Archivio del Tag ‘killer’
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Armi, droga, porno: Deep Web, non aprite quella porta
Pagine dinamiche ad accesso riservato, mail e home banking, e siti dedicati al commercio di armi, droga ed esseri umani. Database di studi scientifici, accademici e documenti governativi. E poi forum pedopornografici o siti per commissionare omicidi. E’ un oceano sommerso, si chiama Deep Web. «La moneta corrente, là sotto, è il bitcoin», valuta virtuale e molto fluttuante «con cui si può comprare qualsiasi cosa», spiega Andrea Coccia. «Lo scarto tra l’utilità e la legalità di una parte e la pericolosità e l’illegalità dell’altra è talmente immenso da rendere inutile qualsiasi tentativo di definizione in bianco e nero: il Deep Web, come il mondo, non è né buono né cattivo, è semplicemente immenso e in gran parte sconosciuto». Là sotto ci si può trovare di tutto, «il più depravato degli psicopatici e il più geniale degli scienziati». Le regole? Non esistono. «Immergersi in questo universo, la cui grandezza stimata è circa 500 volte il Web visibile e in cui i motori di ricerca non servono (quasi) a nulla, comporta il passaggio di una porta oltre la quale il confine della legalità è molto labile e i pericoli sono sul serio a portata di click».Cos’è il Deep Web? Il modo migliore per capirlo, scrive Coccia su “Linkiesta”, è immaginarsi un iceberg, di cui possiamo scorgere solo la vetta: tutto il resto, quello che c’è sotto, possiamo solo immaginarlo. Ciò che si vede in superficie, il Web visibile, è quello che i motori di ricerca tradizionali, come Google, sono in grado di indicizzare. «Intendiamoci, si tratta di una mole impressionante di pagine – tra i 60 e i 120 miliardi secondo alcune stime». Ma quel che sta sotto, come per gli iceberg, lo è ancor di più: «Se stabilire la dimensione esatta del Web visibile è un’impresa quasi impossibile, stimare quella del Web invisibile, o Deep Web, è un’operazione quasi folle». Uno specialista come Anand Rajaraman, intervistato dal “Guardian”, rivela che «nessuno può fare una stima credibile di quanto sia grande», il Deep Web. «L’unica stima che conosco dice che potrebbe essere 500 volte più grande». In questo oceano, avverte Coccia, non si può accedere né ci si può muovere usando i comuni strumenti di navigazione, come Google. Peggio ancora Facebook: nel Deep Web è pericoloso «usare i propri dati sensibili, mettendo a repentaglio il proprio anonimato e anche la propria sicurezza personale».Per accedere alla rete, spiega “Linkiesta”, è necessario installare e configurare un programma in grado di rendere la navigazione anonima e sicura: uno strumento come “Tor”, per esempio, capace di accedere a pagine con un dominio “strano”, come “.onion”. «Vista l’inefficacia quasi totale dei motori di ricerca che pur esistono a quelle profondità», per muoversi «si deve fare affidamento a delle liste compilate di link come la “Hidden Wiki”, o ai forum di utenti». Ma neanche così la navigazione è immediata, visto che, «proprio per garantire la sicurezza e l’anonimato, le pagine cambiano molto spesso indirizzo, a volte vengono chiuse dai proprietari, dalle cyberpolizie di mezzo mondo o vengono abbattute da gruppi di hacker à la Anonymous». Un parziale elenco «non potrebbe fare a meno di citare hacker russi, dissidenti cinesi, ribelli siriani, militari statunitensi, polizie postali europee, giornalisti indipendenti, anarchici svedesi, complottisti zeitgeistiani, pedofili, assassini, mercanti d’armi e di droga, mafiosi, jihadisti, ma anche moltissimi curiosi».Coccia rivela «10 cose notevoli» che ha trovato nel Deep Web. Citazione dantesca: “Per me si va nella città dolente”. Partenza: «Dopo aver installato e avviato “Tor”, dopo aver controllato che l’Ip fosse effettivamente stato mascherato, la prima mossa dell’improvvido navigatore anonimo è cercare una porta di accesso a questo universo pazzesco», dovendo fare a meno dei motori di ricerca. Un’epigrafe avverte: ti serve la “hidden wiki”, cioè “the door of the deep web”. «Be careful», dice la scritta: potreste essere spiati, hackerati, traumatizzati da contenuti «che non immaginavate potessero esistere». Per Coccia, «è la porta che sceglie, non l’uomo», come scrive Jorge Luis Borges nell’“Elogio dell’ombra”. Senza Google, «ci si deve affidare a liste, documenti, pagine wiki come Hidden Wiki, ad esempio, compilate da utenti – chiaramente anonimi – che offrono una serie di link ordinati in categorie da copiare e incollare sul browser di “Tor” per trovare il cammino. E per quanto di link ce ne siano a decine, tra quelli che non funzionano e quelli che è decisamente saggio evitare di cliccare – segnati come truffe o addirittura non più attivi – la strada, o almeno l’inizio, pare quasi segnata».Già dai primi passi, domina «la sensazione della fuffa», come quella di chi promette una cittadinanza Usa al prezzo di 10.000 dollari. Fuffa, o trappola per “gonzonauti”: «Non definirei in altri modi qualcuno disposto a pagare a un venditore anonimo e completamente sconosciuto diecimila dollari per incrociare le dita e aspettare che un postino gli recapiti la sua carta verde, l’assistenza sanitaria, la patente, il certificato di nascita e tutto il cucuzzaro per diventare a un cittadino americano». Se invece vi piace di più l’accento british, agiunge Coccia, c’è anche la possibilità di trovare passaporti britannici, naturalmente personalizzati. E poi: armi, sigarette, partite di calcio truccate. «Decine di altri siti propongono merce di ogni tipo, ma l’aspetto e la facilità di accesso fanno pensare che anche questi siano solo trappole per improvvidi visitatori curiosi». Ma, con qualche passaggio in più, si inizia a vedere qualcosa di più serio, come il “gran bazar delle droghe”. «Una volta c’era il celebre Silk Road, mitico sito di e-commerce sulle cui pagine si poteva comprare veramente di tutto. Ora che Silk Road è stato chiuso, i suoi figliastri sembrano aver proliferato. Dall’aspetto, ma soprattutto dalla presenza di protocolli di verifica dei venditori, questi siti sembrano più “affidabili”. I prodotti che vendono, invece, restano completamente illegali».Forse proprio perché accessibili senza eccesivi sforzi o conoscenze informatiche particolari, scrive Coccia, quasi tutti questi “negozi” applicano una bizzarra strategia per convincere i compratori a fidarsi: chiedono ai propri clienti «una di quelle cose che si sentono soltanto nei film americani di gangster». Ovvero: «Al momento dell’acquisto si paga la metà, l’altra metà la si salda al momento dell’arrivo della merce». Non mancano vecchie conoscenze, come “Gli Illuminati” (since 1776). «Sì, c’è anche il sito di quei simpaticoni degli Illuminati, per entrare però bisogna registrarsi. Io – ammette Coccia – ho vinto la curiosità e non l’ho fatto, ma nel caso dovrebbe bastare inventarsi un nome utente e una password. Una precauzione: non usate le vostre password normali e preferite codici alfanumerici, non si sa mai». Ma nel regno dei banditi c’è annche il “New Yorker”: non tutto è perduto? «Tra i mercanti d’armi e quelli di droga, tra potenziali pagine di pazzi scriteriati, di illuminati o di complottisti professionali c’è anche un approdo amico: si chiama “strongbox” ed è l’antenna che la redazione del “New Yorker” ha piazzato qua sotto per intercettare segnalazioni anonime, documenti scottanti, leaks o semplicemente racconti di gente troppo timida per mettere una firma ai propri lavori».Altro topos ricorrente: la scritta “Questo messaggio si autodistruggerà in 5, 4, 3…”. «Un’altra di quelle cose che si vedono solo nei film, ma questa volta di quelli con James Bond: i messaggi che si autodistruggono». Il sistema è semplice: «Una volta scritto il messaggio lo si mette su una pagina che viene creata apposta e il cui link è accessibile ua volta sola. Poi sparisce, e il gioco è fatto». La prova che smentisce chi descrive le profondità della rete come un luogo frequentato soltanto da pedofili, hacker e terroristi, aggiunge Coccia, è la presenza di infiniti depositi di ebook, di testi html, txt, doc e pdf di ogni tipo. «Io, per esempio, sono capitato sui vincitori dei Premi Pulitzer, ma sono sicuro che si può fare di meglio». Per concludere, «l’impressione che si ha navigando, ingenuamente e a casaccio, in quel che chiamano Deep Web è un po’ quella che si potrebbe provare giocando con una demo limitatissima di un gioco pazzesco», scrive Coccia. «È chiaro che lì sotto c’è un sacco di roba e un sacco di persone dal molto pericoloso al molto interessante». Il problema è che questa esplorazione «richiede tempo, applicazione, conoscenze e, soprattutto, un obiettivo preciso verso cui puntare». Viceversa, può capitare di sentirsi presi in giro, «come se quelle pagine fossero state messe lì apposta da chi quella rete la usa abitualmente, giusto per divertirsi con i turisti del Deep Web, per guardarli mentre si muovono a casaccio e farsi delle gran risate. E chissà, magari è veramente così».Pagine dinamiche ad accesso riservato, mail e home banking, e siti dedicati al commercio di armi, droga ed esseri umani. Database di studi scientifici, accademici e documenti governativi. E poi forum pedopornografici o siti per commissionare omicidi. E’ un oceano sommerso, si chiama Deep Web. «La moneta corrente, là sotto, è il bitcoin», valuta virtuale e molto fluttuante «con cui si può comprare qualsiasi cosa», spiega Andrea Coccia. «Lo scarto tra l’utilità e la legalità di una parte e la pericolosità e l’illegalità dell’altra è talmente immenso da rendere inutile qualsiasi tentativo di definizione in bianco e nero: il Deep Web, come il mondo, non è né buono né cattivo, è semplicemente immenso e in gran parte sconosciuto». Là sotto ci si può trovare di tutto, «il più depravato degli psicopatici e il più geniale degli scienziati». Le regole? Non esistono. «Immergersi in questo universo, la cui grandezza stimata è circa 500 volte il Web visibile e in cui i motori di ricerca non servono (quasi) a nulla, comporta il passaggio di una porta oltre la quale il confine della legalità è molto labile e i pericoli sono sul serio a portata di click».
