Archivio del Tag ‘John Maynard Keynes’
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Facebook cancella membri dai gruppi in vista delle europee
Quando si parla dell’algoritmo di Facebook tutti pensano subito alla matematica. Eppure quante volte è capitato che vengano aggiunti amici al profilo senza che ciò venisse richiesto? Quante volte scompaiono i like senza motivo? Si elimina un commento e scompare l’intero thread del post. Il politically correct censura parole come “negri” dalle canzoni di Edoardo Vianello, mentre lascia passare minacce e ingiurie della paggior specie. Chi frequenta con assiduità il Re dei social sa benissimo di cosa stiamo parlando. E la matematica non c’entra nulla. In questi giorni, Facebook cancella in automatico gli iscritti dai gruppi. Tutti se ne sono accorti e gli admin lamentano la scomparsa improvvisa di centinaia, se non di migliaia di membri dal gruppo da loro gestito. Poichè il social di Zuckerberg è incontrollabile se non dagli sviluppatori di Menlo Park, viene da chiedersi perchè proprio i gruppi, e, soprattutto, quali gruppi? Pier Paolo Pasolini, in un celeberrimo articolo sul “Corriere della Sera”, scriveva così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere)».«Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, (…) Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero (…)». Ebbene, anche se a fronte del repulisti censorio di Facebook verrebbe facile evocare Pasolini ed il suo “io so”, nel caso dei gruppi, direi che ci sono anche le prove. I gruppi dai quali sono spariti centiania di membri automaticamente sarebbero tutti, incondizionatamente, ma i soli a lamentarsene pubblicamente sono i gruppi che parlano di politica, specialmente quelli che trattano di controinformazione.I gruppi tacciati di “rossobrunismo” o che propongono politiche economiche di stampo keynesiano o molto critici nei confronti dell’Unione Europea. E’ in quei gruppi che si registrano i danni maggiori. La scusa per bannare è la passività dei membri. Detto diversamente, Facebook si è arrogata il diritto di cancellare tutti quei membri che non partecipano alla vita del gruppo, non mettono i like, non condividono nè postano notizie. Eppure, chi è iscritto in gruppi come “amici che rivogliono Pippo Baudo alla tele”, pur silenti da anni, non si sono visti scippare l’iscrizione da Zuckerberg… come mai? Ora i soliti siti antibufala si affrettano a garantire che è tutto un malinteso, perchè il messaggio di chiarimento inviato dal social californiano precisa che non compariranno più tra i membri quei soggetti che sono stati iscritti in passato da altri e che d’ora in avanti, per rimanerci, dovranno confermarlo in modo esplicito. Dunque, se rimani iscritto agli “amici che rivogliono Pippo Baudo” è solo perchè, quella volta, tu hai chiesto l’iscrizione. Qualora, invece, fossi stato iscritto “di nascosto”, ban automatico in attesa di conferma esplicita.Niente Zuckerberg cattivo, dunque. Ma questa difesa antibufala puzza come le bufale scadute da un mese. Se applicassimo lo stesso criterio alle democrazie occidentali, cadrebbero tutte domani mattina, perchè nessuno dei viventi ha sottoscritto di suo pugno la dichiarazione d’indipendenza americana del 1876 o la Costituzione italiana del 1948. E tornando a Internet, basta scivolare sul mouse per accettare i cookies di qualsivoglia sito web, oppure accedere ad un servizio tramite Facebook per vedersi arrivare in posta elettronica email spazzatura da tutto il mondo. Questo zelo – “ti elimino dai gruppi se ti ha iscritto un amico anni fa” – a pochi mesi dalle elezioni, puzza di bruciato. Il confronto politico di maggio 2019 potrebbe cancellare un’intera classe politica dal vecchio continente. lobby comprese. I gruppi che si sono visti dimezzare gli iscritti, infatti, molto difficilmente pubblicano approfondimenti di “Repubblica” o del “Sole 24 Ore”, e la scusa per azzopparli con astruse motivazioni tecniche può convincere solo chi è ingenuo. O in malafede.(Massimo Bordin, “Facebook cancella membri dai gruppi a pochi mesi dalle elezioni europee”, dal blog “Micidial” del 21 gennaio 2019).Quando si parla dell’algoritmo di Facebook tutti pensano subito alla matematica. Eppure quante volte è capitato che vengano aggiunti amici al profilo senza che ciò venisse richiesto? Quante volte scompaiono i like senza motivo? Si elimina un commento e scompare l’intero thread del post. Il politically correct censura parole come “negri” dalle canzoni di Edoardo Vianello, mentre lascia passare minacce e ingiurie della paggior specie. Chi frequenta con assiduità il Re dei social sa benissimo di cosa stiamo parlando. E la matematica non c’entra nulla. In questi giorni, Facebook cancella in automatico gli iscritti dai gruppi. Tutti se ne sono accorti e gli admin lamentano la scomparsa improvvisa di centinaia, se non di migliaia di membri dal gruppo da loro gestito. Poiché il social di Zuckerberg è incontrollabile se non dagli sviluppatori di Menlo Park, viene da chiedersi perché proprio i gruppi, e, soprattutto, quali gruppi? Pier Paolo Pasolini, in un celeberrimo articolo sul “Corriere della Sera”, scriveva così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere)».
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Magaldi: la sinistra ignorante che vorrebbe spegnere Rinaldi
Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiedere l’allontanamento dell’economista dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’appartenenza supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?Nonostante lo sgangherato assalto al promotore del blog “Scenari Economici”, liquidato come «narcisista e caciarone», economista senza prestigio accademico e piccolo opportunista a caccia di poltrone, Magaldi invita lo stesso Steven Forti, e gli analoghi missionari neoliberali asserragliati tra i ranghi dell’ex sinistra, a farsi avanti in modo aperto: perché non intervistare lo stesso Magaldi, per parlare finalmente del suo libro e magari anche del Movimento Roosevelt e del “partito che serve all’Italia”, progetto al quale Antonio Maria Rinaldi si è accostato in modo interlocutorio, «come battitore libero e autonomo pensatore», per prendere nota di quanto si va discutendo? Scoprirebbero, Steven Forti e i suoi sodali, che i problemi del mondo hanno sempre almeno due spiegazioni, in democrazia. Sono le famose due campane, che un tempo i giornalisti si peritavano di ascoltare, non foss’altro che per un elementare rispetto dei loro lettori. Intanto prendano nota, alla redazione di “Rolling Stone”: sono tutti invitati alla London Metropolitan University, il 30 marzo, dove parleranno un bel po’ di economisti post-keynesiani, impegnati a spiegare come mai questa Europa è sempre in crisi, perde i pezzi (Gran Bretagna) ed è diventata una Disunione Europea dove tutti si fanno le scarpe a vicenda. Vuoi vedere che la politica di austerity introdotta dall’Eurozona è una catastrofe, e in ultima analisi si è trasformata in una fabbrica di sovranismi, nazionalisti, populismi e Gilet Gialli?Il mainstream che si trincera dietro il politically correct non perdona a Rinaldi di tifare per i gialloverdi: fa scialo del più convenzionale corredo squadristico a base di insulti (razzismo, xenofobia, fascismo) per infangare Salvini, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina, ma si guarda bene dall’interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Pensiero magico: la demonizzazione dell’Uomo Nero a questo serve, a evitare di chiedersi il perché delle cose. Un consiglio? Tornare a essere laici, smettendo i panni del fanatismo religioso. E magari, cessare di considerare l’avversario un nemico da abbattere. In altre parole, converrebbe ragionare. A proposito, aggiunge Magaldi: hanno una proposta, i coristi “di sinistra” come Steven Forti, su come uscire dalla crisi? Sono bravissimi a censurare le idee altrui, e a demolirle in modo unilaterale, senza mai dialogo, quando non riescono più a soffocarle (come nel caso di Rinaldi, spesso ospitato in televisione). Ma ce l’hanno, in tasca, un Piano-B? E se ce l’hanno, perché non ne parlano mai? Non sarebbe ora di cominciare a farlo? «Informo Steven Forti che diversi esponenti di quella che immagino sia la sua area di riferimento, cioè il Pd e LeU, fanno parte del Movimento Roosevelt». Non solo, aggiunge Magaldi: «Alcuni di loro, come Rinaldi, guardano con interesse anche alla prospettiva del “partito che serve all’Italia”, dato che – dalle loro parti – vedono che si va verso il disfacimento».“Rolling Stone” definisce «un gruppetto», la pattuglia di intellettuali, da Nino Galloni a Ilaria Bifarini, aggregati per ora nelle prime riunioni convocate per valutare la possibilità del nuovo soggetto politico, «il cui sviluppo, a partire dal nome, sarà a cura dei costituenti, dato il rispetto che abbiamo per il metodo democratico». Gruppetto? Sui numeri sarà il tempo a dire la sua, perché siamo solo ai preliminari, assicura Magaldi. Che però aggiunge: anche se alla fine non fossimo in tantissimi, «informo Steven forti che un “gruppetto” di massoni riuniti intorno alla Loggia delle Nove Sorelle, alla fine del ‘700, determinò tanto i preparativi per la Rivoluzione Americana, quindi per la Guerra d’Indipendenza, che quelli per la Rivoluzione Francese: talvolta i gruppetti, se ben coesi e agguerriti, fanno le rivoluzioni». Se Steven Forti non afferra il concetto, prosegue Magaldi, forse è perché «non ha grande dimestichezza con lo studio della storia», benché il suo curruculum accademico lo accrediti come esperto in storia contemporanea. Iniste Magadi: «Steven Forti mi sembra carente di letture», se in qualche modo associa la massoneria al cospirazionismo. L’autore di “Massoni”, libro che smonta moltissime tesi complottistiche, cita il filosofo Gian Mario Cazzaniga, che nel saggio “La religione dei moderni” «spiega come la religione dei moderni sia la politica, e spiega anche che la politica, nel senso moderno e contemporaneo, l’hanno creata i proprio massoni».Altre letture consigliate alla redazione di “Rolling Stone”: le opere di un grande sociologo come Jürgen Habermas, «che ha spiegato come lo stesso concetto di opinione pubblica sia nato da ambienti massonici». E cioè: si prenda atto, meglio tardi che mai, che «la massoneria è un soggetto storico importante». Se poi il giovane Steven Forti leggesse pure il saggio di Magaldi, scoprirebbe che negli ultimi decenni un’élite massonica internazionale, reazionaria e neoaristocratica, ha progettatto e gestito la globalizzazione neoliberista che ha privatizzato il pianeta, rottamando i caposaldi del welfare tanto cari alla sinistra, a loro volta “fabbricati” sempre da massoni, ancorché progressisti, come il massimo economista del Novecento, l’inglese John Maynard Keynes, e il connazionale William Beveridge, l’inventore del “welfare system”. Per inciso: il progressista Keynes era iscritto al partito liberale. I laburisti, invece – come i socialisti francesi, i socialdemocratici tedeschi e l’ex Pci italiano – sono stati i più zelanti esecutori, negli