Archivio del Tag ‘letteratura’
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Facebook: dieci anni di cazzeggio, solitudini e menzogne
Facebook compie dieci anni, ma solo negli ultimi cinque si è diffuso come veicolo di menzogna, luogo in cui poter essere ciò che non si è. Per questo Facebook ha ucciso Second Life, dove il gioco della finzione era dichiarato. L’abilità sta nel trasformare lo squallore in esclusività e follia. Il post dell’amica zitella che al sabato sera scrive «finalmente il lusso di una serata tutta per me, tra musica, un bagno caldo, profumi esotici e telefono staccato» va tradotto così: «Nemmeno questa sera mi hanno invitata a uscire e sto guardando “Ti lascio una canzone” dopo aver sistemato alla meglio lo scarico del water che è esploso, mentre i vicini cingalesi pare stiano cucinando dei cadaveri e mi è pure finito il credito del cellulare». Fossero solo le menzogne. Facebook in questi pochi anni si è rivelato la migliore palestra dove esercitarsi nei sei vizi capitali.Certo, i vizi capitali sono sette, ma su Facebook ce n’è uno, l’avarizia, che non ha cittadinanza. Qui conducono tutti vite splendide e dispendiose. Tutti impegnati a farsi gli autoscatto ai tropici con i muscoli in evidenza. O con gli occhialoni da sole davanti a un’infinita serie di gate negli aeroporti di tutto il mondo. O, ancora, in qualche locale esclusivo, insieme ad amiche con la stessa capigliatura bionda e liscia, magari mostrando la lingua con il piercing. Questo tipo di foto è molto ricercato dai cronisti quando la proprietaria dell’account finisce coinvolta in un caso di “nera”. Gli altri, quelli che non riescono nemmeno a fingere un alto tenore di vita, si danno all’invidia. Non lanciano proclami che inneggiano alla decrescita felice, ma si iscrivono a quelle sempre più numerose pagine in cui si fomenta l’odio verso la Casta strapagata.Nei loro volgarissimi post, questi individui non sognano una ripartizione più equa delle ricchezze, ma un semplice passaggio nelle proprie tasche di tutto quel denaro, che poi dilapiderebbero in fuoriserie, cocaina, vacanze da cinepanettone e notti con quelle stesse donnine che insultavano quando le vedevano al fianco di qualche anziano premier. Il passo dall’invidia alla lussuria è breve, su Facebook. I fastidi più grandi però vengono causati dalla mole di foto che inseriscono quelli che cedono alla gola e all’accidia. I primi vivono per mettere online le immagini di qualunque piatto abbiano divorato, con la certezza che al mondo interessi sapere che «ho fatto colazione con pane al sesamo, caffè turco e uova». Perché su Facebook ci si deve sempre distinguere e il cappuccino con la brioche surgelata del bar si lascia alla massa.Peggio ancora sono gli accidiosi, quelli che, negli uffici, rubano lo stipendio perché passano le giornate inserendo decine di brutte foto della propria brutta prole travestita da Principessa Disney o da motociclista. Mamme e papà convinti che i propri pargoli siano i più belli e i più furbi. Succedeva anche ai tempi di Cornelia madre dei Gracchi, ma almeno quella non postava ogni giorno cinquanta foto dei suoi gioielli. Io sono particolarmente infastidito dalla categoria dei superbi, soprattutto quelli di ambito intellettuale. Facebook accoglie un numero straordinario di scrittori e poetesse che inseriscono come immagine del profilo la copertina, solitamente pessima, del proprio libro stampato per qualche editore truffaldino a pagamento. E nel diario ecco tutta una serie di autocitazioni, alternate a strali contro gli scrittori di successo, bollati come ignoranti, mentre loro sono geni misconosciuti.Sono quelli che ti mandano almeno cinque inviti giornalieri alle loro presentazioni in qualche bar rionale, «modera la professoressa dottoressa Concetta Lo Moscio» o a letture collettive di “autori emergenti” al circolo Magna Grecia 2000. Eh sì: gli intellettuali superbi sono per lo più del sud. Al nord si trovano più spesso gli iracondi. Gente che senza un preciso motivo ti insulta, anche se non ti conosce. Ti insulta se sa che ti radi, che possiedi il televisore, che non ti convince il fumettaro trentenne di moda, che non ti è piaciuto il polpettone candidato agli Oscar. Li cancelli, ma è inutile: sono una massa infinita. L’unica via di uscita sarebbe abbandonare Facebook. Purtroppo l’umanità reale non è migliore di quella virtuale. E sui social network almeno esiste la funzione “blocca utente”.(Tommaso Labranca, “Dieci anni di cazzeggio, la parabola di Facebook – da social network per giovanissimi a droga quotidiana”, da “Libero” del 4 febbraio 2014, ripreso da “Dagospia”).Facebook compie dieci anni, ma solo negli ultimi cinque si è diffuso come veicolo di menzogna, luogo in cui poter essere ciò che non si è. Per questo Facebook ha ucciso Second Life, dove il gioco della finzione era dichiarato. L’abilità sta nel trasformare lo squallore in esclusività e follia. Il post dell’amica zitella che al sabato sera scrive «finalmente il lusso di una serata tutta per me, tra musica, un bagno caldo, profumi esotici e telefono staccato» va tradotto così: «Nemmeno questa sera mi hanno invitata a uscire e sto guardando “Ti lascio una canzone” dopo aver sistemato alla meglio lo scarico del water che è esploso, mentre i vicini cingalesi pare stiano cucinando dei cadaveri e mi è pure finito il credito del cellulare». Fossero solo le menzogne. Facebook in questi pochi anni si è rivelato la migliore palestra dove esercitarsi nei sei vizi capitali.
