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Archivio del Tag ‘Islam’

  • L’infame guerra di Bergoglio, che ora insulta la democrazia

    Scritto il 29/8/19 • nella Categoria: idee • (7)

    Condannando senza appello il sovranismo e accostandolo alla guerra e al nazismo, Papa Bergoglio ha fatto nell’agitato clima d’agosto una dichiarazione di guerra mondiale nel nome della pace e dei migranti. Non ha solo scomunicato Salvini e benedetto la santa alleanza tra grillini e Pd, come molti hanno sottolineato, ma ha colpito tutti i sovranisti del mondo, da Trump a Putin, dal nazionalista indiano Modi al cattolico Orban e al brasiliano Bolsonaro che guida il paese cattolico più popoloso al mondo. Non ricordo un’accusa politica così radicale ed esplicita da parte di un Papa, almeno negli ultimi settant’anni con un paragone così infamante col nazismo e la guerra. Per trovare un vago precedente bisogna risalire alla scomunica di Papa Pio XII, nell’estate del 1949, nei confronti dei comunisti. Ma il comunismo era un regime totalitario e ateo in atto, perseguitava i credenti e i dissidenti, soffocava nel sangue e nel gulag la libertà. Qui siamo a una scomunica a priori nei confronti di leader e movimenti popolari, democratici e liberamente eletti che non si sono macchiati di alcun crimine e non hanno fatto nessuna azione o dichiarazione ostile verso la fede, la Chiesa e i credenti.
    Scomunicandoli, Bergoglio si è lanciato in uno spericolato paragone tratto dalla propaganda corrente, tra il sovranismo di oggi e il nazismo e la guerra di ieri e di domani. Sarebbe come accusare di comunismo antioccidentale o di complicità col fanatismo islamico chiunque voglia far sbarcare i clandestini e imporne l’accoglienza. Un processo alle intenzioni senza fondamento. Del resto quante guerre recenti sono state combattute nel nome della pace e del Bene contro le potenze del Male; quante guerre pacifiste, quanti stermini umanitari, quante bombe progressiste sganciate sulle popolazioni, quante invasioni a fin di bene, quanti maltrattamenti e respingimenti democratici di immigrati clandestini. Fu il democratico e pacifista Kennedy a far la guerra in Vietnam e a sfiorare la guerra a Cuba con l’Urss; toccò al “cattivo conservatore” Nixon chiudere la sciagurata guerra in Vietnam e dialogare col comunismo cinese.
    Con la sua dichiarazione di guerra ai sovranisti, Bergoglio ha compiuto tre atti ostili in uno: ha offeso i cattolici che liberamente votano per i “sovranisti” riducendoli a potenziali seguaci di Htler e nemici dell’umanità e della cristianità, erigendo così un muro d’odio e disprezzo nei loro confronti; proprio lui che dice di voler abbattere tutti i muri ne ha eretto uno gigantesco, insormontabile. Ha poi schiacciato la Chiesa su un versante politico a fianco di movimenti, governi e organi laicisti, atei, massonici, di sinistra radicale o all’opposto filo-islamici, comunque avversi alla cristianità e ai suoi valori, alla civiltà cattolica e alla famiglia cristiana. E si è schierato con l’Europa anticristiana degli eurocrati, con l’establishment laicista e col peggior capitalismo finanziario, contraddicendo anche il suo populismo cristiano-terzomondista. Peraltro Bergoglio deve ancora raccontarci che rapporti ebbe con la dittatura argentina quando era influente prelato in patria.
    I catto-bergogliani sono insorti con livore e disprezzo (ma sempre in nome della carità) contro chi muove queste obiezioni al Papa, accusandoli d’insolenza. E’ ridicolo che questi cattolici progressisti ricorrano al dogma dell’infallibilità del Papa e si trincerino dietro quel principio di autorità che hanno calpestato fino a ieri, diciamo fino a che era Papa Ratzinger. Il problema è opposto: non è chi critica le dichiarazioni politiche di Bergoglio a mettersi al di sopra del Papa, ma è Bergoglio a scendere al di sotto del suo ruolo di Papa, fino a usare strumenti della propaganda politico-mediatica di sinistra che accusa di nazismo chiunque non la pensi come loro. Un vero Pontefice dovrebbe innalzare ponti e non steccati, dovrebbe porsi al di sopra delle parti e delle ideologie, esortare a trovare un punto di sintesi, sforzandosi di salvare un nucleo di verità in ciascuna delle parti in campo. Per i catto-bergogliani la verità del Vangelo e della cristianità non è quella trasmessa da duemila anni di tradizione cristiana, di fede, dottrina, esempio di santi e teologi, di papi e martiri. Ma è solo nella lettura che ne fa ora Bergoglio in un volo pindarico dal cristianesimo delle origini al Concilio Vaticano II, con un breve scalo francescano. Il resto è cancellato.
    È puerile e riduttiva questa rappresentazione manichea del Bene e del Male. I mali di cui è infestata la società sono molteplici, evidenti e remoti dal sovranismo: la droga e la criminalità derivata, il terrorismo e il fanatismo, la persecuzione dei cristiani nel mondo, la delinquenza diffusa e il traffico di bambini, di uteri, di organi, di donne, di migranti, solo per citarne alcuni. Mali rispetto a cui il sovranismo è considerato da molti come argine e antidoto. Elevando il sovranismo a male sovrano dell’epoca, passano in sordina questi mali globali, coi loro agenti e alleati. In un mondo dominato dall’ateismo e minacciato dall’islamismo, Bergoglio addita come nemico principale il sovranismo e come suo gesto di massimo sfregio l’esibizione del rosario. Intanto la civiltà cristiana e la fede cristiana vengono cancellate dalla vita pubblica e privata, le chiese, i fedeli e le vocazioni sono in caduta libera, il senso religioso sparisce nell’orizzonte della gente; ma quel che conta è la mobilitazione umanitaria pro-migranti e resistenza contro un presunto pericolo nazista. E intanto i cattolici praticanti in Europa, una volta esclusi i sovranisti, si riducono all’otto per mille della popolazione…
    (Marcello Veneziani, “Bergoglio va alla guerra” dal numero 38 di “Panorama”, ripreso dal blog di Veneziani).

    Condannando senza appello il sovranismo e accostandolo alla guerra e al nazismo, Papa Bergoglio ha fatto nell’agitato clima d’agosto una dichiarazione di guerra mondiale nel nome della pace e dei migranti. Non ha solo scomunicato Salvini e benedetto la santa alleanza tra grillini e Pd, come molti hanno sottolineato, ma ha colpito tutti i sovranisti del mondo, da Trump a Putin, dal nazionalista indiano Modi al cattolico Orban e al brasiliano Bolsonaro che guida il paese cattolico più popoloso al mondo. Non ricordo un’accusa politica così radicale ed esplicita da parte di un Papa, almeno negli ultimi settant’anni con un paragone così infamante col nazismo e la guerra. Per trovare un vago precedente bisogna risalire alla scomunica di Papa Pio XII, nell’estate del 1949, nei confronti dei comunisti. Ma il comunismo era un regime totalitario e ateo in atto, perseguitava i credenti e i dissidenti, soffocava nel sangue e nel gulag la libertà. Qui siamo a una scomunica a priori nei confronti di leader e movimenti popolari, democratici e liberamente eletti che non si sono macchiati di alcun crimine e non hanno fatto nessuna azione o dichiarazione ostile verso la fede, la Chiesa e i credenti.

  • Fatale Russiagate: dietro la crisi, gli 007 di Conte e Macron

    Scritto il 28/8/19 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Col passare dei giorni è apparso sempre più evidente, in controluce, il vero scontro andato in scena nella strana “crisi di ferragosto”, quello cioè che ha opposto Matteo Salvini e Giuseppe Conte. La fine del governo gialloverde – già in agonia a causa del fallimento politico dei 5 Stelle, incapaci di tener fede alle proprie promesse e pronti a frenare la spinta riformatrice leghista (dai minibot alla Flat Tax) – è letteralmente esplosa con il cosiddetto Russiagate. Sulle intercettazioni dei colloqui moscoviti di Gianluca Savoini, “ambasciatore” della Lega dalle parti del Cremlino, si è prontamente scatenata la stampa maninstream, dall’“Espresso” al “Fatto Quotidiano”. Pessimo, Salvini, nel fingere di non avere strettissimi rapporti con Savoini. Peraltro, non risulta alcuna transazione di denaro dalla Russia alla Lega, men che meno per tramite dell’Eni. Perché mai il Carroccio avrebbe avuto bisogno di denaro extra, comunque non incassato? Forse per resistere all’abnorme richiesta di dover “restituire” 49 milioni, in realtà mai sottratti allo Stato? La cifra imputata è infatti il totale dei rimborsi elettorali percepiti negli anni, anche lecitamente, mentre l’antico illecito (di Bossi e Belsito, non di Salvini) ammontava a meno di un milione.
    La maxi-stangata giudiziaria ha messo in ginocchio la Lega, esponendola alla tentazione di una sorta di questua per poter sopravvivere politicamente? Nel caso, al Carroccio è stata tesa una trappola, a Mosca. Da chi? E’ più che un sospetto: dai servizi segreti italiani, gestiti da Conte. L’avvocato democristiano venuto dal nulla, indicato da Grillo e stimato da De Mita nonché dal Vaticano, alla nascita del governo gialloverde aveva tenuto per sé la delega ai servizi, che negli esecutivi precedenti (Renzi e Gentiloni) era rimasta come di consueto al ministro dell’interno (Minniti). Segnale eloquente: gli azionisti occulti del Movimento 5 Stelle non si fidavano di Salvini e non intendevano lasciare nelle sue mani l’arma dell’intelligence. Ma peggio: Conte ha cambiato i vertici dei servizi italiani, che negli anni scorsi si erano distinti per professionalità e lealtà istituzionale. «Avevamo il miglior apparato antiterrorismo del mondo», ha detto Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lasciando intendere che – mentre i kamikaze facevano strage in tutta Europa, grazie alle puntuali “distrazioni” delle polizie di Francia, Germania, Belgio, Spagna e Gran Bretagna – gli agenti italiani sventavano attentati (una trentina) progettati sul territorio nazionale.
    Obiettivo: dimostrare agli eversori (certo non islamici) che c’era almeno un paese, in Europa, che poteva essere sottratto alla strategia della tensione targata Isis. Quel paese, l’Italia, era anche – che coincidenza – l’unico a essere, teoricamente, all’opposizione di Bruxelles, soprattutto grazie alla Lega di Salvini. «A premere perché fossero cambiati i vertitici dei nostri servizi segreti – ha detto sempre Carpeoro – è stato Jacques Attali, massone reazionario e mentore di Macron, attivissimo nel mettere i bastoni tra le ruote al governo italiano, con ogni mezzo». L’operazione è andata in porto nei mesi scorsi, poco prima che i giornalisti de “L’Espresso” fossero imbeccati sul famoso incontro al Metropol tra Savoini e alcuni uomini di seconda fila del potere russo. Prima domanda: perché mai l’intelligence di Putin avrebbe dovuto mettere in imbarazzo l’amico Salvini? Vale anche per il “sovranista” Trump: perché mai usare la Cia per colpire la Lega? Di qui il sospetto che la “manina” sia stata quella dei servizi italiani rinnovati da Conte. Questo spiegherebbe anche l’intransigenza di Salvini nel voler liquidare ad ogni costo l’avvocato venuto in apparenza dal nulla, ma in realtà solidamente gestito dai veri “padroni” del Movimento 5 Stelle, pronti a schierare i grillini con la Merkel per far eleggere Ursula von del Leyen alla Commissione Ue, contro Salvini e contro gli interessi nazionali italiani.

    Col passare dei giorni è apparso sempre più evidente, in controluce, il vero scontro andato in scena nella strana “crisi di ferragosto”, quello cioè che ha opposto Matteo Salvini e Giuseppe Conte. La fine del governo gialloverde – già in agonia a causa del fallimento politico dei 5 Stelle, incapaci di tener fede alle proprie promesse e pronti a frenare la spinta riformatrice leghista (dai minibot alla Flat Tax) – è letteralmente esplosa con il cosiddetto Russiagate. Sulle intercettazioni dei colloqui moscoviti di Gianluca Savoini, “ambasciatore” della Lega dalle parti del Cremlino, si è prontamente scatenata la stampa maninstream, dall’“Espresso” al “Fatto Quotidiano”. Pessimo, Salvini, nel fingere di non avere strettissimi rapporti con Savoini. Peraltro, non risulta alcuna transazione di denaro dalla Russia alla Lega, men che meno per tramite dell’Eni. Perché mai il Carroccio avrebbe avuto bisogno di denaro extra, comunque non incassato? Forse per resistere all’abnorme richiesta di dover “restituire” 49 milioni, in realtà mai sottratti allo Stato? La cifra imputata è infatti il totale dei rimborsi elettorali percepiti negli anni, anche lecitamente, mentre l’antico illecito (di Bossi e Belsito, non di Salvini) ammontava a meno di un milione.