ultimi decenni, delle direttive antidemocratiche dell’élite globalista: è stata proprio la sedicente sinistra a obbedire alla peggiore destra economica. In Italia l’ha fatto prima con Prodi e Draghi, poi con il governo Monti: Fiscal Compact votato senza fiatare, così come la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio inserito proditoriamente nella Costituzione, con lo Stato terremotato dal ricatto dallo spread.Non la si vuole vedere, la realtà? E allora all’intellighenzia dell’ex sinistra non resta che godersi Salvini, dandogli ogni giorno del fascista. Almeno, puntualizza Magaldi, si eviti di scadere nella disinformazione più scorretta, rinfacciando come una colpa – a un uomo come Antonio Maria Rinaldi – la libertà intellettuale di cui gode: avrà diritto o no, di dirsi scontento della manovra economica del governo gialloverde? Proprio non glielo si vuole riconoscere, il diritto di aspettarsi di più dall’esecutivo Conte? Scherno, disprezzo e criminalizzazione di chi non la pensa come te, riassume Magaldi, non fanno parte dell’abc dell’informazione, che può essere anche fortemente critica, ma mai scorretta. I media mainstream sembrano lo specchio della politica italiana, basata su scontri quotidiani dal sapore tribale. Puoi anche farlo cadere, un avversario, ma poi sapresti come agire, al suo posto? Qualcuno ricorda un’idea – una sola – che negli ultimi vent’anni la sedicente sinistra abbia partorito, per migliorare la situazione, mentre passava il tempo a tuonare contro l’orrido Berlusconi – per poi fare persino peggio, una volta a Palazzo Chigi? Il punto è che c’è bisogno di tutti, sembra dire Magaldi. Oggi più che mai, nessuno deve sentirsi escluso. Lo gridano, gli elettori, quando votano per i cosiddetti populisti. Ormai vedono benissimo quant’è infame, la post-democrazia Ue. E’ tanto comodo, ricamare indignati elzeviri sui tweet di Salvini: serve a continuare a non vedere cosa sta succedendo, lassù, dove un pugno di decisori tiene in ostaggio mezzo miliardo di persone, in Europa. Fino a quando?Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiederne l’allontanamento dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’identità supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?
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Rolling Stone: ma che rabbia, quel Rinaldi sempre in tivù
Ma come si permette, Antonio Maria Rinaldi, di dire quello che pensa? Come osa trascinare il suo ciuffo argenteo nei migliori salotti televisivi, da cui dispensare il suo sub-pensiero economico declinandolo sfrontatamente in romanesco? Non sa, Rinaldi, che negli studi di Giletti, di Floris e della Gruber, come in quelli di Mediaset e della Rai, devono avere accesso solo personaggi collaudati come Beppe Severgnini, Paolo Mieli, Massimo Cacciari e altri analoghi, rassicuranti esponenti del clero regolare? Se qualcuno si domandasse come mai l’Italia è classificata al 46esimo posto nella graduatoria di “Reporters sans frontières” sulla libertà d’informazione, forse una risposta potrebbe trovarla dando uno sguardo alla demolizione programmata di Antonio Maria Rinaldi, eseguita dal giovane Steven Forti sul magazine musicale “Rolling Stone”. Non vive di sola musica, “Rolling Stone”. Lo si capisce da titoli come questo: “Il troll di Salvini è meglio di Salvini”. Oppure: “Sapreste riconoscere il fascismo, se tornasse?”. O ancora, sotto una foto di Beppe Grillo: “La politica non fa più ridere”. Quanto all’autore della sommaria rottamazione cartacea di Rinaldi, per lui parlano titolazioni altrettanto eloquenti: “La bestia, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini”. Va da sé: “Un fantasma si aggira per l’Europa: il rossobrunismo”, dal momento che “Piccoli Salvini crescono”.
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Noi ciechi, nella caverna di Platone chiamata neoliberismo
Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo-finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politico-economiche e poiché costituisce quello che viene definito Pensiero Unico (che sostiene il primato dell’economia sulla politica). In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde ovviamente un’inscindibile ideologia politica) all’origine di tutti i nostri problemi e, semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere di classe (risalente già agli anni Venti del Novecento ma iniziato ad attuarsi negli anni Settanta) da parte della “classe dominante”; è la reazione delle élite che, nell’età contemporanea, tanto avevano perso in termini di potere e di ricchezza (soprattutto nei “trenta gloriosi” successivi al secondo dopoguerra, quando le Costituzioni socialiste associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie, tanto che nello studio “Crisi della democrazia” del 1975, commissionato dalla Trilaterale, si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia” da risolvere anche con l’introduzione di tecnocrazie).Quindi, partendo dalle teorie di Von Hayek e con la Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie, tra le tante, alla influente Mount Pelerin Society fondata già nel 1947 da Hayek con l’intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere il liberalismo classico della “mano invisibile” di Adam Smith). Essi misero in discussione il liberismo espansivo con intervento statale di tipo keynesiano (l’embedded liberalism della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza) e suggerirono di passare alla deregulation, a politiche di tagli alla spesa sociale, alle privatizzazioni (degli utili, e socializzazione delle perdite), alla finanziarizzazione dell’economia, alla deificazione del mercato e quindi alla definitiva sottomissione dello Stato e della politica agli interessi economici dei potentati privati. Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo tramite le “categorie previane” del circo mediatico, del clero giornalistico e accademico e del ceto intellettuale (che, con la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante).Tutto iniziò dal “test pilota” dopo il golpe di Pinochet in Cile del ’73, e poi dai governi occidentali di Thatcher, Reagan, Mitterrand e Kohl per arrivare al capolavoro degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell’ordoliberismo) e della moneta unica europea a cambio fisso con banca centrale indipendente (e sostanzialmente privata). Fin da allora la distribuzione di ricchezza avrà un’inversione di tendenza e andrà concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un’oligarchia finanziaria che non fa che portare avanti programmi a proprio vantaggio e a detrimento dei popoli (vedasi dati oggettivi sulla sperequazione crescente). Ciò che si è riassunto in poche righe va contestualizzato all’epoca ed è solo la lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino) ovvero la ribellione delle élite (Lasch); è l’operato di un gruppo, dell’1%, che fa i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è lecito, anche se non etico). Il problema è stata la mancata risposta delle classi subalterne e dei loro rappresentanti (politici e sindacali) che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti e tendono a non vederli o capirli tuttora (alcuni “stupidamente”, altri in malafede, sia a destra che a sinistra, con l’esaurimento della storica dicotomia).Bisogna liberarsi dei mantra del “There Is No Alternative” (Thatcher) e dell’ineluttabile “fine della storia” (Fukuyama) che abbiamo introiettato; in realtà tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate; il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale e irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo, basta pensare ed agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato). Purtroppo però le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx). Per giungere ad un cambiamento è necessario arrivare ad una “massa critica” di persone consapevoli, che comprendano che è in atto una “guerra” (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore) e che si compattino riconoscendo il “nemico” comune da combattere (che personalmente, credo a ragione, ho identificato nel neoliberismo e nelle sue ricadute politiche e sociali).Cerco di spiegarmi meglio: dal sistema economico vigente scaturisce l’onnipervaviso e catechizzante Pensiero Unico, nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione, dell’homo homini lupus, del mors tua vita mea, del do ut des, del narcisismo individualista, dell’egoismo, dell’edonismo, del materialismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica egocentrata, e che ci rendono “schiavi” perfetti poiché, come abitatori della caverna di Platone, siamo incapaci di vedere le nostre “catene” e quindi impossibilitati a liberarcene. All’interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria) appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più, esistono solo gli individui: non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di homines oeconomici, di imprenditori di sé, di monadi (da qui, complice il politicamente corretto, l’attenzione focalizzata con successo esclusivamente sui diritti civili a spese di quelli sociali).Perciò, dunque, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel) rifuggendo dalla crematistica e ritornando all’equilibrio e quindi ai concetti di misura e limite (come ci insegnano gli antichi greci). Rimane un unico problema che il già citato Platone conosceva fin da 2400 anni fa: l’eventuale “liberatore” verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in “catene”. È davvero eloquente ed attuale l’allegoria della caverna, in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata viene invece percepita come “verità” dagli sventurati protagonisti che, poiché nati in cattività, non possono immaginare un’esteriorità rispetto alla caverna stessa e quindi, non sapendosi schiavi ingannati, tantomeno ambire alla libertà.(Enrico Gatto, “Il problema – contro il quale unirsi”, da “L’Interferenza” del 2 gennaio 2018).Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo-finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politico-economiche e poiché costituisce quello che viene definito Pensiero Unico (che sostiene il primato dell’economia sulla politica). In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde ovviamente un’inscindibile ideologia politica) all’origine di tutti i nostri problemi e, semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere di classe (risalente già agli anni Venti del Novecento ma iniziato ad attuarsi negli anni Settanta) da parte della “classe dominante”; è la reazione delle élite che, nell’età contemporanea, tanto avevano perso in termini di potere e di ricchezza (soprattutto nei “trenta gloriosi” successivi al secondo dopoguerra, quando le Costituzioni socialiste associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie, tanto che nello studio “Crisi della democrazia” del 1975, commissionato dalla Trilaterale, si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia” da risolvere anche con l’introduzione di tecnocrazie).
