francia?».
    Quindi, ribadisce Magaldi, quella di Salvini è stata «un’ottima mossa», che infatti «ha indotto subito a più miti consigli quelli che in Europa avevano sempre ignorato le nostre richieste, reiterate ma velleitarie, da parte di altri governi, di guardare in modo collegiale al problema migrazioni». Nessuno – a Parigi o Madrid – può dare lezioni all’Italia. Al contrario, è ora che Bruxelles prenda nota: la pacchia è finita, per gli eurocrati che giocano allo scaricabarile, travestiti da crocerossine. E anche qui, buone notizie: «In molti hanno riveduto e corretto il giudizio sull’azione di Salvini, dopo aver visto le reazioni scomposte, ipocrite e pretestuose di alcuni governi europei, decisi a non accogliere i migranti a casa loro ma desiderosi di vedere l’Italia nel caos, lasciata sola di fronte a questo problema». La storia è feroce, quando diventa farsa: gli sponsor delle Ong sono gli stessi oligarchi che hanno distrutto il lavoro in Europa e fatto esplodere la fame in Africa. Ecco perché diventa emblematico, oggi, il nome del compianto presidente del Burkina Faso, marxista e massone, protagonista di una rivoluzione esemplare e nonviolenta in nome del popolo sovrano: l’ex Alto Volta come modello per un’Africa dignitosa e prospera, libera e decolonizzata. L’Africa per la quale Thomas Sankara perse la vita: un’Africa che, se oggi esistesse, di certo non esporterebbe disperazione.
    Oggi, sottolinea Malaldi, proprio Sankara «potrebbe diventare il vessillo di un ripensamento delle politiche sull’Africa», aprendo la strada all’idea – formulata da Craxi nel 1990 – di andare finalmente ad “aiutare a casa loro” quei poveretti derubati dall’Occidente, in fuga da un continente abbandonato alla dittatura delle multinazionali e privo di investimenti in strutture politiche, economiche e sociali. «Proprio l’aver ucciso personaggi come Sankara – insiste Magaldi – è stato un modo, da parte di coloro che negli anni ‘80 stavano costruendo questa cattiva globalizzazione, per arrestare uno sviluppo autonomo e dignitoso dell’Africa. Un modo per continuare a depredarla, per poi determinare questi esodi biblici di disperati». Mano tesa all’Africa dei Sankara di domani? Se l’Italia è il primo paese europeo a fermare la tratta degli schiavi, potrebbe essere – nel prossimo futuro – anche il primo a rilanciare una nuova politica euro-mediterranea, come quella già perseguita dai vari Mattei e Moro?  «Come annunciato, oggi l’Italia è finalmente al centro di una guerra tra democrazia e oligarchia: e se si vince la battaglia in Italia – dice Magaldi – forse si può cambiare molto, a livello globale».

    Prima rapinano l’Africa, poi uccidono chi vuole salvarla. Quindi costringono gli africani a emigrare in massa, esponendo i lavoratori europei (già in crisi) a una concorrenza sleale, al ribasso. Ma naturalmente è tutta colpa di Salvini, il Signor No della nave Aquarius. Hanno avuto il coraggio di attaccarlo gli spagnoli, che hanno sparato sui migranti provenienti dal Marocco, e naturalmente i francesi, che hanno respinto in modo infame i profughi alla frontiera di Ventimiglia, senza alcuna pietà per donne e bambini. Quello che sta crollando – proprio grazie a Salvini – è un muro vergognoso di ipocrisia: per Gioele Magaldi, l’affare migranti non è che un capitolo della grande guerra in corso, a partire proprio dall’Italia, tra democrazia e oligarchia. Se l’Italia vincerà la sua battaglia contro i sepolcri imbiancati di Parigi, Berlino e Bruxelles, allora sarà un’ottima notizia per tutta l’Europa, dice il presidente del Movimento Roosevelt, che si prepara a celebrare – in autunno, a Milano – un convegno su Olof Palme, leader socialista svedese assassinato alla vigilia della svolta autoritaria da cui è nata l’attuale Unione Europea. Ma, accanto a Palme (e a Carlo Rosselli, martire antifascista e teorico del socialismo liberale) il convegno milanese accenderà i riflettori anche sull’ultimo grande eroe africano, Thomas Sankara, trucidato dal potere globalista per impedirgli di attuare la sua politica di riscatto per l’Africa, basata sulla sovranità economica del continente nero.

