Archivio del Tag ‘La Verità’
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Il coraggio civile di Pansa e l’omertà mafiosa che lo silenziò
Appena è morto, è cominciata la pansectomia; hanno fatto a pezzi Giampaolo Pansa, salvando il giornalista buono dallo storico cattivo. Ovvero il giornalista di sinistra dallo storico revisionista, che scopre gli orrori compiuti dalla Resistenza nel nome dell’antifascismo. Ma Pansa è stato l’uno e l’altro, e non si può cancellare l’uno per salvare l’altro, e questa la sua originalità e la sua forza. Pansa portò a fondo quel che Giorgio Bocca non ebbe il coraggio di fare. Anche lui, prima di lui, benché partigiano dei monti, ebbe un periodo revisionista nei primi anni Ottanta, scrisse di Mussolini socialfascista, rivide alcuni suoi giudizi d’epoca, dialogò con gente di destra, persino con Giorgio Almirante. Ma presto tornò all’ovile della Repubblica antifascista, anche per farsi perdonare la sua gioventù da fascista sfegatato. Dove finì Bocca, incominciò Pansa. Che il fascismo lo aveva conosciuto solo da bambino, ma scrisse una serie di formidabili opere, una vera e propria saga sul sangue dei vinti. Ed ebbe uno straordinario successo di pubblico che registrò un odio militante alla base e un’ostilità mafiosa nei giornali in cui lui stesso aveva scritto, con un ruolo primario.Il fatto che molte delle sue scoperte le avesse già fatte e scritte Giorgio Pisanò, e la pubblicistica neofascista, non sminuisce il coraggio di farle sue e l’amore aspro per la verità storica che lo contraddistinse. Con Giampaolo mai parlammo di un capitolo mancante al suo libro “La Grande Bugia”, o al suo libro sui “Gendarmi della memoria”, dedicati alle falsificazioni e omertà del conformismo sinistrorso nei suoi confronti. Riguardava la trasformazione del suo testo in racconto televisivo, in una fiction per la Rai. Pansa nel suo libro se la prendeva con Sandro Curzi, consigliere di Rifondazione comunista in Rai, che perlomeno alla luce del sole, senza peli sulla testa e sulla lingua, bocciò lo sceneggiato, invocandone altri politicamente corretti, come novene per estinguere il peccato di averlo solo pensato. Ma la storia è più ampia e merita di essere raccontata come un’appendice, o un’appendicite, del viaggio di Pansa nella viltà carognesca e ideologica del nostro paese. Ne parlo con cognizione di causa, avendo io proposto, quando ero nel Consiglio della Rai, di tradurre il “Sangue dei vinti” in sceneggiato Tv.L’emorragia postuma del “Sangue dei vinti” in versione televisiva avvenne in tre tappe. La prima. Per far passare uno sceneggiato sugli eccidi partigiani a guerra finita, furono portate al vaglio del consiglio della Rai, altre tre fiction che riguardavano i nazisti, anzi i nazifascisti, la persecuzione degli ebrei, le fosse ardeatine. Per ogni fiction considerata “revisionista” i medici della sinistra militante prescrivevano come protezione antibiotica tre ortodosse. E non fa niente se ripetevano cose già fatte, bisogna fare il lavaggio del cervello. Era già accaduto quando riuscimmo a varare la fiction sulle foibe che fu pesantemente controbilanciata e neutralizzata in parole, soggetti e testi. Ma andò ugualmente bene. Ma il terrore di quel successo aveva evidentemente allertato le caserme dei militanti. Il libro di Pansa era già esploso in libreria; se fosse esploso nelle case con la Tv, sarebbe stata una catastrofe. Bisognava correre ai ripari. Il secondo atto fu lo svuotamento e la deviazione dal libro di Pansa.Per cominciare furono proposti come sceneggiatori, consulenti e attori gente con rigoroso pedigree di sinistra e antifascista, magari militante. Come consulente storico del film non fu chiamato, come sarebbe stato normale, l’autore del libro ma uno dei suoi più acerrimi stroncatori e nemici, Claudio Pavone. Che di fronte agli eccidi a guerra finita e a fascismo sepolto come quelli descritti da Pansa, distinse tra violenza “per fini giusti” e “per necessità” e violenza fascista. Arrivando a dire, lui che non nascose mai la sua militanza e la sua partigianeria anche in tempo di pace, che il revisionismo storico è un fatto più politico che storiografico. Ma revisionisti sono stati definiti De Felice e i suoi allievi, i filosofi Del Noce e Nolte, gli storici Fest e Furet e molti rispettabili studiosi, assolutamente apolitici. Insomma il risultato fu una trama irriconoscibile, dove i massacri sparivano, il cattivo era comunque un ex fascista, i buoni erano naturalmente dalla parte opposta, e il male restavano comunque i nazisti. In Consiglio non proposi nessuna epurazione ma chiesi perlomeno una revisione del testo più fedele al libro da cui scaturiva la fiction e un riequilibrio dei consulenti con storici di estrazione defeliciana (come Giuseppe Parlato) e soprattutto con l’autore, Giampaolo Pansa che da me contattato, accolse l’invito. La cosa fu approvata. E poi? Silenzio.Terzo atto, il “Sangue dei vinti” scomparve dal palinsesto. Non se ne fece più nulla, mi pare. Il Consiglio andò via, ne arrivò un altro, l’oblio prevalse, misto a odio, anche se gli altri sceneggiati in programma, compresi quelli riparatori per bilanciare il “Sangue dei vinti”, poi si sono visti, eccome. Non andò più in onda il sangue dei vinti, ma lo sputo sui vinti. Ennesimo. Ecco come fu cancellato il sangue dei vinti, in tre atti gloriosi. Pansa perlomeno ha il privilegio di essere discusso e confutato, perché di sinistra, antifascista e coinquilino sui giornali dei medesimi accusatori. E non fu accusato di vittimismo e mania persecutoria. Agli altri si addice l’oblio e il disprezzo. E poi vi chiedete: ma perché non ci sono autori e storici di altra estrazione? Ma se vi mangiate vivi i vostri stessi amici, colleghi e compagni revisionisti, figuratevi gli altri. Oltre i gendarmi della memoria, c’erano pure gli agenti in borghese dell’oblio. Nella nostra epoca anemica, il sangue dei vinti non scorre più, ma il livore dei cretini scorre, eccome, nei titoli di testa e i veleni di coda.(Marcello Veneziani, “Giampaolo il buono, Pansa il cattivo”, da “La Verità” del 13 gennaio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Appena è morto, è cominciata la pansectomia; hanno fatto a pezzi Giampaolo Pansa, salvando il giornalista buono dallo storico cattivo. Ovvero il giornalista di sinistra dallo storico revisionista, che scopre gli orrori compiuti dalla Resistenza nel nome dell’antifascismo. Ma Pansa è stato l’uno e l’altro, e non si può cancellare l’uno per salvare l’altro, e questa la sua originalità e la sua forza. Pansa portò a fondo quel che Giorgio Bocca non ebbe il coraggio di fare. Anche lui, prima di lui, benché partigiano dei monti, ebbe un periodo revisionista nei primi anni Ottanta, scrisse di Mussolini socialfascista, rivide alcuni suoi giudizi d’epoca, dialogò con gente di destra, persino con Giorgio Almirante. Ma presto tornò all’ovile della Repubblica antifascista, anche per farsi perdonare la sua gioventù da fascista sfegatato. Dove finì Bocca, incominciò Pansa. Che il fascismo lo aveva conosciuto solo da bambino, ma scrisse una serie di formidabili opere, una vera e propria saga sul sangue dei vinti. Ed ebbe uno straordinario successo di pubblico che registrò un odio militante alla base e un’ostilità mafiosa nei giornali in cui lui stesso aveva scritto, con un ruolo primario.