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Magaldi: senza paura, ecco il “partito che serve all’Italia”
Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?Tutto può succedere, confida Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in una diretta web-streaming prenatalizia su YouTube. Esponente del circuito massonico progressista internazionale, il presidente del Movimento Roosevelt ha sostenuto a lungo il governo gialloverde: per mesi è stato l’unico, in Europa, a tentare di rompere l’incantesimo dell’austerity. Poi, la prima delusione: troppo timido, il 2,4% di deficit inizialmente previsto per il Def 2019. E ora, la Caporetto del governo Conte: se già il 2,4 era troppo poco per rianimare l’economia, figurarsi il 2,04 cui l’Ue ha costretto l’esecutivo italiano, che alla fine si è piegato al diktat. Sta tutta qui, probabilmente, la tempistica del rilancio del “partito che serve all’Italia”: davanti ai signori di Bruxelles non si può piegare la testa in questo modo. Anche perché – come Magaldi si incarica spesso di spiegare – dietro alla “disciplina di bilancio” non c’è un disegno orientato al benessere europeo, ma solo il piano delle oligarchie finanziarie supermassoniche di segno reazionario, che manovrano i burattini della Commissione Europea. Il vero senso della “punizione” inflitta ai gialloverdi? Dimostrare, davanti a tutti, che nell’Ue non ci si può ribellare all’autocrazia “aliena” di una nuova “aristocrazia del denaro” ben poco nobile, quella degli eurocrati non-eletti, longa manus del potere economico che ha sottomesso la politica.E’ il momento di essere eretici: non sta scritto da nessun parte che il deficit affossi l’economia. Al contrario: di contrazione della spesa si muore. Meno disavanzo vuol dire più tasse, meno consumi, meno lavoro. Come spiega il post-keynesiano Galloni, un investimento oculato in termini di spesa pubblica può “rendere” tre o quattro volte tanto, a partire dall’anno seguente, a patto però che non sia esiguo. Tradotto: già nella prossima primavera l’Italia avrebbe visto effetti benefici, sull’economia, se avesse avuto il coraggio di alzare il deficit almeno al 4%. Al governo Conte, ora che si è sostanzialmente arreso, vengono avanzate «critiche pretestuose e strumentali da parte delle pseudo-opposizioni», dalla Bonino al Pd, fino a Forza Italia. «Il governo Conte suscita simpatia – ammette Magaldi – se addirittura Monti lo rimprovera di essersi fatto scrivere la legge di bilancio dalla Commissione Europea». Aggiunge: «Con malafede e con ipocrisia plateale si contesta al governo Conte quello che hanno fatto tutti i governi della Seconda Repubblica, e in particolare quelli che si sono succeduti da Monti in poi». Governi che, naturalmente, «non facevano la manfrina che ha fatto il governo gialloverde». Non ci provavano neppure, a inscenare la rivolta contro il mortale rigore (ideologico) imposto da Bruxelles.Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: nessuno di loro «osava dire che si sarebbe preoccupato di fare l’interesse del popolo italiano, anche scontrandosi coi vertici della tecnocrazia europea». Non hanno mai neppure finto di «fare la voce grossa e assumere atteggiamenti muscolari, per poi calarsi le braghe: se le erano già calate prima». Quindi, aggiunge Magaldi, non hanno titolo, oggi, per contestare il governo Conte. «Questi cialtroni, poi, in Parlamento lamentano presunte mancanze: Emma Bonino ha parlato di esautoramento antidemocratico delle funzioni dell’Aula». Magaldi si dice sbalordito dalla leader di “+Europa”, data la stima nella “vita precedente” dell’ex dirigente radicale: «Sono esterrefatto da questa deriva risibile e ipocrita». La Emma nazionale «è tra quelli che inneggiano a un sistema in cui il Parlamento Europeo non ha i poteri che in un qualunque contesto democratico dovrebbe avere». E, inutile negarlo, «ha fatto il cane da guardia di questa Europa». Tanti sedicenti europeisti, sostiene Magaldi, in realtà sono anti-europeisti: «Nessuno di loro, la Bonino in primis, ha mosso un dito per contestare l’attuale forma di Disunione Europea, antidemocratica o post-democratica che dir si voglia».E ora, «adusi ai meccanismi post-democratici delle istituzioni europee», i nostri finto-europeisti «vengono a fare il pianto greco, in Italia, dove il Parlamento ha comunque una sua sovranità garantita dalla Costituzione», nonostante la camicia di forza dell’Ue. Tutto ciò premesso, ribadisce Magaldi, «è chiaro che il governo Conte se le è calate, le braghe». Salvini dà segnali di malumore e fa trapelare di non essere contento? Lui e Di Maio «lanciano il sasso e nascondono la mano». Hanno preso parzialmente le distanze dallo stesso Conte: «E questo, francamente, è un modo poco dignitoso di agire», sottolinea Magaldi, «visto che Conte non era a Bruxelles per conto proprio, ma in quanto portavoce di una maggioranza parlamentare di cui Salvini e Di Maio sono i leader». Salvini diceva: «Non mi preoccupano i numeri, contano le cose che facciamo». Non è così, purtroppo: «I numeri sono le cose che fai o non fai, perché proprio da quei numeri discende la possibilità di avere risorse per fare le cose che hai promesso».Per Magaldi, questa manovra è «gravemente insufficiente». Non produrrà l’auspicato aumento del Pil, in relazione al deficit e al debito. Non ridarà dinamismo all’economia italiana, né conforto «a tutti quelli che vorrebbero una drastica riduzione delle tasse e un massiccio piano di investimenti pubblici, tale da garantire l’assorbimento della disoccupazione». E la mancanza di lavoro «è una delle cose più gravi che una generazione può subire: siamo pieni di giovani disoccupati, male occupati o rassegnati a un impiego precario». Quindi, intile nasconderselo, «questa manovra è davvero il classico topolino partorito dalla montagna: non c’è proprio di che essere contenti, e non si può certo dire di aver corrisposto alle promesse elettorali». Voltare pagina? Senz’altro: con il “partito che serve all’Italia”. Non per rinnegare gli sforzi comunque prodotti dai gialloverdi, ma per dare risposte più chiare. Imperativo categorico: muoversi a testa alta, senza più piegarsi ai diktat dei soliti noti. Brutto spettacolo, infatti, quello degli elettori delusi. Sondaggi impietosi: Lega in calo, dopo il cedimento a Bruxelles.Tutto cambia velocemente, ormai: Salvini aveva portato il partito al 36%, dopo averlo resuscitato partendo dal 4%. L’importante, dice Magaldi, è che i media non facciano finta di non saperlo: è un errore dare spazio solo a chi oggi ha più voti. «Più