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Scrivi? Ora c’è Medium, nuovo social network milionario
Raymond Carver sarebbe stato, probabilmente, uno dei suoi più fervidi maniac user. “Medium” (medium.com) è una piattaforma per scrittori, giornalisti, blogger e narratori in generale che amano le short stories. Mente creatrice della start up è Evan Williams, co-founder e former Ceo di Twitter. Dopo il clamore di Jelly, insomma, sembra che i padri fondatori del micro-blogging, si stiano inventando originali social network per replicare il successo. “Medium” ha raccolto recentemente 25 milioni di dollari in un iniziale “financing round”. Alcuni grandi personaggi e compagnie, infatti, hanno già intravisto il suo potenziale, fra cui Google Ventures, Ron Conway, celebre angel della Silicon Valley, e investitori del calibro di Chris Sacca e Peter Cherwin.Evans, consapevole del limite creativo di Twitter, con il suo tale-blogging promette ai vari storyteller che potranno creare e pubblicare storie più lunghe di 140 caratteri. Per partecipare al writing-social network è possibile pubblicare nelle vesti dello scrittore solitario e poi condividere le proprie storie sui vari social media, oppure includere le proprie short stories in alcune categorie definite, chiamate collection, e avere una maggiore audience e più followers. Per essere incluso in una collection, la storia deve essere approvata da un “editor” che valuta e mette online i contenuti in base alla categoria adatta.Le tematiche disponibili sono molto varie, dalle classiche “American Stories”, “Life Learning” o “True Personal Stories” a argomenti più tecnici, fra cui “Learning To Code”, “Thoughts on Creativity” o “What I learned building”. I racconti possono essere piccoli saggi, reportage, romanzi, lettere e confessioni personali o manuali pratici su come, per esempio, migliorare le proprie qualità di entrepreneur. E se infine, nessuna delle categorie presenti soddisfa la propria creatività, è possibile crearne una ad hoc.(Anna Volpicelli, “Medium raccoglie 25 milioni di dollari, ecco il social network per giornalisti e scrittori”, da “Il Sole 24 Ore” del 30 gennaio 2014).Raymond Carver sarebbe stato, probabilmente, uno dei suoi più fervidi maniac user. “Medium” (medium.com) è una piattaforma per scrittori, giornalisti, blogger e narratori in generale che amano le short stories. Mente creatrice della start up è Evan Williams, co-founder e former Ceo di Twitter. Dopo il clamore di Jelly, insomma, sembra che i padri fondatori del micro-blogging, si stiano inventando originali social network per replicare il successo. “Medium” ha raccolto recentemente 25 milioni di dollari in un iniziale “financing round”. Alcuni grandi personaggi e compagnie, infatti, hanno già intravisto il suo potenziale, fra cui Google Ventures, Ron Conway, celebre angel della Silicon Valley, e investitori del calibro di Chris Sacca e Peter Cherwin. -
2016, fine della democrazia: il privilegio sarà legge
Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.Se sarà approvato il Trattato Transatlatico, avverte Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, niente fermerà più l’appetito privatizzatore dei “padroni dell’universo”, specie nei settori di maggior interesse strategico: brevetti medici e fonti fossili di energia. Un sogno, a quel punto, concepire politiche di lotta all’inquinamento e per la protezione del clima terrestre. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata», che giù oggi ricatta molti Stati, dal Canada alla Germania. Il grande business lavora per eliminare le leggi statali per far posto a quella degli affari. Attualmente, negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali. Ognuna di esse, dice Wallach, «può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”». Peggio ancora per gli europei: sono addirittura 14.400 le compagnie statunitensi dislocate nell’Unione Europea, con una rete di 50.800 filiali. «In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici».L’aspetto più inquietante del “cantiere” del Trattato, un dispositivo destinato – se approvato – a sconvolgere la vita democratica di tutto l’Occidente – è la sua massima segretezza: la stampa è stata espressamente invitata a starsene alla larga. Si tratta di un ordinamento decisamente eversivo: il grande business si prepara ad emanare i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e politici compiacenti del Congresso e della Commissione Europea, ma ormai alla luce del sole, trasformando addirittura in legge il privilegio di una minoranza, contro la stragrande maggioranza della popolazione. L’autonomia istituzionale dello Stato? Completamente aggirata, disabilitata, in ogni settore: dalla protezione dell’ambiente a quello sanitario, dalle pensioni alla finanza, dai contratti di lavoro alla gestione dei beni comuni primari, come l’acqua potabile. Si avvicina la “grande privatizzazione definitiva” del mondo occidentale.Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali. E ancora: libertà del web, protezione della privacy, cultura e diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato», scrive Lori Wallach. Rispetto al Trattato Transatlantico, le condizioni-capestro oggi imposte dal Wto sono considerate “soft”. A decidere su tutto saranno tribunali speciali, formati da avvocati d’affari che si baseranno sulle “leggi” della Banca Mondiale. Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro». Neppure la fantasia di Orwell era arrivata a tanto. Eppure, è esattamente l’incubo che ci sta aspettando, se nessuno lo fermerà. Ed è inutile farsi illusioni: per ora, del “mostro” non parla nessuno. Non una parola, ovviamente, dalle comparse della politica, e neppure da giornali e televisioni. La grande minaccia si sta avvicinando indisturbata, all’insaputa di tutti.Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.