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Un bell’oroscopo fai da te, in un questa Italia paranormale
Al prossimo che vi fa l’oroscopo minacciate di fargli la rettoscopia, con strumenti improvvisati. Così la smette. Non se ne può più di questi, e soprattutto queste, milioni di veggenti che non veggono un tubo ma si avventano sulla tua mano, sulla tua tazza di caffè, sui tuoi occhi e cercano di leggerti come sarà questo ventiventi. Ma fatevi gli astri vostri. Ti chiedono di che segno sei, se non lo sanno già, e cominciano a fare una previsione trionfale, invasiva e personalizzata, valevole per circa seicento milioni di viventi, ossia l’otto per cento dell’umanità, almeno se la dividiamo equamente per i dodici segni zodiacali. Questi oroscopi finto-personali, in realtà fondati sullo stoccaggio zodiacale, hanno la stessa affidabilità dei sorteggi. Fingono di conoscere i dettagli ma sono grossisti dell’astrologia. Cominciano a pontificare: voi leoni, voi tori e voi scorpioni… ma voi pappagalli che ne sapete? Denunciateli per razzismo, perché credono alla razza dei segni e discriminano sulla base delle etnie zodiacali. Questo non è un paese normale, ma paranormale, diffida delle leggi ma non degli oroscopi.Se siete esasperati da quest’ossessione degli oroscopi, in tv e sui giornali, nei salotti e nelle tavole, passate all’offensiva. In un primo tempo esibite l’articolo 231 del testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza e recitate ai primi tentativi di veggenza: “Sotto la denominazione di mestiere di ciarlatano si comprende ogni attività diretta a speculare sull’altrui credulità o a sfruttare o alimentare l’altrui pregiudizio, come gli indovini, gli interpreti dei sogni, i cartomanti, coloro che esercitano giochi di sortilegio, incantesimi, esorcismi o millantano o affettano in pubblico grande arte… ecc.” Poi, per non essere pedanti, cambiate strategia. Così, anziché farvi abusare dalle veggenti e subire passivamente operazioni zodiacali alle vostre spalle, bruciate sul tempo le maghette e spacciatevi voi per grandi conoscitori di astri, influssi e ascendenti. Forte della mia carnagione tropicale, io per esempio mi sono spacciato per Fidel Astro, mago affidabile, come dice il nome, e competente, come indica il cognome. Un vero lìder maximo dell’astrologia. Predite l’anno che verrà ai meravigliati astanti e alle affascinate, azzodiacate ascoltatrici a cui offrite oroscopate indimenticabili.Gli ingredienti per un oroscopo di successo sono facili: partite dall’autostima sconfinata delle persone, considerateli speciali, e predite un anno eccezionale, ricco di eventi e novità. Poi alludete a qualche inevitabile travaglio, qualche trauma infantile e qualche aspettativa covata dentro di loro. Andate sul sicuro. Dite poi che qualcuno gli vuole male perché tutti sono convinti che c’è qualcuno che gliela tira e se una cosa non gli riesce è perché qualcuno gufa. Persino i più sfigati si sentono vittime dell’invidia mentre fanno solo pena. Ma aggiungete che lui è protetto in alto, alludendo ai suoi cari scomparsi, così si commuoverà pensando a nonna o a papà che sorveglia dall’alto dei cieli. Alludete poi a tensioni sul lavoro, a incomprensioni in famiglia e a un superiore che ce l’ha con lui. Coglierete comunque nel segno. E poi dite che deve avere più fiducia nelle sue doti, che deve esplicitare i suoi sentimenti, e non farsi mai scavalcare nelle file dai soliti furbi perchè questo è un popolo di furbi ma vittimisti, dal capricorno al sagittario.Poi sfiziatevi sull’amore, i tradimenti e i nuovi incontri, perché tutti li temono o li aspettano, e promettete soldi con l’anno nuovo, tanto voi non ci rimettete niente. E vaticinate una grande svolta dopo luglio: crea momentanea attesa ma poi se la scordano. Miscelate in modo diverso questi ingredienti con varianti più lessicali che sostanziali adattando l’oroscopo alla faccia e alla mente del fesso; vi prenderanno per mago. I più fessi chiederanno dopo la predizione anche la raccomandazione astrologica; vediamo cosa posso fare. Intanto, per ingraziarsi gli astri, lasciate in questa improvvisata urna che i profani chiamano tasca, trecento euro per sacrificare un agnello, compiendo riti propiziatori… Morale della favola? Giocate con gli oroscopi, scherzate pure, non fanno male a nessuno se restano un modo frivolo per passare una mezza serata. Se vi fa bene, se vi dà sicurezza, sentirvi appartenenti a un partito zodiacale, fate pure, ma non imponete agli altri le vostre debolezze. Però poi non avete il diritto di considerare arretrati, rozzi e superstiziosi quelli che vanno da Padre Pio a chiedere i miracoli. E non avete il diritto di definirvi laici: chi non è credente così diventa credulone e pratica una religione infima, più primitiva e infantile delle antiche fedi.Personalmente sono pronto a riconoscere dignità alla sapienza di caldei, sciamani e di coloro che videro armonie nell’universo tra micro e macrocosmo. E sono convinto con Vico che le superstizioni, come gli oroscopi, siano estreme tracce superstiti di verità perdute nel tempo e ultimi tentativi di dare un senso al futuro. Lo dice la parola stessa superstizione. Gli oroscopi non sono menzogne ma parodie smemorate di scampoli di verità. Ma distinguete la luce dai fuochi fatui, la verità dalle sue contraffazioni, la grandezza dei sapienti dalla furbizia dei saccenti. Ci vorrebbe una sana ondata di miscredenza popolare contro la fede negli oroscopi. Un’ondata atea, iconoclasta e anticlericale verso i segni zodiacali e gli astrologi. Un mago pugliese una volta mi indovinò il passato, anziché il futuro; non so se si era prima documentato, ma fu bravo. Il suo nome d’arte è Juppiter, con due p, perché il mago conosce gli astri, ma non il latino. Gli avrei dato volentieri una mano, non per farmela leggere semmai per aiutarlo. Comunque niente contro i maghi e le megere. Se Conte è premier e Di Maio è ministro degli esteri, chiunque può passare per veggente, taumaturgo e astrivendolo.(Marcello Veneziani, “Consigli per un oroscopo faidate”, da “La Verità” del 2 gennaio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Al prossimo che vi fa l’oroscopo minacciate di fargli la rettoscopia, con strumenti improvvisati. Così la smette. Non se ne può più di questi, e soprattutto queste, milioni di veggenti che non veggono un tubo ma si avventano sulla tua mano, sulla tua tazza di caffè, sui tuoi occhi e cercano di leggerti come sarà questo ventiventi. Ma fatevi gli astri vostri. Ti chiedono di che segno sei, se non lo sanno già, e cominciano a fare una previsione trionfale, invasiva e personalizzata, valevole per circa seicento milioni di viventi, ossia l’otto per cento dell’umanità, almeno se la dividiamo equamente per i dodici segni zodiacali. Questi oroscopi finto-personali, in realtà fondati sullo stoccaggio zodiacale, hanno la stessa affidabilità dei sorteggi. Fingono di conoscere i dettagli ma sono grossisti dell’astrologia. Cominciano a pontificare: voi leoni, voi tori e voi scorpioni… ma voi pappagalli che ne sapete? Denunciateli per razzismo, perché credono alla razza dei segni e discriminano sulla base delle etnie zodiacali. Questo non è un paese normale, ma paranormale, diffida delle leggi ma non degli oroscopi.