che sui numeri, sempre fluttuanti, i media dovrebbero basarsi sulle idee in campo, permettendo al pubblico di ascoltarle tutte. Cosa che invece – segnala Magaldi – continua a non avvenire, ad esempio riguardo ai contenuti di strettissima attualità da me portati all’attenzione del pubblico con il libro “Massoni”, uscito a fine 2014». Una specie di scandalo nazionale: un bestseller “silenziato”, che dopo quattro anni è ancora in testa alla classifica Ibs tra i saggi di argomento politico. «Eppure non c’è stato un cane che ne abbia parlato, in televisione», aggiunge l’autore. Sul piccolo schermo è invitata «gente che scrive libretti e libracci, peraltro poco letti». Sul suo libro, invece, «evidentemente c’è una circolare per tutte le televisioni del regno, in cui si dice: non invitate l’autore e non parlate del libro». Perché fa tanta paura, “Massoni”? Perché fa nomi e cognomi, ma senza scadere nel complottismo: offre un filo rosso, storico, per rileggere il Novecento tenendo conto dell’aspetto meno visibile del potere, quello incarnato dalle 36 superlogge sovranazionali che, di fatto, decidono i destini del pianeta. E oggi più che mai cercano di condizionare anche quello dell’Italia, nello scontro con l’Ue.«Sappiamo che quel libro l’hanno letto in tantissimi: tutti gli addetti al lavori». Perché Magaldi non viene invitato a parlarne nei principali talkshow? «La risposta temo sia questa: anche solo pochi minuti miei, in una qualunque trasmissione di punta, avrebbero conseguenze non digeribili dal sistema. Per cui vengono invitate persone che, anche quando dissonanti, fanno meno paura». Eppure, le idee dell’area attorno al Movimento Roosevelt non passano inosservate, se è vero che La7 ha segnalato l’assemblea del 22 dicembre a Roma: i fatti, annota Magaldi, «sembrano dare ragione al conduttore David Gramiccioli, secondo cui i media mainstream – anche senza citare la fonte – affrontavano spesso i temi toccati il lunedì, con me, nella sua trasmissione radiofonica “Massoneria On Air”». Ora, però, “Coffee Break” sembra aver sdoganato, giornalisticamente, l’ambiente politico nel quale è impegnato Magaldi. Che commenta: «Accolgo con sorpresa e compiacimento questa attenzione, non richiesta, da parte de La7: forse si stanno aprendo le maglie di un certo muro di omertà? Forse qualche giornalista televisivo ritiene di poter avere la libertà di parlare anche di progetti politici legati al sottoscritto?».Magaldi si mostra ottimista: si stanno muovendo «élite al servizio della democrazia» ma anche «molti cittadini, che dal basso vogliono rivendicare la loro sovranità». Anche i media mainstream potrebbero quindi decidersi a smettere di censurare tutto il pensiero sgradito ai padroni del vapore? Innanzitutto servono spiegazioni: se il Movimento Roosevelt è aperto a esponenti di qualsiasi partito, il “partito che serve all’Italia” vuol essere un soggetto plurale, senza protagonismi narcisistici. «Posto che in Italia c’è una crisi dei partiti e dei movimenti, ormai da tantissimi anni, e che anche Lega e 5 Stelle non appaiono più tanto convincenti, ci siamo detti che forse è il caso di perseguire anche la strada della costruzione di un partito». Ma attenzione, avverte Magaldi: non esiste ancora neppure un soggetto giuridico, c’è solo la proposta di iscriversi a una futura assemblea costituente del “partito che serve all’Italia” (nome provvisorio, in attesa che il nuovo soggetto venga poi battezzato dai suoi stessi costituenti). «In questa iniziativa sono coinvolte tante persone di pregio». Per sé, Magaldi non prenota alcun ruolo preminente: «Vogliamo contribuire a una casa comune di cittadini e rappresentati di associazioni, partiti e movimenti preesistenti, che vogliono fondersi in un nuovo progetto unitario».Quella del 22 dicembre è stata un’ottima partenza, assicura Magaldi: molti entusiasmi e parecchia concretezza. Prossima tappa, il 10 febbraio: un altro passo verso l’assemblea costituente del futuro partito. «Sarà una riunione ancora più allargata, dove verrà messa a punto un’agenda più definita». C’è anche chi annuncia l’imminente comparsa di Gilet Gialli all’italiana: «Ottima cosa, specie se tutto fosse fatto con razionalità e sapienza, cioè senza quel caos che in passato ha caratterizzato movimenti come quello dei Forconi». In altre parole: a stimolare il governo potrebbe anche servire «una protesta pacifica, forte e ferma, ma mai violenta», proprio in nome di quella democrazia che si rivendica, lungi dalle convulsioni che, in passato, sono state cavalcate dalla strategia della tensione al servizio di poteri oscuri. Eventuali Gilet Gialli a parte, secondo Magaldi «questa Italia a cavallo tra 2018 e 2019 promette bene: credo si stiano aprendo nuovi margini di manovra, e mi fa piacere che il “partito che serve all’Italia” si vada arricchendo di entusiasmi e di sguardi incuriositi, anche da parte del mainstream». Forse, nell’attuale caos politico, le maglie si diradano.In ogni caso, sul cambio di passo necessario, Magaldi ha le idee chiare: «Io credo che il riscatto democratico – per l’Italia, per l’Europa, per il mondo – nasce se gente la smette di rimproverare semplicemente gli altri, gli oligarchi, i cattivoni, i buratttinai che gestiscono male la globalizzazione e l’Europa, insieme alla casta politica che ammorba l’Italia, e così i ladroni e i corrotti, i banchieri». Lo stesso Magaldi ricorda che la sovranità democratica «è stata costruita, attraverso lotte sanguinose, da avanguardie massoniche alleate di fasce popolari più coraggiose e consapevoli». E dunque «è qualcosa che va sempre mantenuto, difeso, consolidato». Insiste: «Invece di lamentarsi del potere degli altri, forse sarebbe il caso di rendersi conto che la propria impotenza è figlia della propria inconsapevolezza». Ovvero: «Il popolo è molto più forte e temibile di qualunque potere oligarchico. E’ che questo popolo, appunto, “se la fa raccontare”, si illude». Quanto cambierebbe, la situazione, se si acquisisse – a livello di massa – la conoscenza dei temi trattati in libri come quello di Magaldi? «Se milioni di persone si rendessero conto di certe cose, magari acquisirebbero quell’orgoglio che permetterebbe loro di rivendicare la propria sovranità. E invece di piangere sul potere altrui eserciterebbero un potere in proprio. E’ il potere pacifico della democrazia: quello che ti fa capire cosa devi fare tutti i giorni, come singolo cittadino, per indurre chi ti rappresenta nelle istituzioni a fare di più e meglio».Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?
