Archivio del Tag ‘La Verità’
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Odiano il popolo e non vedono che l’Italia non li regge più
Da diversi giorni su “La Repubblica” va in scena il teatrino dell’assurdo: la Casta spiega al popolo perché ha perso e perché hanno vinto i loro nemici. Fanno autocritica perché non accettano critiche, gli unici abilitati a criticarli sono sempre loro stessi. Hanno la presunzione di sapere solo loro come sono andate effettivamente le cose, perfino la loro sconfitta la capiscono solo loro che l’hanno pur causata, almeno in buona parte. La loro autocritica esclude il presupposto di ogni serio bagno di umiltà: ascoltare. Ascoltare gli altri, ascoltare chi ha vinto e chi ha decretato la vittoria dei populisti e dei sovranisti, ascoltare la gente, ascoltare chi già prima del collasso spiegava le ragioni del cambiamento in corso. Macché. Gli altri non esistono, non hanno diritto di parola, sono plebe, o fascisti, reazionari, sovranisti o loro complici. La stessa cosa ha fatto il Pd. Ma tutta questa presunzione – che il loro Papa laico definisce in modo altrettanto presuntuoso come “albagia” (Eugenio Scalfari dixit di Sé stesso, col Sé maiuscolo) per non confonderla con la volgare arroganza – spiega il crollo delle élite molto più di quanto si possa immaginare.Infatti cosa si può rimproverare alle élite, il fatto di esistere e dunque per ciò stesso di tradire la democrazia, cioè l’autogoverno del popolo? Ma no, questo è lo schema puerile, simil-rousseauviano, di chi crede alla favola della democrazia diretta. C’è sempre stato un governo d’élite, non si conoscono paesi e sistemi politici in cui i governati coincidano coi governanti, nemmeno a rotazione, e tutto si decide a colpi di referendum e di plebiscito, persino le manovre economiche si fanno al balcone e poi si firmano in piazza tra bandiere, abbracci e tric-trac. Il problema vero, la malattia del sistema, è che non si sono viste in campo le élite, al plurale, in competizione tra loro, come si addice a una vera democrazia, ma una sola oligarchia, un blocco di potere compatto e uniforme benché ramificato. I teorici delle élite, da Mosca a Pareto, parlavano di circolazione delle èlite, per loro la storia è un cimitero di aristocrazie; sono le minoranze che governano, ma sono minoranze in competizione, che si rinnovano.Da noi invece è avvenuta la stipsi delle élite. O se preferite una metafora meno cacofonica, l’arteriosclerosi delle élite, l’indurimento delle arterie che non consentivano la loro fluida circolazione. Si formano i trombi nel sangue e i tromboni nella società. E fermano il flusso. È lì che la classe dirigente si è chiusa a riccio, diventando solo classe dominante, e casta sovrastante. Non c’è stata circolazione, non c’è stata competizione tra élite divergenti, e non c’è stato filtro selettivo per consentire il ricambio tramite la meritocrazia. Si è bloccato l’ascensore sociale, si è chiuso l’accesso dei capaci e dei meritevoli. Si accedeva alle élite solo per cooptazione, per affiliazione alla cupola elitaria, per conformità di idee, metodi, linguaggi e idolatrie. Ma per avere circolazione, selezione, competizione, devi ammettere che non esista solo un Modello, una via di sviluppo, un solo codice politico, culturale e ideale. Devi accettare le differenze e il vero antagonismo.E invece chi non era conforme a quella precettistica, era messo fuori legge, fuori sistema, si poneva di volta in volta fuori dalla modernità, dalla democrazia, dall’Europa e in certi casi perfino fuori dall’umanità. Poi non si spiegano perché l’odio sia diventato un fatto sociale diffuso. Dopo aver insegnato Odiologia verso chi dissentiva dal loro canone, non potete poi meravigliarvi se la gente ha ricambiato, magari con la rozzezza dovuta a chi è carente di cultura e buone maniere. D’altra parte la buona educazione, dal ’68 in poi, fu cancellata e se non sbaglio da quella storia provenite pure voi. Una società volgare, sboccata, primitiva, nasce proprio da quella “liberazione”, dal