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Renzi, Grillo e il nullivendolo Conte: un decennio senza eredi
Cosa resta del decennio che si è appena chiuso? Nessuna eredità: solo scorie, rottami e frattaglie, sintetizza Marcello Veneziani. «In principio fu Silvio Berlusconi al governo. C’era ancora Fini, c’era Bossi, c’era Casini, c’era Tremonti». In quel tempo, «i problemi dell’Italia e del mondo venivano dopo – per i media, la magistratura e l’opposizione di sinistra – rispetto alla vita sessuale di Berlusconi». Era quello l’argomento, universalmente noto come Bunga Bunga, su cui si concentrava il dibattito pubblico. «Berlusconi col suo baldanzoso ottimismo autoreferenziale vantava che l’Italia con lui stesse alla grande, nonostante la crisi internazionale. I suoi nemici, gli stessi di sopra, descrivevano invece il governo di Berlusconi come una porno-dittatura corrotta che stava stravolgendo l’Italia». In realtà, «Berlusconi non distrusse né rilanciò l’Italia». La sua impronta fu labile, più mediatica che effettiva: «Non ci fu né la rivoluzione liberale né la tirannide populista. Neanche la magistratura fu scalfita». Fino a che, «a colpi di indagini, pressing internazionali, spread e tradimenti», riuscirono a buttar giù Berlusconi «con un mezzo golpe».All’epoca, scrive Veneziani su “La Verità”, passava per statista Gianfranco Fini, da quando si era messo contro il Cavaliere. «La sua parabola finì presto e nel peggiore dei modi possibili, perfino peggio di quanto si potesse prevedere considerata la sua inconsistenza». Finì male pure la parabola di Bossi. E finì il centrodestra, «mentre il paese si consegnava al governo dei tecnici, sotto la sorveglianza dell’Europa». Così nacque il “tecnomontismo”: i tecnocrati, «di buon nome e di gran curricula», chiamati per riparare i danni, «lasciarono un’impronta nefasta», rivelandosi «abbastanza funesti e feroci nello stremare il paese, tassarlo, metterlo in ginocchio e diffondere un’atmosfera di catastrofe e depressione nazionale». Ne uscimmo malconci col breve governo Letta di eurosinistra, «che fu una pallida transizione tra i tecnici e il ritorno della politica, naturalmente da sinistra». Cominciò allora, senza passare dalle urne, la veloce parabola di Renzi: non durò neanche un triennio, «ma in quel tempo sembrò inaugurare un’era, perlomeno un ciclo, vista anche la sua giovane età, la sua energia e il crescente consenso».Renzi, ricorda Veneziani, non aveva rivali né a destra né a manca, «e infatti il peggior rivale di Renzi fu Renzi stesso, che distrusse il suo alter ego per troppo ego: la sua prepotenza accentratrice, il suo voler strafare, stravincere, stracomandare». Ci fu un momento, in effetti, in cui «avrebbe potuto compiere una svolta decisiva: quando annunciò il partito della nazione, lasciando a sinistra i vecchi dinosauri comunisti e la sinistra radicale e spostandosi al centro con un partito trasversale». Ma non ebbe il coraggio di andare fino in fondo, scrive Veneziani. «Stressò il paese in una guerra di rottamazione globale, uno contro il Resto del mondo, fino a che il mondo lo fece a pezzi». Poi annunciò di ritirarsi dalla politica, senza però mai farlo. «Provato così in un quinquennio tutto l’arco delle possibilità – berlusconismo, finto futurismo finiano, sinistra bersaniana, tecnici e sinistra napoleonica renziana – la politica lasciò il passò al dilettantismo assoluto e dannoso dell’antipolitica, interpretato da un comico, una piattaforma, una lobby e una banda di sciamannati o scappati di casa».Così avvenne il prodigio del Movimento 5 Stelle diventato primo “partito”, soprattutto al sud. «Un fenomeno senza precedenti, ma non senza conseguenze: letali». La prima sorpresa fu, un anno e mezzo fa, l’alleanza populista e teoricamente antieuropeista tra i grillini e i leghisti di Salvini. «Un esperimento ardito, preoccupante non solo per l’Unione Europea, ma che destava curiosità e comunque segnava la sconfitta del tardo bipolarismo ma anche un superamento dei berlusconismi destrorsi e sinistrorsi, come quello renziano». L’esperimento populista-sovranista fu tenuto in vita artificialmente per un anno, facendo crescere a dismisura la popolarità di Salvini. «Poi esplose, incautamente, per una valutazione sbagliata di Salvini e una mossa a sorpresa di Renzi. Fino a che si giunse al più raccapricciante mostro dei governi italiani repubblicani, quello grillo-sinistro, che accompagna la fine del decennio». Per Veneziani è «il peggiore che si potesse avere, perché la faziosità intollerante della cupola di sinistra, col suo antifascismo di risulta e di riporto, si è unita alla dannosa ignoranza dei grillini, incapaci di tutto, e nel modo peggiore».Degna sintesi di quell’unione fu lo stesso premier Giuseppe Conte, «assunto come figurante nel precedente governo, venuto dal nulla e nullivendolo egli stesso, che con ripugnante trasformismo passò da guidare l’alleanza con Salvini a guidare l’alleanza antisalviniana, con la sinistra di cui ora si professa simpatizzante». I risultati sono sotto gli occhi (piangenti) di tutti: il decennio, nato sotto la stella (un tempo rossa) di Giorgio Napolitano, è finito «sotto la parrucca bianca di Sergio Mattarella». Nel decennio le abbiamo provate tutte, eccetto il sovranismo: grande incognita, «ma è l’unica via che non abbia ancora avuto esiti fallimentari». Eppure, per l’establishment sembra «la sciagura suprema, decretata a priori, da evitare a ogni costo». E ora che il decennio si è concluso, chiosa Veneziani nella sua analisi, il paese è sospeso nel vuoto: appeso al nulla.Cosa resta del decennio che si è appena chiuso? Nessuna eredità: solo scorie, rottami e frattaglie, sintetizza Marcello Veneziani. «In principio fu Silvio Berlusconi al governo. C’era ancora Fini, c’era Bossi, c’era Casini, c’era Tremonti». In quel tempo, «i problemi dell’Italia e del mondo venivano dopo – per i media, la magistratura e l’opposizione di sinistra – rispetto alla vita sessuale di Berlusconi». Era quello l’argomento, universalmente noto come Bunga Bunga, su cui si concentrava il dibattito pubblico. «Berlusconi col suo baldanzoso ottimismo autoreferenziale vantava che l’Italia con lui stesse alla grande, nonostante la crisi internazionale. I suoi nemici, gli stessi di sopra, descrivevano invece il governo di Berlusconi come una porno-dittatura corrotta che stava stravolgendo l’Italia». In realtà, «Berlusconi non distrusse né rilanciò l’Italia». La sua impronta fu labile, più mediatica che effettiva: «Non ci fu né la rivoluzione liberale né la tirannide populista. Neanche la magistratura fu scalfita». Fino a che, «a colpi di indagini, pressing internazionali, spread e tradimenti», riuscirono a buttar giù Berlusconi «con un mezzo golpe».
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Dalla mafia soldi in Ue contro l’Italia: il segreto di Borsellino
«Soldi della mafia a fior di politici europei». A che scopo, negli anni Novanta? Inguaiare l’Italia, già terremotata da Tangentopoli, in vista della nascita dell’Ue? Era il grande segreto di Paolo Borsellino, assassinato a Palermo il 19 luglio 1992. Chi lo dice? Gianfranco Carpeoro, saggista e osservatore privilegiato dell’attualità in virtù del suo curriculum: per trent’anni avvocato (vero nome, Pecoraro) e a lungo “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. E come sa, Carpeoro, che Borsellino aveva scoperto l’indicibile? «Sono cose che leggo e che sento», taglia corto, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’8 dicembre. Già vicino a Craxi, Carpeoro – benché fuoriuscito dal mondo delle logge – coltiva una sua riservatissima diplomazia massonica, estesa in Italia e all’estero. Nell’estate 2018 le sue affermazioni, di fatto, sventarono il complotto ordito dal francese Jacques Attali, mentore di Macron, per impedire l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai (beffando Salvini, che l’aveva candidato). Operazione, secondo Carpeoro, architettata con la collaborazione di Napolitano, Tajani e Berlusconi, ma poi sfumata dopo le esternazioni dell’avvocato, riprese dal quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro.
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Sicuri che Salvini al governo riuscirebbe a bocciare il Mes?
«Sapevamo che questo governo era nato con un solo scopo: sopravvivenza di gruppo e personale, al governo e in Parlamento, impedendo il voto e la vittoria di Salvini coi suoi alleati». Se questo è il mastice interno che tiene incollato alle poltrone il Conte-bis, scrive Marcello Veneziani su “La Verità”, in questi giorni abbiamo conosciuto anche «lo scopo esterno» assegnato alla congrega, ovvero: «Eseguire i comandi dell’Eurocrazia, non solo in tema di migranti ma soprattutto in tema di conti, secondo le direttive europee, come testimonia il Mes». La vera ragione politica del governo in carica, «oltre quella pietosa di natura personale», era e resta quella. «Non c’è un progetto, una grande riforma, un obbiettivo primario davanti». C’è solo quel core business: «Eseguire il mandato degli eurocrati, di cui il Pd è la guarda bianca, la filiale interna», continua Veneziani. «Il partito al servizio dell’establishment è il Pd, è il concessionario di zona dei poteri europei, è il rivenditore autorizzato della pappa europea ma è anche il rappresentante, il messo solerte delle sue direttive». Da solo, però, il Pd non basta più: per questo serve il paravento dei 5 Stelle, con l’aiuto delle provvidenziali Sardine e il profilo finto-istituzionale del premier.C’era da «mandare avanti qualcuno» al posto dell’impresentabile Pd: «Le sardine in piazza, i grillini in Parlamento e l’avvocato di tutte le cause al governo», osserva Veneziani. Il Pd? «Deve stare dietro e avvalersi di funzionari testati e garantiti dall’Europa, tipo Gualteri, tipo Gentiloni, tipo Enrico Letta. O la new entry, il passpartout Conte Fregoli, pronto a tutto pur di restare sul palcoscenico a recitare la parte del premier». Spettacolo ormai sotto gli occhi di tutti: «Con linguaggio orwelliano lo chiamano il SalvaStati, ma la sua traduzione reale è AmmazzaStati, insieme alle rispettive sovranità e agli interessi generali». Però, aggiunge Veneziani, «la porcata sul Mes scontenta e tradisce troppa Italia, e le coperture politiche – da quella renziana a quella dimaionese – tremano paurosamente e rischiano da un momento all’altro di crollare». E’ un fatto: «Mai, la base elettorale e militante grillina, espressa da Alessandro Di Battista, avrebbe accettato di essere usata come copertura per il peggior asservimento all’Europa». La speranza del Pd è che prevalga la paura di perdere la poltrona: che fine farebbero, i parlamentari grillini, se si tornasse a votare? E