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Magaldi: altro che Global Compact, serve una rivoluzione
Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si mettono in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».In una conversazione a ruota libera su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” all’indomani della “resa” di Macron alle richieste dei Gilet Gialli, che chiedono che il governo annulli tutte le misure di austerity annunciate, Magaldi parte proprio dalle polemiche sul Global Compact. Un’intesa solo pletorica e fondata su impegni non cogenti, peraltro già boicottata da vari pesi massimi della politica mondiale. Eppure c’è chi la indica come pericoloso cavallo di Troia dell’élite neoliberista, che promuove l’emigrazione di massa per abbassare il costo del lavoro in Occidente a spese dei lavoratori autoctoni. Sdoganare l’emigrazione come fenomeno fisiologico? Mai e poi mai, protesta – sempre in web-streaming con Frabetti – un altro “roosveltiano” come Gianfranco Carpeoro: «Vorrei vedere nelle nostre strade solo studenti africani e turisti africani, non africani che abbiamo costretto a scappare dai loro paesi». Magaldi concorda: il potere che oggi difende l’esodo di massa è il primo responsabile dell’impoverimento di milioni di persone, nel cosiddetto terzo mondo. L’immigrazione va controllata, è ovvio. Ma per scoraggiarla serve una riconversione globale della politica, ad esempio mettendo fine al saccheggio dell’Africa. A patto comunque che non si pretenda di alzare muri: impensabile isolare le popolazioni entro le gabbie nazionali, in un pianeta ormai completamente interconnesso (e spesso felicemente, grazie al contatto tra culture diverse).Il problema semmai è nel manico, insiste Magaldi: è impossibile far applicare un qualsiasi Global Compact, così come gli stessi innumerevoli trattati sul clima, perché manca un potere decisionale democratico mondiale. Manca, per lo spesso motivo per cui finora la mondializzazione non è stata certo democratica: è stata finora condotta da oligarchie private, ricorda Magaldi, a partire dall’inizio degli anni ‘90, subito dopo il crollo dell’Urss e la nascita dell’Ue, e poi con la deregulation finanziaria e l’ingresso del colosso cinese nel Wto. Ad oggi abbiamo visto solo una globalizzazione di merci e capitali. «La libera circolazione delle persone? Si è favorita un’immigrazione incontrollata, creando competizione tra poveri e abbassamento del costo della manodopera». Altri danni, ai sistemi sociali occidentali (leggasi: lavoratori) sono stati provocati dalle delocalizzazioni industriali. Fermare tutto e tornare ai dazi nazionali degli uni contro gli altri? Pessima idea: «In passato, le politiche protezionistiche sono sfociate in guerre sanguinose. E oggi si avrebbero comunque guerre economiche cruente, alla fine non convenienti per nessuno».Per Magaldi, serve «una globalizzazione di diritti, opportunità e democrazia». Facile a dirsi, certo. Ma intanto, chi lo dice, nel mainstream politico dominato da polemiche sempre più accese? «In Italia – aggiunge Magaldi – l’immigrazione rischia di diventare solo un mezzo, strumentale, per creare tensioni sociali (e in questo caos, poi, sappiamo che le solite “manine” si muovono in termini opachi)». Che fare? Semplice, in teoria: dobbiamo «mettere all’ordine del giorno mondiale una rivalutazione della politica, che deve tornare a essere il centro decisionale di ogni cosa che riguardi i livelli locali e globali». E cioè: «Ripensare gli interessi globali, valorizzando gli equilibri e le risorse locali». Sarebbe la migliore risposta a questa globalizzazione, «sorretta dall’ideologia neoliberista e gestita soprattutto da poteri privati». Al contrario, bisogna «puntare una globalizzazione gestita, a livello apicale, da poteri politici globali». Dovevano farlo prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu. Due fallimenti storici. Una cosa è certa: così non si andrà lontano. Meglio allora «pensare a una trasformazione dell’Onu, verso una nuova politica democratica che abbia l’ultima parola nei grandi processi decisionali».Sbaglia, chi pensa di poter contrastare poteri sovranazionali e apolidi (cioè incarnati da avventurieri senza patria), rintanandosi «nel fittizio calduccio delle comunità nazionali». Quelle stesse comunità, sostiene Magaldi, le vedremmo «sempre scosse da poteri più ampi, di natura globale: che vanno contrastati e ricollocati nella loro giusta dimensione da poteri politici altrettanto globali». Poteri che – a quel punto – potrebbero anche costruire democraticamente un vero Global Compact, ben diverso da questa aleatoria dichiarazione d’intenti non vincolante («molto rumore per nulla, salvo enunciazioni sottoscrivibili, a favore dell’estensione dei diritti umani, se non sapessimo che sono soltanto parole»). In altri termini: «Se vogliamo essere concreti, bisogna che gli organi preposti ad attuare questi principi abbiano un potere cogente, però democratico e non calato dall’alto». Premessa: «Dobbiamo essere capaci di riflettere sulla natura del mondo che vogliamo». Prima di scrivere qualsiasi Global Compact, cioè, occorrerebbe disporre di una vera Organizzazione Mondiale delle Democrazie, «che sostituisca l’attuale Onu ed escluda anche dal circuito commerciale delle merci e dei capitali i paesi privi di standard democratici, premendo su di essi – anche con sanzioni economiche – perché i loro regimi evolvano verso forme democratiche».La verità, insiste Magaldi, è che questo tipo di globalizzazione – l’unica vista finora – ha deluso molti, perché al primo posto non c’è la diffusione mondiale della democrazia e dei diritti. Ultima cartina di tornasole: i francesi. «Alle elezioni sono stati obnubilati dalla mistificazione mediatica: bastava guardare cos’era Macron, consulente economico di Hollande e poi ministro del governo Valls voluto da Hollande». Appunto: «In che modo poteva rappresentare una soluzione di continuità rispetto a Hollande che, eletto a furor di popolo per rappresentare il campione anti-austerity e anti-Merkel in Europa, aveva tradito tutte le aspettative? Le ha tradite anche Macron». Al primo turno, Macron aveva ottenuto solo pochi decimali più dei concorrenti, «poi al ballottaggio contro Marine Le Pen avrebbe vinto chiunque». Oggi la democrazia francese appare bloccata: «Fintanto che un certo tipo di opposizione si radicalizzerà in gruppi politici infecondi, l’altro candidato avrà sempre la meglio». Vincerà sempre il più “moderato”, si sarebbe detto un tempo. Non è più vero: «In Francia come altrove, oggi la parola “moderazione” non significa più nulla», se è vero che Macron – dietro l’apparenza – era il candidato dell’élite economica più pericolosamente estremista, come dimostra l’esasperazione di massa dei Gilet Gialli.Insurrezione, la loro – non proprio rivoluzione, «che però ha un enorme valore per lo spirito messo in evidenza», sottolinea Magaldi: «Qui c’è un popolo, un’avanguardia popolare largamente sostenuta dal paese, che dice basta: denuncia l’insostenibilità di salari che, al netto delle tasse, non consentono di arrivare alla fine del mese. Ed è la fotografia, appunto, di una cattiva globalizzazione, dove i ricchi sono sempre più ricchi, mentre per la gran parte della popolazione la fetta da spartire si è ridotta, e la classe media è stata compressa persino nella ricca e opulenta Francia». Qualunque economista, oggi, ammette che è cresciuta enormemente la disuguaglianza: si è fatto enorme il divario tra ricchi e poveri, in questa «iniqua e stupida modalità di gestire la globalizzazione». Stupida ma, beninteso, «figlia di un’impostazione raffinata, perversa e intelligente nel produrre i suoi effetti, che spero – dice Magadi – saranno l’occasione per produrre una grande rivoluzione democratica».La stupidità di questi globalizzatori, spiega il presidente del Movimento Roosevelt, sta «nel pensare che si poteva impunemente gestire la globalizzazione in questi termini, e che in Francia – dopo il bluff e la delusione di Hollande – si poteva impunemente imporre al popolo francese un damerino, un cicisbeo inconsistente come il fratello massone Macron, fintamente progressista e fintamente europeista». Un personaggio che invece di proporsi come presidente della Francia, «propinando ricette economiche analoghe a quelle del suo più modesto alter ego italiano Matteo Renzi», avrebbe fatto meglio a «rimanere nella sua vita privata di collaboratore bancario», uomo di fiducia della filiera Rothschild. «Oggi più che mai – aggiunge Magaldi – gestire il futuro dell’Europa è un compito che richiede persone con uno spessore molto diverso. Purtroppo invece abbiamo una classe dirigente europea che è fatta di cialtroni e di mediocri. E infatti, «da bravo cialtrone», dopo aver sbagliato «adesso Macron fa atto di contrizione e torna sui suoi passi», rimangiandosi i provvedimenti che hanno provocato la rivolta dei Gilet Gialli.«Io credo che Macron dovrebbe invece dimettersi», taglia corto Magaldi. E già che c’è, all’ex enfant prodige dell’Eliseo converrebbe «confessare che stessa costruzione della sua presidenza è figlia di una visione sbagliata dei rapporti sociali ed economici». Lo stesso Magaldi ne approfitta per citare il filosofo statunitense John Rawls, massone progressista come i Roosevelt, i Kennedy e lo stesso Keynes, tutti sostenitori del libero mercato integrato nel welfare: «Non c’è niente di male nell’arricchirsi, purché non si tolga agli altri l’essenziale per una vita dignitosa e felice. Invece, la pretesa perversa che ha guidato sin qui la globalizzazione e la stessa Europa, sia a livello di tecnocrazie continentali che di singoli governi, è che i ricchi possano arricchirsi a dismisura, mentre masse di diseredati si debbono contendere le periferie e la stessa classe media, ormai scomparsa, vede ridotta sempre di più la propria capacità di spesa, in un mondo occidentale che peraltro è ricco di opulenza – altro che penuria di risorse! – ma sono sempre di meno quelli che possono approfittarne in modo adeguato». Questa, aggiunge Magaldi, «è la pretesa, la hybris, l’arroganza infingarda» dell’attuale élite neoliberista.Quanto ai Gilet Gialli, «sebbene questa non credo sia una rivoluzione ma un’insurrezione ancora scomposta», il clima generale – francese, ma anche europeo e mondiale (senza contare l’Italia, dove si gioca una partita importante) – secondo Magaldi «è quello che in qualche modo precede una rivoluzione, spero pacifica e democratica». Il governo italiano, fra l’altro, «ha il dovere di guardare a quello che accade in Francia, e di capire che – così come ha deluso le aspettative Macron – rischia di deludere le aspettative del popolo italiano (e anche di altri popoli, che guardano all’Italia come a una possibile avanguardia)». Stiano attenti, i gialloverdi: «Con una spallata potrebbero abbattere questo Mago di Oz collettivo, di cui Macron era parte». O meglio: “potevano”, con una spallata, «tener davvero fede a quell’atteggiamento muscolare che Salvini realizza soltanto a chiacchiere». E invece l’Italia «sta come uno scolaretto che si fa prendere per le orecchie e si fa riscrivere la manovra per restare dentro quegli stessi parametri astratti che adesso Macron, campione di quei parametri e di quella cattiva Europa, si appresta a violare in modo netto». Ora è “pentito” e “contrito”, Macron: ma se farà quello che oggi promette, cioè quello che chiedono i Gilet Gialli, andrà ben oltre i limiti imposti dall’Europa all’Italia. In altre parole: ne vedremo delle belle. Insiste Magaldi: fidatevi, tutto è in rapida evoluzione. E clima lascia presagire esiti rivoluzionari.Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si metteranno in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».