  • Renzi-2, il ritorno: Italia ko, oscurati Zingaretti e i 5 Stelle

    Scritto il 27/8/19 • nella Categoria: idee • (4)

    Tutto sembra ormai predisposto per il lancio del nuovo governo M5S-Pd-Leu e gruppi misti di varia natura. Un governo di legislatura, con 5 “pilastri” che non sono quelli della fede islamica ma quelli annunciati da Zingaretti perché il partito democratico torni ad occuparsi della cosa pubblica, salvando al tempo stesso il lauto stipendio di tanti parlamentari. Si sostanziano delle solite dichiarazioni di principio e hanno per tema, rispettivamente: la ricollocazione piena e senza riserve dell’Italia in Europa (leggi: ritorno servile sotto Eurogermania), il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa (leggi: nessuna concessione a istanze di democrazia diretta, care ai pentastellati), lo sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale (leggi: niente che significhi qualcosa di serio), la discontinuità nella politica sull’immigrazione (leggi: tutti potranno tornare a sbarcare sui lidi del Belpaese), le ricette economico-sociali per ridistribuire la ricchezza e avviare gli investimenti produttivi (leggi: la solita patrimoniale sugli immobili e un programma generico che presuppone tempi diversi e/o provvedimenti forse in contraddizione tra di loro, come potrebbero esserlo il salario minimo e la contemporanea crescita produttiva delle imprese).
    Indisponibile, invece, il segretario del Pd ad un governo istituzionale o comunque di breve durata come suggeriva Renzi. E del resto, Zingaretti avrebbe preferito andare direttamente al voto per una serie di motivi abbastanza comprensibili: disfarsi della massiccia rappresentanza parlamentare controllata da Renzi e recuperare una buona parte dei voti perduti nelle precedenti elezioni a vantaggio dei Cinquestelle. Bisogna tuttavia tener conto non solo di Renzi, ma di Franceschini, Delrio, Gentiloni, Orlando etc… e anche, naturalmente, di Mattarella; e allora, nella ritrovata, apparente unità del partito, il segretario del Pd si limita a porre qualche condizione al governo con i pentastellati: che sia di legislatura e che si basi sui 5 pilastri, che prefiguri una lunga e fruttuosa intesa politica tra le due forze (leggi: accordi elettorali nelle elezioni amministrative), che infine rappresenti una discontinuità con il precedente governo, nel nome del presidente del Consiglio, dei ministri più rappresentativi e soprattutto nella cancellazione di alcuni provvedimenti (leggi: quelli sulla sicurezza e non solo).
    Ai 5 punti “irrinunciabili” di Zingaretti, Di Maio ne affianca 10, il primo dei quali è la riduzione del numero dei parlamentari e su queste basi si vedranno oggi pomeriggio le delegazioni di Pd e M5S. Con quante possibilità di condividere i 15 punti e/o di trovare una sintesi comune? Molte, al di là delle dichiarazioni di principio poco conciliabili ma che sembrano formulate unicamente per incantare i rispettivi elettorati. Lo scoglio più difficile da superare sembra proprio quello sulla riduzione dei parlamentari, ma il paradosso è che proprio su questo punto potrebbero essere gettate le basi per un’intesa politica di lunga durata: riduzione dei parlamentari (non 345 ma in numero minore) nel contesto di una nuova legge elettorale anti-Lega, secondo una prassi già sperimentata con il Rosatellum, concepito per far vincere il Pd con l’aiuto di Forza Italia contro il cosiddetto populismo e che invece ha avuto l’effetto di rendere possibile la maggioranza gialloverde.
    Sia come sia, il governo M5S-Pd-Leu che, a meno di clamorose quanto impensabili sorprese, nascerà la prossima settimana, non può essere definito un “inciucio”, perché è sostenuto da una maggioranza parlamentare altrettanto legittima di quella che ha governato il paese negli ultimi 14 mesi. Il problema semmai è un altro e riguarda la concezione della democrazia: sostenere come ha fatto Renzi nel suo discorso in Senato (altri lo hanno imitato magari fuori del Parlamento) che andare a votare significherebbe far vincere la Lega di Salvini, denuncia un atteggiamento elitario e oligarchico che nulla ha a che vedere con i principi della democrazia, rappresentativa o diretta che sia. L’intesa Pd-M5S ha molte implicazioni. Renzi controllerà di fatto il nuovo esecutivo pur non facendone parte e Zingaretti più che segretario del suo partito ne sarà il notaio, dal momento che per tenere tutti uniti sceglie l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani.
    I Cinquestelle non sono da meno: evitano il dimezzamento della rappresentanza parlamentare e salvano lo stipendio per tutti gli oltre 300 tra deputati e senatori, ma nel loro orizzonte s’intravede già il grigiore dell’insignificanza che li destina ad essere una ruota di scorta del sistema. La Lega, dal canto suo, paga il momentaneo scotto di una mossa in apparenza inopportuna, incomprensibile anche per molti dei suoi, ma è forse l’unica forza a mantenere intatta la prospettiva di un cambiamento nel panorama asfittico e opportunistico della politica italiana. Cosa ha portato Salvini a fare la scelta che ha fatto? Lo si è capito in Senato, nonostante il poco lucido discorso, quando invece di ribattere punto su punto le accuse di un neodemocristiano, dalla cronaca reso eroe per un giorno – lui che i media hanno sempre irriso come un burattino nelle mani dei due vicepresidenti – il leader della Lega si è limitato a poche parole significative per spiegare il suo gesto.
    Frasi purtroppo non comprensibili a tutti o addirittura da iniziati, per di più inframmezzate dalla solita inguardabile ostentazione del rosario: che senso ha rimanere in un governo accanto a un movimento che ha bocciato le autonomie, che alla proposta di riforma fiscale basata su tre aliquote progressive di riduzione delle tasse (dunque neanche la Flat Tax) si sente opporre – come ingenuamente ha riferito lo stesso Nicola Morra ai giornalisti qualche ora più tardi – che non ci sono le coperture finanziarie, che si schiera ipocritamente per il NoTav, quando è lo stesso presidente del Consiglio ad approvarla, che in luogo degli investimenti produttivi propone in modo demagogico il salario minimo a imprese già sull’orlo del fallimento? Con quale faccia la Lega si sarebbe rivolta ai suoi dopo la finanziaria? Meglio perdere qualcosa oggi che perdere tutto domani! Questo il messaggio in codice di Salvini. C’erano altre strade? Può darsi. Servirsi della clausola contenuta nel contratto di governo per dirimere le contese? Presentare comunque la cosiddetta Flat Tax in Parlamento, mediare sulla legge per le autonomie, spiegare che il salario minimo viene dopo la ripresa delle aziende in crisi? Forse sì  e forse no.
    (Sergio Magaldi, “Pd, l’uovo oggi o la gallina domani?”, da “Lo Zibaldone di Sergio Magaldi” del 23 agosto 2019).

    Tutto sembra ormai predisposto per il lancio del nuovo governo M5S-Pd-Leu e gruppi misti di varia natura. Un governo di legislatura, con 5 “pilastri” che non sono quelli della fede islamica ma quelli annunciati da Zingaretti perché il partito democratico torni ad occuparsi della cosa pubblica, salvando al tempo stesso il lauto stipendio di tanti parlamentari. Si sostanziano delle solite dichiarazioni di principio e hanno per tema, rispettivamente: la ricollocazione piena e senza riserve dell’Italia in Europa (leggi: ritorno servile sotto Eurogermania), il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa (leggi: nessuna concessione a istanze di democrazia diretta, care ai pentastellati), lo sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale (leggi: niente che significhi qualcosa di serio), la discontinuità nella politica sull’immigrazione (leggi: tutti potranno tornare a sbarcare sui lidi del Belpaese), le ricette economico-sociali per ridistribuire la ricchezza e avviare gli investimenti produttivi (leggi: la solita patrimoniale sugli immobili e un programma generico che presuppone tempi diversi e/o provvedimenti forse in contraddizione tra di loro, come potrebbero esserlo il salario minimo e la contemporanea crescita produttiva delle imprese).

  • I pompieri di New York: le Torri Gemelle erano state minate

    Scritto il 26/8/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Il 24 luglio scorso, 18 anni dopo la tragedia dell’11 Settembre a New York, nel silenzio totale dei grandi media americani (e italiani), cinque uomini non “qualunque” si sono riuniti nel distretto di Piazza Franklin e Munson, a un passo dal Queens di New York, per approvare, all’unanimità, una risoluzione. Il cui testo proclama l’«incontrovertibile evidenza» del dato che «esplosivi preventivamente collocati» all’interno delle «tre torri» del World Trade Center, «ne hanno provocato la distruzione». Chiunque abbia seguito un poco le polemiche che da 18 anni ruotano attorno alla spiegazione dell’11 settembre 2001, si renderà conto immediatamente che una tale dichiarazione cancella in un colpo solo l’intero impianto della inchiesta ufficiale, contenuta nel famigerato “9/11 Commission Report”. Dunque è importante sapere chi sono questi cinque uomini. Sono i membri della Commissione dei vigili del fuoco del distretto di piazza Franklin e Munson: un distaccamento di “volontari” (come lo sono i pompieri americani) che subì gravi perdite mentre portava aiuto nei primi momenti del dramma. I pompieri della contea di Nassau che morirono nelle torri furono 24, ai quali si aggiunsero quattro residenti nel quartiere.
    La Commissione dei cinque (composta da uomini che 18 anni fa parteciparono a quelle operazioni e ne uscirono vivi) ha l’incarico di tenere viva la memoria di quell’evento. I loro nomi vanno ricordati: Philip F Melloy, Dennis G. Lyons, Joseph M. Torregrossa, Christopher L. Gioia, Les Saltzman. Non perché siano famosi. Né probabilmente lo diventeranno. Ma sono importanti perché videro con i loro occhi, sentirono con le loro orecchie. Sono i primi esperti, sanno di che si tratta, portano i segni nei loro corpi. Tuttavia non furono ascoltati, nemmeno interrogati dalla Commissione. E se lo furono, le loro testimonianze vennero taciute o ignorate. Ci sono voluti 18 anni perché potessero trovare la forza e il coraggio di rendere pubblico, solennemente, quello che sanno. Ovviamente i grandi media americani e occidentali non diranno una parola di tutto ciò, ma questo non basterà per fermare la notizia. Non lo impedisce a noi in questo momento.
    Questi cinque testimoni, pompieri di New York, cittadini americani, si sono mossi dopo che il Comitato degli Avvocati per una nuova inchiesta sull’11 settembre è riuscito a far arrivare una precisa richiesta sul tavolo del procuratore del distretto Sud di New York, Geoffrey S. Berman. La richiesta era esattamente quella di riconoscere l’evidenza che il World Trade Center era stato preventivamente riempito di esplosivi, prima dell’arrivo degli aerei che colpirono due delle tre torri. Il fatto nuovo fu che l’ufficio del procuratore rispose (nel novembre scorso) riconoscendo che la petizione aveva il diritto di essere portata sul tavolo di un Gran Jury, cioè di fronte a un tribunale dello Stato. Il tempo passa, gli ostacoli ci sono e cresceranno, i ritardi si accumuleranno. Ma adesso ci sono testimoni e esperti che dichiarano pubblicamente di voler sostenere «ogni sforzo di altre istituzioni governative che vorranno investigare e scoprire la verità – che continua a essere ostacolata – sugli eventi di quell’orribile giorno».
    Così dice la risoluzione dei pompieri di New York, contea di Nassau. Il commissario Gioia ha detto: «Noi siamo il primo distretto che approva questa risoluzione. Non saremo gli unici». Ma allora risorge potente un interrogativo: chi piazzò quelle cariche esplosive nelle tre torri? Chi poteva condurre in porto una tale operazione? Non certo i 19 terroristi “islamici” che sarebbero stati (e non c’erano) a bordo degli aerei. Ci volevano squadre di specialisti ben protetti, per farlo. Tutte cose di cui la commissione ufficiale neppure si è occupata, negando poi l’esistenza “inoppugnabile” delle esplosioni dal basso, che precedettero e accompagnarono i crolli. Dunque la commmissione ufficiale ha mentito. Ricordiamo che a capo dell’Fbi in quel momento c’era (pura coincidenza?) colui che è al centro dell’inchiesta sul Russiagate, Robert Mueller.
    (Giulietto Chiesa, “11 Settembre, le torri del Wtc erano minate? Una commissione di vigili del fuoco lo sostiene e per me è giusto ascoltarli”, dal “Fatto Quotidiano” del 18 agosto 2019. Fonte: “Global Research”, “Call for New 9/11 Investigation: New York Area Fire Commissioners Make History”).

    Il 24 luglio scorso, 18 anni dopo la tragedia dell’11 Settembre a New York, nel silenzio totale dei grandi media americani (e italiani), cinque uomini non “qualunque” si sono riuniti nel distretto di Piazza Franklin e Munson, a un passo dal Queens di New York, per approvare, all’unanimità, una risoluzione. Il cui testo proclama l’«incontrovertibile evidenza» del dato che «esplosivi preventivamente collocati» all’interno delle «tre torri» del World Trade Center, «ne hanno provocato la distruzione». Chiunque abbia seguito un poco le polemiche che da 18 anni ruotano attorno alla spiegazione dell’11 settembre 2001, si renderà conto immediatamente che una tale dichiarazione cancella in un colpo solo l’intero impianto della inchiesta ufficiale, contenuta nel famigerato “9/11 Commission Report”. Dunque è importante sapere chi sono questi cinque uomini. Sono i membri della Commissione dei vigili del fuoco del distretto di piazza Franklin e Munson: un distaccamento di “volontari” (come lo sono i pompieri americani) che subì gravi perdite mentre portava aiuto nei primi momenti del dramma. I pompieri della contea di Nassau che morirono nelle torri furono 24, ai quali si aggiunsero quattro residenti nel quartiere.