questo è davvero l’unico appiglio, per il Pd e «il consulente premier ingaggiato».Probabilmente, continua Veneziani, un simile calcolo personale spinge Grillo «a insistere sul governo in corso e a tacere su questa svendita nazionale», temendo il supremo potere di ricatto dell’establishment eurocratico. Più facile il compito dell’opposizione, che spara a zero sul Mes. Ma se domani il centrodestra salviniano e meloniano fosse al governo? Troverebbe «gli stessi poteri e i veti, gli ostacoli, le minacce, le tante forme ricattatorie di pressione e di ritorsione». Inevitabili compromessi? Salvini ce l’avrà, «la forza per dire un secco “no, non se ne parla”, e sarà convincente nel far capire che se per noi è un guaio mettersi di traverso ai dettami degli eurocrati, pure per la Ue e il suo sistema finanziario è un guaio dichiarare guerra a un socio fondatore come l’Italia?». E quindi, «riuscirà almeno a rinegoziare radicalmente il Mes e cambiargli prospettiva?». Nel caso, «troverà partner europei nella scelta sovranista e indipendentista?». Oppure: «Troverà sponde fuori dall’Unione Europea per bilanciare eventuali strappi e ultimatum? E quanti ostacoli troverà in Italia, tra magistratura, stampa e poteri istituzionali pronti a remare contro, gufare anti, colpire il sovranismo magari accusandolo pure di fare interessi stranieri?».Osserva Veneziani: è dura, «dover governare e dover fare i conti con le aspettative della gente che ti ha votato e le ingiunzioni del potere che ti vorrebbe far cadere appena possibile». Sulla scena dominano «forti giocatori politici e internazionali». E noi, allora, «saremo in grado poi di fronteggiare i potenti con armi e leadership adeguate?». Sono domande preliminari che vanno affrontate, conclude Veneziani, se si vuole andare oltre l’incasso immediato e vincente della giusta protesta. «Stavolta non basterà ripetere “noi twitteremo diritto”, remake social del “noi tireremo diritto”». Un consiglio e Salvini e Meloni: «Siate più prudenti nel dire e più conseguenti nel fare. La vostra forza principale è essere dalla parte della realtà, con i piedi per terra, convinti che la vita reale dei popoli vale più degli assetti contabili». E dunque, «siate realisti anche in questa partita difficile, pensateci già da ora. Prima o poi arriveremo alla fine del Mes».«Sapevamo che questo governo era nato con un solo scopo: sopravvivenza di gruppo e personale, al governo e in Parlamento, impedendo il voto e la vittoria di Salvini coi suoi alleati». Se questo è il mastice interno che tiene incollato alle poltrone il Conte-bis, scrive Marcello Veneziani su “La Verità“, in questi giorni abbiamo conosciuto anche «lo scopo esterno» assegnato alla congrega, ovvero: «Eseguire i comandi dell’Eurocrazia, non solo in tema di migranti ma soprattutto in tema di conti, secondo le direttive europee, come testimonia il Mes». La vera ragione politica del governo in carica, «oltre quella pietosa di natura personale», era e resta quella. «Non c’è un progetto, una grande riforma, un obbiettivo primario davanti». C’è solo quel core business: «Eseguire il mandato degli eurocrati, di cui il Pd è la guarda bianca, la filiale interna», continua Veneziani. «Il partito al servizio dell’establishment è il Pd, è il concessionario di zona dei poteri europei, è il rivenditore autorizzato della pappa europea ma è anche il rappresentante, il messo solerte delle sue direttive». Da solo, però, il Pd non basta più: per questo serve il paravento dei 5 Stelle, con l’aiuto delle provvidenziali Sardine e il profilo finto-istituzionale del premier.
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Ma il prossimo sindaco di Roma lo vogliamo giapponese
Per il prossimo sindaco di Roma avrei una proposta da fare che spiazza tutti, sto già partendo con le firme per costituire un comitato elettorale a sostegno. Avendo già sperimentato tutte le possibilità – sindaci di sinistra e di destra, democristiani e comunisti, tecnici e nordici, pop e snob, alieni e grillini – e avendo ottenuto sempre risultati deludenti, fallimentari e da ultimo catastrofici, nell’impossibilità di rieleggere Giulio Cesare e Ottaviano Augusto per raggiunti limiti d’età né potendo auspicare la riconversione del Vescovo di Roma in sindaco della Medesima (sarebbe un sollievo, se non per il Comune, almeno per la Chiesa), ho maturato una ferma convinzione: eleggiamo governatore di Roma con poteri speciali Yuriko Koike, attuale sindaca di Tokyo che scadrà quando si voterà a Roma. È una donna esperta, riesce a governare una città che non ha nemmeno numeri civici per raccapezzarcisi, sta preparando con successo le olimpiadi di Tokyo per il 2020, è conservatrice di destra, extra-strong, conosce molte lingue, compreso l’arabo, ed è così cazzuta che è stata ministro della difesa. E soprattutto è estranea al generone romano, alla partitocrazia nostrana, al carnevale permanente di candidati, gagà e figuri sfornati dalle ditte politiche e dai clan di palazzinari, curia e potentati locali.Le abbiamo provate tutte per governare una città impossibile come Roma, ora non ci resta che un kamikaze, insomma qualcuno pronto a tutto, che non si tira mai indietro. Uno che se viene sfiduciato non resta attaccato alla poltrona, non indice una conferenza stampa per rovesciare la frittata e non ventila senza mai darle le dimissioni; ma taglia la testa al toro e compie il seppuku, il suicidio rituale da noi chiamato harakiri, a volte confuso col karaoke, ma è una cosa molto più seria e irripetibile. Ci vuole una come lei, gaiarda e tosta, come direbbe l’unico estremo-orientale de noantri, il vignettista sublime Osho. Una che sia in grado di trasformare l’Atac, l’Ama e l’Acea in formazioni paramilitari per rendere efficienti i trasporti, la raccolta differenziata e l’energia elettrica, idrica e spirituale. Con lei alla guida di Roma doteremmo i vigili urbani non dello stupido sfollagente o del ridicolo spray, ma di katana, che è la scimitarra giapponese, e poi vediamo se parcheggiano in doppia fila, passano col rosso e sorpassano a destra, salvo poi coionare er vigile e menarlo pure.Indossi lo hachimaki, Signora Yuriko, la benda tradizionale sulla fronte e si metta al lavoro per salvare Roma dai suoi rappresentanti, residenti, turisti e pellegrini. Non venga da sola dal Giappone ma si porti dieci assessori shogun, più un esercito imperiale di trecento samurai come dio comanda. I Casamonica, gli Spada, la banda della Magliana fuggirebbero in Trentino o in Vaticano, pur di non doversela vedere coi giapponesi. Una città come Roma, invasa da b&b abusivi e da monnezza permanente, invasa da zoccole di ogni tipo, anche umane, più cinghiali, gabbiani e autoblù, cosparsa di buche, sanpietrini semoventi e alberi cadenti, coi bus che vanno a fuoco e i dipendenti che si danno malati, non può essere affidata a gente che proviene dallo stesso humus. Ci vuole gente estranea, seria, magari piccola ma cocciuta, poco creativa ma molto operativa, col casco e la mascherina sulla bocca, che raddrizzi la schiena ai pizzardoni, agli impiegati, agli abitanti e pure ai gatti che si sono così impigriti e invigliacchiti da stare pappa e ciccia coi topi.Ci vuole gente che non si nasconda dietro l’estate romana, il cinema e le maratone, che non si faccia bella con l’antifascismo e la tragedia degli ebrei, scoprendo ottant’anni dopo qualche nonno deportato o salvaebrei; ma gente che, pancia a terra, si metta a lavorare sodo, risolvendo i problemi e non vendendo fumo e aria fritta. E ci vuole gente che ammiri e tuteli i monumenti antichi come solo i giapponesi sanno fare; gli unici che non si sono mai portati via souvenir dalle rovine, né abbiano pisciato sulle vestigia antiche o lasciato lattine di birra, coca-cola e altre porcherie, ma si incolonnano devoti e da Roma portano via solo foto ricordo. Solo una giapponese che viene dall’Impero del Sol Levante può capire la Città Eterna e l’Inno a Roma, che canta il Sole che sorge sui colli fatali, come il Sol Invictus dell’Imperatore. I giapponesi hanno la fierezza degli antichi romani, non si lasciano corrompere dalla pajata e dalla trippa, non chiedono il pizzo agli esercenti, mangiano sano e non pesante, non fanno la pennica il pomeriggio né se fanno du spaghi dopocena. E se uno spaccia droga e delinque, lo fanno fuori sul posto e lo servono a sushi ai loro complici terrorizzati, perché si nutrano con l’esempio.Solo i giapponesi potranno salvare Roma; lo sa Calenda che per spacciarsi da giapponese gira in suzuki col kimono, grida banzai ai semafori (traduzione del suo partito Azione) e si fa chiamare Kalenda con la Kappa. Ma lo dico anche a Salvini e Meloni che stanno incartandosi sul sindaco prossimo venturo. Evitate lo scontro tra voi e non andate al massacro di governare Roma; trovate una soluzione extra partes, extraterritoriale, né romanista né laziale. Kyoto schiaccia Kyoto. I giapponesi non hanno difficoltà a costruire termovalorizzatori e metropolitane in un batter d’occhio a mandorla. E ai finti disabili che esibiscono pass farlocchi per parcheggiare, loro non sequestrano il permesso falso ma spezzano le gambe, in modo che possano aver davvero diritto al posto riservato. Forza Koike, per un comune derattizzato e deraggizzato.(Marcello Veneziani, “Il prossimo sindaco a Roma lo vogliamo giapponese”, da “La Verità” del 3 dicembre 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Per il prossimo sindaco di Roma avrei una proposta da fare che spiazza tutti, sto già partendo con le firme per costituire un comitato elettorale a sostegno. Avendo già sperimentato tutte le possibilità – sindaci di sinistra e di destra, democristiani e comunisti, tecnici e nordici, pop e snob, alieni e grillini – e avendo ottenuto sempre risultati deludenti, fallimentari e da ultimo catastrofici, nell’impossibilità di rieleggere Giulio Cesare e Ottaviano Augusto per raggiunti limiti d’età né potendo auspicare la riconversione del Vescovo di Roma in sindaco della Medesima (sarebbe un sollievo, se non per il Comune, almeno per la Chiesa), ho maturato una ferma convinzione: eleggiamo governatore di Roma con poteri speciali Yuriko Koike, attuale sindaca di Tokyo che scadrà quando si voterà a Roma. È una donna esperta, riesce a governare una città che non ha nemmeno numeri civici per raccapezzarcisi, sta preparando con successo le olimpiadi di Tokyo per il 2020, è conservatrice di destra, extra-strong, conosce molte lingue, compreso l’arabo, ed è così cazzuta che è stata ministro della difesa. E soprattutto è estranea al generone romano, alla partitocrazia nostrana, al carnevale permanente di candidati, gagà e figuri sfornati dalle ditte politiche e dai clan di palazzinari, curia e potentati locali.