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Eutanasia dell’Italia, aspettando l’inferno della Troika
Verrà la Troika e avrà i miei occhi, sembra dire Eugenio Scalfari, che forse trascura l’ultima tragica battuta del “Tamburo di latta”, memorabile film sulla Germania nazista: eravamo un popolo di ingenui, credevamo fosse Babbo Natale e invece quello che bussava alla porta era l’Uomo del Gas. La Troika, peggio dell’orco delle fiabe nere: il braccio armato dell’élite tecno-finanziaria che sta scassinando gli Stati europei riducendoli in miseria e portandogli via tutto. Più che fantascienza, un film dell’orrore. Tutto avviene nella quasi-indifferenza generale. Le televisioni, 24 ore su 24, propongono l’anonimo volto del carneade Renzi, la sua predicazione imbarazzante a cui – questa la notizia – ha creduto, forse per disperazione, il 40% dei votanti alle ultime europee. Lo stellone italiano, Babbo Natale. Ma a bussare alla porta, avverte Ferruccio De Bortoli, sarà proprio lui, l’Uomo del Gas. L’avrebbe confidato ad amici, hanno scritto. Manovra lacrime e sangue in autunno, con prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Poi, comunque, arriverà la falce della Troika: l’Italia sarà commissariata come la Grecia.Un incubo, annacquato ogni giorno da polemiche minute – la distriba sugli 80 euro, le schermaglie parlamentari – mentre il paese affonda ogni giorno di più. E il peggio è che affonda senza neppure l’onore di una diagnosi con dignità politica, con piena cittadinanza in Parlamento. L’Italia, dicono ormai tutti gli analisti economici indipendenti, sta morendo per un motivo elementare: qualcuno, tra Berlino e Bruxelles, ha deciso di assassinarla. L’arma letale si chiama euro, il killer che la impugna si chiama Troika. Ogni possibile restrizione di bilancio – il pareggio obbligatorio, il tetto del 3%, il Fiscal Compact, la mannaia sulla spesa pubblica vitale – è direttamente riconducibile all’euro. Altre spiegazioni non reggono, eppure c’è ancora chi si attarda in chiacchiere su mafia e corruzione, evasione fiscale e auto blu. Se anche suonassero le sirene antiaeree, nessuno le sentirebbe. Non una sola formazione politica è stata capace di organizzare un fronte culturale, una mobilitazione trasversale, nonostante l’emergere ormai dilagante – non nel mainstream, però, ma solo nelle catacombe del web e nelle assemblee porta a porta – di voci autorevoli di esperti, economisti, ex ministri, intellettuali ed ex dirigenti dello Stato, tutti a dire che l’Eurozona è semplicemente demenziale, criminale, insostenibile. E non è stato un incidente, ma un disegno.Scalfari addirittura la invoca, la Troika, confermando – involontariamente – l’allarme lanciato da De Bortoli, che ha già concordato l’abbandono della direzione del “Corriere della Sera”. Renzi, dal canto suo, sembra in gara col Mostro: taglia il Senato, amputa la democrazia elettorale, predispone la più colossale privatizzazione della storia italiana. Forse, semplicemente, tenta di convincere il Mostro a tenersi lontano dall’Italia: se saranno gli italiani a suicidarsi da soli, forse sarà meno doloroso. Siamo a questo? Letture critiche si intrecciano un po’ ovunque, sui blog. L’ok al mostruoso Juncker? Un boccone alla belva Merkel, per tenerla buona. La battaglia europea per la Mogherini, ben relazionata con Kerry? Un messaggio: confidiamo nella protezione americana contro gli abusi disumani dell’asse franco-tedesco. Realpolitik compensativa: silenzio sulla macelleria di Gaza e su quella in Ucraina progettata da Obama, e avanti tutta con l’adesione al Ttip, il Trattato Transatlantico, negoziato in segreto, che potrebbe segnare la fine del made in Italy. «Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe detto De Bortoli. Senza spiegare, peraltro, chi ne sarebbe la salvezza.Verrà la Troika e avrà i miei occhi, sembra dire Eugenio Scalfari, che forse trascura l’ultima tragica battuta del “Tamburo di latta”, memorabile pellicola sulla Germania nazista: eravamo un popolo di ingenui, credevamo fosse Babbo Natale e invece quello che bussava alla porta era l’Uomo del Gas. La Troika, peggio dell’orco delle fiabe nere: il braccio armato dell’élite tecno-finanziaria che sta scassinando gli Stati europei riducendoli in miseria e portandogli via tutto. Più che fantascienza, un film dell’orrore. Tutto avviene nella quasi-indifferenza generale. Le televisioni, 24 ore su 24, propongono l’anonimo volto del carneade Renzi, la sua predicazione imbarazzante a cui – questa la notizia – ha creduto, forse per disperazione, il 40% dei votanti alle ultime europee. Lo stellone italiano, Babbo Natale. Ma a bussare alla porta, avverte Ferruccio De Bortoli, sarà proprio lui, l’Uomo del Gas. L’avrebbe confidato ad amici, hanno scritto. Manovra lacrime e sangue in autunno, con prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Poi, comunque, arriverà la falce della Troika: l’Italia sarà commissariata come la Grecia.
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Caracciolo: polveriera Gaza, il Medio Oriente è impazzito
Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».Esempio, il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana. E poi «la disintegrazione della Libia, il massacro permanente sulle macerie della Siria e la mai spenta guerra civile in Iraq», che ora ha visto riemergere «le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi». Sullo sfondo, scrive il direttore di “Limes”, c’è il rischio che anche la Giordania, «battuta da cotante onde sismiche», finisca per crollare. Grandi domande: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di Assad e gli sciiti iracheni, impegnati a liquidare i Fratelli Musulmani? Inoltre, che fine farà il disegno dell’Iran di «rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti?». Di conseguenza, «Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?».Nel campo palestinese, continua Caracciolo, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. «Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale». Abu Mazen «si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani». Ma la “pax cisgiordana” degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio dei tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. «In questa vicenda – prosegue il direttore di “Limes” – è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso». Sicché, «l’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione».A compiere quel crimine si dice siano stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che «si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale». Dunque una scheggia impazzita, non certo un referente militare della «peraltro divisa» leadership di Gaza. La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, sottolinea Caracciolo, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. «Spirale infinita, ma non uguale a se stessa: a ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso». La crisi «potrà essere sedata, magari a lungo», ma «non risolta». Così, Netanyahu «rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra». L’opinione pubblica israeliana, angosciata dalla continua pioggia di razzi, sta spingendo il premier ad alzare il tiro. «L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: 40 mila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente».Invadere Gaza, dunque. Ma con quale obiettivo? «Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia: impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani». L’ultima cosa che Gerusalemme vuole, sostiene Caracciolo, è «riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa». Incognite pericolose: «La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo».Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».
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Una parlamentare: uccidete tutte le madri palestinesi
«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».Ayelet Shaked, rileva il newsmagazine “Fronte Sud News”, ha espressamente invocato l’uccisione di tutte le madri palestinesi, quelle che partoriscono i «piccoli serpenti» destinati a odiare Israele, lo Stato-prigione che nega loro ogni diritto sottoponendoli a vessazioni quotidiane e durissime repressioni anche in tempo di “pace”, quando cioè non si levano in volo i bombardieri che radono al suolo centinaia di case con dentro le loro famiglie. Le dichiarazioni della Shaked, sottolinea “Sponda Sud”, «sono considerate un vero e proprio invito al genocidio nei confronti dei palestinesi, considerati tutti nemici di Israele e dunque da eliminare». Parole sanguinarie, che ancora nel 2014 hanno libero corso in un paese che dopo decenni non riesce ad ammettere di essere nato, storicamente, dal “peccato originale” della pulizia etnica contro i palestinesi, come ricorda il professor Ilan Pappe, il più importante storico israeliano. Un genocidio avviato molto prima di Auschwitz e poi rimosso dai maggiori leader, tutti ex terroristi ricercati dalle autorità coloniali inglesi prima della Seconda Guerra Mondiale.Contro le sanguinarie parole di Ayelet Shaked, riferisce “Press Tv”, si è scagliato anche il premier turco, Recep Tayyip Erdoğan: «Una donna israeliana ha detto che le madri palestinesi devono essere uccise. Questa donna è un membro del Parlamento israeliano: qual è la differenza tra questa mentalità e Hitler?». Il premier turco ha inoltre accusato Israele di fare del terrorismo di Stato contro i palestinesi nella regione. Parlando in Parlamento, Erdoğan ha anche criticato il silenzio del mondo verso le atrocità commesse da Tel Aviv contro il popolo palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza. Se Erdoğan parla anche per ragioni di politica interna – i turchi non hanno dimenticato l’aggressione della marina israeliana contro la Freedom Flotilla che portava aiuti umanitari nella Striscia – colpisce la incredibile sordità della “comunità internazionale” di fronte all’ennesimo massacro ordinato dal governo Netanyahu. Data la situazione, le terribili parole di Ayelet Shaked sono più illuminanti del bagliore dei missili.«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».