  • Il finto sovranismo della “serva Italia” e l’inganno di Grillo

    Scritto il 23/8/19 • nella Categoria: idee • (10)

    Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica. E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero.
    L’euro e le sue regole sono uno strumento essenziale a questo fine (vedi i miei “Euroschiavi”, “Tecnoschiavi”, “Cimiteuro”, “Traditori al Governo”, “Oligarchia per popoli superflui”). L’Italia neanche se unita e neanche se guidata da autentici statisti – quali oggi non esistono né in Italia né altrove in Occidente – potrebbe battere il liberal-capitalismo finanziario imperante, e affrancarsi da tale programma: gli strumenti finanziari, monetari, mediatici e giudiziari in mano agli interessi dominanti sono troppo forti; prima bisognerebbe che il loro apparato di potenza fosse abbattuto da un rivolgimento perlomeno continentale. Soprattutto sotto leader modesti come Salvini, Di Maio, Renzi, con certezza non si raggiunge la libertà. I tentativi di affrancamento, come quello, vago e timido, del governo gialloverde, non possono che fallire e ricadere in danno agli italiani. Dai tempi dell’occupazione longobarda, e poi franca, normanna, francese, spagnola, austriaca, la gran parte dei politici italiani aspira a collaborare coi padroni stranieri aiutandoli a sfruttare l’Italia, perché aiutandoli si eleva verso di essi e sopra i comuni italiani. E’ un tratto culturale storicamente consolidato. In Italia, fare il Quisling non è un titolo di demerito, ma all’opposto di nobiltà; questo va ricordato a coloro che hanno dato del Quisling al Quirinale: non è un vilipendio, è un encomio.
    Da tutto quanto sopra consegue che agli italiani conviene un governo non ribelle agli interessi stranieri, specificamente franco-tedeschi, piuttosto che uno ribellista ma impotente, che attira ritorsioni su di loro. Un governo sottomesso ma dialogante, che attenui la violenza del processo di spolpamento, espropriazione ed invasione afroislamica, e lo diluisca nel tempo, dando modo alla popolazione generale di vivere decentemente qualche anno in più, e alla parte più valida di essa di emigrare e trasferire aziende e patrimonio all’estero. Agli intellettuali antisistema non conviene farsi partito politico, sia perché non vi è spazio per l’azione politica, sia perché verrebbero attaccatati dai magistrati politici e dall’apparato mediatico. L’azione antisistema, di critica e controproposta al regime tecnofinanziario, sebbene impossibile sul piano governativo, potrebbe invece parallelamente continuare sul piano culturale e informativo: la critica intelligente e competente potrebbe costituire un’associazione internazionale di ricerca scientifica socio-economica, geostrategica e storica, meglio se con sede all’estero (fuori della portata della giustizia nostrana), indipendente da ogni ente pubblico e dal capitale privato, avente lo scopo di mettere in luce la verità, gli inganni e i meccanismi monetari-finanziari che essi nascondono.
    Ora qualche nota sulla crisi di governo in atto. Salvini l’ha aperta in un momento scelto razionalmente, forse non il migliore, ma verosimilmente l’ultimo possibile (non voglio pensare l’abbia aperta confidando nelle assicurazioni di Zingaretti, che non si sarebbe alleato coi grillini ma avrebbe spinto per le elezioni: se Salvini si fosse fidato di tali dichiarazioni, ignorerebbe l’abc della politica, ossia che menzogna e dissimulazione sono parte essenziale del metodo politico). Poi l’ha gestita male, con tentennamenti, incertezze, contraddizioni e scarse analisi economico-giuridiche. Al Senato non si è difeso efficacemente dalle stroncature di Conte: ha replicato usando argomenti deboli mentre ne aveva a disposizione di ben più forti; non ha ribattuto sul piano giuridico-costituzionale; è apparso in pallone, impacciato, patetico nei suoi appelli alla Madonna e nel suo offrirsi come bersaglio.
    La sua difesa è stata fatta molto meglio dalla senatrice Bernini di Forza Italia, che ha smascherato l’ipocrisia e le contraddizioni di Conte. Salvini è un buon comunicatore, ha un buon fiuto, non è stupido, è ben sopra la media dei politici nostrani, ma adesso tutti hanno potuto vedere che non ha la saldezza né la preparazione culturale dello statista. E’ o è stato un leader carismatico, e i leader carismatici perdono il carisma allorché appaiono perdenti. Però Salvini può ancora rinquartarsi e recuperare, specialmente se la Lega va all’opposizione e fa opposizione dura e aggressiva nelle piazze, o anche se ricuce con il partito della Casaleggio & Associati, perlomeno al fine di proteggersi dagli attacchi giudiziari stando al governo. Però in ogni caso dovrebbe colmare le sue lacune in diritto costituzionale ed economia internazionale. Ad ogni modo, la carica sovranista e antisistema dei capi grillini e leghisti era da tempo andata scemando e riducendosi a poche banalità pressoché inoffensive e a denunce sterili.
    Ben diversamente, Grillo era partito, prima che fosse fondato il M5S, da una vera critica antisistema, che metteva in luce il fattore centrale del potere e dell’iniquità, che spoglia della loro sovranità i popoli: la privatizzazione della sovranità monetaria, il monopolio privato della produzione e allocazione della moneta e del credito. Poi, divenendo capo di una formazione partitica assieme alla Casaleggio e Associati, aveva smesso di parlare di queste cose, troppo autenticamente disturbanti per il sistema, e si era giustificato, ad usum imbecillium, asserendo che si tratterebbe di cose che la gente non capisce. Era passato alla dottrina del vaffa, più alla portata della classe cui si rivolgeva, e ben tollerabile per il sistema. Tuttavia, ancora nei due anni precedenti le elezioni politiche del 2018, alcuni esponenti grillini, segnatamente Villarosa (attuale sottosegretario alle finanze), Pesco e Sibilia, si erano interessati e avevano approfondito con impegno la materia monetaria e bancaria, richiedendo e ricevendo la collaborazione mia e di altri studiosi di questo campo, organizzando eventi pubblici e promettendo iniziative concrete una volta al governo. Ma, al contrario, una volta accomodatisi sulle poltrone governative, i predetti non solo non hanno preso alcuna concreta e visibile iniziativa, ma hanno addirittura rifiutato ulteriori contatti con noi.
    Evidentemente avevano ricevuto ordini di scuderia e calcolato la loro convenienza. Si sono allineati al sistema, con tutto il Movimento, il quale si è rivelato e confermato uno strumento per raccogliere il dissenso antisistema e poi neutralizzarlo, anzi portarlo al sistema convertendolo in consenso ad esso, a braccetto col partito dei finanzieri detto Pd, e con la risibile mascheratura di contentini demagogici, rumorosi e dannosi come il cosiddetto reddito di cittadinanza, il salario minimo, una riforma giacobina e incompetente del processo penale. E dopo hanno votato Ursula von der Leyen, falco finanziario germano-rigorista, gettando completamente la maschera: servono interessi opposti a quelli dichiarati. Ancor prima, Movimento e Lega erano entrambi passati da posizioni critiche verso l’euro, spavaldamente contemplanti la possibilità di uscirne senza danno (Borghi, Bagnai) in caso di rifiuto di opportune e strutturali riforme dell’apparato europeo, a posizioni di definitiva accettazione dell’euro e di arrendevolezza a Bruxelles. Ma ciò non è bastato ad evitare l’isolamento e la marginalizzazione dell’Italia in sede europea, né a ottenere più margini di spesa pubblica. Insomma, come governo antisistema il governo gialloverde era fallito prima di cadere, o più precisamente prima di nascere. Non abbiamo perso molto. Anzi, abbiamo guadagnato in chiarezza.
    (Marco Della Luna, “Il soranismo della serva Italia”, dal blog di Della Luna del 22 agosto 2019).

    Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica. E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero.

  • Il peggiore dei mondi possibili, nutrito dalla nostra paura

    Scritto il 07/8/19 • nella Categoria: idee • (12)

    Sembrava il migliore dei mondi possibili, quello che l’Europa aveva di fronte a sé fino al 2001, precisamente il 20 luglio, quando al G8 di Genova esplose la follia opaca della violenza e a lasciarci la pelle fu Carlo Giuliani, immortalato mentre col suo estintore minaccia i carabinieri intrappolati in un gippone. Ma Genova era solo l’antipasto dell’inferno: due mesi dopo, crollarono di colpo le Torri Gemelle di Manhattan. Tremila vittime l’11 settembre, e altre 12.000 negli anni seguenti a causa dei tumori provocati dalla nube d’amianto. Nel 2003, in Italia, le prime ipotesi sul possibile auto-attentato vennero avanzate da Giulietto Chiesa, nel bestseller “La guerra infinita”, ignorato dai media. Nel 2005, a “Matrix”, in prima serata su Canale 5, Enrico Mentana ebbe il coraggio di trasmettere “Inganno globale”, esplosivo documentario in cui Massimo Mazzucco dimostra che la versione ufficiale (terrorismo islamico) è integralmente falsa. Era già cominciata, la grande retromarcia dell’Occidente, ma pochissimi se n’erano accorti. Tra questi Bettino Craxi, che da Hammamet spiegò che l’euro-finanza avrebbe spolpato l’Italia. E prima ancora l’economista keynesiano Federico Caffè, sparito nel nulla nel 1987. E così Olof Palme, l’inventore del welfare svedese, ucciso l’anno prima a Stoccolma. Doveva aver capito tutto anche Aldo Moro, minacciato di morte da Henry Kissinger poco prima che di lui si occupassero, teoricamente, le Brigate Rosse.

  • Ashkenaz, il super-sapiens, ci schiavizza col debito eterno

    Scritto il 28/7/19 • nella Categoria: Recensioni • (23)

    Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.
    La solita, bieca massoneria mondiale? Gli uomini invisibili del famigerato “complotto giudaico-massonico” caro ai cospirazionisti? Nemmeno, scrive Cianti, mettendo a fuoco un altro gruppo, che definisce “super-sapiens”. «Si chiamano Ashkenazi, e si sono mimetizzati tra gli ebrei, a insaputa degli ebrei stessi. Ma attenzione: gli “Ahskenazim” non sono ebrei, e nemmeno semiti. Sono i veri manipolatori dell’umanità, fin dai primordi, attraverso il denaro e il credito usuraio». Sarebbero stati loro a danneggiare in primo luogo gli ebrei, provocando la catastrofe dell’antisemitismo. Da dove spuntano? Ne parla la Bibbia, probabilmente, quando – nella Genesi – racconta la “fabbricazione” degli adamiti: strani ibridi, praticamente degli Ogm ante litteram, clonati mescolando i geni del sapiens con quelli dei Figli delle Stelle, che l’Antico Testamento chiama Elohim (come Yahvè e colleghi) mentre per i Sumeri si chiamavano Anunna o Anunnaki. Stessa schiatta di dominatori – venuti dal cielo, secondo il sumerologo Zecharia Sitchin, affascinante e controverso teorico della paleo-astronautica. La missione: trasformare la Terra, fino a quel momento popolata solo da tribù nomadi, in un immenso campo di lavoro.
    Per produrre cibo, energia e poi anche tecnologia occorrevano “servi” intelligenti e obbedienti, i sapiens, che ancora non c’erano. E per dirigere i sapiens ci voleva una super-razza, in grado di dominarli per conto terzi. Impressionante la consonanza con le rivelazioni che l’avvocato Paolo Rumor affida al saggio “L’altra europa”, edito da Panda, con prefazione dell’eminente politologo Giorgio Galli. La tesi: un’élite immutabile, sempre la stessa, reggerebbe il mondo da quasi 12.000 anni. Origine: Golfo Persico, poi Mesopotamia, Egitto, Mediterraneo fenicio e poi minoico e greco-romano. Pietra miliare: l’antico insediamento nella città caldea di Ur, alla foce del Tigri. E’ la stessa geografia che ripercorre Cianti, inseguendo il fantasma dei progenitori di quelli che (erroneamente, sostiene) verranno poi chiamati “ebrei askhenaziti”, diffusisi nell’Est europeo. La comparsa dell’Adàm biblico, «non ancora ebraico, verosimilmente sumero», risalirebbe a un’epoca collocabile tra il 15.000 e il 20.000 avanti Cristo. Seguono 9 discendenti quasi millenari, i patriarchi pre-diluviani, fino ad arrivare a Noè, cioè intorno all’anno 5.600.
    Stando alla Bibbia, Noè generò Sem, Cam e Jafet. Da Sem si arriva a Giacobbe-Israele per linea retta attraverso Ever, Terach, Abramo e Isacco: in altre parole, ecco gli ebrei (quelli veri), poi suddivisi nelle famose 12 tribù, inclusa quella israelitica di Giuda e Davide. «Quindi – conclude Cianti – solo i discendenti di Abramo possono essere considerati semiti». Gli altri, cioè la super-razza di cui si occupa “Benvenuti all’inferno”, sarebbero la discendenza di Jafet: il fratello di Sem e Cam «generò tra gli altri Gomer, capostipite dei Cimmeri», il cui figlio si chiamerà Ashkenaz, «dall’assiro Askuza»: nome col quale, secondo la Tavola nelle Nazioni, «si indicavano i popoli nomadi della regione sciita del Caucaso». Insieme ai Minniti e al Regno di Ararat, continua Cianti, i nomadi caucasici Ashkenaz si opposero ai Babilonesi, almeno secondo la Bibbia (Geremia 51-27), e in seguito diedero origine ai popoli slavi. «Gli Ashkenaziti – conclude Cianti, citando sempre l’Antico Testamento – sono dunque “jafeti”, cimmeri o sciiti – ma non semiti, quindi non ebrei».
    Per l’autore si tratta di un “cluster genetico” autonomo, «una popolazione nomade di origini turcomanne che si reinventa continuamente». Prima sciiti (da “sak”, nomade), poi Kazari (dal turco “qaz”: nomade, ancora). Per Cianti erano di religione tengrista, un mix di sciamanesio, animismo e totemismo diffuso nell’Asia Centrale. «Si convertirono all’ebraismo per convenienza», e molto tardi: solo fra il 740 e il 920 dopo Cristo. «Alla dissoluzione del Canato di Kazaria, conquistato dal russo Sviatoslav I, si dispersero in tutta Europa, attribuendosi l’appellativo di “ebrei erranti”», evidentemente abusivo. Nell’alto medioevo, continua Cianti, li ritroviamo nella valle del Reno e nel Nord della Francia: «Ed è da questo momento che iniziano a usare l’yiddish, lingua germanica con elementi di ebraico e aramaico». Poi si spostano verso Est: Lituania e Polonia, Moldavia, Russia. Il ritorno in Germania comincerà nel 1200 e terminerà solo nell’Ottocento. In tutti quei secoli, scrive l’autore, gli Askuza-Ashkenaz sciameranno di terra in terra perché «perseguitati per l’attività usuraia». Sono loro gli “inventori” del sistema creditizio?
    Il prestito a interesse, dice Cianti, compare contemporaneamente in Mesopotamia, India e Cina. «L’invenzione stessa della scrittura nasce lì, da quella nuova necessità». A Uruk (oggi Warka, Iraq) a raccontare quella storia sono 5.000 tavolette d’argilla risalenti al quarto millennio avanti Cristo: «Si iniziò allora a parlare di prestiti, tassi d’interesse, garanzie, usura, derivati e pignoramenti». La banca dell’epoca era il Tempio; non prestava solo denaro ma anche cereali, vino e birra, metalli pregiati: «Si cominciò a prestare argento a tassi fino al 60%». Attraverso il mondo mesopotamico, poi fenicio e persiano, ellenico e romano, il network nomade del denaro si trasferisce dove gli conviene, tendenzialmente da Est a Ovest, col progredire dei nuovi fiorenti imperi. Proto-scienziati della finanza? Cianti li chiama “i nostri mandriani”. Il loro metodo non cambia: usura, per conquistare il potere. Obiettivo: «Mantenere nella sottomissione non solo le masse ma anche gli stessi governanti, che in pratica diventano i loro burattini. E se qualcuno di loro si oppone, viene destituito o ucciso, come i Kennedy».
    Per Cianti, gli Ahskenaz restano un gruppo ristretto e rigorosamente chiuso al suo interno, per via matrilineare, attraverso i secoli. Sono i “ruler”, gli attuali “padroni dell’universo”. Veri fenomeni: si tratta di «individui di eccezionale intelligenza». Oltre a mercanti e banchieri, nei millenni, «hanno espresso anche filosofi, scienziati, pensatori che hanno determinato le sorti dell’umanità». L’élite dell’élite: «Nomadi e apolidi, seguono lo sviluppo dei più importanti centri di potere, in una traiettoria sempre diretta verso ovest che oggi, dalla West Coast degli Stati Uniti, ha spiccato il balzo verso la Cina». Sono loro i teorici e i registi del globalismo finanziario, secondo Cianti: religioni e massonerie, Ur-Lodges e centri di potere paramassonici sarebbero solo cinghie di trasmissione del super-sapiens Ashkenaz, protagonista del club più inaccessibile del vero potere.
    Lungo le sue 400 pagine, “Benvenuti all’inferno” esamina con estrema cura le più recenti asserzioni scientifiche, dall’astrofisica alla paleontologia fino alla climatologia, demolendo Darwin: «La Terra è passata attraverso eventi catastrofici che hanno provocato ripetute estinzioni di massa. E ogni volta il pianeta è stato ripopolato con specie nuove, che non avevano niente a che fare con le precedenti». Fino al sapiens, ultimissimo prodotto di queste “introduzioni”: «Una specie bio-ingegnerizzata, nel cui corredo è stato introdotto Stamina, il gene della paura che ci rende così docili di fronte al potere». Nel saggio “Resi umani” scritto con Mauro Biglino, il prestigioso biologo molecolare Pietro Buffa (già attivo al King’s College di Londra) spiega che il “missing link” tra uomo e scimmia non è mai esistito: a quanto pare siamo stati “fabbricati” diversi, dalla nascita, ben distinti dai primati e dagli stessi ominidi – persino dal Neandearthal, a noi vicinissimo nel tempo, probabilmente sterminato dai nostri antenati.
    A lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino sostiene che l’Antico Testamento – alla lettera – racconti l’avvento sulla Terra dei Figli delle Stelle. Proprio loro avrebbero “costruito” il sapiens, riservandosi poi la “fabbricazione”, sempre per via genetica, di una super-specie di lavoratori particolarmente intelligenti: gli adamiti, collocati nel Gan-Eden (da cui poi furono cacciati, dopo che ebbero scoperto la possibilità di riprodursi in modo autonomo, sessualmente). Tuttora, nessun sumerologo sa spiegare esattamente l’origine della civiltà sumera, sorta improvvisamente appena a Sud del Gan-Eden (situato nel Caucaso) e immediatamente dotata di favolose competenze tecniche: scrittura e architettura, matematica, astronomia. E soprattutto: agricoltura. «Proprio la rivoluzione agricola – sostiene Cianti – ha cambiato in modo irrimediabile il pianeta, devastando i suoli e sottraendo acqua, impoverendo la nostra dieta e determinando una vera e propria mutazione antropologica: i primi sapiens erano liberi di muoversi e cacciare, noi invece siamo schiavi inurbati, costretti a lavorare e a nutrirci di cibo ormai avvelenato».
    La stanzialità come sciagura è il tema del saggio “Dominio”, nel quale Francesco Saba Sardi collega all’introduzione dell’agricoltura la nascita del nuovo potere, prima sconosciuto, che “inventa” la religione per trasformare gli esseri umani in servi, lavoratori della terra e soldati. Figure sociali che non esistevano, prima del neolitico: nacquero con l’agricoltura insieme alla religione e alla sua sorella gemella, la guerra, grazie alla comparsa di quell’inedito potere, configurato in forma di dominio. A questo, Giovanni Cianti aggiunge un’altra disgrazia: l’alimentazione. Giornalista e già pubblicitario, appassionato studioso di biologia, Cianti è anche e soprattutto un nutrizionista, disciplina attraverso cui ha rivoluzionato la pratica del body-building partendo proprio dalla dieta. La minaccia più grande? L’abuso di cereali. Il pane – che ha nutrito milioni di individui – viene dal grano, che è comparso sulla Terra di colpo. Discende dal farro selvatico, che però non è commestibile. Chi l’ha trasformato geneticamente in cereale dolce, da farina? I medesimi, misteriosi individui – si suppone – che allo stesso modo, all’epoca di Adamo ed Eva, “fabbricarono” la patata, insieme con la pecora.
    Cibo pronto uso e a basso costo, per schiere di futuri lavoratori? L’ipotesi è ora vagliata da scienziati di tutto il mondo, ormai convinti che convenga rivalutare e rileggere con occhi nuovi i testi antichi, poi trasformati arbitrariamente in “libri sacri” dalle religioni che, più tardi, se ne impossessarono, travisandoli: e se in quelle pagine ci fossero gli indizi di una storia attendibile? Se cioè il racconto – incluso quello biblico, con la comparsa degli Elohim (Figli delle Stelle) – spiegasse davvero la nostra origine genetica, altrimenti non ricostruibile solo per via evolutiva? Nel qual caso, dice Cianti, sarà meglio aggiungere una riflessione piuttosto decisiva: se qualcuno – venuto dal cielo? – impiantò sulla Terra la sua “mandria” da mungere, di sicuro non scordò di assicurarla alla custodia di servitori speciali e fidatissimi, a loro volta “bio-ingegnerizzati” alla bisogna: i nostri “mandriani”.
    Non manca nessuno, nella “hall of fame” dei dominatori che Cianti esibisce, dai secoli passati fino ai giorni nostri: spicca il visionario oligarca Jacques Attali, lo sconcertante mentore di Emmanuel Macron, oscuro profeta del transumanesimo post-democratico. C’è l’eterno Zbigniew Brzezinski, lo storico stratega della Casa Bianca (sodale di Kissinger) che reclutò in Afghanistan un certo Osama Bin Laden, poi protagonista della strategia della tensione globale sotto l’egida dei Bush. Riflettori su Al Gore, l’ex vice di Clinton, ormai «frontman mondiale della bufala del global warming di origine antropica», il nuovo catechismo recitato dalla piccola Greta, la ragazzina svedese spuntata (in apparenza) dal nulla. Gore ha appena vinto due Oscar con il documentario “Una scomoda verità”, «diretto dal regista “ashkenazi” Davis Guggenheim». Manipolazione? «Se è per questo, erano “ashkenazi” anche Walt Disney e Edward Bernays, l’inventore della propaganda pubblicitaria», dice Cianti, «come pure i fratelli Andy e Larry Whachowski», gli sceneggiatori di “Matrix”, film nato per metterci in guardia «sul destino della “mandria umana”, costretta a vivere come nella caverna di Platone, cioè in un mondo virtuale completamente avulso dalla realtà».
    Tra i protagonisti negativi, invece, dominano politici e finanzieri: si va da Madeleine Albright, che difese la necessità inevitabile del bagno di sangue nei Balcani negli anni ‘90, alla quasi-popstar George Soros, «ashkenazi di elevata esposizione mediatica, quindi verosimilmente di rango inferiore». Nulla, in confronto ai veri “dominus”, più appartati, come ad esempio i campioni delle celeberrime dinastie Rothschild, Warburg e Rockefeller, sinistramente implicati nell’ascesa di Hitler (e nel nascente sionismo), ben sapendo che il dittatore nazista avrebbe sterminato milioni di ebrei: era il mostruoso prezzo necessario per ottenere poi lo Stato di Israele? Incubi e interrogativi storici a parte, dell’immenso potere di quelle famiglie parla anche il professor Pietro Ratto nei suoi recenti saggi, che rivelano l’incredibile pervasività (purtroppo attualissima) della loro influenza, persino nell’odierna editoria scolatica validata dai ministeri attraverso commissioni, strutture e aziende di cui non parla mai nessuno. Ma quei nomi così famosi – i vituperati Rothschild, tanto per cambiare – potrebbero essere solo la vetta dell’iceberg, la parte visibile.
    Chi sono e cosa vogliono, quelli che Cianti chiama “i nostri mandriani”? Lo spiega lo stesso Attali, nella sua “Breve storia del futuro”, «libro che anticipa le mosse dei “mandriani” fino al 2100», fornendo «una descrizione terrificante delle loro intenzioni nonché l’evidenza di una straordinaria assenza di empatia, mista a follia e delirio di onnipotenza». L’umanità ridotta a formicaio pilotabile, prevedibile? Il genere umano eventualmente anche sterminabile, all’occorrenza, con le pratiche più insospettabili? Cianti menziona il cibo cancerogeno, i medicinali-killer e l’imposizione di vaccini pieni di alluminio e altri metalli pesanti, come quelli che scendono dal cielo, da una ventina d’anni, diffusi nella bassa atmosfera dalle strane scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Di fronte a questo, il mainstream grida immancabilmente al complottismo, fingendo di non sapere che le teorie più eretiche (incluse quelle bislacche e ridicole) nascono proprio dal silenzio ufficiale, dalla ostinata reticenza di chi dovrebbe fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni che allarmano la popolazione. Peccato che sia lo stesso sistema dei media a essere strettamente detenuto da pochissime mani.
    Oltre a controllare Intesa SanPaolo e Unicredit, scrive Cianti, la filiera Rothschild («connessa agli Agnelli-Elkann e ai Caracciolo») è presente in Facebook, in Telecom Italia, nell’agenzia “Reuters”, nel francese “Libération”, nei britannici “Daily Telegraph” e “The Economist”. Sempre secondo Cianti, il gruppo Rcs (Rizzoli e “Corriere della Sera”) è invece appannaggio della scuderia Rockefeller, mentre il gruppo Sassoon controllerebbe “Sunday Times” e “The Observer”. Stessa musica per i grandi network televisivi internazionali. In Italia, aggiunge Cianti, «appartiene al “cluster” anche Carlo De Benedetti», fondatore del gruppo “Espresso-Repubblica”, che «ha alle spalle Lazard e Lehman Brothers». Un’unica discendenza, addirittura, collegherebbe gli attuali Master of the Universe? «La risposta definitiva – ipotizza Cianti – potrebbe venire dall’Us Trust Corporation, istituita a suo tempo da Walter Rothschild», che però è inaccessibile alla consultazione pubblica. «Secondo alcuni “insider” – aggiunge l’autore del saggio – si tratterebbe di otto-dieci linee di sangue millenarie». I nomi? Goldman Sachs, Rockefeller, Lehman e Kuhn-Loeb di New York. Poi i Rothschild di Parigi e Londra. Poi gli inglesi Windsor, già Sassonia-Coburgo-Gotha, insieme ai Warburg di Amburgo, ai Lazard di Parigi, alla dinastia Israel Moes Seif di Roma.
    Si tratta di «famiglie che da sole posseggono tutte le banche e le corporation del mondo, attraverso un sistema di scatole cinesi: il vertice della piramide, totalmente “ashkenazi”, resta estremamente ristretto e al di fuori di ogni forma di controllo». Gioielli della collezione, dagli Usa all’Europa fino alla Cina, le superpotenze bancarie: Hsbc Holding, Bnp Paribas, Jp Morgan, Icbc Bank of China e Agricoltural Bank of China, Wells Fargo, Bank od America, China Construction Bank. In generale, scrive Cianti, il meccanismo del big business «riguarda tutti i settori industriali strategici: cibo ed energia, farmaci, armi, informazione e intrattenimento, ma anche droga e traffico di esseri umani e di organi». Il volume mastodontico dell’attuale sistema iper-capitalista e neoliberale, interconnesso dalla globalizzazione, lo fornisce ad esempio il database Orbis 2007, che (come documenta uno studio svizzero pubblicato nel 2011 da “Plos One”) ha passato al setaccio qualcosa come 37 milioni di aziende e investitori globali. Le strutture che detengono il 97% della ricchezza del pianeta, riassume Cianti, sono soltanto 147: in cima alla classifica Barclays, Capital Group Companies, Frm Corporation, Axa Assicurazioni, State Street Corporation, Jp Morgan, Legal General Group, Vanguard Group, Ubs e Merrill Lynch.
    «Una rete capillare ed estesa, di soggetti che si posseggono a vicenda». Blackrock, «il più grande fondo d’investimento del pianeta, fondato da Lawrence Fink (ashkenazi) ha tra i maggiori azionisti Pnc Financial Service, Norges Bank, Vanguard, Bank of America, Wellington Management Group». A sua volta, Jp Morgan è gestita da Vanguard e Blackrock, insieme a State Street, Bank of New York e altri soci. Sempre le stesse aziende possiedono anche il colosso farmaceutico Merk. La notizia? Secondo Cianti, il vertice è costituito da consanguinei, tutti discendenti dell’ipotetica, originaria super-razza, quella che già agli albori della civiltà inventò il “debito inestinguibile”. Dalla Mesopotamia si arriverebbe tranquillamente fino ai veri campionissimi del terzo millennio, come il sudafricano Elon Musk, fondatore della Tesla, e il fenomenale Mark Zuckerberg, l’enfant prodige di Facebook. A proposito, chi c’è nell’azionariato del social network che “scheda” oltre due miliardi di esseri umani? «Sempre gli stessi: Vanguard e Blackrock, Frm-Lcc, State Street Corporation, Prince T Rowe, Capital World Investors».
    Globalizzazione? Termine in uso dagli anni ‘80, quando si pianificò l’abolizione dei dazi per merci e capitali. Ma, stando a Cianti, non sarebbe che l’ultimo passaggio tecnico del mondialismo ante litteram perseguito dal misterioso “cluster” del super-sapiens, fin dagli albori della nostra storia. Possibile? L’autore invita a riflettere sul vero significato dell’agenda dell’Onu, organismo – pochi lo sanno – poderosamente finanziato da donatori privati (sempre loro, i mattatori del superclan). Mondialismo mercantilista, che dichiara guerra alle identità – di genere, nazione, religione – per omologare la “mandria” che popolerà l’Iper-Impero dopo l’imminente declino della potenza Usa. Un “impero totale” esteso in ogni continente «con la sola eccezione della Russia, che per ora resiste ma finirà accerchiata da America, Europa, Cina e India». Viaggia sempre verso ovest, dunque, il super-sapiens di cui parla Cianti? Lo conferma, secondo l’autore, il matrimonio di Zuckerberg: «Sua moglie, Priscilla Chan, è nata negli Usa da genitori rifugiati Hou, un gruppo minoritario di usurai cinesi del Vietnam». Gli Hou, scrive Cianti, discendono dagli “ashkenazi d’Oriente” come la famiglia Li (o Lee), che duemila anni fa, al tempo della dinastia Zhou – introdussero la moneta cartacea.
    Oggi, come dire, si sono portati avanti col lavoro: «Già legati a Mao Tse-Tung, hanno espresso presidenti cinesi come Li-Peng e Li-Xinnian. Oggi, Lee Kwan Yew è il presidente di Singapore». Un altro esponente della dinastia, Li Ka-Shing, secondo “Forbes” ha un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre Li Kwok-Po gestisce la Bea (Banca dell’Est Asiatico) agendo «in collegamento coi Warburg e restando in ottimi rapporti coi Rothschild, i Rockefeller e i Bush». La nuova corsa all’Ovest, assicura Cianti, vede una strana migrazione: i boss dell’impero digitale della Silicon Valley ormai puntano verso la Nuova Zelanda, che sta diventando «il santuario dei super-sapiens ashkenazi». Il passaggio dalla California all’Oceania «sarà seguito dallo spostamento degli iper-nomadi dell’Ordine Mercantile Usuraio in una sede geograficamente più vicina ai loro nuovi affari, cioè il subcontinente indocinese».
    La Nuova Zelanda? Un’area scarsamente abitata e pressoché intatta, dal punto di vista naturalistico. Il resto del mondo, invece – prevede Cianti, in modo apocalittico – sarà «costretto a condizioni invivibili, catastrofi climatiche, epidemie indotte, crollo dell’ordine pubblico, terrore nucleare e collasso della civiltà». Le isole dell’Oceania «saranno l’ultimo rifugio: il nuovo santuario dell’élite, sicuro e  intoccabile». Scrive Cianti: «Centinaia di tecno-plutocrati e finanzieri stanno acquistando terreni in queste isole per costruire lussuose ville-bunker. Il Deep State, cioè il vero potere dell’impero americano, ha già creato il governo del “santuario”: si tratta di una oligarchia socialista, che li accoglierà garantendo loro sicurezza, anonimato e impunità». L’attuale primo ministro neozelandese, la trentanovenne Jacinda Ardern, già leader dell’Unione internazionale della gioventù socialista, «è una creatura di Hillary Clinton, che le ha fatto da mentore nella carriera politica», guidandone l’ascesa.
    Il recente attentato di Christchurch contro le moschee musulmane, lo scorso marzo – aggiunge Cianti – era una classica “false flag” (con morti reali) escogitata «per testare la rapidità con la quale si riesce a far sparire da Internet ogni testimonianza diretta di una strage», e ha fornito «il pretesto per disarmare immediatamente tutti i civili del paese». E’ già una specie di bunker, la Nuova Zelanda: «Per risiedervi sono necessari beni per milioni di dollari, oppure bisogna essere cooptati in quelle ristrettissime liste di personale di servizio necessario al sistema. Ogni altra forma di immigrazione è proibita e immediatamente repressa», alla faccia della politica di accoglienza (quella che oggi, per dire, viene imposta all’Italia). Allucinazioni fantapolitiche? Non proprio: nel suo ponderoso volume, ad ogni pagina, l’autore acclude note, link, riferimenti, citazioni. “Benvenuti all’inferno” si inserisce nella recente letteratura divulgativa che tenta di dare risposte ai pesanti interrogativi del presente, rileggendo la storia antica e provando a sincronizzarla con l’attualità.
    E’ l’ennesimo catastrofista, Angelo Cianti? In realtà si mostra ottimista rispetto alle possibilità del libero arbitrio. Non smette di credere nel sapiens, in fondo. E infatti sogna di rinaturalizzare l’Appennino con il suo Evo Village Project, presentato nel 2018 al ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Obiettivo: ricolonizzare i versanti con una rete di ecovillaggi, verso un’economia sostenibile e slegata dalle catene del sistema-debito. La sua tesi sul ruolo dell’ipotetico super-sapiens rischia di apparire fin troppo facilmente demonizzante, col risultato di introdurre discriminazioni “etniche” e scoraggiare i lettori, posti di fronte a un avversario super-umano e quindi invincibile? Intanto, è notevolissimo lo sforzo compiuto dall’autore nel collegare realtà in apparenza lontane fra loro, nel tempo e nella geografia planetaria. Uno stimolo per farsi domande, allargare la mente e verificare connessioni, scovando strane coincidenze nel ricorrere, invariabile, delle medesime “famiglie” che – come si può vedere – in molti casi detengono da secoli (da millenni, secondo Cianti) le redini del globo. Dinastie che mostrano la straordinaria capacità di rendersi invisibili, mimetizzandosi nella società – magari anche a spese dei veri israeliti, di cui si parla spessissimo a sproposito.
    (Il libro: Giovanni Angelo Cianti, “Pianeta Terra, benveuti all’inferno! Passato, presente e probabile futuro della mandria umana”, Evo Editorial, 401 pagine, euro 27,78 su Amazon).

    Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.

  • Carpeoro: la nostra vera religione è il potere, una prigione

    Scritto il 20/7/19 • nella Categoria: idee • (10)

    La religione vera dell’uomo è il potere. Tutte le altre religioni discendono dal potere. L’errore che fanno tutti è di pensare che la religione sia potere. Invece la struttura religiosa di quel tipo è una conseguenza del potere. Non bisogna confondere tra la religione e la religiosità. La religiosità in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue commisurazioni è come la descrive Paolo Franceschetti; poi ci sono le strutture che noi chiamiamo religioni ma in realtà sono strutture: anzi, direi – alla marxista – sono sovrastrutture, e queste sono una conseguenza del potere. Le strutture prescindono dalle dottrine di origine, si muovono autonomamente da ciò a cui si richiamano. La massoneria attuale non è che si muova in base alla dottrina massonica, si muove in base alle esigenze politiche che si ripercuotono in termini di servaggio sulla struttura. La struttura è serva del potere, non è titolare del potere. Io mal sopporto che la religiosità possa essere contenuta in una struttura, lo escludo. La religiosità è qualcosa di troppo grande per essere contenuta in una struttura. Le figure profetiche come Gesù e Maometto avevano un senso all’interno dell’uomo, e fuori dell’uomo sono diventate simulacri, totem.
    Il mondo della religiosità deve essere un mondo di libertà totale, non può essere un mondo racchiuso, cingolato. Credere è un’esigenza che fa parte, per certi aspetti, di questa dimensione; io credo che chi trova, segue ed è consapevole dell’Essere, la necessità di credere la perde, perché l’Essere è qualcosa di talmente grande che il credere ne è uno spicchio veramente piccolissimo. Il problema è porsi il problema dell’Essere. Dobbiamo chiederci cosa siamo. Ho pubblicato una bellissima poesia di Saba Sardi che all’inizio hanno seguito in pochi. Saba Sardi, che è un grande maestro, in quella poesia ha descritto tutto. A lui hanno dato dell’ateo, ma non era ateo; aveva trovato la ragione dell’Essere, non si poneva più il problema del credere (che è un gradino sotto, nella strada della consapevolezza). Ma se uno si studia seriamente le religioni e cerca di capire tra le righe, questa cosa la trova, nei grandi profeti delle religioni. Nel Buddismo, nel Cristianesimo delle origini, nell’Islamismo, la trova questa cosa, perché questi soggetti hanno indicato la strada dell’Essere, non la strada del credere – e non sono la stessa cosa.
    Noi ci rifugiamo nel credere, e il credere diventa un rifugio che poi diventa prigione; è predestinato a diventare prigione, se lo poni nei termini del credere. Se invece lo poni nei termini dell’Essere è tutt’altra cosa. I profeti citati sopra hanno indicato la strada dell’Essere, non quella del credere. Quando Matteo nel discorso della montagna chiede a Gesù come pregare, lui non gli suggerisce una preghiera di fede, ma una preghiera di essenza, di provenienza, di origine. Queste sono domande che non ci poniamo più: siamo così coinvolti, così prigionieri della nostra dimensione… E non si può confondere il credere con l’Essere. E il giorno che torneremo a cercare la nostra dimensione e il senso della nostra vita, e il senso dell’oltre la vita… Quando ho pubblicato quella poesia di Saba Sardi c’erano 4 commenti dopo 4 giorni… Le persone non hanno detto nulla su una poesia così grande. Quella poesia è un libro, ma quest’epoca è così – o forse tutte le epoche sono state così. Noi siamo ancora prigionieri, e non so se e quando ci libereremo di questa prigione.
    (Gianfranco Carproro, dichiarazioni rilasciate nel corso della trasmissione web-radio “Border Nights” del 18 aprile 2017, riprese dal blog di Carpeoro. La poesia di Saba Sardi, citata, si intitola “Absit”. Eccone i versi: “E quando sarò morto / rimettetemi gli occhiali / lasciate che la mosca / ronzi nella mia grotta / aperta a venti e vermi / dietro la rosta del baffo ancora vivo. / Le lenti nel riflesso / il mondo coglieranno / il nome vi diranno / di pieni vuoti ombre. / Ricordate che vissi / tanto che ne morii”).