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Distruggere l’Italia: i grillini eguagliano il “record” di Monti
Da quando governano l’Italia, i grillini hanno stabilito un record assoluto: il danno che hanno prodotto al paese in così breve arco di tempo non ha precedenti. Forse gli unici contendenti sono i tecnici montiani, che avvilirono e danneggiarono scientificamente l’Italia, con cognizione di causa, a differenza dei grillini che lo bombardano a capocchia con gaia incompetenza e una miscela letale di ignoranza e arroganza. No, la questione non è Di Maio, l’Emilia o la Calabria. È l’M5S in sé. Ogni capitolo fallimentare dei grillini ha la faccia di un testimonial. Si comincia con gli enti locali, col fulgido esempio di Virginia Raggi che è riuscita a far rimpiangere tutti i sindaci che l’hanno preceduta (e ce ne voleva) e a dare il colpo di grazia e disgrazia a una città già in ginocchio e autolesionista di suo. Si finisce col premier Contebis che rappresenta la più vistosa negazione del movimento 5stelle: è un maggiordomo di Palazzo, domestico dell’establishment mondiale, annunciatore di rimedi per un domani che si sposta ogni giorno; democristiano con attaccamento vinavil alla poltrona, paraculista e trasformista, ora filo-dem, borioso e fumoso, figurante istituzionale. Incarnazione perfetta e gaia del vuoto al governo e del nulla in politica.Nel mezzo scorrono le relative faccine che testimoniano i vari capitoli del fallimento grillino: la fatuità egizio-partenopea del tardoprogressista Roberto Fico, col suo gne-gne napoletano sinistrese, pessima imitazione della già pessima Boldrini che l’ha preceduto; le improvvisate sciampiste cinquestelle che occuparono i ministeri con risultati penosi; il proverbiale Danilo Tonninelli (una enne l’ha guadagnata sul campo), prototipo del grillino doc, simbolo ottuso di tutti i no grillini a ogni opera; la ministra dell’autoDifesa Elisabetta Trenta che si è moltiplicata per sei ed è passata da Trenta a Centottanta (metri quadri), con le forze armate che portavano a spasso il cane, e lei che riceve gli eserciti di tutto il mondo a casa, perciò ha bisogno di una casa grande; il ministro alla pubblica ricreazione Lorenzo Fioramonti, che ha ridotto la scuola a un osservatorio climatico e si occupa di plastica e merendine da un punto di vista eco-progressista; per non dire delle pulcinellate di Gigino Di Maio, i suoi voltafaccia e i suoi vistosi errori presentati in modo trionfale: povertà abolita, disoccupazione battuta, acciaieria risanata, Alitalia in via di decollo, manette annunciate ai grandi evasori e occhiolino strizzato ai molti evasori, l’infatuazione suicida filo-cinese e altre enormi cappellate. Oggi lui è diventato il capro espiatorio ma il difetto è nel manico e in tutti gli ombrelli della ditta.Il reddito di cittadinanza resta la porcata più vistosa dei grillini, dal punto di vista del danno erariale, del danno sociale, del danno morale. Si ha ogni giorno di più la certezza che non produrrà un solo posto di lavoro in più né un solo lavoro nero in meno. Non è un reddito d’inclusione o d’inserimento, è solo un gravoso costo, parassitario e diseducativo, che peggiora il tessuto sociale del paese e il bilancio dello Stato, santifica l’inerzia, la demeritocrazia e pure il malaffare. È la versione stracciona, plebea e lazzarona del comunismo. All’inizio si disse che era un’indennità-divano, i grillini reagivano indignati, ma quella previsione era già ottimistica: molti titolari del reddito non stanno nemmeno a casa loro ma continuano di soppiatto i loro lavori neri e qualcuno addirittura continua le attività criminose, come si è visto. C’è poi TeleCasalino, un tempo Tg1, un imbarazzante volantino grillino e contino. Per non dire degli altri, dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede al ministro Vincenzo Spadafora e a tutta la gaia compagnia dei grillini. E per non risalire ai mandanti, Beppe Grillo e la Casaleggio & Associati, più qualche predicatore manettaro.Il fallimento dei grillini ha la faccia sconsolata dell’esule, il Comandante Ale Diba, al secolo Alessandro Di Battista, la cui eclissi dimostra la fine del fervore originario, quando i grillini erano ancora una minacciosa promessa in pubertà. Non si è mai visto un movimento perdere nel giro di pochi mesi di governo tante milionate di voti e sparire dai territori con una velocità impressionante. Hanno esaurito il credito, ormai. Resta il problema di trovare quale discarica possa contenere così tanti rifiuti ammassati in così poco tempo. La parabola dei grillini è un monito per gli elettori e i cittadini che votandoli s’illusero di punire tutti gli altri: i movimenti eruttati dal nulla, nati soltanto dal cabaret, dal vaffa e dal rifiuto di tutto, dove uno vale l’altro, dove i deputati sono burattini nelle mani della Piattaforma, dove la democrazia diretta è una caricatura che nasconde un’autocrazia eterodiretta da non-eletti, dove si può nominare a sorteggio e si può diventare ministri non sapendo nulla, non avendo mai fatto nulla nella vita, non avendo la più pallida idea, poi producono solo danni e nulla.Per arginare la deriva corrotta della politica, il malaffare, devi trovare gente motivata e seria, non pescata così, random, spesso nullafacente. Appena a uno di questi dai in mano un po’ di potere, diventa un arraffone e vuole sistemarsi per la vita. E quando gli ricapita? Infine i grillini hanno fatto saltare l’unica eredità buona della seconda repubblica, l’alternanza bipolare, reimmettendo al centro un partito bifronte. La sinistra merita giudizi negativi molto severi, sa essere più contro che con i cittadini, almeno quelli in regola. Ma è un avversario da sconfiggere sul terreno dei fatti, della politica e delle idee; invece i grillini sono una mucillagine urticante, una grottesca complicazione del quadro, e da alleati della sinistra al governo sono solo un’aggravante del malgoverno. Che tornino presto al Nulla da cui provengono. È l’augurio per un paese stremato, che ha già troppi guai per doversi caricare pure dei grillini.(Marcello Veneziani, “Il gaio fallimento dei grillini al governo”, da “La Verità” del 24 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Da quando governano l’Italia, i grillini hanno stabilito un record assoluto: il danno che hanno prodotto al paese in così breve arco di tempo non ha precedenti. Forse gli unici contendenti sono i tecnici montiani, che avvilirono e danneggiarono scientificamente l’Italia, con cognizione di causa, a differenza dei grillini che lo bombardano a capocchia con gaia incompetenza e una miscela letale di ignoranza e arroganza. No, la questione non è Di Maio, l’Emilia o la Calabria. È l’M5S in sé. Ogni capitolo fallimentare dei grillini ha la faccia di un testimonial. Si comincia con gli enti locali, col fulgido esempio di Virginia Raggi che è riuscita a far rimpiangere tutti i sindaci che l’hanno preceduta (e ce ne voleva) e a dare il colpo di grazia e disgrazia a una città già in ginocchio e autolesionista di suo. Si finisce col premier Contebis che rappresenta la più vistosa negazione del movimento 5stelle: è un maggiordomo di Palazzo, domestico dell’establishment mondiale, annunciatore di rimedi per un domani che si sposta ogni giorno; democristiano con attaccamento vinavil alla poltrona, paraculista e trasformista, ora filo-dem, borioso e fumoso, figurante istituzionale. Incarnazione perfetta e gaia del vuoto al governo e del nulla in politica.