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Non è stato un incidente: chiedetevi perché sono morti
Cos’hanno in comune Olof Palme, Patrice Lumumba, la principessa Diana, il dottor David Kelly, Robin Cook, Yasser Arafat, Slobodan Milosevic e Hugo Chavez? E i musicisti che si sono opposti alla macchina da guerra occidentale, come ad esempio Jimi Hendrix, Jim Morrison, Bob Marley, John Lennon e Michael Jackson? Potrebbero essere stati uccisi anche per le loro teste, oltre che per le loro voci troppo indipendenti? Nonostante le prove indichino che sì, sarebbe possibile, pochissime persone sono disposte ad avventurarsi da quelle parti, compresi i tanti professionisti il cui compito sarebbe invece quello di farlo. E questo gli assassini lo sanno benissimo. Le prove (sia forensi che confidenziali) che sono state accumulate nel corso dei decenni, indicano che le morti di decine di influenti figure pubbliche occidentali, che si credeva fossero naturali o frutto di sfortunati incidenti, erano invece degli omicidi politici.Senza quasi eccezione, questi omicidi erano stati progettati e realizzati da forze che si nascondevano nelle zone grigie dei servizi segreti militari dei paesi Nato, scrive Tony Gosling su “Rt” in un servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”. Per secoli, le parti in conflitto erano ben consce di come “un’onesta carneficina” sul campo di battaglia fosse la cosa migliore da fare, «ma dopo due guerre mondiali e l’insediamento dei filo-nazisti fratelli Dulles al Dipartimento di Stato Usa e alla Cia, tutto questo è cambiato: il complesso militar-industriale che essi hanno contribuito a creare è stato reso pressoché inattaccabile», grazie al mondo «colossale e segreto» delle comunicazioni strategiche, «più correttamente definito come “industria della propaganda”». La verità è che «viviamo in un’epoca in cui i media occidentali sono stati virtualmente fagocitati dagli interessi bancari e militari». E la Nato, che dovrebbe avere carattere difensivo, «grazie ai suoi eserciti ed ai suoi contractor privati (che fomentano carneficine in tutto il mondo)» è diventata una sorta di “Napoleone nucleare”, «che sta rendendo sempre più vicino il giorno in cui queste meravigliose armi potrebbero essere nuovamente utilizzate».La regola, aggiunge Gosling, è che «vanno bene solo i politici malleabili e “approvati” dalle multinazionali». Gli altri, vengono sabotati o addirittura eliminati fisicamente. «Per cominciare, sono stati assassinati i veri combattenti per la libertà, come ad esempio il congolese Patrice Lumumba». Un ufficiale dell’intelligence britannica in pensione, Daphne Park, ha ammesso solo nel 2013 che Lumumba fu quasi certamente assassinato dallo MI6, lo spionaggio inglese. Il laburista Robin Cook, ex ministro degli esteri britannico, si dimise subito prima dell’invasione militare dell’Iraq, nel marzo 2003. Negli anni successivi, preparandosi a guidare i laburisti nell’inevitabile dopo-Blair, aveva regolarmente condannato le azioni del premier e di Bush. Un giorno, nell’agosto 2005, mentre camminava con la moglie sulla montagna di Ben Stack, fu colpito da un “attacco di cuore”. Un elicottero militare che si esercitava in quella zona lo caricò a bordo per portarlo in ospedale. «Alla moglie Gaynor e ad un “misterioso soccorritore” che si trovava a passare da quelle parti non fu concesso di accompagnarlo», scrive Gosling. «Si dice che Cook sia morto in elicottero, nel volo verso l’ospedale».Il leader laburista predecessore di Blair, John Smith, morì anch’egli a causa d’un improvviso attacco di cuore. Molti – rileva il giornalista di “Rt” – sospettarono che la morte in realtà fu “indotta”, come sostenne ad esempio un fotografo che aveva parlato con le persone che erano in ospedale, quando Smith fu dichiarato morto. «I politici britannici tuttavia, restarono in silenzio, per timore di sconvolgere la sua famiglia». Dal Regno Unito al Medio Oriente: «E’ ormai chiaro che anche il leader palestinese Yasser Arafat fu avvelenato, probabilmente dagli israeliani, con il polonio radioattivo, proprio come la spia russa (e scrittore) Alexander Litvinenko». Uno studio di Frances Mossiker dimostra che l’uso segreto del polonio prova il ritorno in auge, negli ambienti elitari, di quelle azioni fuorilegge che, a titolo d’esempio, contribuirono a fomentare, a suo tempo, la Rivoluzione Francese. Altro caso, quello di Slobodan Milosevic: nel 2006, dopo aver cominciato a difendersi in modo determinato, anche l’ex presidente jugoslavo fu vittima di un “attacco di cuore”. Si sospetta però che sia morto a causa dell’avvelenamento del suo cibo, nella cella che occupava presso il Tpi, il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, una corte che «dovrebbe costituire un esempio luminoso per tutto il mondo» ma invece «rappresenta solo una versione farsesca della giustizia», con verdetti che obbediscono ai diktat Nato. «Dopo l’esperienza di Milosevic, si può capire perché i detenuti potrebbero fare lo sciopero della fame, quando arrivano all’Aja».Altra situazione ricorrente, l’incidente stradale: «Con i computer di bordo a comando diretto, di cui sono dotati molti veicoli moderni, gli incidenti d’auto sono diventati terribilmente facili da creare», spiega Gosling. La principessa Diana era sopravvissuta al famoso incidente dell’agosto del 1997, visto che la relazione dell’ambulanza indicata uno stato di coma molto lieve, ma molti «ritengono che la sua scomparsa sia avvenuta a causa del viaggio in ambulanza verso l’ospedale, che fu particolarmente lento». Poi ci sono le “coincidenze” di tipo sanitario: «Hugo Chavez morì di cancro nel 2013, dopo che molti leader sudamericani si erano ammalati della stessa malattia, grossomodo nello stesso periodo. Tanto per citarne qualcuno, il presidente argentino Cristina Fernandez de Kirchner, i presidenti brasiliani Lula e Dilma Rouseff e anche il presidente del Paraguay, Fernando Lugo». Facili sospetti, considerati «tutti i composti cancerogeni ben conosciuti dall’uomo di oggi, dalle sostanze radioattive alla diossina». Non ci vuole molta immaginazione per inventarsi un cocktail letale da somministrare all’ignara vittima. E non tutti sono coriacei come Fidel Castro, che si considera scampato a non meno di 600 attentati organizzati dalla Cia.Un capitolo sterminato riguarda la misteriosa morte delle rockstar, al culmine della loro (spesso brevissima) vita spericolata. Credevamo che se la fossero cercata, visto «il loro malsano appetito per le droghe e per la vita estrema», ma ora emergono anche motivazioni politiche, continua Gosling: Alex Constantine, nel libro “The Covert War Against Rock”, spiega che alcuni di loro – come la leggenda della chitarra Jimi Hendrix, veterano del Vietnam e contrario a quella guerra – furono visti come una minaccia per lo sforzo bellico». Si sospetta che Jim Morrison, il cui corpo fu spostato quasi certamente da una discoteca ad un bagno, sia stato assassinato nell’ambito di un preciso programma della Cia, conosciuto come “Cointelpro”. Con un seguito a livello mondiale, alla guida dei Doors, Morrison «era particolarmente pericoloso per l’establishment militare», anche perché suo padre George era un ammiraglio: «Comandante della flotta statunitense nel Golfo del Tonchino, era responsabile del progetto per gli attacchi “false flag” contro le navi americane, simulando che provenissero dal Vietnam del Nord». Le bugie dell’ammiraglio George Morrison, proposte in tutto il mondo, divennero la base per giustificare la guerra del Vietnam. Non era rassicurante che in famiglia ci fosse un figlio come Jim, strenuo oppositore di quel conflitto.L’affermazione “la polizia non considera questa morte come sospetta” sembra essere diventata la tipica firma inglese sugli omicidi del 21° secolo, una formula perfetta per sviare le indagini. E’ stata impiegata per “spiegare” la morte di un testimone-chiave, Sean Hoare, che doveva deporre nel luglio del 2011 contro Andy Coulson, portavoce del premier David Cameron. Il secondo testimone era David Smith, “suicidatosi” nell’ottobre del 2013. «Fu per anni l’autista di Jimmy Savile, forse il peggior pedofilo mai esistito in Gran Bretagna, molto amico del primo ministro conservatore Margaret Thatcher e del Principe Carlo». Per Gosling, «il fallimento della stampa, che ha mancato di interrogarsi su queste due morti, è pari solo all’indebolimento del sistema (una volta robusto) costituito dai coroner indipendenti, il cui lavoro, nell’ultimo millennio, è stato quello d’indagare su tutte le morti sospette. Ma, se sono onesti, i coroner vengono fermati». Il coroner di Bristol, Paul Forrest, dichiarò al “Bristol City Council” che i corpi si stessero “accumulando” negli obitori: fu prima sospeso e poi licenziato, sostituito da un collega più accomodante.Un’altra specializzazione dei killer-ombra consiste nel «seppellire per conto del Fmi i migliori documentaristi del mondo», continua Gosling, citando il caso della Libia: per vent’anni i media hanno ripetuto che Gheddafi doveva essere deposto, senza mai ricordare che, dopo aver liberato i libici dal debito con Fondo Monetario Internazionale, il Colonnello «stava guidando un movimento pan-africano per introdurre una moneta continentale, l’“African Gold Dinar”, che prometteva di liberare l’intero continente dal Fmi». Non mancarono testimonti attenti: nel 1996, “Channel 4 Dispatches” trasmise un documentario prodotto da “Fulcrum Tv”, e intitolato “Murder in St. James”. «Quel documentario – ricorda Gosling – dimostrava che la poliziotta londinese Yvonne Fletcher fu uccisa da un colpo che quasi certamente non proveniva dall’ambasciata libica, come invece sosteneva il governo britannico, ma da un edificio posto sull’altro lato della piazza, affittato dai servizi di sicurezza britannici».Allo stesso modo, nel 1994 la “Hemar Enterprises” realizzò, per la stessa emittente, “The Maltese Double Cross”, che accusava la Cia di aver manomesso la scena del crimine, «con la seria possibilità che sia stata essa stessa ad aver posto la bomba a bordo del volo “Pan Am 103”, che esplose mentre transitava sul cielo di Lockerbie, in Scozia, nel 1988». Lo scopo possibile? Uccidere agenti che stavano tornando negli Stati Uniti e che dovevano riferire su operazioni relative al traffico illegale di droga. Hemar Allan Francovich, produttore e regista della “Hemar Enterprises”, realizzò una serie di documentari che svelava le operazioni “coperte” della Cia. Manco a dirlo, morì per un “attacco di cuore” in circostanze misteriose, nell’area doganale dell’aereoporto di Houston, nel 1997. Dunque non furono i libici, come pare ormai certo, a uccidere la poliziotta Yvonne Fletcher, né fu l’agente libico Abdelbaset al-Megrahi a posizionare la bomba a bordo del volo “Pan Am 103”, esploso a Lockerbie.