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Piccola antologia ignobile: così parlarono i padri dell’Ue
«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».Sul metodo generalmente adottato dalla Troika – il terrorismo economico – è illuminante l’ammissione di un altro supremo eurocrate, il francese Jean-Claude Juncker, già presidente dell’Eurogruppo: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno». Non è fantascienza, non è letteratura horror. Sono parole – reali – dei grandi decisori europei, quelli che decretano le misure da cui deriva il supplizio socio-economico al quale siamo sottoposti. In altre parole, stando alle rivelazioni di Juncker, crimini contro l’umanità. I leader europei, dice l’italiano Giuliano Amato il 12 luglio 2007 a “Eu Observer”, hanno deciso che il Trattato Lisbona «avrebbe dovuto essere illeggibile». Questo perché, «se fosse stato comprensibile, ci sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum». Quindi gli eurocrati «si sentono più al sicuro con la cosa illeggibile», testualmente. Obiettivo, appunto, «evitare pericolosi referendum».Lo sa bene l’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, che al “Telegraph” del 9 aprile 2013 dichiara: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro sono stato come un dittatore». Dopotutto, «l’Europa non nasce da un movimento democratico», come ammette già nel 1999 il super-tecnocrate ed ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa. L’attuale Unione Europea ha un’origine chiaramente eversiva: «E’ nata seguendo un metodo che potremmo definire con il termine di dispotismo illuminato». La costruzione europea? «E’ una rivoluzione», dice Padoa Schioppa a “Commentaire”, «anche se i rivoluzionari non sono dei cospiratori pallidi e magri, ma degli impiegati, dei funzionari, dei banchieri e dei professori», che al «polo del consenso popolare» preferiscono ovviamente «quello della leadership».Per un altro padre fondatore dell’Ue, il monarchico Jacques Attali, trasformatosi in “socialista” alla corte di François Mitterrad, l’euro non fu certo creato per la gioia della “plebaglia europea”. Il 24 gennaio 2011 rivela: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht». Contratto unico al mondo: senza clausola di rescissione. Attali ha avuto «il privilegio» di far parte del gruppo ristretto incaricato di stendere le prime bozze. «Ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile», ammette. «Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Niente da aggiungere? «Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Chiude la rassegna dell’orrore il professor Mario Monti, il 22 febbraio 2001 all’università Luiss, al convegno “finanza: comportamenti, regole istituzioni”. «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, crisi gravi, per fare passi avanti», dice il futuro capo del “governo tecnico” incaricato da Napolitano. «I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario». In quattro parole, Monti espone la “filosofia del ricatto” che è la prassi sostanziale dei gangster al governo di Bruxelles: si provvede a terremotare un paese, per poi (Prodi docet) imporre la “soluzione” già pronta nel cassetto. «È chiaro che il potere politico – ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale – possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata». La benedetta crisi, progettata a tavolino. Minacce, ricatti, menzogne, truffe. Un campionario inesauribile.«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».