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Magaldi: se cedono sul deficit i gialloverdi perdono la faccia
Riscrivere, insieme, le regole del mondo. Ingenuo? Forse, ma necessario. “Se non così, come? E se non ora, quando?”, si potrebbe dire, parafrasando Primo Levi. E’ la premessa – implicita – da cui sembra muovere, sempre, l’analisi che dell’attualità politica offre Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), libro-evento che svela la natura supermassonica del potere mondiale. Da presidente del Movimento Roosevelt, meta-partito che si propone di rigenerare la politica italiana partendo da una piattaforma realmente progressista, fondata sul ripristino della sovranità democratica, Magaldi guarda con attenzione al possibile cantiere rappresentato dal governo gialloverde. Ipotesi: ribaltare la narrazione mainstream, ai cui diktat ideologici «si sono appecoronati l’ex sedicente centrodestra e l’ex sedicente centrosinistra», entrambi proni alle direttive dell’élite finanziaria – in sintesi: smantellare l’industria italiana e privatizzare il paese consegnandolo a un oligopolio di grandi poteri economici finto-europeisti, che in realtà utilizzano l’Ue per i loro obiettivi privatistici. Contro questo establishment, almeno fino a ieri, si era levata la voce dei 5 Stelle, gradualmente sovrastata da quella di Salvini. E ora, dopo tanto abbaiare, il governo Conte si appresta a calare clamorosamente le brache rinunciando al pur misero 2,4% di deficit previsto per il 2019?
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Latouche: consumatori perfetti, cioè infelici. Serviamo così
L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro. Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione, come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha bisogno, se vuole crescere.Dunque, io vedo la felicità come una cosa lontana dalla crescita e, sotto molti punti di vista, in antitesi allo sviluppo. Più cresciamo senza che ce ne sia bisogno, più siamo infelici. Il concetto di felicità inteso come accumulo e consumo, comunque, è piuttosto recente, e risale agli ultimi tre secoli, che non a caso sono i secoli dell’industrializzazione. Prima, il concetto di beatitudine prevaleva su quello di felicità che, per certi punti di vista, nemmeno esisteva. Quando le risorse erano scarse, la frugalità era un valore. Ora che le risorse sono ritenute abbondanti il consumo, invece, è diventato il valore per eccellenza. Io propongo di tornare ad un modello frugale, è vero, ma non può essere questa una mera nostalgia per una mitica età bucolica. Al tempo stesso, però, è molto stupido e bugiardo ritenere che non ci sia mai stata nella storia dell’umanità un’era della frugalità conforme alla natura umana, ai suoi ritmi e ai suoi bisogni. Anzi! Per centinaia di migliaia di anni, cioè per la maggior parte del tempo della nostra storia, l’uomo è stato cacciatore-raccoglitore, e lavorava 2-3 ore al giorno. Il resto del tempo si interessava alle relazioni sociali e al gioco.Dunque, noi oggi lavoriamo quasi il triplo dei nostri predecessori per motivi legati alla crescita fine a se stessa, ma non perché ciò sia necessario alla nostra sopravvivenza, e tanto meno per la nostra felicità. Se la produzione agricola diminuisce secondo un modello di decrescita, com’è possibile mantenere alti standard di quantità e qualità alimentare? L’agricoltura è stata industrializzata a partire dal Settecento. Prima della rivoluzione agricola e industriale c’erano dei terreni comuni, cioè terreni di tutti, dove si pascolava il bestiame (openfield). Poi, in Inghilterra sono arrivate le recinzioni (enclosures) che hanno responsabilizzato i coltivatori, hanno aumentato la superficie coltivabile e implementato l’ambizione del proprietario della terra. Ciò ha determinato una grave crisi per quel modello contadino, basato sull’economia di villaggio, il dono e la solidarietà. Si può recuperare qualcosa del modello “openfiled” senza però gettare vie le conquiste fatte in questi secoli in termini di progresso? Ci sono molte proposte, ma la più credibile e percorribile è quella dell’agricoltura biologica, perchè riduce al minimo gli sprechi e consente anche di salvare i beni comuni dalla privatizzazione.Per beni comuni intendo realtà materiali come ovviamente l’aria e l’acqua, ma anche beni non legati alla natura, come i trasporti, l’istruzione e la salute. La decrescita prende atto che lo sviluppo per lo sviluppo non ha senso. Lo sviluppo ha senso solo se soddisfa determinati bisogni, altrimenti diventa una religione: la religione dell’economia. Se guardo alla mia personale biografia devo ammettere che anch’io ero caduto nell’errore di pensare che la crescita produttiva fosse sempre e comunque positiva. Ho lavorato in Africa, ad esempio, e anche da quell’esperienza mi sono reso conto che nel tentativo di industrializzare l’Africa stavamo facendo lo stesso errore fatto in Unione Sovietica, che infatti si è rivelato un errore grave perché quel tipo di comunismo ha cercato di combattere il capitalismo sul suo stesso terreno, e cioè quello della produttività fine a se stessa. Tra le dottrine economiche elaborate negli ultimi secoli, marxismo e Keynes rappresentano senza dubbio alternative che mi piacciono, se non altro perché mirano a risolvere la disoccupazione, che è l’arma attraverso la quale il capitale alimenta se stesso producendo precarietà, e dunque ricatto (e il consumismo, che come detto si basa sull’infelicità e l’insoddisfazione).Detto questo, tuttavia, è più corretto pensare alla decrescita più come ad una “mentalità”, ad un salto culturale, che non come ad un’alternativa qualsiasi al modo di produzione. Il pensiero liberale si è imposto come cambio di paradigma ed è basato su un’autoregolazione del mercato che esiste solo nella fantasia, come quella di una “mano” che non si vede. Concetti come “decrescita” e “frugalità” hanno a che fare con il concetto di limite, un concetto che aveva un grande valore nell’antica Grecia e che oggi è stato sostituito dal suo opposto: l’illimitato. Per recuperare il limite come valore è necessario tornare alle poleis greche, cioè al comunitarismo? Io sono un fiero avversario dell’universalismo, cioè di quella ideologia secondo la quale ci sono valori assoluti determinatisi in Occidente ed esportabili in tutto il mondo. Pertanto, credo che le comunità locali siano una valida risposta alla globalizzazione del mercato, che è la nuova veste assunta dall’imperialismo, seppur più subdola e pericolosa di altre ideologie del passato.La Terra è un pianeta con un ecosistema finito, ma l’universo ci vene raccontato come infinito, o perlomeno in espansione. Si può sostenere che il concetto di limite sia dato da limiti umani che verranno a breve superati, oppure anche l’universo ha dei limiti? La fisica non sostiene affatto che l’universo sia infinito, ma a prescindere da questo non è stato ancora detto come trasportare gli esseri umani, probabilmente tutti, e cioè 7 miliardi, nel pianeta vivibile più vicino. Secondo alcuni, il pianeta vivibile più vicino si trova a decenni di anni luce dalla Terra, e non è nemmeno sicuro che sia idoneo alla nostra sopravvivenza. Inoltre, nessuno è ancora in grado di dirci con quale tipologia di carburante si potrà inaugurare una simile Arca della salvezza. L’ipotesi transumanista non è percorribile al momento e, direi, non è nemmeno auspicabile. Qual è lo stato dell’arte del progetto sulla decrescita? Ad alti livelli il dibattito – anche in Francia – è zero, nel senso che non se ne parla e non se ne vuol parlare tra istituzioni e politici, e stessa cosa dicasi per il mondo accademico. Diverso il discorso per l’ambito culturale, tra le associazioni e tra le persone comuni. Temo però che a prescindere dal dibattito, il collasso del sistema sia dietro l’angolo e che quindi poi il cestino, a cose fatte, ci farà esclamare: “Troppo tardi, coglioni!”.(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate in una recente conferenza a Sernaglia della Battaglia, Treviso, moderata e condotta da Massimo Bordin, che ha riportato il testo integrale della conversazione del suo blog, “Micidial”, il 9 novembre 2018).L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro. Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione, come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha bisogno, se vuole crescere.