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Cretini di sinistra, la “mafia” ipocrita che rimpiange Sciascia
Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.Oggi prevale la favoletta della neutralità di Sciascia tra lo Stato e le Br, il famoso né né. In realtà Sciascia riteneva poco credibile la linea della fermezza dopo decenni di connivenza, di zona grigia e di cedimento dello Stato a ogni livello. E denunciava la rete larga di complicità intorno al terrorismo rilevando che «è in atto un’espansione del partito armato che sta trovando insediamenti sociali», mentre si continuava a negare la matrice comunista. «Le Brigate Rosse – scrisse Sciascia – erano rosse e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero». Anzi, notava Sciascia, le Br si appellavano alla stessa fonte di legittimazione dello Stato democratico e antifascista: «La Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate Rosse: credono di esserne i figli». Le azioni terroristiche delle Br per lui saldarono il sistema, non lo fecero saltare. Il terzo spunto, connesso al precedente, fu il suo giudizio sul potere democristiano e su Aldo Moro. Le sue interpretazioni furono espresse già nel ’76 in “Todo Modo” e poi ne “L’Affaire Moro” e dispiacquero non solo alla Dc, ma anche al Pci e ai grandi giornali. Berlinguer arrivò a querelarlo. Scalfari lo stroncò prima che il suo libro sul caso Moro uscisse.Sciascia denunciò in Moro lo scarso senso dello Stato. Per lui Moro non era uno statista ma «un grande politicante». A Moro rimproverò pure di non aver speso una parola nelle sue tante lettere dal carcere per la sua scorta trucidata in via Fani. E come Pasolini, anche Sciascia ritenne che Moro avesse inventato un linguaggio incomprensibile, di cui fu detentore ma anche vittima (perché nessuno colse i messaggi cifrati delle sue lettere dal carcere delle Br), che secondo Sciascia serviva a tenere oscura e impenetrabile la chiave del potere. La lingua di Moro era per lo scrittore siciliano come il latino usato dalla Chiesa per rendersi incomprensibile al volgo e così alimentarne l’ossequio devoto. La lingua morotea a suo dire corrompeva la democrazia perché rendeva i percorsi del potere politico inaccessibili e arcani al popolo sovrano. Il quarto spunto di Sciascia è sulla sinistra antifascista. Mi limito a due citazioni riassuntive, tratte da “Nero su nero”: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è».E poi: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero solo a destra e perciò l’evento non ha trovato registrazione». Ecco l’antifascista di sinistra, intollerante ma cretino. Mirabile sintesi, assai attuale. Infine, in tema di Sicilia e di malgoverno, Sciascia dette una lezione di non conformismo, paragonando l’inefficacia e la corruttela che aveva accompagnato i terremoti avvenuti durante la repubblica italiana con quel che invece era accaduto ai tempi “nefasti” della controriforma e della vituperata dominazione spagnola. Nel 1693, nella Sicilia sotto la prepotenza spagnola, un terremoto colpì una cinquantina di Comuni, tra cui Catania, Avola, Lentini e Noto. Si recò sul luogo del disastro il duca di Camastra, vicario del vicerè, con pieni poteri e con la benedizione della Chiesa. Il signorotto, la Chiesa, i fondi da gestire: il triangolo perfetto del malaffare meridionale.E invece quel duca brusco, altero e devoto, che passava a cavallo tra le macerie, in pochi mesi ricostruì al meglio quei paesi. Il duca, scrisse Sciascia, temperava il rigore cattolico con il culto della bellezza; non si dirà lo stesso dei democratici che gestirono i terremoti più recenti e i loro fondi. Sono riusciti a far rimpiangere la dominazione spagnola. E Sciascia, volterriano laico, onestamente lo riconosceva. Quanti dei signorini che oggi lo invocano e lo rimpiangono avrebbero fatto altrettanto? Certo, Sciascia ha scritto ben altro, non si può ridurre la sua opera a queste polemiche. Ma ogni volta che comincia la messa cantata su Pasolini e Sciascia che ci mancano (a noi mancano anche tanti altri scrittori rimossi perché dalla parte sbagliata), allora vorrei far notare che per questo loro non conformismo subirono in vita linciaggi verbali e peggior sorte avrebbero avuto oggi. Magari anche dalle mafie culturali che ne piangono la scomparsa.(Marcello Veneziani, “Sciascia, rimpianto con ipocrisia”, da “La Verità” del 19 novembre 2019).Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.
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Attori “antifascisti”: impedite a Veneziani di salire sul palco
Il due novembre scorso il Teatro Verdi di Padova ha aperto la sua stagione con Marcello Veneziani portando in scena “1919. I rivoluzionari”, dedicato a quell’anno in cui nascque il fascismo, il partito popolare, l’italo-comunismo e ci fu l’impresa fiumana di D’Annunzio. Attori che recitavano testi di Marinetti, don Sturzo, Mussolini, Gramsci e D’Annunzio, musiche d’epoca e Veneziani che raccontava quegli eventi. Gran successo, «dieci minuti d’applausi» fa notare il presidente del Teatro Stabile Veneto, Giampiero Beltotto. Ma il Collettivo Attori Antifascisti, non sappiamo come altro definire il gruppo di attori che fa capo alla compagnia Anagoor, guidata da tale Simone Derai, ha avviato una raccolta di firme per contestare il teatro di aver chiamato «un controverso personaggio come Veneziani». Il Collettivo premette che non ha visto lo spettacolo; non giudica i contenuti, dunque l’attacco è alla persona, a priori, e a prescindere da quel che ha detto e fatto. Per loro è inconcepibile che «un’istituzione di rilevanza nazionale finanziata con soldi pubblici» affidi un argomento così delicato a Veneziani che «non festeggia il 25 aprile» perché a suo dire «non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due Italie». Dunque un presunto reato d’opinione interdirebbe a Veneziani il diritto di andare in scena.Veneziani non è solo un giornalista “controverso”, ha scritto più di una trentina di opere, e anche sul tema ha dedicato libri pubblicati dai principali editori e curato antologie (come “Anni incendiari 1909-1911″). Ma a sinistra ignorano le tue idee, non discutono le tue opere ma censurano la tua esistenza e reputano che il semplice fatto di esprimerti a teatro sia un segno del “clima” preoccupante che viviamo (fascismo dappertutto, schizzi di sangue e merda ovunque…). Veneziani è stato chiamato dal Teatro e ha raccontato un anno in un modo che è apparso al pubblico appassionato quanto onesto, rispettoso dei fatti e dei personaggi, non partigiano. Ma il Collettivo Attori Antifascisti decreta che uno come lui va condannato a priori senza leggerlo né ascoltarlo. Gli va impedita la libera espressione, e soprattutto non può accedere in luoghi e teatri che hanno un finanziamento pubblico. Come dire, il Teatro è Cosa Nostra, giù le mani dar valoroso palcoscenico dei compagni pagato coi soldi pubblici. Polemica tardiva? Ma no, semmai preventiva: serve a intimidire chiunque voglia replicare o l’invito. Interpellato da “Il Gazzettino”, Massimo Cacciari dice: «Non mi pare proprio che Veneziani possa essere una persona non affidabile, non mi pare che gli si possa imputare una sorta di apologia. Veneziani svolge con coerenza, secondo la sua impostazione di storico, le sue tesi». Veneziani «non è CasaPound», e comunque «ha altro a cui pensare» rispetto a questi attacchi.Su “La Verità”, Adriano Scianca fa notare che, non entrando nel merito dei contenuti, «non ti censurano per quello che dici, ma per quello che sei», o meglio, che appari ai loro occhi miopi di faziosità ideologica. Anche l’assessore regionale Elena Donazzan fa notare che non si può stroncare senza vederlo uno spettacolo che è piaciuto al pubblico anche di altro orientamento, per la sua efficacia e leggerezza. Il presidente del Teatro Beltotto, che già chiamò Veneziani lo scorso anno al Teatro Goldoni di Venezia per parlare di Ezra Pound, fa notare che non ci sono stati dissensi né fischi a teatro: Veneziani «è un intellettuale di vaglia», e l’anno precedente aveva aperto la stagione teatrale con un altro personaggio “divisivo” come Cacciari, e nessuno lo ha contestato. A parti rovesciate, infatti, nessuno a “destra” e dintorni condanna a priori l’idea di chiamare sul palcoscenico non un terrorista o un pregiudicato, ma un intellettuale di sinistra. Al più critica sui contenuti, dopo aver visto lo spettacolo. Ma questa è la sinistra antifascista, condannata a ripetersi e a contrastare col giudizio della gente. Poi si chiedono perché si è ridotta a una setta, a una mafia, una casa d’intolleranza. Il teatro è Cosa Nostra. Scrive Marco Gervasoni: «Saranno una minoranze di zecche rosse, il Veneto è sano, ci sono pochi comunisti; comunque, viva @VenezianiMar, mandare ai matti il fegato della sinistra è sempre una grande soddisfazione».(”Impedite a Veneziani di andare in palcoscenico”, dal blog di Veneziani, novembre 2019).Il due novembre scorso il Teatro Verdi di Padova ha aperto la sua stagione con Marcello Veneziani portando in scena “1919. I rivoluzionari”, dedicato a quell’anno in cui nascque il fascismo, il partito popolare, l’italo-comunismo e ci fu l’impresa fiumana di D’Annunzio. Attori che recitavano testi di Marinetti, don Sturzo, Mussolini, Gramsci e D’Annunzio, musiche d’epoca e Veneziani che raccontava quegli eventi. Gran successo, «dieci minuti d’applausi» fa notare il presidente del Teatro Stabile Veneto, Giampiero Beltotto. Ma il Collettivo Attori Antifascisti, non sappiamo come altro definire il gruppo di attori che fa capo alla compagnia Anagoor, guidata da tale Simone Derai, ha avviato una raccolta di firme per contestare il teatro di aver chiamato «un controverso personaggio come Veneziani». Il Collettivo premette che non ha visto lo spettacolo; non giudica i contenuti, dunque l’attacco è alla persona, a priori, e a prescindere da quel che ha detto e fatto. Per loro è inconcepibile che «un’istituzione di rilevanza nazionale finanziata con soldi pubblici» affidi un argomento così delicato a Veneziani che «non festeggia il 25 aprile» perché a suo dire «non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due Italie». Dunque un presunto reato d’opinione interdirebbe a Veneziani il diritto di andare in scena.