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La fine dei libri: se Internet travolge la lettura lenta
Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.Una è che leggiamo meno libri, per due grandi fattori legati entrambi a Internet. Il primo è che la Rete ha accelerato la nostra disabitudine alla lettura lunga, alla concentrazione su una lettura e un’occupazione sola, al regalare un tempo quieto a occupazioni come queste. È una considerazione ormai condivisa e assodata: la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga. Il secondo fattore è che gli spazi e i tempi un tempo dedicati alla lettura di libri stanno venendo occupati in gran parte da altro, e subiscono la competizione di videogiochi, social network, video online, e mille altre opportunità a portata di mano sempre e ovunque. Quelli che leggevano libri sui tram o nelle sale d’aspetto o sui treni oggi stanno sui loro smartphone, e non a leggere ebooks. Ormai stanno sui loro smartphone anche prima di addormentarsi, molti. Tutto quel tempo, non è più a disposizione delle lentezze dei libri: è preso.La seconda questione centrale nella crisi dell’oggetto libro è che è diventato marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura contemporanea, che invece sempre più trova luoghi di dibattito, espressione, sintesi, su Internet e in formati più brevi. Che non sono necessariamente più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea (vediamo anche di dire che il libro ha spesso costretto, “per scrivere un libro”, a stirare in lunghezze ridondanti buone riflessioni da cinquanta pagine, se non dieci): ma qui starei alla larga dai litigi inutili su cosa sia meglio e cosa sia peggio e se il mondo peggiori o migliori con il declino dei libri. Limitiamoci a registrarlo e capire cosa succede.Il “pubblicare un libro” come sintesi e sanzione di uno studio, una riflessione, un’idea, un tema da condividere o una storia da raccontare, è una pratica che non ha più il rilievo di un tempo. Da una parte perché quelli che leggono quella sanzione, e poi ne discutono e la fanno diventare un pezzo del dibattito e della cultura, diminuiscono ogni giorno. Dall’altra perché il mezzo è superato anche su questo. Mi capita qualche volta che qualcuno – editori o amici – mi suggerisca di scrivere un libro, per “dare un senso” e “concretizzare” le molte cose che scrivo online, e mostrarle a “un numero maggiore di lettori”, “perché restino”. Una volta rispondevo che sono pigro e non sono tanto capace di applicarmi su un lavoro di impegno e tempo così esteso e assiduo. Adesso spiego loro che le loro ragioni non valgono più e sono invertite: se c’è un posto dove quello che scrivo “resta” e “raggiunge più lettori”, è Internet.I libri spariscono dalla vendita e dall’attenzione – e dall’esistenza – dopo pochi mesi, o pochi anni al massimo (salvo rare eccezioni): ne escono a centinaia ogni mese, e se non vi passano sotto il radar subito, non esisteranno mai più. Vi ricordate il successo – molto pompato – che ebbe quel libretto “Indignatevi”? Cos’era, due anni fa? Oggi è quasi impossibile che un giovane che non ne abbia ricevuto notizie allora ci si imbatta di nuovo. Mentre grazie ai social network e ai link e a Google, cose pubblicate online anche dieci anni fa continuano a trovare nuove attenzioni e tornare a essere lette. Questo post, con buona approssimazione, sarà letto da circa diecimila persone: è un numero che sarebbe considerato un buon successo per un saggio di qualunque autore di non grandissima fama come me (il mio libro “Un grande paese” ha venduto poco di più), e che rende economicamente sempre meno. E questo post, sarà ancora ricircolato tra un anno, tra due, tre (se non altro per rinfacciarmi di quanto poco ci avessi preso di fronte al grande boom dei libri del 2017).Poi, ripeto, restano gli appassionati “romantici” dei libri: lo siamo un po’ tutti, e c’è il piacere e c’è la bellezza, eccetera (e Internet offre loro nuovi spazi di sopravvivenza, anche se sempre più riserve indiane). E ci sono libri bellissimi, se uno li legge. Come per il teatro, la cui importanza e meraviglia nessuno mette in discussione, ed è bello che esista ancora. Ma non “esiste” più, il teatro: è una nicchia laterale della cultura contemporanea che non interagisce più con la sua crescita e le sue evoluzioni. I libri non sono ancora arrivati a quel punto lì, e magari non ci arriveranno. Ma entrerei nell’ordine di idee che sia plausibile (Ps: ho ritrovato questo, in America se n’erano già accorti tre anni fa).(Luca Sofri, “La fine dei libri”, da “Wittengstein” dell’8 gennaio 2013).Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.
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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Flores d’Arcais: a Bruxelles, Tsipras meglio di Grillo