«Nessuna di queste accuse è stata provata», e tutta la stampa di Londra «ha cancellato dalla memoria collettiva i due documentari della “Channel 4 Dispatches”, che dimostravano la veridicità delle versioni alternative». Così, «negando i fatti descritti in quei documentari e garantendo che niente di simile potrà mai essere nuovamente trasmesso, i media di Londra hanno posto il paese su un percorso verso il totalitarismo». E’ accaduto anche negli Usa dopo l’11 Settembre e in Gran Bretagna dopo gli attentati del 2005 a Londra: i documentari “Loose Change” e “Ludicrous Diversion” sono stati diffusi solo su Internet. Nel frattempo, il boia occulto è sempre all’opera, come dimostrano gli omicidi del biologo David Kelly, dipendente del Ministero della Difesa britannico e coinvolto nella questione delle armi biologiche in Iraq, e del crittografo Gareth Williams in forza al Government Communications Head-Quarters (Gchq). Omicidi «negati ai più alti livelli della politica, della polizia e della magistratura», grazie ai quali «si è diffuso un clima di paura, in cui chi pone troppe domande rappresenta una “minaccia” e può aspettarsi di essere “trattato allo stesso modo”».Le istituzioni elitarie e gli stessi media – accusa Gosling – sono farciti di codardi e fenomeni da baraccone: «Anche se non sanno come si fa a governare un paese, le élite occidentali sanno però benissimo come si fa ad uccidere». Conclude il giornalista di “Rt”: «La prossima volta che vedrete un politico, un musicista o un opinionista che sfida il “consensus” Nato-Israele e che cade nel fiore degli anni, ricordate a voi stessi che l’aspettativa di vita queste vittime era più lunga che mai, se non avessero lanciato la sfida. E non aspettatevi che la polizia o i media nazionali pongano tutte le domande del caso ai “poteri costituiti”: non è compreso nel loro stipendio». In compenso, ci sono i documentari su Internet, realizzati da autori coraggiosi e capaci di denunciare i peggiori crimini. Non ci resta che condividerli «con il resto del mondo, con i poliziotti onesti e con il meglio di ciò che resta del giornalismo investigativo».Cos’hanno in comune Olof Palme, Patrice Lumumba, la principessa Diana, il dottor David Kelly, Robin Cook, Yasser Arafat, Slobodan Milosevic e Hugo Chavez? E i musicisti che si sono opposti alla macchina da guerra occidentale, come ad esempio Jimi Hendrix, Jim Morrison, Bob Marley, John Lennon e Michael Jackson? Potrebbero essere stati uccisi anche per le loro teste, oltre che per le loro voci troppo indipendenti? Nonostante le prove indichino che sì, sarebbe possibile, pochissime persone sono disposte ad avventurarsi da quelle parti, compresi i tanti professionisti il cui compito sarebbe invece quello di farlo. E questo gli assassini lo sanno benissimo. Le prove (sia forensi che confidenziali) che sono state accumulate nel corso dei decenni, indicano che le morti di decine di influenti figure pubbliche occidentali, che si credeva fossero naturali o frutto di sfortunati incidenti, erano invece degli omicidi politici.
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Strage Moby Prince, mistero Nato con troppe navi-fantasma
Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.Navi-fantasma: il riascolto incrociato delle tracce radio, sostiene Francesco Sanna nel suo reportage, realizzato col contributo dello studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, rivela la presenza di almeno tre natanti inzialmente non identificati, sfuggiti alle prime indagini sul disastro. Il nome del primo vascello-fantasma, l’Agrippa, viene fatto – via radio – dalla nave militarizzata americana Cape Breton, che incrocia a un miglio dall’Agip Abruzzo. Alla Cape Breton si sono rivolti i piloti di Livorno per ricostruire l’accaduto e organizzare i soccorsi. La nave Usa, carica di armamenti destinati alla base di Camp Darby tra Livorno e Pisa, rivela che “Agrippa” è a fuoco, ma l’incendio è sotto controllo. Nella prima inchiesta giudiziaria, la parola “Agrippa” viene male intepretata e tradotta in “adrift”, alla deriva. Nell’inchiesta-bis, aperta nel 2006 e chiusa con l’archiviazione nel 2010, i periti della Procura di Livorno distinguono invece nettamente il nome “Agrippa”. Problema: «Nell’area del porto di Livorno, quella sera del 10 aprile 1991, non c’è nessuna imbarcazione con quel nome», osserva Sanna. «Per giunta l’unica nave interessata da un incendio, oltre al Moby Prince avvolto dal greggio incendiato ma che nessuno vede per ore, è l’Agip Abruzzo».Quella notte, continua il giornalista del “Fatto”, un’altra nave-fantasma girava per il porto di Livorno: si chiamava Theresa e si mise in comunicazione radio con un terzo natante non identificato, “ship one”. Chi era Teresa, e chi era la “nave uno”? Secondo gli ingegneri dello studio Bardazza di Milano, che sta lavorando su mandato dei familiari delle vittime, «si trattava della Gallant II, un’altra nave militarizzata americana all’ancora quella sera davanti a Livorno». Benché il quesito cardine alla riapertura dell’inchiesta nel 2006 fosse proprio la tesi del presunto traffico illecito di armi che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, i pm di Livorno «non decisero alcun approfondimento su quell’Agrippa», precisa Sanna. Oggi, a distanza di 23 anni dalla strage, si può ipotizzare che “Agrippa” fosse la Agip Abruzzo, ma non si capisce come mai – parlando con la capitaneria di porto – la nave americana Cape Breton non menzionò la Moby Prince né l’incendio a bordo del traghetto.«Di navi fantasma la vicenda della tragedia del Moby Prince ha fatto la collezione», riassume Sanna, menzionando «un peschereccio bianco che qualche testimone ha visto allontanarsi dal punto della collisione», quella sera, subito dopo l’impatto. Per contro, c’è la sicurezza che il natante, “21 Oktobar II” (secondo Ilaria Alpi coinvolto in traffici di armi) era «ormeggiato e inservibile a una banchina del porto». Oltre a Theresa, «l’imbarcazione che usa dei nomi in codice per allontanarsi dalle navi incendiate», c’è quindi l’americana Cape Breton che, mentre parla con la capitaneria, chiama col nome in codice “Agrippa” una nave incendiata, quasi certamente la petroliera dell’Agip. «Ma basta scorrere con attenzione i nastri dei canali radio attivi, e registrati per un caso e senza che quasi nessuno lo sapesse – continua Sanna – per trovare almeno altre due imbarcazioni “fantasma” che quella sera erano nella rada del porto di Livorno». “Fantasma”, ovvero non registrate dall’Avvisatore Marittimo e mai identificate nelle inchieste giudiziarie. «Navi che hanno nome e carta d’identità tutt’altro che irrilevanti per le indagini ricostruttive: la fonte è certa e a portata degli inquirenti, benché trascurata finora da tutte le inchieste».Le comunicazioni finora “sfuggite” alle inchieste sono tutte in codice Nato. Una di queste proviene dalla Ntv Alliance, «una nave militare da ricerca, principalmente di tipo sottomarino», tuttora in forza alla Nato in acque italiane. «Cosa ci faceva questa nave nella rada di Livorno a mezz’ora dalla collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo?», si domanda Sanna. «E soprattutto: era ancora in prossimità del luogo dell’evento durante le operazioni di soccorso? Se così fosse, decadrebbe definitivamente il “pilastro” dell’irreperibilità del Moby Prince fino ad un’ora dopo l’incidente». Interrogativi inquietanti: «Può forse una nave come la Alliance perdere di vista per tutto quel tempo il secondo natante in una collisione?». Ma non è finita, perché quella notte «nella rada del porto toscano c’era anche almeno un’altra imbarcazione “fantasma”. Si chiama Amer Ved, nave cargo battente bandiera americana, le cui dimensioni (13.000 tonnellate di stazza lorda) suggerirebbero uno stazionamento in rada». La prova è la registrazione di una comunicazione radio. Ma neppure la Amer Ved era stata regolarmente registrata dall’Avvisatore Marittimo, né è mai stata presa in considerazione dalle inchieste.Eppure, aggiunge il “Fatto”, un collegamento con la scena della collisione la Amer Ved l’avrebbe anche: alle 22.50 del 10 aprile 1991 compare sul canale 16 una chiamata della nave militarizzata americana Gallant 2. «Siamo a 25 minuti dalla collisione (avvenuta alle 22.25 circa) e nessuno ha ancora identificato la nave che ha speronato l’Agip Abruzzo». Il comandante della Gallant, Theodossiou, «chiede l’attenzione di “America Cargo” – quindi non segnala un nome preciso ma una qualità dell’imbarcazione – e da “America Cargo” gli rispondono in un inglese masticato chiedendo “dov’è la posizione della nave”, senza specificare quale essa sia». Theodossiou chiuderà con un lapidario: «Me ne sto andando, abbi tu cura della cosa». La conversazione è alquanto enigmatica, sottolinea Sanna. Tuttavia emerge inequivocabilmente la presenza in rada di questa “America Cargo” e il suo domandare circa la posizione di un’altra nave. “America Cargo” potrebbe essere la Amer Ved? «Se sì, cosa stava facendo nella rada di Livorno e perché non è stata identificata durante le indagini? E di cosa si doveva curare, come consigliato dal capitano greco della Gallant 2 che ha tanta premura di “andarsene”?».Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.