    La religione vera dell’uomo è il potere. Tutte le altre religioni discendono dal potere. L’errore che fanno tutti è di pensare che la religione sia potere. Invece la struttura religiosa di quel tipo è una conseguenza del potere. Non bisogna confondere tra la religione e la religiosità. La religiosità in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue commisurazioni è come la descrive Paolo Franceschetti; poi ci sono le strutture che noi chiamiamo religioni ma in realtà sono strutture: anzi, direi – alla marxista – sono sovrastrutture, e queste sono una conseguenza del potere. Le strutture prescindono dalle dottrine di origine, si muovono autonomamente da ciò a cui si richiamano. La massoneria attuale non è che si muova in base alla dottrina massonica, si muove in base alle esigenze politiche che si ripercuotono in termini di servaggio sulla struttura. La struttura è serva del potere, non è titolare del potere. Io mal sopporto che la religiosità possa essere contenuta in una struttura, lo escludo. La religiosità è qualcosa di troppo grande per essere contenuta in una struttura. Le figure profetiche come Gesù e Maometto avevano un senso all’interno dell’uomo, e fuori dell’uomo sono diventate simulacri, totem.

  • Yahvè SpA: chi domina il mondo, oltre la geopolitica visibile

    Scritto il 14/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Data fatidica, il 14 luglio: nel 1789 a Parigi veniva assaltata la Bastiglia, evento culminante della Rivoluzione Francese che segnò la fine dell’Ancien Régime, il sistema plurisecolare dell’assolutismo monarchico. Solo tre anni fa, invece – ma sempre in Francia, e sempre il 14 luglio – il killer franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhle faceva strage a Nizza col suo camion, travolgendo i passanti sulla Promenade des Anglais: 86 morti e 302 feriti. Ovviamente l’attenatatore era già stato segnalato alla polizia, come poco di buono. E ovviamente nessuno aveva pensato di controllare e sgomberare quel camion bianco, fermo da giorni sul lungomare divenuto “off limits” in vista della festa nazionale francese. E ancora: l’assassino – prima di essere freddato dalle forze dell’ordine, come d’abitudine, prima che potesse parlare – aveva anche avuto cura di lasciare a disposizione dei poliziotti i suoi documenti, ben in vista nell’abitacolo del veicolo. Un caso da manuale, secondo Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”: un messaggio intimidatorio rivolto alla massoneria progressista, che considera proprio il 14 luglio la prima pietra miliare verso la conquista della democrazia, almeno in Occidente.
    Fu l’Isis a rivendicare la strage di Nizza, ma le menti dello Stato Islamico sono altrove: Abu Bakr Al-Bahdadi, il sedicente Califfo, secondo Magaldi è affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha”, dominata dai Bush e responsabile del super-attentato del terzo millennio, quello dell’11 Settembre, comodamente attribuito al “barbaro jihadista” Bin Laden, in realtà massone, affiliato anch’esso alla medesima Ur-Lodge. La “Hathor Pentalpha”, sorta all’inizio degli anni ‘80 per volere di Bush padre, appena battuto da Reagan alle primarie repubblicane, raccolse il gotha dei golpisti del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano: George W. Bush e suo fratello Jeb Bush, Dick Cheney e Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e la stessa Condoleezza Rice. Oltre a Bin Laden (Al-Qaeda) e Al-Baghdadi (Isis), la “Hathor” avrebbe reclutato un ideologo come Samuel Huntington (“La crisi della democrazia”), insieme a Donald e Robert Kagan, Douglas Freith, Irving e William Kristol, Dan Quayle. Con loro Richard Perle, Karl Rove, Bill Bennett e il politologo Michael Leeden. Una rete trasversale, con affiliati in Medio Oriente: Oman, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita e persino Iran (tra gli iraniani coinvolti, l’ex presidente Hashemi Rafsanjani).
    Obiettivo: destabilizzare ferocemente il pianeta, creando a tavolino il presunto “scontro di civiltà” tra Occidente e mondo arabo. Punta di lancia dell’operazione: Israele (era il premier Ariel Sharon l’uomo della “Hathor” a Tel Aviv). Ma arabi e israeliani non dovevano essere acerrimi nemici, anziché compagni di merende e di avventure anche terroristiche? Certo, ma solo in teoria, spiega Magaldi: in realtà sono tutti massoni, nella cabina di regia. E la vera geopolitica – al di là della narrazione dei media – passa per i circoli come la “Hathor”, incarnazione infernale dell’ala più reazionaria della supermassoneria occulta, apolide e sovranazionale. Convergenze insospettabili: dirigenti sauditi in riunione con Sharon e col presidente turco, il “fratello” Recep Tayyip Erdogan, insieme a un bel po’ di potenti europei: l’ex cancelliere tedesco Gehard Schröder, l’allora primo ministro spagnolo José Maria Aznar, l’intramontabile Tony Blair, il polacco Aleksander Kwasniewski e il francese Nicolas Sarkozy – più un paio di italiani: l’allora presidente del Senato, Marcello Pera, nonché Antonio Martino, all’epoca ministro berlusconiano e già segretario della Mont Pelerin Society, vero e proprio tempio ideologico dell’ultra-destra economica europea, culla dell’oligarchia neoaristocratica che ha incubato, progettatto e imposto l’austerity per infliggere la camicia di forza a paesi come l’Italia, alle prese con la nascente globalizzazione.
    Il primo a parlarne in termini espliciti è stato Paolo Barnard, nel saggio “Il più grande crimine”, uscito prima ancora della crisi italiana del 2011. La tesi: si trattava, semplicemente, di cancellare la memoria della Presa del Bastiglia. Il mitico 14 luglio? Un incidente della storia: aprì l’Europa a qualcosa di mai prima sperimentato – la democrazia – spalancando le porte alla modernità del futuro: Stato di diritto, suffragio universale. Traduzione euro-atlantica successiva: economia sociale, conquiste civili e diritti del lavoro. Bene, tutto questo doveva finire. E in modo drammatico: col terrorismo stragista della strategia della tensione (Al-Qaeda, Isis) o col terrorismo finanziario (rigore europeo). Per volere di chi? Dei soliti noti, gli antichi baroni. O meglio: di quella che un tempo costuitiva il nerbo dell’Ancient Régime, cioè l’aristocrazia feudale più parassitaria. Le era toccato finire sfrattata dal potere (politico) dal 14 luglio in poi? Niente paura: si è ripresa tutto, e con gli interessi, mantenendo le grandi leve della finanza. Ha finanziarizzato l’economia e ridotto gli Stati in bolletta, senza più sovranità monetaria. Il gioco perfetto dei leggendari Rothschild, padroni d’Europa (e di un pezzo d’America) da tre secoli questa parte.
    Nei suoi libri, un ricercatore come Pietro Ratto ricostruisce il ruolo di casati ebraici come quello dei Warburg, in realtà di origine veneta, poi soci in affari con i Rothschild – di cui sempre Ratto prova anche l’apparentamento coi Rockefeller, mediante matrimoni strategici. Dettaglio inquietante: furono i grandi finanzieri ebrei a sovvenzionare Hitler all’alba della sua tragica epopea. Non solo: è stato accertato che proprio il Terzo Reich – al suo esordio – fu un poderoso sponsor occulto del sionismo, favorendo l’espatrio degli ebrei tedeschi verso la Palestina e finanziando il primo colonialismo ebraico in Terrasanta. Scioccante? Quasi quanto il libro “L’altra Europa”, pubblicato dal vicentino Paolo Rumor, nipote del più volte primo ministro democristiano Mariano Rumor. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il padre dell’autore – Giacomo Rumor – agiva come 007 per conto di monsignor Montini, futuro Paolo VI, allora responsabile dell’intelligence vaticana. Gli Alleati già sapevano che avrebbero vinto, e volevano progettare in anticipo l’Europa del dopoguerra. Fin qui, tutto bene: logico che gli Usa si rivolgessero al Papa, visto che l’Italia era ancora in mano a Mussolini, e che l’antifascismo era largamente comunista. Ma un giorno l’esoterista francese Maurice Schumann, gollista e interlocutore di Rumor, svelò al cattolico italiano chi c’era veramente, dietro al piano: la Struttura. Una cupola esclusiva, ininterrottamente al potere, nel mondo, da quasi 12.000 anni.
    Follia? Non secondo l’archeologo Loris Bagnara, che ha verificato sul campo: le indicazioni di Rumor (cioè di Schumann) corrispondono in modo impressionante con la geografia e la toponomastica dei luoghi dove si sarebbe costituito quell’antico potere, nato in Mesopotamia e poi trasferitosi nell’Egitto dei faraoni prima di approdare in Palestina e quindi nel Mediterraneo fenicio e poi greco-romano. L’eminente politoligo Giorgio Galli, autore della prefazione del libro di Rumor, conferma: i nomi citati dal dossier-Schumann sono perfettamente coerenti con la mappa del vero potere, anche di quello euro-atlantico del Novecento. Politici, industriali e finanzieri: tutti esoteristi, vincolati al reciproco segreto sull’origine della Struttura, sostanzialmente iniziatica, risalente – a loro dire – attorno al 9.500 avanti Cristo, tra le rive del Tigri e quelle dell’Eufrate, cioè dove Zecharia Sitchin attribuisce agli Anunnaki, i misteriosi Figli delle Stelle, la “fabbricazione” dell’homo sapiens nella versione poi narrata dai Sumeri. Di quella storia – avverte Mauro Biglino, già traduttore ufficiale delle Edizioni San Paolo – la Bibbia non è che la fotocopia: la Genesi descrive la nascita di Eva mediante clonazione genetica, proprio come la pecora Dolly, ad opera degli Elohim come Yahvè, cioè i Figli delle Stelle palestinesi.
    Autore di culto in Italia, pubblicato anche da Mondadori (trecentomila copie vendute), a Biglino nessuno contesta la riscoperta letterale della Bibbia: l’interpretazione teologico-spiritualista del testo si rivela completamente infondata (Yahvè non era “Dio”, ma solo uno dei tanti Elohim citati). Semmai, la Bibbia – ammesso sia attendibile, visto che è stata riscritta ininterrottamente fino al medioevo – propone un’altra storia: la nascita dell’umanità attuale, così improvvisamente evoluta, sarebbe opera dell’ibridazione genetica dei Figli delle Stelle, che avrebbero immesso il loro Dna in quello dei primitivi ominidi. Biglino è rispettato anche ad Harvard, dove alla facoltà di medicina si raccomandano i suoi libri. E sulla sua ipotesi stanno convergendo decine di scienziati, che lo hanno messo a capo di un progetto di ricerca senza precedenti: studi interdisciplinari, anche archeologici, per verificare quel che la Bibbia racconta, alla lettera. E le religioni monoteiste? La prima, l’ebraismo, secondo Biglino sarebbe nata attorno al VI secolo avanti Cristo, quando Yahvè sparì di colpo, in seguito all’avvento dei babilonesi che sottomisero gli ebrei. Da allora, dice lo studioso, ad assumere la leadership del popolo ebraico furono i sacerdoti, cioè la casta degli ex “maggiordomi” di Yahvè: furono loro, manipolandola, a trasformare la Bibbia nel “libro sacro” che non era mai stato.
    Quando poi l’Impero Romano – oltre mezzo millennio dopo, nel 70 dopo Cristo – represse duramente gli ebrei distruggendo il Tempio di Salomone a Gerusalemme, gli stessi sacerdoti contrattarono il loro futuro con i nuovi padroni: cedettero ai romani il Tesoro del Tempio, in cambio di una vita agiatissima nella capitale imperiale, da cui poi – attraverso svariati passaggi – diedero vita alla nuova religione, il Cristianesimo cattolico, ufficialmente coniato da Costantino nel 325 al Concilio di Nicea. Lo stesso Paolo Rumor, attingendo al memoriale Schumann, sostiene che la mitica Struttura si sarebbe spezzata in due tronconi, a Gerusalemme, proprio attorno all’Anno Zero. Di recente, Biglino ha accennato a libri di prossima uscita, dal contenuto sconcertante: attraverso accurate analisi di fonti d’archivio, emerge una sbalorditiva continuità nel potere europeo attraverso i secoli, con in primo piano – da Gerusalemme a Roma, fino al Nord Europa – sempre le stesse famiglie. La sua tesi è nota: attraverso la Bibbia, siamo stati finora governati da un unico schema di potere, concepito sotto forma di dominio. Lo stesso sistema finanziario attuale, che regge il pianeta, è quello enunciato da Yahvè: potrai prestare denaro ma non richiederlo, perché chi riceve denaro in prestito ne diventa schiavo. E a proposito: dov’è finito, Yahvè? Sicuri che sia sparito per sempre dalla circolazione?
    Se un giorno si scoprisse che gli Elohim come quello che gestiva la famiglia di Giacobbe sono qui tra noi e controllano tutto – dice Biglino – certo non me ne stupirei: secondo la Bibbia potevano vivere anche 30.000 anni. Assurdo? Mica tanto: la distanza fra i loro 30 millenni e i nostri 90 anni è infinitamente più piccola di quella che separa una tartaruga gigante (200 anni) da una farfalla che viva solo 24 ore. Di giorno in giorno, si moltiplicano scoperte che sconquassano le vecchie certezze archeologiche: la Piramide di Cheope (vera datazione, 20.000 anni) è una potente “fabbrica di energia”: è presidiata dai fisici che vi osservano gli stranissimi fenomeni che ospita, come l’abbattimento di particelle subatomiche. A Visoko, in Bosnia, sono state scoperte le più grandi piramidi della Terra, risalenti a 30.000 anni fa. E al largo dell’India spuntano città sommerse – probabilmente dal maremoto di 11.500 anni fa (il Diluvo Universale?), scatenatosi proprio nel periodo in cui a Göbekli Tepe, in Turchia, fu costruito il tempio più antico della Terra, in un’area in cui gli scavi rivelano che la nascita dell’agricoltura risale addirittura al Mesolitico. Scoperte che costringono a retrodatare la nostra storia, cancellando quello che fino a ieri credevamo di sapere.
    Sotto certi aspetti, è come se le incredibili scoperte dell’archeologia odierna costringessero a ripensare la stessa geopolitica attuale. Si perde tempo, ripete Magaldi, se ci si ferma ancora a valutarla come scontro tra nazioni: c’è ben altro, dietro le quinte. Se lo domandava anche Barnard: vi siete mai chiesti come mai la politica non riesce mai a mantenere le sue promesse? E perché le cose vanno di male in peggio, nonostante il pianeta non sia mai stato così ricco, vista la nostra capacità esponenziale di produrre beni, grazie alla vertiginosa rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni? Colpa dell’élite neo-feudale, si risponde Barnard. Ed è un’élite non certo illuminata, aggiunge Magaldi: si tratta di un’oligarchia del denaro, reazionaria, neo-conservatrice, il cui massimo livello di potere – al di sopra delle entità paramassoniche come il Bilderberg – è rappresentato dalle 36 Ur-Lodges che dominano il globo. E se ci fosse dell’altro ancora, sopra le midiciali superlogge? Magari la “Yahvè SpA”, affidata a emissari collaudatissimi? E’ l’interrogativo che rilancia Biglino, convinto che gli Elohim (come gli Anunna sumeri, i Theoi greci, i Deva indiani) non siano affatto scomparsi, dimenticandosi delle loro “creature”. Anzi, aggiunge lo studioso: sarebbe perfettamente plausibile scoprire, un giorno, che dietro ai maggiori potentati terrestri vi siano proprio “quelli là”, i Figli delle Stelle, l’un contro l’altro armati: è uno schema ripetuto in tutti i libri antichi, compresa la Bibbia.