«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».Intervistato – come la Spinelli – dal quotidiano ellenico “Avgì” (aurora), il direttore di “Micromega” traccia un’analisi impietosa dell’attuale offerta politica italiana: dilaga la disaffezione perché la casta nazionale si limita ad eseguire i diktat di quella di Bruxelles “suicidando” il paese, ma milioni di italiani – pure attivissimi nei movimenti – non hanno nessuna vera possibilità di rappresentazione, al di fuori del M5S. «L’unica forza di opposizione oggi presente in Parlamento è il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo, una grande forza politica di massa (rappresenta grossomodo il 25% dei votanti) ma strutturata in modo debolissimo e soprattutto con un gruppo dirigente fatto di due persone, Beppe Grillo e un personaggio molto inquietante, che si chiama Casaleggio. Il M5S ondeggia perciò a seconda degli umori di questi due capi. Insomma, la vera forza di Letta è la debolezza dell’opposizione». Il governo? «E’ debolissimo nel paese perché inviso alla schiacciante maggioranza dei cittadini». E inoltre Matteo Renzi, «personaggio di destra “alla Blair”», non ha intenzione di appoggiarlo a lungo.Il realtà quello che conta «non è il governo Letta ma il governo Napolitano», dato che l’uomo del Colle «si comporta come un vero e proprio sovrano, attribuendosi poteri che la Costituzione non gli dà». A livello politico organizzato, «la sinistra non esiste», e «da molti anni». La sinistra «esiste invece nella società civile: e la distanza tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare». Primo problema, il Pd: «Non è più di sinistra», dai tempi di D’Alema e Veltroni, «che hanno realizzato una vera mutazione antropologica del partito, rendendolo parte dell’establishment». Sel e gli altri piccoli partiti? «Non contano più nulla». Ammesso che Sel riesca a superare lo sbarramento del 4%, «il suo leader Vendola sempre di più si trova implicato in inchieste che ormai stanno distruggendo la sua reputazione». Oltre a Sel, il buio: «Rifondazione, i Verdi e gli altri gruppi politici non rappresentano nulla: se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana».Per contro, questa “sinistra sommersa” negli ultimi quindici anni è diventata una sinistra di piazza, ricorda Flores d’Arcais. Nel 2002, coi “girotondi”, Nanni Moretti riuscì a portare in piazza San Giovanni a Roma un milione di persone, catalizzando «una voglia di autoorganizzazione che era gigantesca», fino al “popolo viola” e oltre, per arrivare ai referendum del 2011 sul nucleare e sull’acqua pubblica. Ma il problema è che «questa opposizione civile e sociale non ha rappresentanza politica: i suoi militanti si sentono cittadini orfani di rappresentanza». E’ quella che Giulietto Chiesa e i suo movimento, “Alternativa”, chiamano «la voragine dei non-rappresentati», ricordando che alle ultime politiche, quelle del “boom” di Grillo, un italiano su due ha comunque disertato le urne. Elettori mobilitabili da ideali forti, riassumibili nello slogan “giustizia e libertà”? «Nanni Moretti pensava che l’area dell’attuale Pd fosse ancora recuperabile e lo crede anche ora appoggiandolo. Non abbiamo avuto il coraggio di dare un seguito organizzato ai girotondi», ammette Flores d’Arcais, citando anche il caso della Fiom, a cui molti movimenti chiedevano che il sindacato “rosso” mettesse in campo «obiettivi politici molto più espliciti, dicendo che i nemici della Costituzione oggi non sono solo le destre ma anche Letta, il Pd e il presidente Napolitano». In questo caso, l’ultima manifestazione per la difesa della Costituzione «sarebbe stata gigantesca con effetto di mobilitazione straordinario, e oggi non avremmo movimenti sociali ambigui come il movimento dei Forconi».Le europee – maggio 2014 – sembrano davvero l’ultima occasione. Se fossero elezioni nazionali, Flores d’Arcais voterebbe Grillo, «perché non ci sarebbe spazio reale per una lista nuova di “Giustizia e Libertà”». Trattandosi invece di Bruxelles, forse c’è spazio per un’alternativa, dal momento che «con la nuova legge elettorale si può presentare un candidato alla presidenza europea». L’unica carta giocabile è quella del leader greco Alexis Tsipras: «C’è oggi una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza (negli altri paesi o non sono di sinistra o non sono “forze”). Per questo pensiamo che una lista rigorosamente della società civile con Tsipras potrebbe avere un buon risultato». In Italia, «solo una lista che raccolga esperienze e movimenti della società civile può evitare l’ennesimo fallimento minoritario», a patto che questa lista resti lontana dalle vecchie sigle perdenti: chi si allea con l’ex “sinistra arcobaleno” – Ingroia docet – è condannato a veder dimezzati i propri voti.«Una qualsiasi lista che, poniamo, potenzialmente avesse il 10% dei voti, se si allea anche con Rifondazione o i Verdi o i Comunisti Italiani prenderebbe il 5%», dice Flores d’Arcais. «Una lista autonoma che avesse potenzialmente il 5% dei voti, se si allea con Rifondazione e gli altri prenderebbe il 2%», perché «invece di produrre una somma», oggi «allearsi con uno qualsiasi di questi partitini produce una sottrazione». Poi servono innanzitutto cervelli: quante delle personalità che hanno animato lotte e movimenti sono convinte della necessità di una lista nuova, autonoma? Quanti personaggi pubblici, invece, si illudono ancora che si possa trasformare il Pd dall’interno o recuperare Sel o replicare l’esperienza della lista-Ingroia? «Bisognerà perciò verificare se almeno un centinaio di persone eminenti nei vari campi – scrittori, filosofi, sociologi, scienziati, personalità del cinema e della musica – condividano la nostra ipotesi». Se l’adesione sarà forte, servirà il terzo passo: verificare la disponibilità dei movimenti, per poi promuovere la nascita, a tappeto, di club di sostegno completamente indipendenti. «Per andare al Parlamento Europeo dovremo superare il 4%. Se questa lista prende un risultato intorno al 5% non avrà futuro, sarà una manifestazione di testimonianza». Per Flores d’Arcais, la soglia-verità è quella del 10%.«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».