mancato nesso tra diritti e doveri, che dal ’68 in poi è diventato il discorso dominante (“il diritto di avere diritti”).Ora, non dico che quel che è accaduto sia solo colpa della casta: anche dalla parte opposta si è fatto poco per far crescere e formare élite adeguate, qualificate e competitive. Però negando ogni cittadinanza alle idee diverse, ai modelli politici e culturali diversi, riducendo tutto a fascismo e paraggi, e soprattutto negando perfino l’esistenza di chi la pensava diversamente perché chi divergeva non poteva avere pensiero, hanno di fatto avallato il loro essere un Blocco Unico e Chiuso, che si autoriproduce. A differenza loro, io per esempio leggo Ezio Mauro e Alessandro Baricco, Michele Serra e Ilvo Diamanti, Eugenio Scalfari e altre loro firme culturali, e ne apprezzo in generale la qualità intellettuale. Li critico, polemizzo. Per loro, invece, chi non la pensa come loro o è una bestia o non esiste. Poi non si sanno spiegare perché alla fine parlano solo tra loro e a Sé stessi, col sé maiuscolo, dimenticando il mondo. Che alla fine fa volentieri a meno di loro, o si rivolta contro di loro.(Marcello Veneziani, “La Casta fa autocritica e si autoassolve”, da “La Verità” del 15 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Da diversi giorni su “La Repubblica” va in scena il teatrino dell’assurdo: la Casta spiega al popolo perché ha perso e perché hanno vinto i loro nemici. Fanno autocritica perché non accettano critiche, gli unici abilitati a criticarli sono sempre loro stessi. Hanno la presunzione di sapere solo loro come sono andate effettivamente le cose, perfino la loro sconfitta la capiscono solo loro che l’hanno pur causata, almeno in buona parte. La loro autocritica esclude il presupposto di ogni serio bagno di umiltà: ascoltare. Ascoltare gli altri, ascoltare chi ha vinto e chi ha decretato la vittoria dei populisti e dei sovranisti, ascoltare la gente, ascoltare chi già prima del collasso spiegava le ragioni del cambiamento in corso. Macché. Gli altri non esistono, non hanno diritto di parola, sono plebe, o fascisti, reazionari, sovranisti o loro complici. La stessa cosa ha fatto il Pd. Ma tutta questa presunzione – che il loro Papa laico definisce in modo altrettanto presuntuoso come “albagia” (Eugenio Scalfari dixit di Sé stesso, col Sé maiuscolo) per non confonderla con la volgare arroganza – spiega il crollo delle élite molto più di quanto si possa immaginare.
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Mazzucco: vaccini, vergogna nazionale. E i 5 Stelle, complici
Vaccini non sempre utili e non sempre sicuri, non testati come gli altri farmaci, e in alcuni casi pericolosi (letali) per i bambini. Vaccini non “spiegati”, imposti senza la necessaria trasparenza. E pagati dai cittadini con le tasse, a prezzi salatissimi: il costo è schizzato alle stelle dopo l’introduzione dell’obbligatorietà. In caso di problemi, chi paga? Sempre noi, con le imposte, perché è lo Stato a risarcire i danneggiati. Peggio ancora: il piano, evidente, mira a imporre l’obbligo a tutti, anche agli adulti (come in Argentina, dove alle vaccinazioni è vincolato il rinnovo del passaporto, come quello della patente di guida). Come chiamarlo, questo schifo? E poi: possibile che non ci sia un cane di politico che lo denunci? Non dovevano essere lì per quello, i 5 Stelle? Non a caso, infatti, sono stati votati da milioni di italiani. Molti dei quali oggi sono letteralmente inferociti: «Il mio voto non lo avranno mai più», annuncia Massimo Mazzucco, che accusa Giulia Grillo di essere la fotocopia di Beatrice Lorenzin. I militanti più irriducibili “perdonano” i grillini, perché se non cedessero al ricatto-vaccini finirebbero fuori dal governo? Tanto meglio, dice Mazzucco: se avessero il coraggio di denunciare il marcio, avete idea di come la prenderebbero, gli elettori? Se i 5 Stelle si dimettessero in nome della sicurezza sanitaria dei cittadini, il giorno dopo verrebbe giù l’Italia. Ma non lo fanno: e questo ci fa capire chi sono, veramente.