  • Magaldi: Galloni e Rinaldi nei ministeri, contro la tecnocrazia

    Scritto il 13/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Tecnici per la democrazia e contro la tecnocrazia: come il leghista Armando Siri, appena nominato sottosegretario alle infrastrutture. Ma nella squadra ci sono anche gli economisti Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi, insieme a Claudio Quaranta e Aldo Storti. Nomi caldamente raccomandati da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, in piena trasparenza: ci stiamo adoperando, spiega, per inserire personaggi-chiave nella nuova macchina governativa. Obiettivo: «Supportare il governo Conte e i suoi ministri, lungo l’esaltante ma insidiosissima traiettoria che li attende». Secondo Magaldi, servono esperti e tecnici di grande spessore anche nei gangli più decisivi e meno in vista, costituiti dalle super-burocrazie ministeriali: capi di gabinetto, dirigenti generali, funzionari superiori. «Hanno il compito fondamentale di supportare i membri dell’esecutivo giallo-verde nel conseguimento dei loro importanti obiettivi». Per far funzionare adeguatamente le macchine ministeriali del nuovo governo – economia e sviluppo economico, lavoro e politiche sociali, infrastrutture e trasporti, affari europei – secondo Magaldi «occorrono degli esperti-tecnici ispirati da un ideale di democrazia sostanziale, da una ferrea lealtà istituzionale verso la Costituzione repubblicana e da un’attenzione sollecita verso l’interesse del popolo sovrano».
    Nomi autorevoli, che sempre «sarebbero utilissimi al back-office ministeriale del governo Conte», come anticipato dallo stesso Magaldi a “Colors Radio”, nel formulare la prima “cinquina”. Il primo della lista è ovviamente Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt: economista post-keynesiano allievo di  Federico Caffè, Galloni è stato un altissimo dirigente del back-office ministeriale italiano, già impegnato a contrastare l’impianto del Trattato di Maastricht, denunciato come sfavorevole all’Italia. Poi c’è Antonio Maria Rinaldi, altro docente universitario, allievo di Paolo Savona e creatore del newsmagazine “Scenari Economici”: già consulente e collaboratore di diverse banche private e della Consob, Rinaldi è stato anche direttore generale della Sofid, società “capogruppo finanziaria” dell’Eni. Altro nome: Claudio Quaranta, già importante funzionario in aziende del gruppo Iri, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale malamente smantellato a suo tempo da Romano Prodi. Quaranta è un esperto di risorse umane e organizzazione gestionale; oggi è l’amministratore unico di Ics Group e coordinatore del progetto politico “Unione di Scopo”.
    Armando Siri? «Particolarmente adatto a un incarico viceministeriale, in questa fase», l’ha definito Magaldi, a poche dalla nomina. Per il futuro, il presidente del Movimento Roosevelt vede in Siri «un eccellente ministro dell’economia e finanze, o un titolare di altri dicasteri importanti». Neo-senatore eletto nelle fila della Lega, è l’ispiratore e curatore della «originalissima e benemerita» Scuola Politica del Carroccio. Magaldi considera Siri «tra i più importanti artefici della svolta della Lega in senso nazionale e della trasformazione del suo paradigma politico-economico in senso post-keynesiano, con inclusa proposta della Flat Tax: elementi “social”, quindi, positivamente contaminati con suggestioni autenticamente “liberali” di riduzione drastica delle aliquote fiscali». L’ultimo nome della “prima cinquina” proposta da Magaldi è quello di Aldo Storti, socio fondatore del Movimento Roosevelt nel 2015: ingegnere versato anche in studi umanistici, Storti è definito «intellettuale raffinato e studioso di tradizioni sapienziali occidentali e orientali». E’ il responsabile della regia tecnica della “Scuola politica della Lega”, nonché consulente in scienza della comunicazione e analisi socio-politiche. «La prospettiva pedagogica e culturale di area rooseveltiana – chiosa Magaldi – intende promuovere un nuovo ethos politico-civile». Tradotto: anziché tramare nell’ombra per le poltrone, è il caso di podurre esternazioni trasparenti, per rendere pubblico ciò che solitamente viene detto solo in privato.

    Tecnici per la democrazia e contro la tecnocrazia: come il leghista Armando Siri, appena nominato sottosegretario alle infrastrutture. Ma nella squadra dei virtuosi ci starebbero anche gli economisti Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi, insieme a Claudio Quaranta e Aldo Storti. Nomi caldamente raccomandati da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, in piena trasparenza: ci stiamo adoperando, spiega, per inserire personaggi-chiave nella nuova macchina governativa. Obiettivo: «Supportare il governo Conte e i suoi ministri, lungo l’esaltante ma insidiosissima traiettoria che li attende». Secondo Magaldi, servono esperti e tecnici di grande spessore anche nei gangli più decisivi e meno in vista, costituiti dalle super-burocrazie ministeriali: capi di gabinetto, dirigenti generali, funzionari superiori. «Hanno il compito fondamentale di supportare i membri dell’esecutivo giallo-verde nel conseguimento dei loro importanti obiettivi». Per far funzionare adeguatamente le macchine ministeriali del nuovo governo – economia e sviluppo economico, lavoro e politiche sociali, infrastrutture e trasporti, affari europei – secondo Magaldi «occorrono degli esperti-tecnici ispirati da un ideale di democrazia sostanziale, da una ferrea lealtà istituzionale verso la Costituzione repubblicana e da un’attenzione sollecita verso l’interesse del popolo sovrano».

  • Cabras: l’Era dell’Aquarius e l’ipocrisia dei Buonisti Mannari

    Scritto il 12/6/18 • nella Categoria: idee • (25)