    Data fatidica, il 14 luglio: nel 1789 a Parigi veniva assaltata la Bastiglia, evento culminante della Rivoluzione Francese che segnò la fine dell’Ancien Régime, il sistema plurisecolare dell’assolutismo monarchico. Solo tre anni fa, invece – ma sempre in Francia, e sempre il 14 luglio – il killer franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhle faceva strage a Nizza col suo camion, travolgendo i passanti sulla Promenade des Anglais: 86 morti e 302 feriti. Ovviamente l’attentatore era già stato segnalato alla polizia, come poco di buono. E ovviamente nessuno aveva pensato di controllare e sgomberare il suo camion bianco, fermo da giorni su quel lungomare divenuto “off limits” in vista della festa nazionale francese. E ancora: l’assassino – prima di essere freddato dalle forze dell’ordine, come d’abitudine, prima che potesse parlare – aveva anche avuto cura di lasciare a disposizione dei poliziotti i suoi documenti, ben in vista nell’abitacolo del veicolo. Un caso da manuale, secondo Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”: un messaggio intimidatorio rivolto alla massoneria progressista, che considera proprio il 14 luglio la prima pietra miliare verso la conquista della democrazia, almeno in Occidente.

  • Perché l’Iran: Usa e Israele stan perdendo il Medio Oriente

    Scritto il 26/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però,  anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.
    “Persa la guerra” in Siria, per gli Usa è tornata prioritaria la caduta del regime iraniano, caduta che si spera di facilitare strangolando la sua economia e impedendo l’esportazione di idrocarburi. Inizialmente, gli Usa avevano concesso una “esenzione” di 180 giorni ai principali acquirenti di greggio iraniano, poi non rinnovata nell’aprile scorso: chi avesse continuato a fare affari con Teheran, sarebbe incappato nelle contromisure americane. L’ennesimo round di sanzioni (che, in sostanza, affliggono l’Iran dal 1979), colpisce duro soprattutto i paesi industrializzati o in via di industrializzazione dell’Asia: Turchia, India, Cina, Giappone e Sud Corea. Tokyo, quarta consumatrice mondiale di greggio e decisa a non appiattirsi completamente alla strategia angloamericana, si è fatta protagonista di una singolare iniziativa: benché il suo governo si sia impegnato a tagliare gli acquisti di greggio iraniano, Shinzo Abe è volato a Teheran (la prima visita di un premier giapponese nella Repubblica Islamica!) per stemperare le tensioni e, ovviamente, mettere in sicurezza gli approvvigionamenti energetici del Giappone, che sarebbe duramente colpito da uno choc petrolifero.
    “L’insubordinazione” giapponese, proprio mentre gli angloamericani erano impegnati a fare terra bruciata attorno all’Iran, è stata punita col classico attacco piratesco delle potenze marittime: mentre Shinzo Abe ed il presidente Hassan Rouhani erano a colloquio, due petroliere, di cui una giapponese (la Kokuka Courageous) sono state colpite il 13 giugno nello stretto di Hormuz, davanti alle coste iraniane. Inizialmente si è parlato di siluri, ma i danni sopra la linea di galleggiamento fanno propendere per l’impiego di missili: con un’incredibile sfacciataggine, il segretario di Stato Mike Pompeo ha prontamente accusato l’Iran. Il crescendo di tensioni e provocazioni (tra cui l’invio aggiuntivo di 1.000 soldati in Medio Oriente) è culminato con l’abbattimento, il 21 giugno, di un drone americano sopra i cieli iraniani. Il mondo, ora, aspetta col fiato sospeso gli sviluppi della vicenda: un attacco all’Iran, afferma il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe «catastrofico». Il sogno angloamericano sarebbe, ovviamente, che il regime iraniano implodesse sotto il peso delle sanzioni o, perlomeno, attaccasse per primo: è, tuttavia, uno scenario irrealistico, vuoi per la comprovata resilienza del regime alle sanzioni, vuoi per la rinomata prudenza iraniana.
    Un attacco militare angloamericano, magari innescato da qualche “incidente di frontiera”, resta quindi una realistica opzione, di qui al 2020. L’Iran, intanto, ha dichiarato di voler procedere con l’arricchimento dell’uranio dopo il naugrafio degli accordi dell’era Obama. In questa sede, però, ci interessa soprattutto inquadrare lo scontro in un’ottica geopolitica, cioè nel più ampio scontro tra Terra e Mare. È indubbio che l’amministrazione Trump sia sensibilissima alle esigenze di sicurezza di Israele: abbattuto l’Iraq bahatista, fallito il tentativo di impiantare un “Sunnistan” tra Siria e Iran, Teheran è ormai in grado di proiettarsi sino al ridosso di Israele. La distruzione del regime iraniano è una priorità israeliana e, quindi, americana. Tuttavia, non bisogna mai scordare che Israele assolve anche a un’importante funzione per le potenze marittime: quella cioè di mantenere in costante instabilità il Medio Oriente ed impedire che qualche potenza continentale “organizzi” la regione.
    Turchia e Iran, due potenze dell’Heartland in termini mackinderiani, sono gli storici “organizzatori” del Levante e della Mesopotamia: un elemento che sicuramente ha contribuito alla decisione angloamericana di aumentare la pressione sull’Iran è stato, in parallelo al suo rafforzamento militare in Siria, la sua volontà, annunciata lo scorso aprile, di costruire una ferrovia transnazionale dall’altopiano iranico sino al Mediterraneo. Poco importa se su questa ferrovia dovessero viaggiare solo merci o turisti, in ogni caso l’Iran espanderebbe la sua influenza sino al mare, attirando nelle propria orbita i vicini, e, presto o tardi, renderebbe irrilevante Israele (e gli angloamericani). La natura geopolitica dello scontro in atto (dove per “geopolitico” si intende specificatamente la dialettica Terra-Mare) spiega anche la convergenza in atto dell’Iran verso le altre due potenze dell’Heartland per eccellenza, Russia e Cina. Mosca, impegnata nelle operazioni militari in Siria, ha sinora cercato di mantenere un certo equilibrio tra Israele e Iran: tuttavia, non c’è alcun dubbio che, qualora quest’ultimo fosse attaccato, la Russia fornirebbe assistenza militare attraverso il Mar Caspio per sostenere l’urto angloamericano.
    Il fronte meridionale della Russia è ora relativamente “in sicurezza”; lo sarebbe molto meno se il regime iraniano dovesse cadere. Un discorso analogo vale per la Cina: non solo l’Iran è una preziosa fonte di approvvigionamento di petrolio per Pechino, ma è anche un tassello chiave del corridoio centrale della Via della Seta, che dovrebbe portare i treni cinesi fino a Istanbul passando proprio per Teheran. Un attacco all’Iran, con il suo immediato contagio di caos e violenza a tutto il Medio Oriente, rischierebbe di ritardare per anni il corridoio centrale; un’implosione del regime per decenni. Ecco perché anche Pechino ha interesse a sostenere l’Iran in questo difficilissimo momento. Zbigniew Brzezinski aveva già previsto nel 1997, nel suo The Grand Chessbord, la possibile nascita di un’alleanza “anti-egemonica” (ossia anti-angloamericana) tra Russia, Cina e Iran. «Theresult could, at least theoretically, bring together the world’s lead-ing Slavic power, the world’s most militant Islamic power, and theworld’s most populated and powerful Asian power, thereby creating a potent coalition». Quest’alleanza è in nuce, e gli Usa stanno facendo di tutto per spingere verso la guerra il membro più debole del “blocco continentale”: se guerra sarà, Cina e Russia non staranno sicuramente a guardare.
    (Federico Dezzani, “Perché l’Iran”, dal blog di Dezzani del 21 giugno 2019. La traduzione del passo di Brzezinski: «Almeno teoricamente, potrebbero unirsi il principale potere slavo del mondo, la potenza islamica più militante del mondo e il potere asiatico più popoloso e potente del mondo, creando così una potente coalizione»).

    Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però,  anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.

  • Giornali muti sulla crisi italiana, ma pronti a sbranare Feltri

    Scritto il 21/6/19 • nella Categoria: idee • (6)

    Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».
    Le parole di Feltri sono andate in onda sulla Rai nella trasmissione radiofonica “I lunatici”, di Radio Due, condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. «Quel terrone mi ha stancato», dice Feltri, riferendosi al commissario siciliano interpretato in televisione da Luca Zingaretti. Tutte le volte che gli capita di vedere Montalbano in Tv, aggiunge il direttore di “Libero”, gli torna subito alla mente il fratello dell’attore, cioè il neosegretario Pd Nicola Zingaretti, che «non è proprio il massimo della simpatia». Aggiunge Feltri: «Questa però è una mia opinione un po’ così, scherzosa». Quanto all’anziano autore di Montalbano, invece, Feltri si esprime in questi termini: «Camilleri, che ha avuto successo dopo i 70 anni, in me suscita ammirazione perché è stato un grande narratore, che peraltro si inserisce nella tradizione siciliana della letteratura insieme a scrittori come Pirandello e Sciascia». Ma niente da fare, a Borrometi e Ruotolo non basta: «Abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione di Vittorio Feltri all’albo professionale», scrivono, anche se poi è il presidente stesso, Scarpa, a precisare: è solidale con loro, però dall’Ordine non ci si può “autosospendere”, ma solo cancellare.
    «Riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista», scrivono i due. «Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui». E aggiungono: «Quel “terrone che ci ha rotto i coglioni” per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione». Accusano: «Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia. “Dopo la miseria portano le malattie” (rivolto ovviamente ai migranti), l’ormai tristemente celebre “Bastardi islamici” o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come “Più patate, meno mimose” in occasione dell’8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il “patata bollente”) o “Renzi e Boschi non scopano”. Poi gli insulti a noi del sud con il celebre “Comandano i terroni” e infine il penultimo, di qualche mese fa, “vieni avanti Gretina” (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)». L’idea che il direttore di “Libero” offre, concludono Borrometi e Ruotolo, «è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico». A Feltri imputano mancanza di senso del limite, deontologia, misura, buon senso e addirittura dignità. «Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all’odio. Ne va della nostra credibilità».
    Nato a Modica (Ragusa), Borrometi vive sotto scorta da quando è stato aggredito, in Sicilia, per le sue scomode inchieste sul business mafioso. Cronista dell’Agi, è stato trasferito a Roma per metterlo al riparo dalle continue minacce. Il potere lo conosce da vicino: Borrometi è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Gentiloni, a Palazzo Madama da Pietro Grasso e in Vaticano da Papa Francesco, mentre Mattarella l’ha fatto “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”. Anche Ruotolo vive sotto scorta, dopo le minacce ricevute nel 2015 dal Clan dei Casalesi. Napoletano, è stato a fianco di Santoro dai tempi di “Samarcanda”, fine anni Ottanta. Nel 2013 si è candidato con Antonio Ingroia nella lista “Rivoluzione civile”, rimasta fuori dal Parlamento. Nel corso della campagna elettorale, al termine di un dibattito televisivo si è rifiutato di stringere la mano a Simone Di Stefano (CasaPound) dichiarandosi «orgogliosamente antifascista». E adesso, insieme a Borrometi, tuona contro Feltri: «O lui, o noi». Suona quasi come un appello perché il reprobo sia espulso dall’Ordine dei giornalisti, organismo che peraltro esiste solo in Italia, retaggio dell’occhiuta sorveglianza di Mussolini sulla stampa nazionale. A proposito: perché non abolirlo, l’inglorioso ordine professionale, visto che bastano e avanzano le leggi vigenti per tutelare sia i giornalisti che le vittime del propagandismo squadristico truccato da giornalismo?
    Ma il tema – libertà dell’informazione, senza recinti polverosamente post-fascisti – non sfiora Rutolo e Borrometi (non oggi, almeno). Il nemico si chiama Vittorio Feltri, monumento nazionale del giornalismo-contro (contro i giornalisti conformisti, in primis). Fieramente ostico, scontroso, sulfureo – spesso urticante, volutamente sgradevole – Feltri affonda i suoi strali quotidiani nella melassa inguardabile del mainstream gracidante, dei colleghi appiattiti sull’imbarazzante galateo del pensiero unico (politicamente corretto, ma per nulla giornalistico). Spariti Bocca, Biagi e Montanelli, è proprio la mediocrità desolante dei replicanti – i vari Giannini, Floris, Berlinguer, Formigli, Annunziata – a fare di Feltri il gigante che probabilmente non è. Amico personale della Fallaci, Feltri ha seguito la grandissima giornalista nella cecità assoluta dimostrata dall’Oriana nazionale di fronte all’11 Settembre, senza vedere che lo “scontro di civiltà” era una montatura terroristica interamente occidentale. Già berlusconiano e sempre controcorrente, pronto alla solitudine delle polemiche più aspre, a Feltri non difetta certo il coraggio: semmai, come quasi tutti gli altri, non ha compreso per tempo la reale natura del “golpe” neoliberale del 2011, dietro la maschera di Mario Monti. E ancora oggi, purtroppo, fatica a discernere tra debito pubblico e debito reale del sistema-paese, anche lui criminalizzando il deficit dello Stato, in un paese da decenni in avanzo primario: lo sa, Feltri, che lo Stato incassa con le tasse più di quanto non spenda per i cittadini?
    Quanto ai suoi detrattori – tantissimi, quasi tutti i suoi colleghi – va detto che, in questi anni, hanno brillato per renitenza professionale e alto tradimento dei lettori e dei telespettatori: se il famoso Ordine avesse un senso, quanti di loro avrebbero diritto di farne parte? Che c’azzeccano, con la categoria giornalistica, la Monica Maggioni reclutata dalla Trilaterale nonostante fosse dirigente Rai? E che dire di Lilli Gruber, ospite fissa del Bilderberg? Non hanno niente da dire, su questo, gli illustri Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi? Pensano davvero che siano gli eccessi polemici e le cadute di stile a compromettere la dignità professionale dei “cani da guardia della democrazia”? Dicono ancora qualcosa i nomi di Bob Woodward e Carl Bernstein (“Washington Post”) che nel remoto 1972 – ben prima dell’odierna era glaciale – fecero crollare la presidenza Nixon con lo scandalo Watergate? Vinsero il Pulitzer, ovviamente, ma non erano al guinzaglio di alcuna corporazione post-mussoliniana. Un altro Pulitzer, il connazionale Seymour Hersh, è stato franco quanto l’insopportabile Feltri: se i giornalisti non avessero abdicato al loro compito fondamentale, in questi anni avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché – di fronte a una stampa con la schiena diritta – il potere non avrebbe osato spingersi oltre certi limiti.
    Bassa macelleria fondata sulla menzogna sistematica, praticabile solo a patto di non avere noie, dalla stampa. Un caso mondiale, emblematico? Le inesistenti “armi di distruzioni di massa”, pretesto per invadere l’Iraq di Saddam ponendo le premesse per una destabilizzazione geopolitica di tipo stragistico, cominciata con l’abbattimento delle Twin Towers e culminata coi tagliagole dell’Isis a seminare il terrore sia in Medio Oriente che nel cuore dell’Europa, con attentati sinistramente massonici (non islamici) nella loro spietata simbologia. Chi lo dice? Gioele Magaldi, per esempio: un autore che per l’italico mainstream resta oscuro quanto il suo besteller, “Massoni”, letteralmente ignorato da tutti i talkshow nonostante facesse nomi e cognomi, da Napolitano in giù, come inutilmente ricordato persino in Parlamento dai 5 Stelle. Dove sono, i giornalisti italiani, quando qualcuno si espone per svelare i retroscena della crisi che sta sventrando il paese? Oggi sono tutti a fischiare comodamente il puzzone di turno, Matteo Salvini, mettendo nel mazzo – per buon peso – lo stesso Feltri, notorio estimatore del capo leghista. Tutto fa brodo, pur di non avvistare il pericolo: va benissimo anche lo scalpo di Armando Siri (solo indagato, tuttora) per colpire la Flat Tax e il governo gialloverde, che ha avuto l’improntitudine di pensare che l’Italia si potesse governare anche senza sottomettersi alle mafie politiche locali, succursali delle mafie politiche europee.
    Per il mainstream che odia Salvini e detesta Feltri, il supermassone occulto Mario Draghi, quasi onnipotente signore d’Europa dopo l’esordio sul Britannia da cui collaborò alla svendita del paese, resta essenzialmente Super-Mario, ipotetico futuro premier quando finalmente il vero potere si sarà scrollato di dosso gli intrusi dell’ultima ora, i pasticcioni gialloverdi. Il governo non è libero di decidere nulla – ha ammesso Pino Cabras, parlamentare pentastellato, in un convegno del Movimento Roosevelt a Londra – perché nei ministeri e nei palazzi-chiave, cominciando dal Quirinale, domina il Deep State. Qualcuno, della libera stampa italiana pronta ad azzannare Feltri per gli sberleffi a Montalbano, si è peritato di rilanciare la notizia? Gli specialisti dell’antimafia sono coraggiosamente impegnati sul fronte della micro-mafia nazionale. Ma i loro colleghi come si regolano, con la vera macro-mafia, quella eurocratica, che da trent’anni ha dichiarato guerra all’Italia sbaraccando la Prima Repubblica? Divorzio fra Tesoro e Bankitalia, Sme, Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, pareggio di bilancio. L’ex potenza industriale mediterranea ha perso il 25% del suo potenziale in una manciata di anni. Crisi, recessione, esasperazione. Dov’erano, i giornalisti, mentre tutto questo accadeva? E dove sono oggi? Nel solito posto: comodi, in platea, a distrarre il pubblico. Che screanzato, quel Feltri. Sia messo al bando, perché sciupa la foto di gruppo del glorioso giornalismo italiano.
    (Giorgio Cattaneo, “Con che coraggio attacca Feltri – per le battute su Montalbano – il giornalismo italiano che da trent’anni non dice la verità sulla crisi del paese?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 giugno 2019).

    Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».

  • Soluzione finale: le agenzie di morte che ci condannano

    Scritto il 14/6/19 • nella Categoria: idee • (12)

    L’Italia mediterranea e cattolica è una fettina di terra e di civiltà minacciata dal fanatismo neo-islamico che viene dal sud e dal nichilismo libertario che viene dal nord. Entrambi nel loro estremo gradino tendono a uno stesso fine, anzi a una stessa fine, la soluzione finale. La morte nel nome di Dio e della sua Legge o nel nome della nostra assoluta libertà e totale autodeterminazione. A volte le due insidie non provengono da direzioni opposte, cioè dai flussi migratori che premono sulle nostre coste meridionali e dai modelli culturali che discendono dai paesi di provenienza protestante e calvinista. Ma provengono ambedue dall’Europa del nord, dai giovani neo-islamici di seconda o di terza generazione, nati e cresciuti in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania. E dai ragazzi che vivono nelle società più avanzate del nord Europa, sul piano dei diritti umani: vale a dire l’Olanda, il Belgio, i paesi scandinavi, la stessa Svizzera. Quel che colpisce in entrambi i casi è la persuasione di morte che accompagna le loro esperienze più estreme, più radicali.
    Gli uni uccidono per purificare il mondo e onorare il loro Dio, tener fede alla loro religione e punire gli infedeli e alla fine si dispongono a morire nel nome di Allah. E gli altri prevedono che una vera libertà, un vero diritto alla piena sovranità della propria vita, preveda che in caso di depressione, di rifiuto di vivere, di sofferenza si possa esser liberi di togliersi la vita. Insomma l’atto supremo della fede degli uni e della libertà degli altri è lo stesso: la soluzione finale. Libertà per la morte. L’abissale differenza, va detto, è che i primi coinvolgono gli altri, anzi danno la morte agli altri e in secondo tempo a se stessi, mentre i secondi danno la morte a se stessi e la garantiscono agli altri che lo decidano in autonomia. Lo spirito di morte e di distruzione è il segno che lasciano sulla terra la devozione cieca ad Allah e la volontà soggettiva degli uomini autonomi. La parabola che conduce a quest’ultima decisione/recisione suprema nasce dal primato della coscienza individuale che fu il grido di rivolta del luteranesimo e poi del calvinismo rispetto alla fides cattolica e alla religio precristiana. Quando lungo la strada perdi la fede in Dio, il senso morale del dovere di vivere, ti resta il libero arbitrio, la solitudine assoluta al cospetto del destino, e dunque il diritto alla vita e alla morte.
    Non si tratta più, come ben capite, di eutanasia, o di evitare l’accanimento terapeutico tenendo in vita artificialmente vite umane ridotte ormai dalla malattia allo stato semi-vegetativo. Ma si tratta di suicidi assistiti, anche se la parola suicidio va subito rimossa per non turbare i sonni dell’ipocrisia libertaria; e come l’aborto diventò un’interruzione di gravidanza, quasi per una specie di black-out della corrente elettrica, così il suicidio assistito viene ingentilito e incipriato dal più tenue lasciar andare e dalla finzione di dire che è la ragazza a spegnersi lentamente non bevendo e non mangiando. Ma la società civile, lo Stato, la sanità che glielo consente e l’agevola nel nome della predetta libertà assoluta, viene totalmente rimossa dagli orizzonti. Anzi, arcigno, autoritario, dispotico è chiunque si frapponga alla decisione di farla finita e cerchi di impedirla in tutti i modi.
    Non entro nel merito della vicenda Noa che ha scosso l’Europa e nemmeno nella casistica importante delle centinaia di persone, ragazzi minorenni inclusi, che prendono quella strada e molti media plaudono a questo nuovo ius aeuropeum, lo vedono un segno di modernità, di rispetto, di “più Europa”. E non entro nemmeno nel merito della campagna sentimentale-filosofica che l’accompagna, vale a dire che amare significhi “lasciar andare”, mentre la natura, la cultura, l’anima della nostra civiltà ci hanno sempre suggerito l’inverso, che amare vuol dire prendersi cura, vuol dire a chi ami – come diceva il filosofo Cristiano Gabriel Marcel – “tu non morirai”. Ma mi soffermo sul disagio di vivere in una società in cui viene reputato un segno estremo di libertà ciò che permette auto-distruzione: la droga, l’aborto, il suicidio assistito, il rigetto della natalità, la libertà di andarsene se si è depressi… Vedo in tutto questo il venir meno del senso religioso della vita, in base al quale nessuno è assoluto padrone della sua vita; non fummo noi a darci la vita, non saremo noi a darci la morte, si risponde sempre a qualcuno, comunità è condividere un destino, ogni vita è collegata alle altre e al mondo.
    Il senso religioso della vita dice che vivere è un diritto ma è anche un dovere, un compito. E non solo: si esce dalla disperazione e dalla depressione più acuta solo se si ha il coraggio di proiettarsi fuori da sé: di sporgersi nel mondo, nella vita, assumersi compiti, vivere anche per qualcuno, per qualcosa; amare qualcun altro fuor di noi stessi, fare un figlio e prendersi cura di lui, formare una famiglia, o tornare alla famiglia da cui si è originati; lavorare, impegnarsi in un’attività e in un’impresa, ritrovarsi in una fede… Insomma proiettarsi oltre se stessi, oltre la propria vita. Facile a dirsi, avete ragione di obiettare; ma è assurdo che una società, una famiglia, una scuola, non debbano avere questo compito primario nei confronti dei ragazzi, ancora acerbi, che decidono di togliersi la vita. Bisogna educare e se è il caso frenare, fermare. Non si può permettere a un minorenne di decidere che la sua vita non meriti di essere vissuta senza neanche provarci, è presto per tirare le somme. Rinunciare a questo compito è arrendersi nel nome della libertà alla soluzione finale. Reputo questa resa come bestiale, disumana, incivile. Difendiamo la nostra civiltà, la nostra umanità da queste agenzie di morte.
    (Marcello Veneziani, “Soluzione finale per l’Europa”, da “La Verità” del 9 giugno 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    L’Italia mediterranea e cattolica è una fettina di terra e di civiltà minacciata dal fanatismo neo-islamico che viene dal sud e dal nichilismo libertario che viene dal nord. Entrambi nel loro estremo gradino tendono a uno stesso fine, anzi a una stessa fine, la soluzione finale. La morte nel nome di Dio e della sua Legge o nel nome della nostra assoluta libertà e totale autodeterminazione. A volte le due insidie non provengono da direzioni opposte, cioè dai flussi migratori che premono sulle nostre coste meridionali e dai modelli culturali che discendono dai paesi di provenienza protestante e calvinista. Ma provengono ambedue dall’Europa del nord, dai giovani neo-islamici di seconda o di terza generazione, nati e cresciuti in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania. E dai ragazzi che vivono nelle società più avanzate del nord Europa, sul piano dei diritti umani: vale a dire l’Olanda, il Belgio, i paesi scandinavi, la stessa Svizzera. Quel che colpisce in entrambi i casi è la persuasione di morte che accompagna le loro esperienze più estreme, più radicali.

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