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La faccia tosta di Prodi, il pifferaio della svendita dell’Italia
Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.Questo è l’uomo che ha oggi la faccia tosta di lanciare un appello (sulle pagine del “Corriere della Sera” di venerdì 5 ottobre) per salvare l’Italia che, parole sue, «rischia di diventare una democrazia illiberale». Democrazia illiberale è un termine interessante, quasi un lapsus. Il binomio democrazia-liberalismo si è infatti dissolto da un pezzo, come hanno spiegato, fra gli altri, Colin Crouch e Wolfgang Streeck: i nostri sono regimi post-democratici, nei quali la democrazia si riduce all’esercizio formale di alcune procedure, mentre le vere decisioni sono delegate ai “mercati” (mitiche entità impersonali dietro cui si celano gli interessi di ben precise caste economiche), in nome dei quali governano esecutivi che giustificano le proprie decisioni antipopolari con i vincoli (che loro stessi hanno scelto di autoimporsi!) dettati da istituzioni sovranazionali prive di legittimazione democratica. Regimi liberali, nel senso che vengono ancora rispettati i diritti civili e individuali (ma non quelli sociali!), ma certamente non democratici, come ha sperimentato sulla propria pelle il popolo greco.Parlando del pericolo dell’avvento di una “democrazia illiberale”, Prodi e soci manifestano la propria paura che possa ritornare una democrazia capace di far valere gli interessi delle classi subalterne. Un ritorno che, causa la latitanza delle forze politiche che avrebbero dovuto difenderla (quelle sinistre che oggi ballano come topolini al suono dei pifferi liberali), ha assunto il volto “barbaro” della rivolta populista: dall’elezione di Trump, alla Brexit, alla bocciatura del referendum renziano, passando per la valanga di voti raccolti da formazioni di diversa coloritura ideologica (Lega e M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, ecc.) ma accomunate dal rifiuto del pensiero unico liberal/liberista. Per certa gente la democrazia diventa illiberale quando capisce che il popolo non la segue più, che non riconosce più la loro autorevolezza di “esperti” e pretende di avere voce in capitolo su temi che è troppo rozza per capire. È allora che viene agitato lo spettro di una democrazia che può trasformarsi in “dittatura della maggioranza”, o addirittura suicidarsi, aprendo la strada all’avvento di regimi totalitari. È allora che si lanciano appelli come quello di Prodi (rilanciato da Gentiloni il giorno seguente) che invita a costruire un fronte “antipopulista” che dovrebbe andare da Macron a Tsipras.Quale sublime sfrontatezza: si chiama a raccolta Tsipras, l’uomo che ha tradito il voto del suo popolo, piegandosi alla volontà della Troika e accettando che la Grecia venisse ridotta allo stato di colonia, un uomo che non ha più alcun titolo per dirsi di sinistra (giustamente Mélenchon ne ha chiesto l’espulsione dal gruppo parlamentare della sinistra europea), accostandolo a Macron, l’uomo che dopo essere stato eletto in nome di una sacra unione antipopulista, è riuscito, a causa alle sue scellerate scelte antipopolari, a perdere in tempi brevissimi il consenso raccolto con quell’espediente. Senza operare alcuna riflessione autocritica, si rilancia un progetto che si è già dimostrato fallimentare, nella speranza di poter cancellare – con la complicità del terrorismo mediatico – l’evidenza dei fatti e di far dimenticare ai cittadini il recente passato. Non funzionerà. O meglio: non funzionerà per la maggioranza dei cittadini, funzionerà invece nei confronti dei resti d’una sinistra che continua a correre verso il baratro come un branco di lemming.(Carlo Formenti, “Prodi ovvero il pifferaio stonato”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2018).Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.
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Magaldi: la montagna gialloverde ha partorito un topolino
Diciamola tutta: alla fine, la montagna gialloverde «ha partorito il classico topolino». Dove lo vedete, il sacrosanto taglio delle tasse promesso dalla Lega in campagna elettorale? E qualcuno sa che fine ha fatto, esattamente, il mitico reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei 5 Stelle per sostenere le fasce sociali più in affanno? Sembra arrivata l’ora del disincanto, per Gioele Magaldi, tenace difensore d’ufficio del governo Conte, pur privato di un uomo come Paolo Savona al dicastero dell’economia. E se si passa per la capitale, si scopre che il disincanto è letteralmente esploso, ma non da oggi: «E’ insensato che si festeggi Virginia Raggi per aver evitato una condanna penale, peraltro solo in primo grado, quando la giunta capitolina non ha mai neppure cominciato a occuparsi seriamente di Roma». La sindachessa pentastellata «ha disatteso tutte le aspettative di chi l’aveva votata, sperando in un cambio radicale nella governance della città». Ma poi, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, scopri che – sul fronte opposto – il rimedio è peggiore del male. Vedasi il referendum (abortito) sull’Atac, promosso dai radicali: ancora una volta, si è tentato un assalto neoliberista per privatizzare un servizio pubblico, magnificando le immaginarie virtù del privato. «Come se non esistesse l’esempio dell’Atm di Milano, municipalizzata, indicata anche all’estero come modello perfetto di trasporto pubblico efficiente».Questa è l’Italia dell’autunno 2018, sintetizza Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da un lato il “governo del cambiamento” riesce a cambiare ben poco, e dall’altro gli oppositori (partiti-zombie, media mainstream e vecchio establishment) continuano, in modo piuttosto penoso, a demonizzare Di Maio e in particolare Salvini, presentato come una specie di orco, un vero e proprio mostro di cinismo, a causa della sua politica muscolare nei confronti dell’immigrazione incontrollata. Bei sepolcri imbiancati, i detrattori di Salvini, «di manica larga con i migranti, ma pidocchiosi con gli italiani». Tradotto: «Va benissimo aiutare chi sbarca da paesi disastrosamente poveri, a patto però che non si lasci indietro quella fetta di popolazione italiana che fatica ad arrivare alla fine del mese». L’ideale? «Più soldi per tutti, in una sana prospettiva “rooseveltiana”, cioè post-keynesiana. Ma certo, bisogna espandere il deficit. E la cosa non piace, agli avversari del governo, sempre allineati ai diktat della sedicente Europa».Calcisticamente: il possesso palla è ancora al governo, ma tiri in porta non se ne vedono. E se i gialloverdi non entusiasmano, nella metà capo opposta è buio pesto. Zero idee, nessuna alternativa all’euro-catechismo della crisi. Che fare? Tanto per cominciare, investire con più coraggio su un sistema-paese che ha un disperato bisogno di interventi pubblici strategici, in ogni settore, incluso quello delle infrastrutture. I migranti? «Ottimo il Salvini che accusa l’Ue di scaricare il problema solo sull’Italia, peccato che poi i nostri partner continuino a far finta di niente». E a Salvini si può rimproverare qualcosa? «Certo: la mancanza, finora, di una “pars construens”. Va bene ripetere “aiutiamoli a casa loro”, gli africani, ma poi bisogna cominciare a farlo per davvero. Tanto più che una sorta di Piano Marshall per l’Africa darebbe un ruolo importante, all’Italia, anche in termini di leadership euro-mediterranea». L’immobilismo non aiuta. E anzi fa montare polemiche che poi sfociano anche nel complottismo di chi vede, nell’esodo incoraggiato da Soros, l’attuazione del meticciato forzoso vagheggiato dal massone reazionario Richard Coudenhove-Kalergi, precursore del dominio delle élite poi sfociato in questa Disunione Europea, «concepita come Sacro Romano Impero affidato alla manovalanza neo-feudale dei tecnocrati».Fantasmi a parte, Magaldi si richiama a un sano realismo: «L’accoglienza incontrollata di immigrati può mettere in difficoltà i lavoratori italiani, è ovvio. Quello che non è accettabile – dice – è che non si vogliano trovare soluzioni eque, in un mondo che non è mai stato così ricco». Insiste: «La fiaba della penuria è un’invenzione del neoliberismo: virtualmente, nella storia del pianeta, non c’è mai stata tanta disponibilità di risorse, grazie alle tecnologie di cui disponiamo. Ed è inammissibile – sottolinea il presidente del Movimento Roosevelt – che queste risorse vengano concentrate in poche mani, le stesse che poi ci raccontano la favola della scarsità, che serve per declinare le politiche artificiose dell’austerity». C’è un’intera narrazione, da smantellare. Ed è un lavoro che richiede lucidità, determinazione e una buona dose di fegato, assai più di quello finora dimostrato dal governo gialloverde con il suo “rivoluzionario” deficit al 2,4%, ben al di sotto del già inaccettabile tetto del 3% stabilito da Maastricht esclusivamente sulla base della fandonia neoliberista. Roma caput mundi, comunque, almeno a titolo di esempio negativo: fischiare la Raggi per l’ipotetico reato di falso, anziché per il fallimento politico della sua giunta, è come insultare Salvini per la guerra alle Ong anziché pretendere che il governo, finalmente, mandi a stendere con ben altro piglio il rigore Ue, in nome della sovranità democratica cui l’Italia ha diritto.Diciamola tutta: alla fine, la montagna gialloverde «ha partorito il classico topolino». Dove lo vedete, il sacrosanto taglio delle tasse promesso dalla Lega in campagna elettorale? E qualcuno sa che fine abbia fatto, esattamente, il mitico reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei 5 Stelle per sostenere le fasce sociali più in affanno? Sembra arrivata l’ora del disincanto, per Gioele Magaldi, tenace difensore d’ufficio del governo Conte, pur privato di un uomo come Paolo Savona al dicastero dell’economia. E se si passa per la capitale, si scopre che il disincanto è letteralmente esploso, ma non da oggi: «E’ insensato che si festeggi Virginia Raggi per aver evitato una condanna penale, peraltro solo in primo grado, quando la giunta capitolina non ha mai neppure cominciato a occuparsi seriamente di Roma». La sindachessa pentastellata «ha disatteso tutte le aspettative di chi l’aveva votata, sperando in un cambio radicale nella governance della città». Ma poi, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, scopri che – sul fronte opposto – il rimedio è peggiore del male. Vedasi il referendum (abortito) sull’Atac, promosso dai radicali: ancora una volta, si è tentato un assalto neoliberista per privatizzare un servizio pubblico, magnificando le immaginarie virtù del privato. «Come se non esistesse l’esempio dell’Atm di Milano, municipalizzata, indicata anche all’estero come modello perfetto di trasporto pubblico efficiente».