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Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
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Maggiani: rimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità
Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.(Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere
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Qualcuno era comunista e voleva un’umanità felice
Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo. Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari. Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio. Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio. Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio. Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe… Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre. Qualcuno era comunista perché guardava solo Rai Tre. Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione. Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto. Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin. Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia. Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri. Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’Europa. Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo in Uganda. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosi. Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera…Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista. Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia. Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro. Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno; era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.(Giorgio Gaber e Sandro Luporini, “Qualcuno era comunista”, dall’album “La mia generazione ha perso”, aprile 2001).Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
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Hedges: quest’impero di depravati sta per travolgerci
Gli ultimi giorni dell’impero danno gran lavoro e potere agli inetti, agli squilibrati ed agli imbecilli. Questi politici e propagandisti di corte, assunti per essere la faccia pubblica della nave che affonda, mascherano il vero lavoro dell’equipaggio, il quale saccheggia sistematicamente i passeggeri mentre la nave affonda. I mandarini del potere stanno nella timoniera, impartendo ordini ridicoli e osservando in quanto tempo riescono a distruggere i motori. Combattono come bambini al timone di una nave, mentre la barca va a tutta velocità contro un iceberg. Passeggiano in coperta facendo discorsi pomposi. Urlano che la nave Ss America è la migliore mai costruita. Insistono che ha la tecnologia più avanzata e che incarna le più alte virtù. E poi, con una furia improvvisa e inaspettata, andremo giù nelle acque gelide. Gli ultimi giorni dell’impero sono un carnevale di follia. Siamo nel mezzo di noi stessi, spinti dai nostri leader di corte che si intestardiscono sull’economia e l’auto-distruzione. Sumeri e Romani caddero in questo modo, come pure gli Ottomani e l’impero Austro-Ungarico.Uomini e donne dalla sbalorditiva mediocrità e depravazione guidavano le monarchie d’Europa e della Russia alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. E l’America, nel suo stesso declino, ha offerto una parte del suo essere rammollita, stolta e imbecille fino alla totale distruzione. Una nazione che era ancora radicata nella realtà non avrebbe mai glorificato ciarlatani come il senatore Ted Cruz, il portavoce della Casa Bianca John Boehner e l’ex-portavoce Newt Gingrich che hanno corrotto le onde radio. Se avessimo avuto la minima idea di cosa realmente ci sarebbe accaduto ci saremmo rivoltati con furia contro Barack Obama, la cui eredità sarà la capitolazione totale alle esigenze di Wall Street, all’industria del combustibile fossile, al complesso dell’industria militare e allo stato di sicurezza e sorveglianza. Avremmo dovuto manifestare con quei pochi, come Ralph Nader, che hanno denunciato il sistema monetario basato sul gioco d’azzardo, l’interminabile stampa di denaro e ha condannato la distruzione ostinata dell’ecosistema. Dovevamo ammutinarci. Dovevamo far tornare indietro la nave.Le popolazioni dell’impero in caduta sono passive perché spensierate. E’ in atto una narcotizzazione del sogno ad occhi aperti tra coloro che rotolano verso l’oblio. Si rifugiano nella sessualità, nelle cose scadenti e nell’insensatezza, rifugi che al momento sono piacevoli ma di sicura auto-distruzione. Credono ingenuamente che tutto funzionerà. Come specie umana, osserva Margaret Atwood nel suo romanzo distopico “Oryx and Crake”, siamo condannati alla speranza. E assurde promesse di speranza e gloria sono continuamente servite dall’industria dell’intrattenimento, dell’élite politica ed economica, dalla classe dei cortigiani che fingono di essere giornalisti, guru autodidatti come Oprah e sistemi di credo religiosi che assicurano ai seguaci che Dio li proteggerà sempre. E’ una auto-delusione collettiva, un ritirarsi nel pensiero magico.«Il cittadino americano finora è vissuto in un mondo dove la fantasia è più reale della realtà stessa, dove l’immagine ha più dignità dell’originale», scrisse Daniel J. Boorstin nel suo libro “L’immagine: guida agli pseudo-eventi in America”. «Difficilmente affrontiamo il nostro sconcerto, perché la nostra esperienza ambigua è piacevolmente iridescente, e il conforto nella fede della realtà artificiosa è completamente reale. Siamo diventati accessori desiderosi nella grande era delle bufale. Queste sono le bufale che giochiamo a noi stessi». Cultura e alfabetismo, nella fase finale del declino, sono sostituiti da rumori diversivi e stereotipi vuoti. Lo statista romano Cicerone inveiva contro il loro equivalente dell’epoca – l’arena. Cicerone, a causa della sua onestà, fu inseguito e ucciso; le mani e la testa tagliate. La testa mozzata e la mano destra, con la quale aveva scritto le Filippiche, furono inchiodate sul palco dove parlavano al Foro. Mentre l’élite romana gli sputava sulla testa, dicevano allegramente alla folla inferocita che non avrebbe più parlato o scritto di nuovo.Nell’era moderna questa tossica cacofonia insensata, la nostra versione