    È già evidente come la vicenda dell’Aquarius, la nave attrezzata con 629 migranti soccorsi in mare e in attesa di un approdo certo, rappresenti il primo episodio di una nuova importante fase politica in materia di gestione dei flussi migratori. Il caso Aquarius sta spingendo tutti a posizionarsi e a dipingere lo scenario con toni molto forti, accuse durissime, appelli perentori su fronti opposti. Per parte mia so che dietro al caso Aquarius ci sono sì quelle 629 vite in viaggio e in ansia, ma c’è anche una questione enorme, complessa, di fronte alla quale non ci sono soluzioni semplici. Non si mettono le brache al mondo, neanche in questa materia. Però si possono costruire punti di riferimento molto laici e ridurre i decibel delle grida, guardando avanti e calcolando il tempo che abbiamo per fare qualcosa. Partiamo ad esempio dalla cosa più urgente, la vita delle persone coinvolte in questo specifico caso. Se ne parla con i toni del pericolo imminente, come se si trattasse di una carretta del mare pronta a rovesciarsi dopo un Sos, mentre invece si tratta di un mezzo sicuro, con viveri e medicinali, in costante contatto con le autorità e con gli operatori sanitari per urgenti rifornimenti. Non è sicuramente un posto invidiabile dove trascorrere l’esistenza, ma non è peggiore di un centro di prima accoglienza sulla terraferma.
    Quel che è in atto è “solo” un braccio di ferro politico sulla destinazione di questo segmento del viaggio. Come ogni questione politica, la decisione è da ritenersi un argomento controverso, ma quel che è certo è che non sussiste una minaccia diretta e grave all’esistenza delle persone che stanno dentro l’Aquarius. Chi definisce la decisione del governo (che nega l’approdo in porti italiani della nave proveniente dalle acque libiche) come un’operazione spietata di gente “senza cuore”, e invita nel frattempo a guardare in faccia “gli occhi dei bambini”, punta a un importante lato emotivo che tuttavia è fuorviante se si considera che non è affatto in questione il loro salvataggio, bensì la forma che assumerà la loro accoglienza e le decisioni su chi abbia diritto a restare. Le forze politiche che hanno composto la maggioranza parlamentare e firmato il “Contratto di governo” condividono questi elementi essenziali in materia di migrazioni: il sistema di accoglienza deve essere autenticamente europeo, non nazionale; chi richiede asilo deve farlo direttamente dai paesi di provenienza o transito e chi ne ha diritto, direttamente da lì, deve essere già ripartito obbligatoriamente presso i 27 Stati membri dell’Unione europea e quindi integrato negli stessi.
    Un problema gigantesco come le migrazioni contemporanee, in particolare nelle sue forme irregolari e illegali, non deve essere gestito solo dalla Repubblica Italiana intanto che gli altri membri della Ue blindano da decenni le frontiere e i porti, inclusi quelli retti da governi sedicenti “progressisti”. Veltroni in questi giorni ha paventato un ritorno agli anni trenta, ma ha dimenticato cosa faceva il suo governo negli anni novanta. Proprio mentre dal centrosinistra si urla alla disumanità del caso Aquarius, possiamo compulsare pagine ancora non sbiadite delle azioni di governo di quella parte, come il blocco navale anti immigrazione deciso dal governo Prodi, con “disposizioni rigide sul respingimento” in mare degli albanesi. Nell’album di famiglia della sinistra italiana c’è un’iniziativa molto più drastica di quel che accade oggi. Certo, non lo ricorda il solito Roberto Saviano, quando intima al ministro dei trasporti di aprire i porti e twitta: «#umanitàperta #apriteiporti #Aquarius». È lo stesso Saviano che non fa una piega su come Israele gestisce le questioni di #umanitàaperta alle sue frontiere e su come bombarda i porticcioli dei pescatori palestinesi. Omissioni umanitarie.
    In questo quadro mi colpisce un’osservazione del giornalista Sebastiano Caputo, che chiama in causa una delle critiche rivolte alla chiusura dei porti, ossia il fatto che si concentri sui soggetti più deboli. Dice Caputo che chiudere i porti «è un atto politico, non razzista, che mira a fermare questa orrenda tratta di esseri umani. Ora però aspettiamo da Matteo Salvini, e dai suoi colleghi al governo, un gesto altrettanto forte quando i vertici della Nato ci chiederanno di utilizzare le nostre basi militari per bombardare paesi sovrani e appoggiare guerre “umanitarie” che alimentano quella stessa orrenda tratta di essere umani. Forti coi forti, senza doppi standard». Le risposte sono scritte nel futuro, e dovranno contrastare le pressioni di quelle stesse parti politiche che oggi ci accusano di razzismo ma si sono schierate con tutte le guerre imperialistiche che hanno devastato Africa e Asia negli ultimi venticinque anni. Non mi è congeniale la postura mediatica di Salvini su questa materia, troppo attenta al possibile risvolto elettorale, come d’altro canto, sul fronte opposto, lo è quella del sindaco di Napoli De Magistris. Tuttavia le cose vanno viste nell’insieme, senza pregiudizi, e senza sconti per i signori delle pagliuzze e delle travi.
    Faccio un esempio che sconcerterà qualche lettore. Ricordo di aver assistito a un dibattito in Tv del 2011, quando si stava per fare la guerra alla Libia. Sino a quel giorno Salvini lo conoscevo solo di viso, non lo avevo mai seguito in un confronto. Praticamente vinse a mani basse su esponenti della sinistra che si spendevano per la guerra a Gheddafi, ai quali diceva in sostanza: “Ma vi rendete conto che, devastando questo paese, oltre a fare decine di migliaia di morti, causerete una catastrofe migratoria dai costi umani esagerati?”. E concluse con “Povera sinistra, come si è ridotta, povera sinistra”. Mi colpì moltissimo perché aveva ragionato e concluso con lucidità prevedendo gli esiti di quel disastro criminale, al quale la sinistra si consegnò totalmente, in parte complicemente e in parte stupidamente. Ricordo l’odio sparso dagli organi di informazione vicini alla sinistra: una totale demonizzazione di Gheddafi, una campagna isterica e guerrafondaia, un delirio che accompagnava le stragi, lo sterminio dei dirigenti dello Stato libico, la distruzione dei potabilizzatori e delle infrastrutture, e infine l’espulsione di due milioni di africani che lavoravano in Libia. Non mi piace il frasario del Salvini di oggi, lo ribadisco, ma la sinistra è ancora incapace di un’autocritica sulle sue grandi colpe storiche di anni recenti, non imputabili a Salvini.
    Le classi dirigenti francesi e britanniche negli ultimi sette anni hanno scatenato guerre che oltre ai lutti e oltre alla distruzione di interi Stati con cui noi avevamo relazioni convenienti, hanno provocato un drastico peggioramento nella gestione dei flussi migratori, e ora dicono che gestirli non è affar loro ma solo affar nostro. Non siamo di fronte a casuale o banale egoismo. Stanno invece ridisegnando la gerarchia europea, trasformando il fianco sud dell’Europa in un mondo troppo debole per farsi valere, troppo ripiegato sui suoi problemi per esigere che più a nord si paghi il prezzo delle spietate politiche di potenza. Le classi dirigenti di Parigi e Londra hanno scelto cosa voler fare dell’Italia: il paraurti per le tragedie della globalizzazione; così come a Francoforte, Bruxelles e Berlino avevano deciso cosa fare della Grecia: il laboratorio dove sperimentare la futura ‘mezzogiornificazione’ di mezza Europa. È l’autodemolizione del sogno europeo in vista di un ordine che toglie già, ancora una volta, il velo che nascondeva ciò che non è mai venuto meno: i soliti brutali rapporti di forza guidati dalle grandi capitali dei grandi capitali. In questa particolare congiuntura è giusto richiamare l’Europa ai suoi doveri, in tempi rapidi. L’estate è lunga.
    (Pino Cabras, “L’era dell’Aquarius”, dal blog “Vietato Parlare” dell’11 giugno 2018. L’intervento è ripreso dalla pagina Facebook di Cabras, neo-deputato 5 Stelle).