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Stato e mafia: vent’anni senza verità per Ilaria Alpi
Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione umanitaria italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».Sebri dice di esser stato contattato in Italia da due personaggi-chiave della vicenda, il cui ruolo non è mai stato completamente chiarito: l’allora colonnello del Sismi Luca Rajola Pescarini e il trasportatore Giancarlo Marocchino. Oggi, scrive Palladino, il racconto di Sebri va oltre, arrivando ad ipotizzare un ruolo attivo della mafia nel doppio omicidio, maturato nel caos della Somalia sconvolta da tre anni di guerra civile dopo la caduta del dittatore Siad Barre, con la missione Unosom allo sbando e i caschi blu italiani ormai reimbarcati sulla nave Garibaldi. Ilaria e Miran caddero sotto i colpi di un commando composto da 7 persone. «Questa – sottolinea Palladino – è l’unica verità a distanza di vent’anni». Tutto il resto è «un’immensa nebulosa di depistaggi, di testimoni che spariscono, fuggiti o morti per overdose». Per le informazioni che aveva raccolto, Ilaria Alpi «era in grado di creare problemi enormi all’interno di governi e gruppi bancari», dice Sebri, che in tribunale sostenne che i servizi segreti gli avevano detto che quella giornalista era stata “sistemata”. Sebri venne querelato e infine prosciolto. Per Palladino, a pesare è «il silenzio dello Stato».La prima clamorosa contraddizione nasce proprio da un rapporto del Sismi: l’agente Alfredo Tedesco scrive che Ilaria Alpi è stata minacciata di morte a Bosaso il 16 marzo, e che l’attentato è stato pianificato con cura e poi eseguito da un commando ben addestrato. «Queste parole», scrive Palladino, «in buona parte spariranno», perché «una penna – ancora anonima – cancellò e modificò» i passaggi-chiave: scompaiono le minacce e quindi le tracce del movente. Il 24 marzo, lo stesso Tedesco accusa i militari dell’Onu: «Appare evidente la volontà dell’Unosom di minimizzare sulle reali cause». Ma l’agguato, dopo l’intervento della “mano anonima” che da Roma altera le carte, cambia natura: «L’Unosom sta orientando le indagini sulla tesi della tentata rapina». Ed ecco pronta la tesi di comodo, quella dell’incontro “sfortunato” con semplici banditi di strada. Ed è solo l’inizio: per quattro anni, le indagini non approderanno a nulla.Confusa anche la vicenda dell’unico ipotetico testimone rintracciato, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che racconta di esser stato presente sul luogo dell’agguato e dice di riconosce uno dei componenti del gruppo di fuoco, Hashi Omar Assan, detto Faudo, tradotto in Italia e arrestato dalla Digos subito dopo la sua deposizione davanti alla commissione parlamentare. Gelle, il testimone-chiave, tre mesi dopo l’interrogatorio sparisce: non deporrà mai davanti ai giudici. Nel 2002 arriva la condanna per Hashi, ancora oggi in carcere scontando la pena di 26 anni di reclusione. Ma accade qualcosa di imprevisto: un giornalista somalo di “Rai International”, Mohamed Sabrie Aden, riceve una telefonata proprio da Gelle – o da qualcuno che si spaccia per il testimone – e dice: «Ho inventato tutto, d’accordo con le autorità italiane». Interrogarlo di nuovo, rileva Palladino, sarebbe la prova del più clamoroso depistaggio. E soprattutto potrebbe portare a quelle “autorità” che hanno sempre avuto l’interesse a non far uscire la verità sull’agguato di Mogadiscio. «Eppure Gelle non si trova, spiegano gli uomini della Digos. Sanno che sta in Inghilterra, conoscono il suo nuovo nome, Abdi Ali Rage, il nome della moglie, il suo numero del sistema sanitario britannico, l’indirizzo dell’ufficio dove va a ritirare il sussidio ogni quindici giorni. Niente da fare, è una vera primula rossa per il governo italiano».L’elenco dei nodi irrisolti è infinito, come lo strano movimento di navi a Bosaso, proprio nei giorni del viaggio di Ilaria e Miran. Tra queste il peschereccio della compagnia italo-somala Shifco, sequestrato dai pirati della Migiurtina. Nel 2003, l’Onu indicherà la Shifco come una compagnia coinvolta nel traffico d’armi, ma la relazione verrà mai presa in considerazione dalla commissione d’inchiesta guidata da Carlo Taormina, che alla fine abbraccerà la tesi Unosom, l’omicidio casuale. Oggi, dopo una denuncia pubblica di “Greenpeace” e una petizione di “Articolo 21” per desecretare tutti i documenti, sul caso irrompono le dichiarazioni che Piero Sebri affida al libro di Palladino. «Ilaria Alpi era già stata minacciata e lei non se ne andava, anzi insisteva. E a mano a mano che andava avanti acquisiva sempre maggiori informazioni. A questo punto il lavoro del trafficante è di segnalare a chi di dovere, al politico, ai servizi: “Attenzione, che qua vanno a monte alcuni affari”. C’era solo una soluzione: eliminarla immediatamente».Secondo Sebri, nell’organizzazione di un traffico internazionale, la mafia è prima di tutto la garanzia assoluta dell’affidabilità di un’operazione delicata. «Se io sono in Somalia, e la giornalista non se ne va, io informo i politici, informo chi di dovere, magari gli stessi servizi. Anzi, magari sono proprio loro che m’informano, dicendo che c’è un problema. Mi dicono: attenzione, noi giriamo la faccia dall’altra parte… E adesso basta – mi dicono – questa persona va eliminata. A quel punto la questione è: a chi la faccio eliminare? Io, la elimino? Ma neanche per sogno. La faccio eliminare da un somalo? Può anche essere, ma devo avere la certezza assoluta che Ilaria Alpi e Hrovatin siano eliminati. Non si può sbagliare. Se fossero stati in quattro, dovevano essere eliminati in quattro, se erano in dieci ne ammazzavano dieci, non gliene fregava nulla».Da parte della mafia, dunque, una sorta di supervisione in un territorio ostile. «Se il somalo incaricato dell’omicidio – per ipotesi – sbaglia, ci deve essere una persona della mafia presente in quel posto. E chi è questo tipo di persona presente in quel momento a Mogadiscio? Qual è l’unica persona che ha dei debiti, ha delle cambiali personali nei confronti dell’organizzazione che stava agendo in quei mesi? Un’organizzazione di trafficanti, che a sua volta è in debito con i referenti politici italiani, che coprivano quei traffici». Il terreno, avverte Palladino, a questo punto diventa minato. Sebri pronuncia senza timore i nomi: personaggi che furono analizzati solo superficialmente dalla commissione parlamentare e mai interrogati dalla magistratura. Eppure, «secondo alcuni documenti attendibili, si trovavano nell’area di Bosaso nei giorni cruciali che hanno preceduto la morte di Ilaria Alpi. E – secondo alcune testimonianze – furono gli ultimi ad incontrare la giornalista del Tg3, poco prima dell’agguato, nella hall di un hotel».«Il nome che Sebri pronuncia – scrive Palladino – è quello di Giuseppe Cammisa, detto Jupiter, braccio destro di Francesco Cardella, per anni ambasciatore del Nicaragua in Arabia Saudita, con un passato burrascoso a capo della comunità terapeutica Saman, morto d’infarto il 6 agosto del 2011». Cammisa, originario di Mazara del Vallo, nella comunità Saman fondata da Cardella e Mauro Rostagno era entrato come tossicodipendente, per sottoporsi a un programma di recupero. Dopo l’omicidio di Rostagno – avvenuto il 26 settembre 1988 – divenne il braccio destro di Cardella, che prese in mano l’amministrazione di Saman. Il collaboratore di giustizia Rosario Spatola, imprenditore edile legato a Cosa Nostra già inquisito da Giovanni Falcone, alla Procura di Trapani descrisse Cammisa come «un buon conoscitore del procedimento di raffinazione dell’eroina», che per suo conto aveva pedinato anche un maresciallo dei carabinieri. Accusati di aver organizzato l’uccisione di Rostagno, Cardella e Cammisa vennero poi prosciolti: secondo la Dda di Palermo, Rostagno sarebbe stato ucciso da una cosca di Trapani, città utilizzata da Cosa Nostra come piattaforma logistica per i traffici illeciti con il Nord Africa.«Del possibile coinvolgimento di alcuni esponenti della Saman nei traffici illeciti non parla solo la Digos», scrive Palladino. «Tra gli atti acquisiti dalla commissione Alpi c’è un documento del Sismi – desecretato nel 2006 – che ipotizza il coinvolgimento della comunità terapeutica guidata da Cardella in rotte riservate verso la Somalia». L’ammiraglio Gianfranco Battelli, allora direttore dell’intelligence militare, nel 2000 scriveva che Cardella era proprietario di una motonave che nel 1994 aveva raggiunto la Somalia «con un carico di cibo e medicinali», dopo aver effettuato a Malta una strana riparazione che il Sismi definisce “riservata”. Sempre il servizio segreto militare smentisce l’esistenza della missione umanitaria che Saman dichiara di aver attrezzato a Las Korey, a cento chilometri da Bosaso. Su quella missione di aiuti – aggiunge Palladino – nulla risulta neppure dalla documentazione sulla cooperazione italiana in Somalia acquisita dalla commissione Alpi.Bosaso è una città cresciuta grazie alla cooperazione governativa italiana. Il porto e la principale strada di collegamento – la Bosaso-Garowe – nonché i pozzi per l’acqua potabile sono infrastrutture realizzate negli anni ‘80, all’epoca del governo di Siad Barre, dalle principali imprese italiane specializzate in infrastrutture. «Colossi come la Techint, la Lodigiani, la Federici, la Montedil e la Lofemon hanno lavorato per anni in questa zona strategica del Corno d’Africa». Dietro all’ufficialità della cooperazione, si domanda Palladino, si potrebbe nascondere «un intreccio micidiale tra traffico di armi e di rifiuti, che avrebbe utilizzato il porto della capitale della Migiurtinia come luogo riservato per affari segreti»? Per la Direzione investigativa antimafia di Genova, la provincia di Bosaso «è la zona interessata allo scambio di armi e di scaricamento di rifiuti nucleari e industriali». Un’area che già nel 1993 «era off-limits per i giornalisti, soprattutto italiani».Piero Sebri associa la presenza di Cammisa in Somalia nel marzo del 1994 con la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Secondo Palladino, risulta che il braccio destro di Cardella si trovasse nella zona di Bosaso proprio in quei giorni: un documento a lui intestato comprova che la comunità Saman importò dagli Emirati Arabi una Mitsubishi che sarebbe stata trasferita nel Corno d’Africa entro il 12 marzo 1994, cioè una settimana prima dell’agguato. «Ma c’è di più. Sempre negli archivi della Saman c’è un fax inviato da Gibuti – paese confinante con il Nord della Somalia – diretto a Francesco Cardella». Nel fax, firmato da un certo Omar e da Jupiter (il soprannome di Cammisa) si dice i due sarebbero partiti l’indomani, 16 marzo, «per Bosaso e oltre». Riassumendo: «L’8 marzo il braccio destro di Cardella importa negli Eau un’automobile, che trasporta – come? – in Somalia il 12 marzo. Il 15 marzo è a Gibuti, pronto per viaggiare il giorno dopo verso Bosaso “e oltre”. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano intanto giunti a Bosaso, per l’ultimo reportage, per quel “caso particolare” che non riuscirono poi a raccontare».Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».