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Ma l’austerity uccide i malati (e aggrava il debito pubblico)
Il vero pericolo per lo stato di salute di un paese e dei suoi cittadini non è rappresentato tanto da una crisi economica ma dalla risposta che a tale evento dà la politica. Non è la recessione in sé a provocare effetti disastrosi sulle vite umane, ma le sciagurate politiche di austerity attuate per superarla. A dimostrarlo sono due esperti di scienze mediche, David Stuckler e Sanjay Basu, nel libro “L’economia che uccide” (Rizzoli, 2013). Dalle ricerche condotte emerge come alcune popolazioni abbiano addirittura riportato un miglioramento nel livello di salute a seguito di periodi di grave crisi economica, come avvenuto ad esempio in Islanda, Svezia e Canada durante le recenti crisi e negli stessi Stati Uniti a seguito della Grande Depressione. È provato, ad esempio, che la minore disponibilità economica induce le persone a spendere meno per alcol e fumo e a preferire gli spostamenti a piedi piuttosto che in automobile, portando in alcuni casi a una diminuzione del tasso di mortalità. Quando per far fronte alla crisi si ricorre invece alle misure di austerity, secondo quello che è il repertorio fisso della ricetta neoliberista, vengono messi in atto una serie di tagli alla spesa pubblica e alla sanità, che minano il ruolo di tutela dei cittadini da parte dello Stato.In perfetto disaccordo con la teoria keynesiana, in un momento in cui la domanda è già depressa, tagliare la spesa pubblica significa indurre i cittadini a spendere meno, avviando così un circolo vizioso in cui a un aggravarsi della depressione della domanda fa seguito un inevitabile aumento della disoccupazione. Questo è il motivo per il quale le politiche di austerity, come testimoniato dal caso del nostro paese, anziché far diminuire il debito lo aumentano. In un simile contesto, caratterizzato dall’alta disoccupazione e l’indebolirsi della rete di sicurezza sociale, la perdita di lavoro può trasformarsi in un problema di salute. Esiste, infatti, una relazione diretta empiricamente comprovata tra spesa in welfare e speranza di vita. Come affermano i due autori: «Il prezzo dell’austerity si calcola in vite umane e quelle ormai perse non potranno più essere recuperate quando il mercato azionario tornerà a salire». A sostegno della loro tesi riportano analisi e testimonianze di quanto accaduto in Grecia a seguito della crisi, e in Italia a partire dal governo Monti.Dalla crisi economica la Grecia passa alla crisi dell’austerity, ovvero lo shock causato dalle misure imposte. In Grecia il primo pacchetto di misure di austerity imposto dal Fondo Monetario Internazionale è entrato in vigore nel maggio del 2010, senza essere sottoposto ad alcuna votazione. L’obiettivo del piano era «mantenere la spesa per la sanità pubblica al di sotto del 6% del Pil, prestando attenzione al controllo dei costi». Si tratta di un valore decisamente basso per poter garantire la qualità della sanità pubblica: per fare una comparazione, il governo tedesco spende oltre il 10% del Pil. I primi a pagarne le spese sono stati ovviamente gli anziani. Nel solo 2011 i fondi per la prevenzione e la promozione della salute sono passati da 29,6 a 5,9 milioni di euro e quelli destinati alla ricerca e al monitoraggio da 91,9 alle diciotto18,4 milioni di euro (dati Oms). A seguito di tali misure, nel 2011 in Grecia il virus dell’Hiv è aumentato del 52% e si è assistito a un’epidemia di malaria che non si riscontrava dal 1974.Fino ad allora nota come il paese con il tasso di suicidi tra i più bassi in Europa, la Grecia ha riscontrato nel 2012 una crescita di tale indicatore del 25%, a fronte di un raddoppio di persone affette da depressione. La disperazione e la rabbia del popolo greco erano tali che nell’ottobre 2012 l’arrivo della Merkel ad Atene ha richiesto il dispiegamento di 6.000 agenti di polizia per contenere i manifestanti che lanciavano pietre, bruciavano bandiere naziste e intonavano cori che dicevano “no al Quarto Reich”. Nonostante le misure di austerity, il debito pubblico greco non solo non è diminuito ma anzi è continuato a salire. Uno degli argomenti cardine del Fondo Monetario Internazionale a favore dell’austerity sosteneva che il moltiplicatore fiscale relativo alla spesa pubblica fosse pari a 0,5: dunque a un taglio della spesa statale sarebbe dovuta corrispondere una crescita del Pil. Di fronte ai fallimenti conclamati nel febbraio del 2012 il Fondo ha chiesto ai propri economisti di ricalcolare il moltiplicatore e si è scoperto che era inficiato da un errore. Il suo valore era maggiore di 1, quindi ogni taglio avrebbe prodotto una perdita. L’istituto di Washington ha ammesso di aver sottostimato gli effetti negativi dell’austerity sulla perdita di occupazione sull’economia. Quello che doveva essere un aiuto concesso alla Grecia si è tradotto in un disastro: perdita di posti di lavoro, minore reddito, calo della fiducia da parte degli europei.(Ilaria Bifarini, “Grecia, l’austerity che uccide”, dal blog della Bifarini del 7 ottobre 2018).Il vero pericolo per lo stato di salute di un paese e dei suoi cittadini non è rappresentato tanto da una crisi economica ma dalla risposta che a tale evento dà la politica. Non è la recessione in sé a provocare effetti disastrosi sulle vite umane, ma le sciagurate politiche di austerity attuate per superarla. A dimostrarlo sono due esperti di scienze mediche, David Stuckler e Sanjay Basu, nel libro “L’economia che uccide” (Rizzoli, 2013). Dalle ricerche condotte emerge come alcune popolazioni abbiano addirittura riportato un miglioramento nel livello di salute a seguito di periodi di grave crisi economica, come avvenuto ad esempio in Islanda, Svezia e Canada durante le recenti crisi e negli stessi Stati Uniti a seguito della Grande Depressione. È provato, ad esempio, che la minore disponibilità economica induce le persone a spendere meno per alcol e fumo e a preferire gli spostamenti a piedi piuttosto che in automobile, portando in alcuni casi a una diminuzione del tasso di mortalità. Quando per far fronte alla crisi si ricorre invece alle misure di austerity, secondo quello che è il repertorio fisso della ricetta neoliberista, vengono messi in atto una serie di tagli alla spesa pubblica e alla sanità, che minano il ruolo di tutela dei cittadini da parte dello Stato.
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Galloni: agenzia di rating italiana, e salta il ricatto-spread
Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.L’Italia fa bene a tirar dritto e a continuare sul solco di quel compromesso di cui dicevamo. Anche se, paradossalmente, con più coraggio, con una manovra ancora più espansiva, si avrebbe un effetto sul Pil più marcato e quindi un’effettiva riduzione del debito. Avremmo anche una movimentazione pesante di centinaia di migliaia di posizioni lavorative aggiuntive. Ma per fare questo bisogna risolvere due questioni. Oltre all’Europa c’è il prolema dei mercati. Bisogna fare in modo che le nostre banche non siano spiazzate da un cattivo rating. Il vero problema non è lo spread, ma il rating. Se ci abbassassero ancora di rating, potrebbe accadere che le stesse banche non abbiano alcun interesse a mantenere titoli italiani o non lo possano addirittura fare. Una soluzione? Dobbiamo immediatamente attrezzarci con un’agenzia di rating nostra e con un accordo con le grandi banche. Se non si fanno queste due cose è come voler andare ad affrontare i carri armati a mani nude o con le fionde. Ci vogliono invece i bazooka. Il governo deve immediatamente pensare a predisporre delle difese preventive affinché lo spread non influisca troppo sui tassi d’interesse delle nuove emissioni.Dunque, un’agenzia di rating italiana. Poi, se ci accordiamo con altri grandi paesi è ancora meglio. L’importante sono i criteri: questa agenzia dev’essere fatta da professionisti seri, non quelli che fanno parte delle agenzie statunitensi, che consigliavano ai loro clienti dieci minuti prima del crollo dei titoli di acquistarli, come capitato con Lehman Brothers. Servono professionisti bravi che spieghino in base a cosa danno il rating. Da quando esiste la macroeconomia, il rating di un paese dipende dalle sue capacità di esportare e di sostituire importazioni. In pratica, dipende dalla capacità di avere una bilancia commerciale sostenibile. Siccome l’Italia da questo punto di vista sta andando bene, stiamo esportando: siamo la terza potenza mondiale, in quanto a diversificazione merceologica dell’export. E inoltre stiamo sostituendo moltissime importazioni. Non vedo perché dobbiamo avere dei fondamentali negativi. Dovremmo avere anche noi le tre “A”.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Carmine Gazzanni per l’intervista “Un’agenzia italiana di rating per far saltare il ricatto dello spread. L’Italia tiri dritto, basta pensare allo zero virgola”, pubblicata da “La Notizia” l’11 ottobre 2018. Insigne economista post-keynesiano e presidente del Centro Studi Monetari, Galloni è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.