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Autopsia degli italiani: il nostro sistema-paese sta sparendo
Cos’hanno in comune le coppie che non vogliono avere figli, i ragazzi che se ne vanno all’estero, i pensionati che prendono la cittadinanza in paesi dove il costo della vita e delle tasse è più basso; oppure quanti rigettano i simboli viventi della vita italiana, dal crocifisso al presepe, quelli che chiedono di abbattere le frontiere e di lasciar entrare chiunque decida di vivere da noi e i censori che condannano chiunque voglia tutelare la nostra identità nazionale? Concorrono tutti, spesso a loro insaputa, al suicidio degli italiani o se preferite alla loro eutanasia. Corale, anche se spesso individuale. Molti di loro hanno buone ragioni personali, concrete e contingenti per le loro scelte e le loro rinunce. Non fanno figli perché si sentono precari, non hanno lavoro stabile né casa adeguata né sostegni di alcun tipo per metterli al mondo. Oppure vanno via dall’Italia perché qui non trovano lavoro, non vedono riconosciuti i loro studi, i loro meriti, la loro capacità. O ancora, abbandonano il paese perché sono tartassati e qui non ce la fanno a mantenere uno standard di vita adeguato, non si sentono garantiti come pensionati, temono la criminalità e sono disamorati del loro paese.Altri considerano l’Italia un corridoio umanitario, un luogo di transito e di approdo per chiunque voglia; reputano sacrosanto accogliere tutti, anche se sbarcati clandestinamente, perché sono umanitari, si mettono nei panni di chi parte, di chi arriva e sempre meno nei panni di chi fu, è o sarà italiano. O ancora: vogliono aprirsi al mondo e dar posto ad altri modi e modelli di vita, sono xenofili, desiderano le storie d’altri, sono stanchi delle proprie. Ragioni diverse tra loro, assolutamente non accorpabili e diseguali anche sul piano etico, diversamente rispettabili, ma il risultato è uno solo: si pongono mentalmente o fisicamente fuori dal loro paese, contribuiscono alla fine degli italiani, a cominciare da se stessi. Ciascuno a suo modo, spesso in buona fede e con le migliori intenzioni, stacca la spina all’Italia, concorre alla scomparsa degli italiani, si dimette da italiani o non ne garantisce la prosecuzione; accelera la cessazione della nazione e dell’identità collettiva. Per non dire dell’autodenigrazione nazionale e del diffuso vizio di rappresentare il mondo sempre a rovescio: i buoni sono quelli che vengono da fuori, i cattivi sono quelli di dentro.E tralascio la cornice di un paese in via di dismissione, marchi distintivi che vanno all’estero, aziende che chiudono, l’Italia che perde l’auto, il burro e l’acciaio, l’auto. Si cambia paese come si cambia gestore telefonico perché è più vantaggioso. Il dispatrio diventa solo una voltura. Sopravvivono come individui, come cittadini del mondo, come nomadi, utenti e consumatori, come esuli o profughi dal nostro paese, ma si cancellano come italiani, come famiglie, come abitati di una terra, di una città, scelgono l’evacuazione, la desertificazione, alimentano la sostituzione di popolo. Non riusciamo più a vedere le cose dal punto di vista sociale, comunitario, nazionale e tantomeno con lo sguardo storico e connesso al rapporto tra le generazioni; le vediamo solo dal punto di vista individuale, soggettivo, utilitario e contingente. O peggio, ideologico. Non riusciamo più a capire il senso storico di quel che stiamo vivendo e facendo, ci occupiamo solo dell’occasione del momento, siamo interamente immersi nella situazione, non siamo in grado di proiettare le scelte immediate nel futuro, di capirne gli effetti e di rapportarli al mondo circostante.Eppure sta avvenendo un processo storico importante e letale. È l’eutanasia di un popolo, di una nazione, di una civiltà. Ma se lo dici rischi pure di essere perseguitato a norma di legge come se la preoccupazione per la vita del tuo paese e del tuo popolo, fosse una forma di odio, di razzismo e di disprezzo nei confronti degli altri. È chiaro che l’italianità non si misura dal colore della pelle, e nemmeno da altri indicatori superficiali. Anzi, chi si affida solo a quelli già è estraneo allo spirito di una nazione, non capisce l’importanza di un’identità, di una cultura, di una tradizione nazionale. Ci sono bianchissimi e purissimi italiani che sono meno italiani nella testa e nel cuore di tanti altri, oriundi o sopraggiunti. Come si fronteggia il suicidio degli italiani? Innanzitutto assumendone coscienza, diventando consapevoli di quel che sta accadendo; poi cercando con realismo, senza velleità, possibili rimedi e possibili alternative ai percorsi ritenuti obbligati della deitalianizzazione in automatico; infine studiando, sollecitando e promuovendo iniziative, programmi, politiche, per rispondere al fenomeno e incoraggiarne la ripresa, a ogni livello.Invece non vedo niente di tutto questo, se non qualche scaramuccia di basso livello su qualche minchiata secondaria, come il caso Balotelli o poco altro. In particolare trovo sconfortante un’area politica che pure è maggioritaria nel paese ma si lascia dettare l’agenda dalla dittatura del politically correct e si limita a saltare o a non saltare al comando dei circensi. L’ultimo è stato il caso Segre, con la relativa commissione anti-odio, così prefabbricato. Prendete voi iniziative in senso inverso piuttosto che limitarvi a discutere se acconsentire, astenervi o respingere le iniziative altrui, nate al puro scopo di mettervi in difficoltà, spaccarvi e mantenere il bastone del comando, imponendo il loro canone. Anche perché nel caso in questione, non è in gioco una parte politica o una spicciola convenienza elettorale. È in gioco un popolo, una storia, una patria; il loro passato e il loro futuro.(Marcello Veneziani, “Il suicidio degli italiani”, da “La Verità” del 7 novembre 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Cos’hanno in comune le coppie che non vogliono avere figli, i ragazzi che se ne vanno all’estero, i pensionati che prendono la cittadinanza in paesi dove il costo della vita e delle tasse è più basso; oppure quanti rigettano i simboli viventi della vita italiana, dal crocifisso al presepe, quelli che chiedono di abbattere le frontiere e di lasciar entrare chiunque decida di vivere da noi e i censori che condannano chiunque voglia tutelare la nostra identità nazionale? Concorrono tutti, spesso a loro insaputa, al suicidio degli italiani o se preferite alla loro eutanasia. Corale, anche se spesso individuale. Molti di loro hanno buone ragioni personali, concrete e contingenti per le loro scelte e le loro rinunce. Non fanno figli perché si sentono precari, non hanno lavoro stabile né casa adeguata né sostegni di alcun tipo per metterli al mondo. Oppure vanno via dall’Italia perché qui non trovano lavoro, non vedono riconosciuti i loro studi, i loro meriti, la loro capacità. O ancora, abbandonano il paese perché sono tartassati e qui non ce la fanno a mantenere uno standard di vita adeguato, non si sentono garantiti come pensionati, temono la criminalità e sono disamorati del loro paese.