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I cent’anni di Andreotti, super-democristiano avanti Cristo
Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.Andreotti fece la comunione senza mai passare per la confessione. Ebbe sette vite, come i gatti e i sette colli di Roma, e guidò sette governi brevi; rappresentò l’immortalità al potere, inquietante ma rassicurante. Disse che il potere logora chi non ce l’ha, e fu di parola. Quando non ebbe più potere, si logorò, volse la gobba a levante e si costituì dopo lunga contumacia al Titolare. Non fu statista ma statico, inamovibile. Andreotti ebbe più senso del potere che dello Stato, della curia più che della nazione, della sacrestia più che del pulpito. Fu minimalista, antieroico e antidecisionista, rappresentò l’italianissima trinità Dio, pasta e famiglia, sostituendo la patria con la pajata e sognando un dio che patteggia col diavolo. Il suo ideologo fu Alberto Sordi, il precursore Aldo Fabrizi. Guidò l’Italia con passo felpato nelle vacanze dalla storia. Fu vicino ai suoi elettori, attento alle loro richieste, alle cresime e alle nozze. E’ mitico l’armadio nel suo studio di piazza Dan Lorenzo in Lucina, gestito dalla segretaria Enea, coi vassoi d’argento da mandare ai matrimoni, pare divisi in tre fasce.Per secoli fu ritenuto l’Incarnazione del Male, la Medusa che pietrifica e a volte cementifica. Ai tempi di Mani Pulite, nella sua Ciociaria, il fascista galantuomo Romano Misserville organizzò un processo-spettacolo ad Andreotti; calò il gelo nei suoi confronti di tanti suoi galoppini del passato che pure gli dovevano molto. Andreotti non lasciò riforme dello Stato e grandi opere, ma un metodo, uno stile, un modo di vedere, intravisto dalle fessure dei suoi occhi, anche per non lasciare prove compromettenti sulla retina. Primato assoluto della sopravvivenza, personale e popolare, alle intemperie della storia. Fu moderato fino all’estremo e devoto ma remoto da paradisi e santità. In politica estera fece arabeschi, fu filo-mediterraneo, non filo-atlantico e filo-israeliano, come del resto anche Moro e Craxi. Accusato d’essere il Capo della Cupola non fu poi condannato perché l’accusa inverosimile rimosse anche ogni colpa verosimile. Volevano infliggergli l’ergastolo ma alla fine fu lui a infliggere l’ergastolo all’Italia, diventando senatore a vita. Ma tra tanti imbucati, lui meritava il laticlavio.Sopravvisse alla Dc e ai suoi capi storici, ai suoi stessi bracci destri (aveva infatti molte chele), sopravvisse ai suoi nemici e perfino a Oreste Lionello che fece di lui una caricatura complice. Arguto quand’era in vena, come si usa dire degli spiritosi e dei vampiri (e lui fu ambedue), Andreotti non fu solo l’anima della Dc e della Prima Repubblica ma anche il top model dello Stivale. Somatizzò l’Italia. Le mani giunte e intrecciate per l’indole cattolica, il corpo rispecchiava un paese invertebrato, disossato e militesente, esonerato dalla ginnastica e incapace di mostrare muscoli (neanche nel sorriso Andreotti ha mai mostrato i denti, ma solo un fil di labbra; a tavola beveva brodini per non addentare). Tutti lo immaginavano bassino, ma lo era per tattica e umiltà; in realtà era alto, e sarebbe stato più alto se avessero srotolato il nastro della sua curva pericolosa. L’assenza del collo fugava ogni indizio di mobilità e superbia, la voce sibilante e romanesca, confidenziale e domestica era emessa da una fessura; sussurrava come dietro le grate di un confessionale. E le spalle curve per custodire la sua compromettente scatola nera nella gobba (lo scrissi nel ’93 e fu poi ripreso da tanti, tra cui Beppe Grillo).Figurò l’italiano-tipo piegato su se stesso a tutelare il suo particulare. Il suo volto di sfinge, l’assenza di colorito, impenetrabile al sole per non modificare la cera, la testa piantata direttamente sulle spalle come l’aracnide cefalotoracica e le orecchie estroverse per captare ogni minimo fruscìo; gli occhi pechinesi, salvo illusioni ottiche che a volte li ingrandivano, grazie alle lenti bifocali; il passo circospetto e l’obliqua figura, il fideismo ironico e la ferocia minuziosa, la devozione curiale e la visione nichilista sulle sorti dell’umanità. Non fu arcitaliano ma casto e asessuato, non rappresentò l’indole pomiciona e fanfarona degli italiani. Ma la sua figura, metà bigotta e metà malandrina, ironica e pregante, rappresentava l’ambiguità d’un paese devoto e peccatore, che adora Gesù ma tresca con Belzebù. Brillante nelle conversazioni, reticente nei diari; sapeva fior di retroscena, ma preferì l’omertà. Nei libri raccontava come non erano andati i fatti. Visse a lungo, per godersi pure la nostalgia di quando c’era lui al potere. Andreotti restò un punto interrogativo, come la sua sagoma curva. Non fece la storia ma la consuetudine; nutrì l’aneddotica, il thriller e la leggenda. Come sua madre, cucì all’Italia un abito su misura per i suoi difetti.(Marcello Veneziani, “Andreotti democristiano avanti Cristo”, da “La Verità” del 13 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.