di spettacolo e di combattimenti di gladiatori, di “panem et circenses”, viene pompata ciclicamente ventiquattrore su ventiquattro dalle onde radio. La vita politica si è fusa con il culto della celebrità. L’educazione è principalmente professionale. Gli intellettuali sono scacciati e disprezzati. Gli artisti non possono vivere del proprio lavoro. Poche persone leggono libri. Il pensiero è stato bandito soprattutto nelle università e nei college, dove pedanti, timidi e carrieristi sfornano banalità accademiche. «Anche se la tirannia, che non ha bisogno di consenso, può governare con successo sui popoli stranieri», scrisse Hannah Arendt nel suo libro “Le origini del totalitarismo”, «si può restare al potere solo se si distruggono prima di tutto le istituzioni nazionali del popolo». E le nostre sono state distrutte.Le nostre ossessioni prioritarie sono il piacere sensuale e l’eterna giovinezza. L’imperatore romano Tiberio si ritirò nell’isola di Capri e convertì il suo palazzo al mare in una casa di lussuria sfrenata e violenza. «Gruppi di ragazze e giovani uomini, che erano stati raccattati da ogni parte dell’impero come adepti a pratiche innaturali, conosciute come spintriae, avrebbero copulato prima di lui in gruppi di tre, per eccitare il suo desiderio scemante», scrisse Svetonio ne “I dodici Cesari”. Tiberio addestrava ragazzini, che lui chiamava i suoi pesciolini, a folleggiare con lui in acqua e a fare sesso orale. E dopo aver osservato una tortura prolungata, li avrebbe poi obbligati a buttarsi da una scogliera vicino al suo palazzo. A Tiberio sarebbero seguiti Caligola e Nerone. «A volte, quando viene voltata la pagina», scrisse Louis-Ferdinand Céline in “Da un castello all’altro”, «quando la storia raggruppa insieme tutti i pazzi, apre le sue epiche sale da ballo! Cappelli e capi nel turbine! Mutandine in mare!».Nel suo libro “Il collasso delle società complesse”, l’antropologo Joseph Tainter osserva il collasso delle civiltà, dai Romani ai Maya. Conclude dicendo che si disintegrarono perché alla fine non potevano sostenere le complessità burocratiche che avevano creato. Strati di burocrazia richiedono sempre maggiore sfruttamento, non solo dell’ambiente ma anche delle classi operaie. Diventano calcificati da sistemi che non sono in grado di rispondere ai cambiamenti che avvengono attorno a sé. Come succede nelle nostre università d’élite e nelle scuole aziendali, vengono prodotti in serie informatici gestionali, ai quali insegnano non a pensare, ma a far funzionare ciecamente il sistema. Questi informatici gestionali sanno solo come perpetuare se stessi e il sistema al quale sono al servizio, anche se significa sventrare la nazione e il pianeta. Le nostre élite e i burocrati logorano il pianeta per sostenere un sistema che in passato ha funzionato, senza riconoscere che ora non funziona più.Invece di prendere in considerazione delle riforme che metterebbero a rischio i loro privilegi e il loro potere, le élite si rifugiano nel crepuscolo dell’impero, nelle cinta murate, come nella città perduta o Versailles. Inventano la propria realtà. Continuano a ripetere questi comportamenti a Wall Street e nelle sale del consiglio: gli stessi che insistono che la dipendenza dai combustibili fossili e le speculazioni sosterranno l’impero. Le risorse dello Stato, come fa notare Tainter, alla fine sono sempre più sprecate in progetti insensati e stravaganti e in avventure imperiali. E poi tutto collasserà. Il nostro collasso porterà con sé tutto il pianeta. Ammetto che è più piacevole starsene ipnotizzati davanti alle nostre allucinazioni elettroniche. E’ più facile darci mentalmente un’occhiata. E’ più gratificante assorbire l’edonismo e la malattia del culto di se stessi e del denaro. E’ più confortante chiacchierare del gossip delle celebrità e ignorare o respingere la realtà.Thomas Mann ne “La montagna incantata” e Joseph Roth in “Hotel Savoy” raccontano brillantemente questo peculiare stato mentale. Nell’hotel di Roth i primi tre piani destinati alla lussuria ospitano i ricchi boriosi, i politici immorali, i banchieri e gli imprenditori. I piani superiori sono affollati da gente che lotta per pagare i propri debiti e che sta costantemente svendendo le sue proprietà; gente che in questo modo diventerà povera e verrà scacciata. Non c’è un’ ideologia politica tra la classe dominante deteriorata, nonostante dibattiti inscenati ed elaborati teatri politici. E’, e alla fine lo è sempre stato, una vasta cleptocrazia. Appena prima della Seconda Guerra Mondiale, un amico chiese a Roth, intellettuale ebreo che era fuggito a Parigi dalla Germania nazista: «Perché bevi così tanto?». Roth rispose: «Pensi che riuscirai a scappare? Anche tu sarai spazzato via».(Chris Hedges, “La follia dell’impero”, post pubblicato da “Truthdig” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 24 ottobre 2013. Già corrispondente del “New York Times” per quasi vent’anni, Hedges ha scritto saggi su guerra, imperialismo e nuovo fascismo. Il suo libro più recente: “L’impero dell’illusione: la fine della letteratura e il trionfo dello spettacolo”).Gli ultimi giorni dell’impero danno gran lavoro e potere agli inetti, agli squilibrati ed agli imbecilli. Questi politici e propagandisti di corte, assunti per essere la faccia pubblica della nave che affonda, mascherano il vero lavoro dell’equipaggio, il quale saccheggia sistematicamente i passeggeri mentre la nave affonda. I mandarini del potere stanno nella timoniera, impartendo ordini ridicoli e osservando in quanto tempo riescono a distruggere i motori. Combattono come bambini al timone di una nave, mentre la barca va a tutta velocità contro un iceberg. Passeggiano in coperta facendo discorsi pomposi. Urlano che la nave Ss America è la migliore mai costruita. Insistono che ha la tecnologia più avanzata e che incarna le più alte virtù. E poi, con una furia improvvisa e inaspettata, andremo giù nelle acque gelide. Gli ultimi giorni dell’impero sono un carnevale di follia. Siamo nel mezzo di noi stessi, spinti dai nostri leader di corte che si intestardiscono sull’economia e l’auto-distruzione. Sumeri e Romani caddero in questo modo, come pure gli Ottomani e l’impero Austro-Ungarico.