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Veneziani: dementi, credete che Nero sia meglio di Negro?
Ieri mi ha fermato un africano per vendermi qualcosa e mi ha detto “Fratello bianco”. Io gli ho risposto: «Ma come ti permetti?». Lui è rimasto allibito, pensando che ce l’avessi col fratello, invece ho proseguito: «A me, bianco non me l’ha mai detto nessuno», alludendo alla mia carnagione scura. Lui ha sorriso e mi ha detto: «Io però sono n., tu sei solo scuro». Non posso pronunciare la parola perché è vietata dalla polizia culturale e l’algoritmo la censura e l’inquisizione poi sospende il blog. Detesto la retorica di dire nero anziché n., sapendo che l’insulto è nell’aggettivo che può accompagnarlo o nel tono, non certo nella parola n. E mi piace che sia stato lui a dirlo. Ma si rendono conto, i retori dell’integrazione, che nero è sempre stata – salvo per i fascisti, i preti e la nobiltà nera – una connotazione negativa? Nera è la morte, il lutto e la sfortuna. Nero anzi noir è l’horror, nera è la cronaca dei delitti, nero è il lavoro sfruttato e l’evasione (ma il rosso in bilancio è peggio). Nero è il buio, nero è l’uomo cattivo dell’infanzia, nera è la giornata disastrosa. Nero è il tempo brutto, il gatto che porta male, il corvo funesto e l’abito dello iettatore.Nero è il futuro negativo, nera è la maglia della vergogna, nero è il volto dell’incazzatura, nera è la minaccia: ti faccio nero. Nera è l’anima del malvagio. Possibile che con questi precedenti si celebri come un progresso la promozione del n. a nero? Peggio di nero, c’è solo la definizione di uomo di colore, come se lui fosse un pagliaccio variopinto e noi degli esseri incolori. Due offese in un colpo solo. Più rispetto per i n., i chiari e i chiaroscuri. Quanto al calcio, io ricordo da bambino i cori e le battute degli spalti. Si accanivano contro qualunque calciatore della squadra opposta avesse uno spiccato tratto distintivo: se era pelato, se era troppo alto o troppo basso, se aveva la barba o era grassottello, se parlava in campo o se si agitava, se era nero, mulatto o rosso di capelli. Di quei cori puerili e di quelle frasi cretine non se ne faceva però un titolo di telegiornale, una campagna antirazzismo, non si istituiva una commissione o un processo, non si denunciava allarmati il ritorno di Hitler…Un crimine, un furto, un’aggressione, lo spaccio di droga non destano reazioni così decise, sanzioni così drastiche e pubblico raccapriccio come una parola scema fuori posto pronunciata in tema di colore della pelle. Se fai un commento, una battuta sul tema ti giochi il lavoro, la tua reputazione, il tuo posto in squadra, molto più che se hai compiuto veri reatiBisogna saper distinguere le cose gravi dalle cose sciocche; è molto più nociva l’abitudine di criminalizzare chiunque dica una parola sconveniente adottando la teoria demente che si comincia così e poi si finisce ai campi di sterminio. Chi prende sul serio una stupidaggine è più stupido di chi la pronuncia, o peggio è in malafede perché vuole speculare sull’incidente per criminalizzare l’intera area di chi non la pensa come lui. Salvateci dal politicamente corretto, fa più danni dell’idiozia episodica di una battuta, che viene reiterata proprio perché ha una risonanza immeritata che la moltiplica e la rende importante, quando era solo una stupida battuta.(Marcello Veneziani, “Più rispetto per i n.”, da “La Verità” del 5 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ieri mi ha fermato un africano per vendermi qualcosa e mi ha detto: «Fratello bianco». Io gli ho risposto: «Ma come ti permetti?». Lui è rimasto allibito, pensando che ce l’avessi col fratello, invece ho proseguito: «A me, bianco non me l’ha mai detto nessuno», alludendo alla mia carnagione scura. Lui ha sorriso e mi ha detto: «Io però sono n., tu sei solo scuro». Non posso pronunciare la parola perché è vietata dalla polizia culturale e l’algoritmo la censura e l’inquisizione poi sospende il blog. Detesto la retorica di dire nero anziché n., sapendo che l’insulto è nell’aggettivo che può accompagnarlo o nel tono, non certo nella parola n. E mi piace che sia stato lui a dirlo. Ma si rendono conto, i retori dell’integrazione, che nero è sempre stata – salvo per i fascisti, i preti e la nobiltà nera – una connotazione negativa? Nera è la morte, il lutto e la sfortuna. Nero anzi noir è l’horror, nera è la cronaca dei delitti, nero è il lavoro sfruttato e l’evasione (ma il rosso in bilancio è peggio). Nero è il buio, nero è l’uomo cattivo dell’infanzia, nera è la giornata disastrosa. Nero è il tempo brutto, il gatto che porta male, il corvo funesto e l’abito dello iettatore.
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Niccolai, il fascista “eretico” che fece votare le idee del Pci
«Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».In principio, riassume Veneziani su “La Verità”, Niccolai fu tra i fondatori del Msi nel segno di “legge e ordine”. Poi si andò spostando verso una sinistra nazionale e “spirituale”, auspicando di ricucire la frattura del ’14 coi socialisti, spingendosi persino a quella del ’21 coi comunisti. «Non condivise però la linea di Pino Rauti di sfondare a sinistra; sognava altre sintesi». Niccolai morì il 31 ottobre dell’89, «nove giorni prima che cambiasse il mondo, col Muro crollato e la caduta del comunismo, e da noi la fine della Prima Repubblica». L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita. «Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto», scrive Veneziani, «ma era lo stesso vuoto che lo circondava quando era in vita». “Beppe” dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione nell’opposizione, distante pure da Rauti. «L’avevano sistemato in una teca, con l’etichetta di coscienza critica, per venerarlo e accantonarlo». Conoscendolo, «era amabile e inquieto, tutt’altro che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero». Fascista, Niccolai lo era stato davvero, «ma sulla sua pelle: volontario in Africa, e poi – per fedeltà al suo fascismo, prigioniero degli americani nel “fascist criminal camp” ad Hereford, come l’artista Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e Roberto Mieville, futuro capo dei giovani missini della prima ora».A Pisa, continua Veneziani, Niccolai fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta Continua per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. «Negli scontri con la polizia morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicare lui pochi giorni dopo fu ucciso Calabresi. Ma Niccolai difese il “nemico” Sofri quando fu accusato d’omicidio», aggiunge Veneziani. Da parlamentare, l’amico “Beppe” «fece memorabili interventi in commissione antimafia contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche da Leonardo Sciascia, allora parlamentare di sinistra». Non solo: «Denunciò le stragi e le responsabilità dei servizi segreti; e riuscì a scucire la verità ai magistrati veneziani sull’aereo Argo 16 della nostra aeronautica abbattuto dagli israeliani nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, accusati di aver salvato alcuni terroristi arabi che preparavano un attentato a un aereo di linea israeliano». Un’operazione filo-araba, condotta dall’allora ministro degli esteri Aldo Moro (cinque anni più tardi “sistemato” con l’opaca operazione terroristica affidata alle Brigate Rosse).A Niccolai, Veneziani era accomunato «dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni come Giano Accame e il pisano Gino Benvenuti». Si scoprirono entrambi «figli di presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa». Quando Veneziani fu silurato dall’editoria di destra per le sue simpatie verso il socialismo tricolore di Craxi, Niccolai scrisse un pezzo solidale sul suo foglio, “L’Eco della Versilia”, e ribadì la sua protesta al congresso missino di Sorrento nel 1987, «dove fu la voce stonata nel congedo di Almirante dalla guida del Msi». Non era un vecchio arnese, Niccolai: «Nell’Msi fu con l’ala modernizzatrice di Mimmo Mennitti: voleva aprire il ghetto missino, dialogare col Craxi patriota e sognava di ricucire con la sinistra». Raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ai suoi fedelissimi: «Se crolla il fascismo, seguite Pietro Nenni». Veneziani lo ricorda come «uno spirito critico e appassionato, pensante e romantico, magari impolitico». Nel 1988 fu espulso dal Msi: aveva fatto votare alla direzione del partito un ordine del giorno contro i potentati economici. Solo più tardi si seppe che quel documento l’aveva ripreso, pari pari, da una relazione del comitato centrale del Pci. «Niccolai raccontò al “Corriere della Sera” la beffarda verità, e Fini lo cacciò perché all’epoca aveva orrore delle contaminazioni con la sinistra». Ma il suo scopo non era goliardico, assicura Veneziani: non voleva prendere in giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono convergenze su temi condivisi. «Era un marziano allora, figuratevi ora. Ad avercene…».«Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».