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Contro Salvini i Tg, Papa Mattarella e il presidente Bergoglio
Apro le finestre, lo smartphone, l’i-pad, la tv, i talk show, la radio e i giornali e mi chiedo: ma è cambiato qualcosa da quando sono al governo i populisti e i sovranisti? Il racconto quotidiano è rimasto lo stesso. Gli stessi temi, la stessa versione, le stesse storie. Cambiano le notizie, non la rappresentazione. Va ancora in onda il vecchio film. Prendi un Tg, di Stato e non solo, a partire dal Tg1 e vedi che gli ingredienti sono gli stessi, l’enfasi e la copertina sono sempre dedicate al tema migranti, all’europeismo a tappetino, ai buoni sentimenti di Papa Mattarella e del Presidente Bergoglio, all’aiutismo a nostro carico dei sindaci umanitari, di Riace o di Palermo non cambia. Ciò che è legge di questo governo, approvata dal Parlamento e promulgata dal capo dello Stato, è incostituzionale nel racconto pubblico dominante. E poi le Ong, i migranti, la retorica gay, l’antirazzismo, l’antisessismo, le sparate contro Trump, Putin e Bolsonaro, poi i soliti nazisti, i frullati di storia a senso unico, il volontariato buono, cioè di sinistra, le vittime che valgono assai se sono progressiste, valgono poco se a colpirle sono state le categorie protette.Sulla rivolta dei sindaci populisti – Leoluca Orlando e Giggino de Magistris sono due tribuni della plebe, e nasce populista pure l’ex grillino e neo-furbino Pizzarotti – l’informazione nazionale, la rappresentazione pubblica, è dalla parte loro, vede il mondo coi loro occhi, col loro linguaggio. Il ministro dell’interno è trattato come un esterno, un cocciuto nemico dell’umanità che oppone ai sindaci non una legge votata dal Parlamento ma – dicono molti Tg e rassegne stampa – “un muro”, che è la parola infame nel gergo mediatico-ideologico per bollare tutti i Trump e i trumpettieri del pianeta. Penso ai tempi bui in cui c’era la lottizzazione, il manuale Cencelli, la spartizione. In quel tempo c’era un criterio non detto ma praticato che grosso modo era questo: un terzo degli spazi va al governo, un terzo alla maggioranza che lo sostiene e un terzo all’opposizione. Regola becera ma a suo modo equilibrata, dosaggio chimico in uso soprattutto nell’ammiraglia della Rai che di fatto dava due terzi di rilievo e di ragione a chi governa e un terzo a chi si oppone. Poi arrivò Renzi e riuscì a fare perfino peggio della lottizzazione, tutto venne renzizzato. Ora, sarò un maldestro spettatore ma a me pare che, salvo fatti e sfumature, l’intonazione generale è la stessa di prima, la linea è rimasta quella (si salva un po’ il Tg2).La presenza delle opposizioni in video è ampia e articolata, quella della maggioranza è didascalica e minore. E’ fuori dal racconto. Il dosaggio delle notizie e delle facce a malapena è cambiato perché la realtà di fatto è cambiata: ma la rappresentazione è sempre la stessa. Gli oppositori sono dentro il racconto, i governativi lo interrompono. Figurano come Paolini, il disturbatore dei Tg. Certo, non si cambia dall’oggi al domani. Certo, se cambi i vertici, il personale poi resta sempre lo stesso, la stessa provenienza, lo stesso sindacato, la stessa trafila di carriera e la stessa ideologia. Certo, anche le figure nominate sono più o meno dell’area di prima, non vengono dalla luna, hanno lo stesso pedigrèe catto-vago-sinistrese; ma questo succede se vai al governo sprovvisto di una classe dirigente, tu e il popolo o la rete e in mezzo niente… «Ho preso il Tg e la rete ma non so cosa mettermi addosso». Sulla Tv in generale, è normale poi che devi sciropparti le stesse robe di sempre, le fiction, i programmi preconfezionati e decisi in epoca antecedente. Siamo ancora sotto effetto dei farmaci e delle indigestioni precedenti. D’altra parte per essere realmente alternativo devi avere una tua interpretazione storica, una visione culturale… Se non ce l’hai soccombi, ti limiti a sparare tweet e video.Al governo ci sono i marziani, o meglio i marziani e i saturniani insieme, e invece la rappresentazione del paese è la stessa di prima. Cambia solo l’annuncio dei provvedimenti di governo: ogni giorno una versione diversa delle pensioni, del reddito di cittadinanza, di quota 100 e roba varia. L’effetto comico è che agli occhi dei Tg, perfino il Pd sembra una cosa viva, seria, unita. Quanto a lungo potremo vivere con questo schema bipolare, ma nel senso del disturbo psichiatrico e non dell’alternanza democratica? Quanto potrà durare questa schizofrenia tra la realtà e la rappresentazione? Il governo da una parte, l’egemonia dall’altra. Non è una preoccupazione di ordine elettorale, perché più le fabbriche del pregiudizio stampano moneta falsa più la gente va in direzione opposta. Semmai ci preoccupa proprio l’effetto che producono, la diffidenza della gente verso i media, il disgusto e il fastidio, l’alibi per non leggere, non ascoltare, non documentarsi, tanto è sempre la stessa minestra. Preoccupa un paese dove l’ideologia oscura i fatti e deforma la verità; che non sono mai solo da una parte.(Marcello Veneziani, “Tutto come prima”, da “La Verità” del 4 gennaio 2019: articolo ripreso sul blog di Veneziani).Apro le finestre, lo smartphone, l’i-pad, la tv, i talk show, la radio e i giornali e mi chiedo: ma è cambiato qualcosa da quando sono al governo i populisti e i sovranisti? Il racconto quotidiano è rimasto lo stesso. Gli stessi temi, la stessa versione, le stesse storie. Cambiano le notizie, non la rappresentazione. Va ancora in onda il vecchio film. Prendi un Tg, di Stato e non solo, a partire dal Tg1 e vedi che gli ingredienti sono gli stessi, l’enfasi e la copertina sono sempre dedicate al tema migranti, all’europeismo a tappetino, ai buoni sentimenti di Papa Mattarella e del Presidente Bergoglio, all’aiutismo a nostro carico dei sindaci umanitari, di Riace o di Palermo non cambia. Ciò che è legge di questo governo, approvata dal Parlamento e promulgata dal capo dello Stato, è incostituzionale nel racconto pubblico dominante. E poi le Ong, i migranti, la retorica gay, l’antirazzismo, l’antisessismo, le sparate contro Trump, Putin e Bolsonaro, poi i soliti nazisti, i frullati di storia a senso unico, il volontariato buono, cioè di sinistra, le vittime che valgono assai se sono progressiste, valgono poco se a colpirle sono state le categorie protette.