    È già evidente come la vicenda dell’Aquarius, la nave attrezzata con 629 migranti soccorsi in mare e in attesa di un approdo certo, rappresenti il primo episodio di una nuova importante fase politica in materia di gestione dei flussi migratori. Il caso Aquarius sta spingendo tutti a posizionarsi e a dipingere lo scenario con toni molto forti, accuse durissime, appelli perentori su fronti opposti. Per parte mia so che dietro al caso Aquarius ci sono sì quelle 629 vite in viaggio e in ansia, ma c’è anche una questione enorme, complessa, di fronte alla quale non ci sono soluzioni semplici. Non si mettono le brache al mondo, neanche in questa materia. Però si possono costruire punti di riferimento molto laici e ridurre i decibel delle grida, guardando avanti e calcolando il tempo che abbiamo per fare qualcosa. Partiamo ad esempio dalla cosa più urgente, la vita delle persone coinvolte in questo specifico caso. Se ne parla con i toni del pericolo imminente, come se si trattasse di una carretta del mare pronta a rovesciarsi dopo un Sos, mentre invece si tratta di un mezzo sicuro, con viveri e medicinali, in costante contatto con le autorità e con gli operatori sanitari per urgenti rifornimenti. Non è sicuramente un posto invidiabile dove trascorrere l’esistenza, ma non è peggiore di un centro di prima accoglienza sulla terraferma.

  • Il Papa con le Sette Sorelle. E manda Parolin al Bilderberg

    Scritto il 07/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (26)