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Frantumare il mondo: a chi serve la macchietta Renzi
Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.I serial-mass-killer insediati nella Casa Bianca dal 1991 hanno ammazzato 3 milioni in Iraq, 40 mila in Afghanistan, 4000 in Serbia, 100 mila in Libia, 130 mila in Siria, migliaia in Pakistan, Yemen, Somalia. Altri milioni li hanno fatti uccidere da proconsoli e ascari in Ruanda (dove si sono confrontati Francia e Usa per chi facesse scannare più hutu), Congo, Mali, Rac, Latinoamerica. E abbiamo saltato Vietnam, Corea, Centroamerica. Con il 4% della popolazione mondiale contano per il 75% dell’inquinamento globale, l’80% del traffico e consumo di stupefacenti e il 65% dell’acqua dolce del mondo è stata avvelenata dagli agro-tossici Usa. Ogni anno la polizia Usa uccide più di 5.000 persone disarmate. Con 2,5 milioni di detenuti, sono il paese con il più alto tasso di carcerazione del mondo. Lo 0,01 più ricco possiede il 23% della ricchezza nazionale, il 90% più povero il 4%. La loro teoria economica chiamata “crisi” ha procurato al 3% un più 75% di ricchezza, alle multinazionali più 171%.Una macchina da devastazione, saccheggio, terrorismo e morte che, nel nostro paese, ha espettorato una serie di zombie addestrati a tirarsi uova marce di giorno e banchettare insieme di notte, come dal ‘700, sotto varie denominazioni, partito repubblicano e partito democratico nordamericani insegnano. E, come in ogni teatro di marionette che si rispetti, i pupi si scambiano i ruoli, a seconda delle temperie e delle urgenze di “cambiamento” e “innovazionie”, da Bertinotti a Renzi, da Occhetto a Letta, da Berlusconi ai fascisti dichiarati. Di questo avvicendarsi di parti in commedia oggi vediamo l’espressione più chiara, del tutto de-mimetizzata: il blob che si definisce centrosinistra, socialdemocrazia, rappresentante di classe operaia e ceti popolari, mette in campo un manipolo di trucidi e sciacquette che soffiano al finto avversario il modello Chiesa-Wall Street-Pentagono-mafia; gli altri, mutati da grassatori, puttanieri, ladri, in “moderati”, saltano il fosso e si pretendono a fianco di operai, ceti medi scarnificati, euroschifati e perfino Putin.Di tutto questo l’incarnazione più lineare è il capobastone del Colle, transitato dagli inni ai carri sovietici di Budapest a quelli agli F-35 Usa. E’ vero che il sangue nelle vene di costoro, se non intorbidito, si deve essere un bel po’ diluito, se riusciamo a resistere in poltrona davanti a certi vaudeville, oltre a tutto sempre più Grand Guignol. Con, per opposizione, solo una ruspa truccata da tanko di chi si vorrebbe fare lo stesso spettacolo tutto da solo. Lo stupefacente e agghiacciante fatto che un saltimbanco, incolto e abissalmente ignorante, spargitore di fuffa tossica, manifestamente imbroglione e bugiardo al solo sguardo volpino da pusher, al solo arricciarsi della boccuccia a culo di gallina, possa aver affascinato, interessato, anche solo incuriosito, questi vasti pezzi di società italiana (fuori se la ridono), è la dimostrazione di cosa ci hanno fatto vent’anni di vaudeville berlusconiana, con la stuoina “centrosinistra” a fargli strofinare le scarpe.Il volgare e mediocre Stenterello schiamazzone, accademico ineguagliato di populismo, restauratore mascherato da rottamatore, confezionato con un tweet di Bilderberg e carburato da euro-merda e cianuro, ha fatto meglio in pochi mesi di Andreotti in quarant’anni. Si permette di definirsi rullo compressore e, pur essendo di cartone, l’ignavia di massa gli consente di fare il lavoro dello schiacciasassi che tutto asfalta e sotto cui niente vive. Assimilata la pseudo-opposizione parlamentare sindacale e mediatica, quella residua delle istituzioni e dell’intelletto è considerata stravaganza di comici e, insistendo in piazza, eversione e terrorismo (vedi No Tav o No Muos). Nessun Mussolini, nessun Hitler e nemmeno i falsari elettorali delle democrazie borghesi avrebbero avuto la protervia di presentarci una legge elettorale così spudoratamente da roulette truccata con la calamita sotto. Una legge che vieta agli elettori di scegliere i loro rappresentanti, che, escludendo da ogni voce in capitolo milionate di cittadini, dà, alla tibetana, potere di vita e di morte sui sudditi a chi arriva al 20% del 50% di italiani che votano.Neanche la Gorgone Fornero, del rettilario bancario, avrebbe osato sognare la socialdemocratica riduzione in panico e schiavitù delle generazioni presenti e a venire, grazie ai 36 mesi a tempo determinato, a zompi intervallati di 4 mesi, dopodiché fuori dalle palle e sotto un altro. Infine, per elevare l’indispensabile tasso di criminalità, il bellimbusto pitocco fa passare una legge sulla custodia cautelare che esime dal gabbio quelli che, forse, si beccherebbero fino a 4 anni, cioè in prima fila i compari elettori e finanziatori dai colletti bianchi. Dopo l’avvenuta evirazione dei Comuni, abolizione delle provincie per collocare negli enti sostitutivi altri 30 mila clienti, come dimostrato dai Cinque Stelle, ma soprattutto per togliere di mezzo gli organismi intermedi di rappresentanza, potenzialmente più vicini al territorio e più distanti dalle cosche apicali. Obliterazione, grazie allo tsunami propagandistico dei “costi della politica”, di quell’istanza d’appello e di controllo che è il Senato. La sua scomparsa, per risparmiare, dicono, 300 milioni (fatti passare per 1 miliardo) ci costerà quanto costò alle libertà romane, nel passaggio dalla Repubblica al Principato, il Senato trasformato in innocua camera di compensazione di latifondisti e usurai. Riduzione delle pene per il voto di scambio, per chi si fa comprare – e obbligare – dai voti procurati dall’altra criminalità, a conferma dell’unità di gestione aziendale di Stato e mafia.Mascherine da festa cotillon che si agitano ai piani bassi dei palazzi dove, in alto, si scatenano i lupi mannari di Wall Street. Rispetto a quella realizzata nel ‘22, la loro dittatura in fieri parrebbe l’avanspettacolo di Bonolis a fronte di una tragedia di Euripide. Ma le cose stanno molto peggio. Rispetto ai triumviri e federali di Mussolini, ai gauleiter e feldmarescialli di Hitler, fenomeno assediato dal resto del mondo, questi sono i tentacoli di una piovra gigante che abbranca mezzo emisfero, tre quarti di tutte le bombe atomiche, mezzo patrimonio produttivo e finanziario, le tecnologie di controllo e soppressione più avanzate e la complicità del più potente istituto per la manipolazione religiosa di coscienze di tutti i tempi. A proposito di quest’ultimo, capeggiato oggi dal quasi-santo Francesco, a strappare i veli dall’umile buonismo esibito da costui basta la pronuncia della gerarchia cattolica del Venezuela, capeggiata dal nunzio nominato dal papa, Parolin, avverso al “despota” Maduro, e a sostegno delle bande di terroristi scatenati dalla Cia contro la nazione bolivariana. Oscenità imperialista che si affianca alla nomina a consigliere del papa di Oscar Maradiaga, primate dell’Honduras e complice di quei golpisti che proseguono nella strage di oppositori, contadini e indigeni. Fin dal suo primo “buonasera”, si sarebbe dovuto capire che il Bergoglio silente tra i generali argentini sarebbe stato l’anti-Chavez dell’America Latina.Del rilievo dato al burattino italiota dalla strategia del Nuovo Ordine Mondiale sono stati testimoni gli augusti visitatori che si sono precipitati a Roma a completare l’agenda che a Renzi era stata commissionata nei giri per Londra, Berlino, Bruxelles e Parigi. Per Obama, d’intesa con il proconsole sul Colle, è stata la consueta intimazione-consacrazione del vassallo di turno. Per la regina Elisabetta è stato il rinnovo del patto tra classe dirigente italiana e la secolare loggia Rothschild-Windsor, sancito nel 1992 in forma definitiva sul suo yacht “Britannia”, quando emissari come Soros, Draghi, Andreatta e bancari vari, concordarono con Ciampi e poi Amato e Prodi la privatizzazione dell’Italia e la sua riduzione a piattaforma mediterranea di guerre d’aggressione e a hub del traffico di energia e stupefacenti, terra di rapina per multinazionali perfezionata nel Ttip, “Partneriato Transatlantico per Commercio e Investimenti”.Prima mossa domestica, capitoletto dell’ordine di servizio imperiale eseguito in Ucraina, Venezuela, Iran, Siria, non i soli F-35, ma la messa fuori gioco di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Non si tratta di compiangere un lestofante, con stipendio milionario, che s’è aperto la strada verso giacimenti e rotte petroliferi in tutto il mondo a forza di creste e tangenti. Così fan tutte ed è la condizione in questo mondo di merda per assicurare al tuo paese rifornimenti energetici. Specie se di fornitori incorrotti ne hai solo uno, il Venezuela e quell’altro onesto, la Libia, l’hai regalato ai terroristi Al Qaida. E per farcene prevedere la detronizzazione basterebbe la corifea delle banche (“basta col contante, tutto per via bancaria”), Milena Gabanelli, con la sua ossessiva denuncia delle malefatte del capo dell’Eni, in “profonda sintonia” con l’avversione al tipo da parte di governanti e petrolieri angloamericani, per le libertà che si prendeva nel saltare, insieme a russi, iraniani, africani e centroasiatici, i tubi del petrolio e del gas sotto controllo Usa. Per molto meno Enrico Mattei e Giorgio Mazzanti furono fatti fuori, uno per attentato, l’altro per scandalo.Sette sorelle, vecchie, ma sempre arrapate. In un sistema in cui i petrolieri texani devono