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Pelanda: il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue
Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.Non sarà facile, perché ciò implica un’inversione imbarazzante dei leader della maggioranza dai loro linguaggi che disprezzano i “numerini” e antagonizzano l’Ue. Ma il Quirinale sembra aiutarli, guidando Conte e Tria nel negoziato con la Commissione, ad arrendersi senza perdere la faccia. Bene che vada, comunque, la politica economica risultante comporterà stagnazione. Pertanto l’inversione della tendenza recessiva nel 2019 dipende dalla ripresa della domanda globale, cioè dell’export. La tregua nella guerra dei dazi concordata tra America e Cina sabato sera fa tornare un certo ottimismo che, se produttiva di un accordo pur nel confronto geopolitico duraturo tra le due potenze, stimolerà nuovamente gli investimenti. Altrettanto importante per l’industria italiana è l’accordo tra America e Germania, di cui è fornitrice, per evitare dazi sull’export europeo. Trump vuole un trattato di libero scambio simmetrico e bilaterale con l’Ue che, però, mette in grave difficoltà il modello protezionista europeo. Questo è un motivo in più di riconvergenza rapida dell’Italia con l’Ue allo scopo di contribuire a un compromesso con l’America, interesse vitale per Roma e Berlino, ma che Parigi non vuole.(Carlo Pelanda, “Così il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue”, da “Il Sussidiario” del 2 dicembre 2018. Politico ed economista, Pelanda è specializzato in studi strategici e scenari internazionali ed economici. Insegna scienze politiche e relazioni internazionali alla University of Georgia di Athens, ed è co-direttore di Globis (Centro per gli studi globali) presso la medesima università. In Italia è editorialista de “Il Foglio”, “Libero”, “La Verità”, “L’Arena” e “Il Sussidiario”. Fa parte della Fondazione Italia-Usa. In campo politico, si legge nel suo profilo su Wikipedia, Pelanda è portatore dell’ideologia liberista, «ma con la consapevolezza che la libertà è conseguenza di un investimento di qualificazione della società e va organizzata entro istituzioni che la difendano». In generale, propugna l’idea di “nuovo progresso” basato sulla fiducia che tecnologia e conoscenza siano i risolutori più potenti dei problemi della condizione umana. Fin dal 2007, con il saggio “La grande alleanza”, ha avvertito che è ormai in via di esaurimento il sistema di governo mondiale centrato sul predominio degli Stati Uniti, sul dollaro e sui criteri occidentali nelle istituzioni internazionali. Pelanda propone «un nuovo soggetto di governance globale che non sia il G-20, o analogo tavolo di potenze troppo diluito, ma un’alleanza tra le democrazie fondata sulla convergenza euroamericana»).Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.
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Se Foa viene eletto, Vietnam in Rai. Ma i 5 Stelle lo votano?
Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.La vera fonte del “sogno”? La prestigiosa loggia rosacrociana “Tre Globi” di Berlino, alla quale Carpeoro – a sua volta massone, già a capo del Rito Scozzese italiano – è rimasto legato. La sconcertante esternazione d’inizio estate, osserva Frabetti, è stata taciuta dai media mainstream (con la sola eccezione del quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro), ma non è certo passata inosservata ai piani alti del potere. Ex caporedattore del “Giornale” e allievo di Indro Montanelli, Marcello Foa è l’autore del dirompente saggio “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina il sistema-media, accusato di fabbricare “fake news”. Ora Foa potrebbe dunque salire finalmente sul gradino più alto della nomenklatura Rai? Nel caso, dice Carpeoro sempre in streaming web con Frabetti, non avrà vita facile: se la “Three Eyes”, foss’anche per colpa dell’imbarazzante “sogno della peperonata”, si vedesse costretta a non ostacolare più l’ascesa di Foa, il neo-presidente sarebbe comunque “assediato”, da subito, dall’ostilità accanita dello stesso establishment che sta “braccando” Salvini, tallonato da vasti settori della magistratura. Ma non è detto che Foa riesca davvero a diventare presidente: tecnicamente, secondo Carpeoro, potrebbe addirittura sbattere contro l’ipotetico veto dei 5 Stelle, in sede di commissione parlamentare di vigilanza.«Chi ha ritenuto che il mio non fosse un sogno ma la verità – dice oggi Carpeoro – può aver pensato che forse, in quel momento, qualcuno lo stesse “sputtanando”». Insomma, la trama della “Three Eyes” era ormai venuta allo scoperto. « Bisogna capire però se l’effetto-sputtanamento è stato solo un modo per guadagnare tempo, per poi vedere di “vendere” in un altro modo il siluramento di Foa, o se invece abbiano proprio deciso di “mollare il colpo”, per poi gestire la faccenda diversamente». Oggi, aggiunge Carperoro, «l’unico modo per silurare ugualmente Foa è premere sui 5 Stelle affinché siano loro a farlo fuori: e quel tipo di potere, questa possibilità ce l’ha». Gli unici che possono affondare la candidatura di Foa, insiste Carpeoro, sono proprio i pentastellati: «Non può più farlo Forza Italia, perché sarebbe una conferma della “peperonata”. Non può farlo Salvini, perché sarebbe una sconfitta troppo grossa, per lui. E non hanno la forza di farlo i vari residui di opposizione». I 5 Stelle, dunque? «Sono gli unici che hanno la possibilità di silurare Foa, ma non so se ne abbiamo la motivazione». Tuttavia potrebbero piegarsi «di fronte a una coercizione grande, da parte di un soggetto come una Ur-Lodge».Attenzione, precisa Carpeoro: «Non dico che lo vogliano fare o che lo faranno, dico solo che – ex ante – gli unici che hanno questa possibilità sono loro: una possibilità concreta, politica, non necessariamente una volontà o un’inclinazione». Morale, il destino di Foa sembra a un bivio: «O viene silurato dai 5 Stelle adesso, o viene eletto. Ma ovviamente, un secondo dopo l’eventuale elezione, entrerebbe in una specie di Vietnam, di Cambogia, dove qualcuno punterà la clessidra e preparerà un conto alla rovescia». Quanto all’affidabilità dei 5 Stelle, non da oggi lo stesso Carpeoro esprime perplessità – soprattutto sul conto di Luigi Di Maio, che considera esser stato ampiamente “sovragestito” proprio da quel genere di poteri forti evocati dal famoso “sogno della peperonata”. Prima ancora delle elezioni, Carpeoro dichiarò ripetutamente che Di Maio entrava e usciva dall’ambasciata Usa di via Veneto a Roma, e che ad accompagnarlo a Washington nei santuari delle Ur-Lodges neo-aristocratiche fosse il politologo Michael Ledeen. Esponente di vertice della supermassoneria sionista, Ledeen è citato da Carpeoro nel suo saggio sui legami fra massoneria e terrorismo islamico targato Isis: lo mette addirittura in relazione all’omicidio del premier svedese Olof Palme, nell’ambito di un opaco circuito di cui facevano parte Licio Gelli e l’allora parlamentare statunitense Philip Guarino.A evocare nuovamente l’ombra delle Ur-Lodges è anche Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un autorevole esponente. Magaldi ha attaccato direttamente il ministro dell’economia, Giovanni Tria: «Un massone non dichiarato ma presentatosi come progressista, eppure oggi allineato al rigore europeo promosso dal supermassone Draghi, che infatti lo ha apertamente elogiato». Carpeoro invita a fare un passo indietro: «I 5 Stelle – ricorda – hanno subito il siluramento del precedente candidato al ministero dell’economia». Si tratta di Paolo Savona, bloccato dal “niet” di Mattarella. «Quindi – prosegue Carpeoro – Tria è la conseguenza di una scelta di campo che i 5 Stelle hanno condiviso, o sbaglio?». In altre parole: l’accettazione di una linea più morbida con Bruxelles, imposta tramite il Quirinale. «A questo punto – conclude Carpeoro – o cambiano idea, o si tengono Tria. Bisogna capire perché dovrebbero cambiare idea (perché si potrebbero tenere Tria, invece, lo sappiamo già)». Quello di Tria è ovviamente un ruolo di garante: tramite minacce, come l’impennarsi dello spread, «il potere che “sovragestisce” l’Europa ha fatto sapere ai 5 Stelle che, senza la presenza di un suo garante, sarebbe cominciata una specie di guerra totale, contro l’Italia, e quindi è passato Tria». Ora, bisogna vedere se è cambiata la situazione: «I 5 Stelle rivendicheranno una maggiore indipendenza? Io ne dubito». Sarebbe quindi possibile mettere sotto pressione Di Maio e soci, al punto da indurli a boicottare Foa?Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.
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Anziché dei migranti, perché il Papa non parla dei pedofili?