    Papa Francesco spedisce a Torino alla riunione del Bilderberg il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano, mentre – negli stessi giorni, il 6-7giugno – promuove a Roma un inedito summit con le Sette Sorelle e alcuni super-boss della finanza globale, come Larry Fink del fondo BlackRock. Maurizio Blondet lo definisce «improvviso interesse della centrali globaliste per l’Italia». La notizia: rispondono all’appello del pontefice i capi supremi delle multinazionali del greggio, insieme alle loro finanziarie ausiliarie transnazionali. L’incontro è ovviamente a porte chiuse, come quello quello del Bilderberg, al quale sono invitati Lilli Gruber, Lucio Caracciolo di “Limes” e l’economista Alberto Alesina di Harvard, insieme ad Elena Cattaneo dell’ateneo milanese, Vittorio Colao di Vodafone, Mariana Mazzuccato dell’University College di Londra e il solito John Elkann. Ma l’incontro tra Francesco e i petrolieri? Come mai il Papa delle periferie e dell’accoglienza verso i migranti «si riunisce in privato coi più potenti capitalisti e miliardari globalisti, ossia attivi promotori delle feroci iniquità del capitalismo terminale? “Chiedetelo a loro”, vien voglia di dire, parafrasando lo slogan dell’8 per Mille», scrive Blondet sul suo blog, interpreando come un pretesto il tema dichiarato del vertice: l’emergenza climatica, dopo il ritiro di Trump dagli accordi sulle emissioni climalteranti.
    All’incontro promosso da Bergoglio ci sarà Fink, cioè il capo del più grande fondo d’investimento del pianeta: un patrimonio gestito di 6,3 trilioni di dollari, conferma il “Corriere della Sera”, pari al Pil di Francia e Spagna messe insieme, quasi tre volte il nostro debito pubblico. La “roccia nera” deve la sua fortuna alla gestione patrimoniale: fondi pensione, banche, Stati. E’ anche il primo investitore straniero in Europa (e in Italia), azionista di peso in Deutsche Bank, Intesa SanPaolo, Bnp e Ing, senza contare altri settori chiave come energia, chimica, trasporti, agroalimentare, aeronautica e immobiliare. Il mega-fondo, scrive il “Fatto Quotidiano”, ha messo gli occhi sul business dei sistemi pensionistici europei non ancora privatizzati: «Spinge la Commissione Ue a varare un piano di previdenza privata, poi gestisce il primo progetto pilota». Notare: BlackRock ha immediatamente dato un giudizio “negativo” sul nuovo governo italiano, provocando l’impennata dello spread favorita dalla Bce e poi subito frenata da Jp Morgan e Citigroup, colossi finanziari ritenuti più vicini a Trump, che ha schierato in Italia il fido Steve Bannon per aiutare Conte (e Savona) a superare lo “scoglio” Mattarella.
    Gli altri invitati da Bergoglio nel “privato conciliabolo”, aggiunge Blondet, sono Bob Dudley, numero uno della British Petroleum (fatturato, 240 miliardi di dollari) nonché Darren Woods di Exxon Mobil. «Incidentalmente, sono le due compagnie più inquinatrici della storia», scrive Blondet, avendo la Bp accettato di pagare 1,8miliardi di dollari per uno sversamento-monstre nel Golfo del Messico nel 2010, che ha distrutto l’attività della pesca in quel vasto tratto. «E della Exxon si ricorda il disastro della superpetroliera Exxon Valdez, 1989, che ha inquinato il mare dell’Alaska». Ma non è tutto: “El Papa” voleva riunirsi anche con Ben Van Beurden della Royal Dutch Shell” (che ha declinato), mentre ci sarà Eldar Sætre di Equinor, la petrolifera privatizzata parzialmente posseduta dal governo norvegese, e con lui lord John Browne, oggi presidente esecutivo della petrolifera L1 Energy. «E non mancherà – come poteva? – Ernest Moniz, già segretario all’energia sotto l’allora presidente Obama». Secondo Blondet, notoriamente critico verso Papa Francesco, la presenza di Moniz è la conferma del fatto che Bergoglio «è uno strumento volontario e attivista (un “asset”, dicono alla Cia) della multiforme strategia dell’asse Clinton-Obama».
    Secondo Blondet, Papa Francesco – in accordo con clintoniani e obamiani – vorrebbe  «depurare la Chiesa degli aspetti sacramentali e soprannaturalistici che ne impediscono la “fusione-acquisizione” col protestantesimo». Una fusione che produrrebbe «un “cristianesimo generico” funzionale all’ideologia globalista: umanitaria (nel senso degli “interventi umanitari”), moralistica (no alla “corruzione dei politici” – Mani Pulite nel Mondo, come propone il cardinal Maradiaga, braccio destro di Francesco), climatica e ambientalista». In altre parole, sempre secondo Blondet, la Chiesa verrebbe trasformata in una sorta di «super-Ong “umanitaria” dedita alla salvezza del pianeta e protettrice delle immigrazioni di massa pianificate, contro la sovranità di ogni Stato». Dalle scarne notizie filtrate, aggiunge Blondet, si apprende che a Roma i petrolieri non parleranno con Francesco solo di clima, ma anche di investimenti: «Il Papa, BlackRock e le grandi compagnie petrolifere si stanno sempre più concentrando sul cambiamento climatico», recita un comunicato ufficiale, «in quanto fonti di energia più pulite sono diventate più competitive, e la pressione del pubblico su questa tema sta crescendo».
    Capito? Il primo fondo d’investimento del mondo – scrive Blondet – è pronto a saltare sulle energie alternative insieme alle Sette Sorelle, perché stanno diventando “competitive” sul piano economico, attraenti per i capitali liquidi americani. Questo richiede investimenti enormi di riconversione delle mega-infrastrutture, e un cambio di paradigma fra le popolazioni, «ossia una grande operazione di psico-propaganda che bolli l’uso del petrolio come immorale verso il pianeta». Dunque, dice ancora Blondet, gli investitori «devono assicurarsi che l’autorità morale per eccellenza faccia parte del piano, collabori con le Finestre di Overton che lorsignori apriranno, e cominci a predicare per le energie “pulite” (o sedicenti tali) e anatemizzare le “inquinanti” (o cosiddette: si veda l’improvvisa campagna occidentale conto il motore diesel)». A Francesco – chiosa Blondet, sacrastico – sarà richiesto di aggiungere alla lista dei Dieci Comandamenti anche il “peccato capitale” dell’uso di energie su cui gli investitori “amici” avranno smesso di investire?
    A organizzare gli incontri è stata l’università di Notre Dame dell’Indiana, la cui “business school” sta promuovendo una “climate investing iniziative”, che Blondet definisce «una iniziativa di investimento sul terrorismo climatico». Il direttore della business school, Leo Burke, non ha voluto commentare la riunione papale di cui pare essere stato il manovratore: con un’email, ha ricordato a Blondet che ogni incontro sull’energia che implica il Vaticano sarà un dialogo privato con gli invitati. «Esattamente la risposta che dà, da sempre, l’ufficio stampa del Bilderberg». Un portavoce Exxon ha invece risposto: la compagnia «spera che questo tipo di dialogo svilupperà soluzioni per la doppia sfida: gestire il rischio del cambiamento climatico e contemporaneamente soddisfare la domanda crescente di energia, che è essenziale per alleviare la povertà e migliorare gli standard di vita nel mondo in via di sviluppo». Ancora Blondet, ironico: «A tutti è nota l’ansia di Exxon per alleviare la povertà nel Terzo Mondo».