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Gli italiani, il cavaliere e la morte: vince la menzogna
Terroristi? Evidentemente, «se ne sentiva il bisogno». Così, giusto per “nobilitare” – per contrasto – un establishment ben poco virtuoso, con troppi peccati da farsi perdonare. Gli italiani, il Cavaliere e la morte: non l’uomo di Arcore, ovviamente, ma la figura equestre ritratta da Albrecht Dürer, cui si ispira Leonardo Sciascia per un romanzo della fine degli anni ’80 che sembra scritto ieri, anzi oggi. Il protagonista, un dolente poliziotto – schivo e taciturno, condannato (come lo scrittore stesso) da un tumore di quelli che non lasciano scampo – intuisce fin dalle prime battute che la strana rivendicazione seguita all’omicidio di un potente, l’avvocato Sandoz, non proviene affatto da chissà quale organizzazione eversiva. Strana sigla, i “figli dell’ottantanove”. Domanda: «Sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove?».Le pagine de “Il cavaliere e la morte” sembrano parlare direttamente ai giorni nostri, così affollati di pacchi-bomba e buste con proiettili recapitate a uomini di potere. Nel romanzo, la cellula terroristica «non esiste, ma la si vuole far esistere», sicuri che una nuova bandiera rivoluzionaria potrà «sedurre le menti deboli, gli annoiati, i vocati alle cause perse e al sacrificio», nonché ovviamente «i violenti che vogliono dar nobiltà ai loro istinti». Inevitabilmente, l’indagine incrocia il buco nero dei servizi segreti: è da un antico contatto personale che l’investigatore deduce le tessere mancanti per risalire al vero movente dell’omicidio e quindi comprendere meglio il metodo adottato, quello del depistaggio finto-terroristico. Due piccioni con una fava: l’eliminazione di un fastidioso competitore e la “creazione” di una comoda sigla eversiva, utilissima per firmare altri omicidi, diffondere paura, giustificare la repressione e criminalizzare l’opposizione.E’ lo schema, ferreo e implacabile, della famigerata strategia della tensione: «Occorre che ci sia il diavolo perché l’acqua santa sia santa». Sciascia disegna la sua storia verso un finale comunque inatteso e spiazzante, con una lingua personalissima e una capacità introspettiva nella quale raramente il noir contemporaneo osa addentrarsi. Il suo poliziotto è un uomo colto, che pensa – con Ungaretti – che “la morte si sconta vivendo”, e si aggira in un paesaggio in cui le citazioni letterarie (da Tolstoj a Pirandello, da Proust a Gadda) abitano con rassegnazione una latitudine dimessa, in cui persino il diavolo è «talmente stanco», ormai, «da lasciar tutto agli uomini», che sanno «fare meglio di lui», rubandogli il mestiere. A vincere è l’arte sopraffina della menzogna, che sforna capri espiatori con la complicità di figure grottesche eppure tragicamente autentiche: come il “grande giornalista” ben deciso a scrivere, come sempre, il contrario della verità.(Il libro: Leonardo Sciascia, “Il cavaliere e la morte”, Adelphi, 91 pagine, 8 euro).Terroristi? Evidentemente, «se ne sentiva il bisogno». Così, giusto per “nobilitare” – per contrasto – un establishment ben poco virtuoso, con troppi peccati da farsi perdonare. Gli italiani, il Cavaliere e la morte: non l’uomo di Arcore, ovviamente, ma la figura equestre ritratta da Albrecht Dürer, cui si ispira Leonardo Sciascia per un romanzo della fine degli anni ’80 che sembra scritto ieri, anzi oggi. Il protagonista, un dolente poliziotto – schivo e taciturno, condannato (come lo scrittore stesso) da un tumore di quelli che non lasciano scampo – intuisce fin dalle prime battute che la strana rivendicazione seguita all’omicidio di un potente, l’avvocato Sandoz, non proviene affatto da chissà quale organizzazione eversiva. Strana sigla, i “figli dell’ottantanove”. Domanda: «Sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove?».