tenere in mano il rubinetto dell’energia e neutralizzare, come predica Brzezinski, demonio all’orecchio di Obama, Bush, Clinton, Reagan e Nixon, la fisiologica tentazione europea verso l’orizzonte euroasiatico, uno come Scaroni risulta incompatibile. Ci vogliono, come per la Jugoslavia, quinte colonne imperiali che contribuiscano alla debolezza e subalternità del proprio continente e dei suoi singoli Stati. Renzi è perfetto. Il frenetico tour di Obama tra i valvassori europei e partner del Golfo va visto in sinergia con le mattanze in atto in Afghanistan, avamposto asiatico anti-russo, il caos creativo del terrorismo nel Pakistan nucleare, le stragi da droni in Somalia e Yemen, capisaldi geostrategici non normalizzati, lo sminuzzamento della Siria antisraeliana, come prima della Libia, le spedizioni degli ascari francesi nel Sahel dell’uranio e del petrolio, lo spolpamento dell’Ucraina dagli enormi terreni da assegnare alle multinazionali del cibo e dell’agrocombustibile e dei missili da piazzare sui piedi di Putin, lo scatenamento del naziterrorismo contro il Venezuela bolivariano.E’ in gioco una dittatura mondiale, fatta gestire agli Usa con stampelle anglosassoni che, attraverso il controllo del rubinetto dell’energia, regoli i rapporti di forza globali. Il Pakistan e l’Iran non devono realizzare l’oleodotto che li unirebbe. Iran, Iraq e Siria non si sognino di approvvigionare, con una nuova pipeline, l’Europa. Russia ed Europa non devono collegarsi tramite i due tubi “North Stream” e “South Stream”. Il Venezuela la deve smettere di assicurare a basso prezzo e con notevoli ricadute politiche e sociali i paesi poveri dell’area e, magari, domani l’Europa. I recentemente scoperti enormi giacimenti di gas nel bacino est del Mediterraneo devono essere sottratti a titolari come Siria, Libano, Gaza, Egitto (apposta paralizzati da costanti fibrillazioni indotte) e Cipro e messi tutti sotto controllo israeliano. Ovunque, in questi fastidi recati a “Big Oil”, c’è stata anche lo zampino dell’Eni di Scaroni (“Senza il gas russo siamo nei guai”). Tutti i percorsi indicati lacerano per il lungo e per il largo la rete sotto controllo anglo-franco-statunitense, solleticano l’insubordinazione dell’America Latina, legano Europa ai detestati Russia e Iran, garantiscono i rifornimenti alla secca Cina.Fratturare il mondo? Lo strumento si chiama scisti. Il metodo per estrarli dal sottosuolo, “fracking”, fratturazione idraulica. L’esito, la destabilizzazione del pianeta dalle profondità alla superficie, l’inquinamento delle falde e dei terreni attraverso l’immissione forzata di enormi quantità d’acqua mista a sostanze chimiche tossiche che spaccano la roccia e liberano le riserve fossili. E, come sperano, la graduale riduzione dei flussi dagli Stati indipendenti, sostituiti dal gas liquefatto che dai destinatari deve poi essere rigassificato. Costi di gran lunga superiori all’estrazione dai giacimenti e perfino alle energie rinnovabili (quelle che i petrolieri raccomandano a Sgarbi di demonizzare) e, perciò, uso della potenza militare, di cecchini nazisti, tagliagole jihadisti e vicerè obbedienti, per imporne l’inconveniente adozione.Il commercio tra Europa e Russia è 10 volte quello tra Europa e Usa. L’Europa orientale trae un terzo della sua energia dalla Russia e una bella fetta dall’Iran. L’Italia quasi metà, con il resto che arriva dall’Algeria, anche per questo in costante guerra di bassa intensità con le armate di complemento jihadiste, non più dalla Libia, e da fonti minori. Berlino ha 6.000 aziende operanti in Russia. Unica a far valere questa situazione è la Germania, che tenta una resistenza sia alle sanzioni a Mosca, sia alla deriva nazista dell’Ucraina favorita dagli Usa (il suo candidato al governo di Kiev era il “moderato” Klitschko, “fottuto”, nelle sue stesse parole, dalla sottosegretaria Usa, Nuland, con il candidato amerikano Jatseniuk). Renzianamente, Obama (vengono tutti dalla stessa caverna) ha promesso a noi e agli altri bischeri europei tanto gas dai suoi scisti da farci rinunciare a quello finora preso dalla Russia. E’ vero che le riserve nordamericane sembrano vaste e sono già fratturate da migliaia di trivelle (con altrettante rivolte della popolazione locale).Ma, se l’Europa ha un po’ di rigassificatori per il gas liquefatto negli Usa, questo paese non dispone neanche di un solo liquefattore. Nella migliore delle ipotesi il gas da scisti arriverà in Europa fra quattro anni, convogliato dal primo liquefattore costruito, capace di spedirci la miseria di 4 miliardi di Bcf di gas al giorno. Basta appena per il Belgio. E ricordiamo: il fracking per scisti incastrati tra rocce da far esplodere, e che dovrà col Ttip essere imposto a un’Europa che già si è dichiarata disponibile e ha iniziato a spaccare il sottosuolo (anche in Italia), sarà costosissimo e quindi provocherà ribellioni tra i consumatori. Sconvolge la pancia della Terra con l’immissione forzata di gigantesche quantità d’acqua – in prospettiva della guerra dell’acqua che si sta per scatenare in tutto il pianeta – e conseguente rottura verticale e orizzontale di ciò che stabilizza i nostri piedi e le nostre case. Scarseggerà l’acqua per bere, per irrigare, per tutto, e conflitti e mega-migrazioni sconvolgeranno quel che resta della stabilità globale.(Fulvio Grimaldi, estratti dall’intervento “Il fracking di Renzi e quello di Obama”, dal blog di Grimaldi dell’8 aprile 2014).Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.
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Kiev, la strana Padania atomica di Yulia Tymoshenko
Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.Pietra dello scandalo, l’intercettazione telefonica in cui è incappata l’ex oligarca Yulia Timoshenko, promossa “pasionaria” anti-russa dal mainstream occidentale, che in una conversazione privata dichiara che vorrebbe sterminare, con la bomba atomica, gli 8 milioni di russi che popolano l’Est ucraino. «Non li chiama neppure russi, ma “izgoi”, banditi, fuorilegge», osserva Glushkov, che vive in Italia e ricorda come l’Ucraina non sia «un territorio etnicamente definito da una nazionalità», bensì «una specie di puzzle, che si è venuto componendo in tappe diverse della storia». L’“ucrainizzazione” forzata degli ultimi vent’anni non è tale «da poter mobilitare un esercito di ucraini contro i russi», e addirittura «non c’è nemmeno una polizia disponibile a soffocare le manifestazioni del sud-est: è per questo che sono stati costretti a chiamare i mercenari dall’esterno», cioè «gruppi di guerriglia armata composti da nazisti, preparati ad azioni violente dagli Stati Uniti in veri e propri lager».Il resto del paese, continua Glushkov, per adesso è impaurito, blindato dalla manipolazione di una Tv ucraina che sta bombardando la gente con informazioni false. «Gente che, comunque, non è disponibile ad accettare una guerra aperta contro la Russia. Perché? Perché la stragrande maggioranza si sente parte della nazione russa! Questo dimostra il referendum di Crimea e le precedenti elezioni». Naturalmente, però, i nostri media si sono tenuti a debita distanza dalla verità. «Il pubblico italiano, grazie all’ignoranza storica, politica, di quasi tutti i commentatori (nel silenzio, peraltro, del mondo accademico e universitario), ha ricevuto un’informazione completamente distorta», sostiene Giulietto Chiesa. Così, «la russofobia anglosassone ha dettato le notizie», nobilitando «i nazisti di Maidan». E la Russia, «che ha subito per vent’anni la penetrazione americano-tedesco-polacca praticamente senza reagire (perché guidata da idee filo-occidentali), ha di fatto soltanto reagito, difendendo il popolo russo di Crimea. Ed è stata rappresentata come l’aggressore, sebbene fosse stata aggredita».Questa, ribadisce Giulietto Chiesa – autore di numerosi video-editoriali su “Pandora Tv” – è una crisi di gravità senza precedenti nella storia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: gli equilibri europei sono stati modificati, la sicurezza europea è stata distrutta. «Tutto questo non sarebbe stato possibile se l’informazione giunta ai cittadini italiani ed europei fosse stata decentemente vicina alla realtà, ma noi invece viviamo ormai dentro Matrix, prigionieri dell’illusione dell’Occidente di continuare a dominare il mondo». Resta, intanto, l’imbarazzo per le esternazioni stragiste della Tymoshenko, la cui carriera politica – scrive Igor Glushkov – è stata «molto simile a quella di quasi tutti gli oligarchi russi e ucraini: fatta rubando». Di sicuro, conferma Giulietto Chiesa, oggi la Tymoshenko rappresenta «un dato negativo, agli occhi dell’Europa». Dopo aver gettato il sasso, «usando i nazisti», adesso gli europei vorranno «ripulirsi dagli schizzi di fango». La stessa Yulia Tymoshenko «è uno schizzo di fango: ricattabile, certo, ma anche in grado di ricattare». Tutto molto prevedibile: «Quando si porta al potere una banda di criminali bisogna mettere in conto che, per normalizzare la situazione, li si deve rieducare, o eliminare. Resta da vedere se la Tymoshenko sarà in grado di essere rieducata, oppure se la dovranno eliminare».Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Spararono sulla folla a Kiev, erano cecchini della Cia
Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania: sarebbero le “pedine” utilizzate dagli Usa per destabilizzare sanguinosamente l’Ucraina, fino alla caduta del regime di Yanukovich. «L’Europa, in quanto tale – dice Giulietto Chiesa – sprofonda più che nella vergogna, nel ridicolo, trovandosi guidata da quattro repubbliche ex satelliti o ex sovietiche (anche se con l’autorevole copertura di Berlino, Londra, e Parigi) in un’avventura che non era stata nemmeno discussa. E che non è europea, ma americana». Dirompenti le dichiarazioni di Aleksandr Yakimenko, capo dell’intelligence ucraina con Yanukovic, ora riparato in Russia. Secondo Yakimenko, sarebbe stata la Cia a manovrare i cecchini che il 20 febbraio hanno fatto strage di dimostranti in piazza Maidan per poi poter accusare il regime. A dirigere l’operazione, uomini della Cia coordinati dall’ambasciata Usa di Kiev. Complici, il rappresentante a Kiev dell’Unione Europea ed emissari polacchi come Jan Tombinsky.Le drammatiche “rivelazioni” di Yakimenko, rilasciate alle televisioni russe? «Probabilmente non tutte innocenti, ma certo molto credibili», scrive Chiesa sil “Manifesto”. Tanto più che combaciano perfettamente con la famosa telefonata del ministro degli esteri estone Urmas Paet alla signora Catherine Ashton, capo della diplomazia europea: il ministro dell’Estonia disse che a sparare «anche» contro i dimostranti non fu la polizia ucraina, bensì i cecchini «assoldati dalle opposizioni». Le accuse, osserva Giulietto Chuiesa, «sono una più grave dell’altra, una più infamante dell’altra». E se le televisioni russe le riproducono con tanta ampiezza, «ciò vuol dire soltanto una cosa: che Vladimir Putin non solo non intende retrocedere di un millimetro, ma intende contrattaccare politicamente, diplomaticamente e anche dal punto di vista della comunicazione».Yakimenko ha chiamato in causa l’ex presidente ucraino Viktor Yushenko, il vincitore – con Julia Tymoshenko – della ormai sfiorita rivoluzione arancione. Sarebbe stato lui a «lasciar moltiplicare i campi paramilitari in cui si sono allenati al golpe i nazisti e gli estremisti nazionalisti seguaci di Stepan Bandera», l’uomo che nella Seconda Guerra Mondiale collaborò con Hitler, e la cui effigie è tornata – dopo tanti anni – sulla piazza Maidan. Quando arrivò Yanukovic, sempre secondo Yakimenko, i “campi paramilitari” non furono chiusi, ma spostati – in Polonia, Lettonia e Lituania. Neppure Yanukovic decise di chiuderli, osserva Chiesa: «Continuava il doppio gioco di un colpo al cerchio e di uno alla botte, per tenere buoni russi e americani», perché evidentemente «l’influenza degli Stati Uniti e dell’Europa erano già troppo forti per poter essere contrastate».Insomma, l’ex capo della polizia politica ucraina sostiene che l’eversione in Ucraina abbia origini lontane: non è stata né spontanea, né improvvisata. «Ha fatto parte di un piano strategico nato negli Stati Uniti e che ha avuto come esecutori materiali un gruppo di paesi dell’Unione Europea». Certo, continua Chiesa, «in piazza c’erano migliaia e migliaia di persone. Ma a guidarle e a imprimere una svolta eversiva sono stati uomini armati e bene addestrati da tempo, scatenati da una serie di comandi molto precisi. Fino alla tremenda sceneggiata, costata quasi un centinaio di morti e oltre 800 feriti, che servì a coprire di infamia il presidente Yanukovic, lordato di un sangue che non aveva voluto e saputo provocare, ma la cui fuga fu applaudita da tutto il “mondo libero”, indignato per la sua ferocia».Yakimenko sostiene che quei cecchini furono individuati: sparavano dal palazzo della Filarmonica, erano una ventina, «bene armati, bene equipaggiati, con fucili di precisione dotati di cannocchiale». Gli uomini della sicurezza ucraina erano nella piazza, mescolati alla folla e – dice Yakimenko – videro tutto e riferirono. Ma «non furono gli unici a vedere»: anche i leader di alcuni gruppi estremisti videro che quei cecchini sparavano sulla folla, e si allarmarono al punto da contattare lo stesso Yakimenko, «chiedendogli di porre fine alla mattanza facendo intervenire la sue “teste di cuoio”, il famoso o famigerato “Gruppo Alfa”». Yakimenko, continua Giulietto Chiesa, parla dunque di una trattativa che si svolse tra lui e i rappresentanti di “Svoboda” e di “Settore Destro”. Forse – dice – lo fecero per «crearsi un alibi». O forse perché non erano loro, ma altri, ad avere organizzato la mostruosa operazione diversiva. E nel frattempo un gruppo di persone, tutte decisive nel controllo delle forze di sicurezza, visitavano l’ambasciata Usa «tutti i santi giorni». Sono gli uomini che oggi incarnano il nuovo potere di Kiev.Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania: sarebbero le “pedine” utilizzate dagli Usa per destabilizzare sanguinosamente l’Ucraina, fino alla caduta del regime di Yanukovich. «L’Europa, in quanto tale – dice Giulietto Chiesa – sprofonda più che nella vergogna, nel ridicolo, trovandosi guidata da quattro repubbliche ex satelliti o ex sovietiche (anche se con l’autorevole copertura di Berlino, Londra, e Parigi) in un’avventura che non era stata nemmeno discussa. E che non è europea, ma americana». Dirompenti le dichiarazioni di Aleksandr Yakimenko, capo dell’intelligence ucraina con Yanukovic, ora riparato in Russia. Secondo Yakimenko, sarebbe stata la Cia a manovrare i cecchini che il 20 febbraio hanno fatto strage di dimostranti in piazza Maidan per poi poter accusare il regime. A dirigere l’operazione, uomini coordinati dall’ambasciata Usa di Kiev. Complici, il rappresentante dell’Unione Europea nella capitale ucraina ed emissari polacchi come Jan Tombinsky.
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Kiev, golpe o rivoluzione? Il popolo conta più degli 007
Il mondo ribolle di rivoluzioni vere e presunte? Per favore, evitiamo di cadere nella tentazione totalizzante del complotto: che certamente esiste e ha un peso, ma non può essere determinante in assenza di reali, fortissimi motivi di scontento popolare. Lo disse, all’indomani della rivolta di Kiev, Mikhail Gorbaciov: nei rivolgimenti dell’Ucraina è stato innanzitutto determinante il “tradimento” del presidente Yanukovich, incapace di attuale la “perestrojka” democratica promessa. Con un governo più decente, difficilmente gli ucraini sarebvero scesi in piazza in quel modo. Torna sull’argomento il politologo italiano Aldo Giannuli, storico esperto di intelligence e strategia della tensione: «I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse. Possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’esasperazione popolare che non è cosa che si inventi».L’attualità è incandescente: Venezuela e Ucraina sono due scenari pericolosi, in cui è scontata la regia occulta dei servizi occidentali, che a Kiev sono accusati di aver addirittura impiegato cecchini per colpire e uccidere manifestanti, allo scopo di incolpare il regime di Yanukovich. «Può accadere che un tumulto di piazza sia più o meno stimolato da qualche servizio segreto o polizia politica e funga da innesco, ma se sotto non ci sono le polveri da sparo o le polveri non sono abbastanza asciutte, non scoppia niente», scrive Giannuli nel suo blog. «Viceversa, è altrettanto mitologica la visione di un irresistibile moto di popolo che vive solo della spontaneità delle masse, rispetto alla quale ogni tentativo di infiltrazione sarebbe votato all’inevitabile fallimento». Nelle rivoluzioni, continua Giannuli, «coesistono rabbia popolare spontanea, ruolo soggettivo delle organizzazioni rivoluzionarie, infiltrazioni poliziesche, condizioni ambientali». Il problema è «capire di volta in volta quale sia il peso e il ruolo di ciascuno di questi fattori».La “purezza rivoluzionaria” che molti esigono? E’ un sogno impossibile, nelle condizioni storicamente date. Ma quelle che Giannuli chiama «le lenti del passato», cioè «campo imperialista contro campo antimperialista, già abbondantemente fuorvianti a loro tempo», oggi rischiano di essere «solo dei formidabili diversivi, buoni a confondere le idee». C’è chi considera “rivoluzioni” «solo quelle che ci piacciono e che possono iscriversi a pieno titolo nel solco delle rivoluzioni socialiste e democratiche del novecento, mentre tutte le altre sono solo congiure di servizi segreti». Le rivoluzioni, continua Giannuli, «possono anche avere un segno che non ci piace o anche, semplicemente, avere aspetti molto criticabili, ma non per questo cessano di avere una loro spontaneità per essere ridotte a puro complotto». Per Giannuli, si tratta di «due atteggiamenti opposti ed ugualmente sbagliati: quello di chi pensa che le rivoluzioni siano sempre e solo movimenti sociali spontanei, nei quali i servizi segreti non c’entrano o comunque sono impotenti, e quello di chi pensa che i servizi segreti siano pressochè onnipotenti, in grado di suscitare eruzioni sociali che poi guidano a bacchetta. Mitologie: entrambe mitologie».Il mondo ribolle di rivoluzioni vere e presunte? Per favore, evitiamo di cadere nella tentazione totalizzante del complotto: che certamente esiste e ha un peso, ma non può essere decisivo in assenza di reali, fortissimi motivi di scontento popolare. Lo disse, all’indomani della rivolta di Kiev, Mikhail Gorbaciov: nei rivolgimenti dell’Ucraina è stato innanzitutto determinante il “tradimento” del presidente Yanukovich, incapace di attuale la “perestrojka” democratica promessa. Con un governo più decente, difficilmente gli ucraini sarebbero scesi in piazza in quel modo. Torna sull’argomento il politologo italiano Aldo Giannuli, storico esperto di intelligence e strategia della tensione: «I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse. Possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’esasperazione popolare che non è cosa che si inventi».