    Papa Francesco spedisce a Torino alla riunione del Bilderberg il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano, mentre – negli stessi giorni, il 6-7 giugno – promuove a Roma un inedito summit con le Sette Sorelle e alcuni super-boss della finanza globale, come Larry Fink del fondo BlackRock. Maurizio Blondet lo definisce «improvviso interesse della centrali globaliste per l’Italia». La notizia: rispondono all’appello del pontefice i capi supremi delle multinazionali del greggio, insieme alle loro finanziarie ausiliarie transnazionali. L’incontro è ovviamente a porte chiuse, come quello quello del Bilderberg, al quale sono invitati Lilli Gruber, Lucio Caracciolo di “Limes” e l’economista Alberto Alesina di Harvard, insieme ad Elena Cattaneo dell’ateneo milanese, Vittorio Colao di Vodafone, Mariana Mazzuccato dell’University College di Londra e il solito John Elkann. Ma l’incontro tra Francesco e i petrolieri? Come mai il Papa delle periferie e dell’accoglienza verso i migranti «si riunisce in privato coi più potenti capitalisti e miliardari globalisti, ossia attivi promotori delle feroci iniquità del capitalismo terminale? “Chiedetelo a loro”, vien voglia di dire, parafrasando lo slogan dell’8 per Mille», scrive Blondet sul suo blog, interpretando come un pretesto il tema dichiarato del vertice: l’emergenza climatica, dopo il ritiro di Trump dagli accordi sulle emissioni climalteranti.

  • Crolla un’epoca di abusi, se la Torino-Lione non è più tabù

    Scritto il 21/5/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Se proprio bisogna spendere tanti miliardi per “bucare” qualcosa, si perfori il sottosuolo di Torino per dotare il capoluogo piemontese di una vera rete metropolitana: vorrebbe dire fermare migliaia di auto, migliorare la salute della città più inquinata d’Italia e regalare ai pendolari due ore di vita ogni giorno, contro il famoso quarto d’ora che la Torino-Lione farebbe risparmiare agli improbabili passeggeri della linea ferroviaria ad alta velocità». Parola di Gianna De Masi, già assessore ambientalista di Rivoli, terza città della provincia per numero di abitanti, alla vigilia dell’ennesimo corteo promosso dai NoTav per celebrare i trent’anni di opposizione all’infrastruttura più controversa d’Europa. «Ormai la Francia aspetta solo un cenno per poter dire addio a questo progetto faraonico e completamente inutile», sostengono gli attivisti valsusini. «Sono gli stessi tecnici di Palazzo Chigi, oggi, a confermare i dati da noi forniti da almeno dieci anni», puntualizza il professor Angelo Tartaglia del Politecnico torinese: la Torino-Lione (costosissima, devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute con cantieri “infiniti” tra montagne piene di amianto) non servirebbe a niente, dato che il trasporto italo-francese è al tramonto e l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa potrebbe reggere da sola un incremento del 900% del traffico, secondo le autorità elvetiche incaricate dall’Unione Europea di monitorare i collegamenti transalpini.

  • Bifarini: l’Africa cambia padrone, ora è schiava della Cina

    Scritto il 12/5/18 • nella Categoria: segnalazioni • (21)

    Con una politica apparentemente innocua ma fortemente competitiva, fatta di prestiti a tassi bassissimi con il fine di conquistare tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali, il Dragone cinese sta occupando l’intero continente africano. Forte di un passato che non presenta la macchia dell’imperialismo coloniale, la Cina può sperimentare e affinare indisturbata in Africa il proprio colonialismo di mercato, con il beneplacito della popolazione locale, che spera e si illude di trovare nei conquistatori cinesi dei salvatori dalla propria condizione di sottosviluppo e miseria endemica. Senza nessuna pretesa di esportare modelli di democrazia universale né alcun bisogno di riconoscimenti e glorie in ambito umanitario, l’ex Impero Celeste trova nello sterminato territorio africano quello spazio vitale necessario alle proprie esigenze demografiche e di mercato. L’intero continente è stato sventrato per l’estrazione di diamanti e oro: gigantesche miniere cinesi pullulano di nuovi schiavi africani che estraggono minerali preziosi in condizioni disperate. Non solo non viene posto alcun riguardo per i diritti dei lavoratori, ma gli stessi diritti umani vengono calpestati, in nome della logica spietata del profitto.
    Amnesty International ha segnalato la presenza di oltre 40 mila minorenni, a partire dai sette anni, che lavorano per 12 ore al giorno a 2 dollari per datori di lavoro cinesi. Pechino negli ultimi anni ha superato Washington quale principale partner commerciale in Africa: il commercio della Cina ha raddoppiato quello degli Usa, che sono così stati relegati al terzo posto, dopo il Dragone e l’Unione europea. Come afferma lo scrittore congolese Mbuyi Kabunda, «l’Africa è diventata il nuovo oro per la Cina». Attraverso la sua politica di credito accomodante e d’investimento lungimirante, il colosso asiatico è riuscito a ottenere il controllo dei principali settori economici e strategici: i cinesi detengono ormai più del 65% dei contratti di infrastrutture e amministrano le grandi imprese minerarie, petrolifere, di telecomunicazioni ed energetiche in gran parte dei paesi africani. Nel solo 2016 gli investimenti diretti non finanziari delle imprese cinesi in Africa sono cresciuti a un ritmo del 31%.
    Lamido Lanusi, il governatore della Banca Centrale della Nigeria, in un’intervista al “Financial Times” ha dichiarato: «La Cina si impadronisce delle nostre materie prime e ci vende prodotti finiti (…) Questa è proprio l’essenza del colonialismo. L’Africa sta spalancando le sue porte a nuove forme di imperialismo (…) La Cina, per esempio, ormai non è più una economia sorella del mondo sottosviluppato ma è la seconda economia più forte del mondo, un gigante capace di esprimere le stesse forme di sfruttamento che ha adottato l’Occidente nel passato… Servono scelte coraggiose, dobbiamo produrre in Africa e allo stesso tempo respingere importazioni cinesi frutto di politiche predatorie».
    (Ilaria Bifarini, “Il neocolonialismo cinese in Africa”, dal blog della Bifarini del 20 aprile 2018. Il testo è estratto dal saggio “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, che Ilaria Bifarini pubblicato su Amazon – 205 pagine, euro 11,80 nel formato cartaceo).