Il documento di accusa di monsignor Viganò a Papa Francesco è durissimo, ma ancora non ha trovato nessuna risposta da parte del Vaticano, nonostante dagli Usa giungano le conferme alle accuse, anche se non giungono a livello massimo del Papa. Si tratta di un caso unico in cui questi report, assolutamente riservati, sono stati invece inviati alla stampa, ma ciò che contiene è effettivamente esplosivo. Il fatto è che Viganò muove delle accuse precise, chiare, ad un Papa che, avvisato dal 2013 dei casi di abusi sessuali nella diocesi di Washington e in tutti gli Usa, non ha agito per reprimere gli eventi il tutto sotto la spinta di una lobby omosessuale potentissima in Parlamento. Le accuse sono enormi, e immaginiamo la difficoltà di Viganò, 77 anni, nunzio, quindi abituato a portarsi i segreti nella tomba, a portare questo tema in pubblico. Ne parla diffusamente Marco Tosatti nel suo blog, a cui rimandiamo per informarsi in modo approfondito. La stampa italiana, sempre viscidamente prona al potere, non ha chiesto spiegazioni, limitandosi a polemizzare con il nunzio e sul fatto che possa essere un’espressione delle parti più “radicali” e retrive della curia; ma nessuno, tranne “La Verità”, ha chiesto veramente una risposta.Quindi riproponiamo le 10 domande fatte da “La Verità”, sulla base del documento di Viganò. Risulta vero che l’arcivescovo cardinal McCarrick di Washington aveva delle tendenze pedofile e che queste erano a conoscenza della Congregazione dei Vescovi fin dal 2013, con tanto di dossier sulla materia? Risulta vero che nel 2013 il Papa Benedetto XVI diede un dossier sulla lobby omosessuale in Vaticano al nuovo Papa? Risulta vero che Benedetto XVI aveva deciso di togliere a McCarrick la berretta cardinalizia e di ordinargli di lasciae il seminario in cui viveva? Risulta vero che il nunzio Viganò abbia più volte segnalato le accuse verso l’arcivescovo McCarrick al cardinal Bertone e al cardinal Levada della Congregazione della Fede? Risulta vero che i predecessori di monsignor Viganò come nunzi negli Usa, cioè i monsignori Montalvo e Sambi, informarono il Vaticano dei comportamenti gravemente immorali di McCarrick?Risulta vero che Viganò riferì su McCarrick direttamente al Papa in colloquio privato, nel giugno 2013? Risulta vero che in quell’occasione Viganò parlò al Papa delle generazioni di seminaristi corrotti da McCarrick e dell’immoralità del suo comportamento? Risulta vero che Papa Francesco non rese operativa la decisione di Benedetto XVI di destituire McCarrick togliendogli il cappello cardinalizio, ma, al contrario, gli ha confermato tutti gli incarichi? Risulta vero che monsignor Viganò parlò con il cardinal Wuerl delle aberrazioni che stavano accadendo alla Georgetown University? Risulta vero che McCarrick abbia avuto un grosso peso in diverse nomine all’interno della curia? Senza chiarezza e verità non ci può essere fiducia nella Chiesa. In questa luce veramente appare un Vaticano govrnato da una lobby perversa, con più odore di zolfo che di incenso. Il Papa deve chiarire.(Guido da Landriano, “Bergoglio risponderà alla accuse del nunzio apostolico Viganò o utilizzerà gli immigrati come arma di distrazione di massa?”, da “Scenari Economici” del 29 agosto 2018. Monsignor Carlo Maria Viganò, originario di Varese, è l’arcivescovo cattolico che dal 2011 al 2016 ha rivestito l’incarico di nunzio apostolico negli Stati Uniti. E’ considerato il maggior ispiratore della denuncia pubblica contro la pedofilia in Vaticano, culminata nel caso “Vatileaks”).Il documento di accusa di monsignor Viganò a Papa Francesco è durissimo, ma ancora non ha trovato nessuna risposta da parte del Vaticano, nonostante dagli Usa giungano le conferme alle accuse, anche se non giungono a livello massimo del Papa. Si tratta di un caso unico in cui questi report, assolutamente riservati, sono stati invece inviati alla stampa, ma ciò che contiene è effettivamente esplosivo. Il fatto è che Viganò muove delle accuse precise, chiare, ad un Papa che, avvisato dal 2013 dei casi di abusi sessuali nella diocesi di Washington e in tutti gli Usa, non ha agito per reprimere gli eventi il tutto sotto la spinta di una lobby omosessuale potentissima in Parlamento. Le accuse sono enormi, e immaginiamo la difficoltà di Viganò, 77 anni, nunzio, quindi abituato a portarsi i segreti nella tomba, a portare questo tema in pubblico. Ne parla diffusamente Marco Tosatti nel suo blog, a cui rimandiamo per informarsi in modo approfondito. La stampa italiana, sempre viscidamente prona al potere, non ha chiesto spiegazioni, limitandosi a polemizzare con il nunzio e sul fatto che possa essere un’espressione delle parti più “radicali” e retrive della curia; ma nessuno, tranne “La Verità”, ha chiesto veramente una risposta.