    Con una politica apparentemente innocua ma fortemente competitiva, fatta di prestiti a tassi bassissimi con il fine di conquistare tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali, il Dragone cinese sta occupando l’intero continente africano. Forte di un passato che non presenta la macchia dell’imperialismo coloniale, la Cina può sperimentare e affinare indisturbata in Africa il proprio colonialismo di mercato, con il beneplacito della popolazione locale, che spera e si illude di trovare nei conquistatori cinesi dei salvatori dalla propria condizione di sottosviluppo e miseria endemica. Senza nessuna pretesa di esportare modelli di democrazia universale né alcun bisogno di riconoscimenti e glorie in ambito umanitario, l’ex Impero Celeste trova nello sterminato territorio africano quello spazio vitale necessario alle proprie esigenze demografiche e di mercato. L’intero continente è stato sventrato per l’estrazione di diamanti e oro: gigantesche miniere cinesi pullulano di nuovi schiavi africani che estraggono minerali preziosi in condizioni disperate. Non solo non viene posto alcun riguardo per i diritti dei lavoratori, ma gli stessi diritti umani vengono calpestati, in nome della logica spietata del profitto.

  • Sul web la censura Ue: ma oscurare la verità non è reato?

    Scritto il 04/5/18 • nella Categoria: idee • (8)

    Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?
    Fino a quando potranno restare impuniti, i presunti “ladri di verità” che impediscono all’opinione pubblica di acquisire dati su quanto avviene ogni giorno nel mondo? E’ annosa la polemica sulla disinformazione che finisce per coprire crimini gravissimi, inclusi quelli che l’Onu definisce “contro l’umanità”. In occasione del recente bombardamento dimostrativo sulla Siria, motivato dal presunto impiego di armi chimiche da parte del governo di Damasco, Marcello Foa – in tarda serata, su RaiTre – ha accusato i colleghi di aver dato per scontata la versione ufficiale degli Usa, rifiutando di constatare l’assenza di prove: non risulta infatti che Assad abbia colpito civili con i gas (né è dimostrato che altri abbiano impiegato agenti chimici a Douma: non ci sono prove che la popolazione siriana sia stata effettivamente colpita, quel giorno). In collegamento da Washington, la corrispondente Giovanna Botteri si è difesa in modo singolare, affermando che è inevitabile il rischio di essere imprecisi nelle cronache sulla Siria, dal momento che ai reporter è vietato l’accesso al teatro bellico – diversamente da quanto accaduto, ad esempio, in Iraq. Peccato che, proprio in occasione della Guerra del Golfo, fece la sua comparsa il primo degli inglesismi poi tristemente noti, “embedded”: in Iraq, i giornalisti “impacchettati” furono costretti a vedere solo quanto stabilito dal comando del generale Norman Schwarzkopf.
    Fu la prima volta, nella storia del giornalismo bellico. Se ne lamentarono, i veterani premiati dal Pulitzer: la prima vittima della guerra è sempre la verità, dissero, ma in Iraq si passò il limite, giungendo alla censura preventiva apertamente dichiarata. Assistemmo così al festival delle fake news governative: dal set hollywoodiano con i poveri cormorani intrappolati nel petrolio fino alla (mai avvenuta) strage degli innocenti, la bufala dei neonati “massacrati nelle incubatrici dai soldati di Saddam” a Kuwait City. Notizie false, regolarmente “bevute” da centinaia di reporter e offerte, come amaro aperitivo, a milioni di lettori e telespettatori, mentre i missili “intelligenti” grandinavano sulla testa delle famiglie di Baghdad. E ora che il bavaglio di massa torna prepotentemente di moda, quale guerra preoccupa i censori dell’Unione Europea? Quella contro la possibile verità su un’istituzione che si professa europeista e invece lavora intensamente contro l’Europa unita, contro la concordia e la prosperità dei popoli europei? Temono le elezioni del 2019, i lobbisti privatizzatori di Bruxelles: a loro, il celebre paladino della trasparenza universale Mark Zuckerberg ha appena promesso la massima vigilanza, sulle pagine del maggior social network del mondo. Il Grande Fratello non permetterà che siano veicolate verità sgradite: saranno “bannate”, dai possessori dell’infrastruttura informatica.
    Il web, beninteso, non è la palestra assoluta della libertà: immenso motore economico, è strettamente controllato dai suoi dominus, dagli algoritmi di Google, da fantasiosi tecno-stregoni come quelli di Cambridge Analytica. Il web è anche una pattumiera di malcostume e violenza verbale: si è lasciato credere che chiunque, protetto dall’anonimato di un nickname, potesse arbitrariamente distribuire insolenze, insulti e minacce. Forse però varrebbe la pena di ricordare ai legislatori che non siamo nel far west: esistono leggi a tutela dei cittadini, che sanzionano reati come la diffamazione. Di colpo non bastano più? Servono normative speciali, d’emergenza? E soprattutto: sono legali, le disposizioni speciali? Così come è un reato la calunnia, perché mai non dovrebbe essere perseguita per legge anche la distorsione della verità, che rende cieco il pubblico di fronte agli eventi? Ancora più grave è il proposito di “spegnere” programmaticamente le voci libere del web, magari segnalate dagli invisibili censori (penalmente irresponsabili) dell’impunita Unione Europea. Non è reato, occultare la verità? Non sarebbe materia, questa, su cui consultare innanzitutto i più autorevoli giuristi? Come in ogni questione controversa, l’ultima parola non potrebbe spettare a un tribunale? La parte civile, in questo caso, rappresenterebbe mezzo miliardo di persone: i cittadini dell’Unione Europea.
    (Giorgio Cattaneo, “Sul web la censura Ue, ma oscurare la verità non è reato?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 30 aprile 2018).

    Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?

  • Africa impoverita, migranti in fuga dal neoliberismo usuraio

    Scritto il 19/4/18 • nella Categoria: Recensioni • (18)

    Il suo nuovo libro si chiama  “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».
    «Si tratta di somme di denaro legate a delle condizionalità, ossia  all’implementazione di politiche neoliberiste, improntate alla massima apertura commerciale, alle liberalizzazioni, ai tagli alla spesa pubblica e alle privatizzazioni. In pratica una forma di ricatto che ha impedito all’Africa postcoloniale di uscire dalla trappola del sottosviluppo e anzi ne ha aumentato la povertà». Ma l’Africa non ha bisogno di investimenti infrastrutturali e modernizzazione dei sistemi per uscire dalla povertà? «L’Africa ha bisogno di liberarsi dal giogo dell’iperglobalizzazione, di proteggere i propri mercati e di sviluppare un’economia propria, basata sulla produzione e il consumo locale. Il modello imposto dalle organizzazioni internazionali, basato sul massimo ricorso al libero scambio, prevede che si esportino beni di prima necessità sottratti al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. L’emigrazione non può essere una soluzione per queste economie, sebbene molti sostengano che le rimesse di denaro nei paesi di origine possano aiutare l’economia locale. Esse in realtà non danno alcun impulso allo sviluppo di iniziative e imprese locali, ma arricchiscono solo il fiorente business delle società di trasferimento di denaro».
    Secondo la sua tesi, invece, il debito pubblico è uno strumento già utilizzato in Africa per impedire crescita e per improntare la globalizzazione della povertà. È proprio un’altra visione. Da quali prove la fa partire? «Proprio a seguito della crisi del debito del Terzo Mondo del 1982 sono stati introdotti i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Questi programmi prevedono l’accettazione totale e acritica da parte dei paesi poveri del modello economico neoliberista, presentato come condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’uscita dalla crisi. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. L’Africa è entrata nella spirale del pagamento degli interessi del debito: dal 1982 al 1990 ha restituito 400 miliardi di dollari di soli interessi. Una situazione che presenta molte analogie con quella che stiamo vivendo in Europa e in Italia in particolare».
    La Cina è in Africa e più che quella comunista è quella capitalista, le due cose ormai si fondono. Come è potuta accadere questa “rivoluzione” e perché l’Africa è così appetibile da chi commercia e chi vuole produrre «L’Africa è il continente più ricco al mondo di risorse naturali e minerarie, è quindi un ottimo mercato per la Cina, che pure deve far fronte alla propria pressione demografica e alla sempre maggiore richiesta di beni. I funzionari cinesi hanno stimato che il loro paese ha necessità di inviare in Africa ancora 300 milioni di persone per risolvere i problemi interni di sovrappopolazione e inquinamento. La Cina sta occupando l’intero continente africano, concedendo prestiti a tassi bassissimi e appropriandosi di tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. Per contro la popolazione africana ripone speranze e fiducia nel Dragone cinese che, a differenza dei paesi occidentali, non ha un passato coloniale e non impone il proprio modello economico e sociale».
    (Ilaria Bifarini, “La spirale del debito neoliberista ha ucciso l’Africa, ora l’Europa”, intervista rilasciata a “Lo Speciale” il 27 marzo 2018. Il libro: Ilaria Bifarini, “I coloni dell’austerity”, sottititolo “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, 205 pagine, edito da Amazon, con prefazione di Giulietto Chiesa).

    Il suo nuovo libro si chiama  “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».

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