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Liberi di morire, per legge, in una sanità da Est Europa
La sanità allo sfascio non riesce più a curare gli italiani, ma in compenso li aiuterà a morire: senza per questo contestare l’introduzione della norma sul “fine vita”, fa riflettere che i suoi promotori non aprano bocca per denunciare lo stato comatoso dell’assistenza sanitaria, flagellata dai tagli imposti dal regime di austerity introdotto da Bruxelles. «Come sapete la settimana scorsa è stata approvata la legge sul Dat, cioè sul testamento biologico che dovrebbe regolare il fine vita», scrive Fabio Lugano su “Scenari Economici”. «Un bel po’ di gente a celebrare, la Bonino che piangeva, e altri marpioni ad occupare la Tv. Per me, personalmente, è stata una notizia piuttosto triste: avrei preferito mille volte veder affermata un po’ più di vita, con una cura in più, una nascita in più, che questa triste affermazione della morte». Purtroppo, aggiunge Lugano, in Italia ormai «siamo a un livello di disorientamento e di disperazione tale che l’assassino, non il salvatore, è l’eroe, così come l’ignorante è il ministro dell’istruzione o il distruttore è ministro dell’economia». Tutto è ribaltato. E, mentre i poveri sono diventati 10 milioni e mezzo – quota record nell’Unione Europea – i livelli di assistenza stanno scivolando verso quelli dell’Est Europa.Come rileva “La Verità”, riservano brutte sorprese i dati più recenti sulla spesa pubblica sanitaria italiana comparata con la media dei paesi occidentali. A furia di essere “efficienti” e “austeri”, sintetizza Lugano, «stiamo abbandonando i paesi avanzati per avvicinarci alla spesa pubblica dei paesi dell’Est Europa, parte del vecchio blocco sovietico, sia come spesa in generale sia come spesa a carico dello Stato». Ormai, insiste “Scenari Economici”, stiamo lasciando il welfare State occidentale per muoverci verso quello dei paesi dove la garanzia è inferiore. «Ricordo che ho avuto discussioni durissime con un governatore regionale italiano mostrandogli, dati alla mano, quanto ad esempio i posti letto ospedalieri per 100 mila abitanti in Italia fossero ormai molto inferiori a quelli tedeschi e francesi». Ma non è stato utile, ammette Lugano: non ci sono piani (né soldi) per sperare di poter invertire la rotta. Da quell’orecchio, la politica non ci sente: sa che “non può” spendere, e non si ribella alla dottrina del rigore imposta dall’ordoliberismo finto-europeista.In più, a pesare sono anche i forti disequilibri lungo la penisola: «L’Italia ha la non invidiabile caratteristica di presentare un’incredibile differenza di spesa sanitaria pro capite da regione a eegione: in Trentino la spesa sanitaria pro capite è pari a 805 euro a persona, mentre in Campania è pari a 326 euro, per cui non appare così strano che i pronto soccorso esplodano e la gente sia curata per terra». Sarebbe interessante conoscere il parere del governatore Vincenzo De Luca su questi dati, «ma non vorremmo disturbarlo solo per la salute dei suoi concittadini», conclude Lugano, sarcastico. Parlano i numeri, purtroppo: «La spesa pubblica in sanità nel 2017 è stata pari al 6,7% del totale, ma scenderà ancora al 6,4% da qui al 2020. Quindi, che senso ha parlare di vita, di cure, quando si può scegliere di morire?».La sanità allo sfascio non riesce più a curare gli italiani, ma in compenso li aiuterà a morire: senza per questo contestare l’introduzione della norma sul “fine vita”, fa riflettere che i suoi promotori non aprano bocca per denunciare lo stato comatoso dell’assistenza sanitaria, flagellata dai tagli imposti dal regime di austerity introdotto da Bruxelles. «Come sapete la settimana scorsa è stata approvata la legge sul Dat, cioè sul testamento biologico che dovrebbe regolare il fine vita», scrive Fabio Lugano su “Scenari Economici”. «Un bel po’ di gente a celebrare, la Bonino che piangeva, e altri marpioni ad occupare la Tv. Per me, personalmente, è stata una notizia piuttosto triste: avrei preferito mille volte veder affermata un po’ più di vita, con una cura in più, una nascita in più, che questa triste affermazione della morte». Purtroppo, aggiunge Lugano, in Italia ormai «siamo a un livello di disorientamento e di disperazione tale che l’assassino, non il salvatore, è l’eroe, così come l’ignorante è il ministro dell’istruzione o il distruttore è ministro dell’economia». Tutto è ribaltato. E, mentre i poveri sono diventati 10 milioni e mezzo – quota record nell’Unione Europea – i livelli di assistenza stanno scivolando verso quelli dell’Est Europa.