Archivio del Tag ‘Libia’
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Gratteri: una vergogna quelle gabbie per i migranti in Libia
Al magistrato antimafia Nicola Gratteri, uomo simbolo del contrasto alla ‘ndrangheta calabrese, non va giù l’accordo stretto dall’Italia con il governo di Tripoli per fermare i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo. «La strategia di Minniti non mi è piaciuta», dice il procuratore capo di Catanzaro, intervistato da “La7”, «perché non è da Stato civile e occidentale far costruire delle gabbie sulle coste della Libia per impedire che gli immigrati partano». E’ soltanto «un tappo», degradante e indegno, che non risolve certo il problema dell’esodo di popolazioni in fuga dalla guerra e dalla fame, tutti fenomeni innescati dall’economia occidentale e dalla sua geopolitica neo-coloniale. «Bisognerebbe andare in centro Africa, mandare i servizi segreti per capire chi organizza queste traversate nel deserto, e poi andare lì e costruire aziende agricole, ospedali, scuole e rendere il territorio vivibile», sostiene il giudice, chiarendo che – se si vuol sperare di porre un freno all’oceano dei migranti – è necessario investire in Africa per gli africani, non per gli occidentali. Solo a quel punto, «poi, è ovvio che bisogna creare dei flussi regolamentati per la libera circolazione di tutti gli uomini del mondo».Quello di Gratteri è un pensiero che sembra in via di estinzione, in un’Italia frastornata dal derby che oppone il solidarismo assistenziale delle Ong alla xenofobia elettoralistica degli “impresari della paura”, che speculano sulla criminalità migrante degli sbandati. Ma perché dare per scontato che milioni di persone debbano per forza lasciare le loro case? E’ sacrosanto il diritto di partire per inventarsi una vita diversa dall’altra parte del mondo, «purché però la partenza non sia un atto disperato, indotto dalla miseria o dalla guerra», sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro: difendiamo i diritti dei migranti trascurando però sempre il loro diritto principale, «che è innanzitutto quello di poter vivere una vita dignitosa a casa loro, senza per forza dover dolorosamente rinunciare al proprio paese». In altre parole: «Perché non ci chiediamo come mai questa gente è costretta a scappare? Perché non chiediamo ai nostri governi cosa hanno combinato, in quelle regioni del mondo?». Aiutarli a casa loro? L’Italia sarà in Niger con il proprio esercito, a presidiare un paese tra i 20 più poveri al mondo, ma ricchissimo dell’uranio che è da sempre “proprietà privata” della Francia, destinato ad alimentare le centrali nucleari transalpine.Soccorso occidentale? «No, grazie», rispose Thomas Sankara al vertice panafricano di Addis Abeba, pensando al genere di “aiuti” storicamente ricevuti dall’Africa: finanziamenti interessati e debito eterno, cioè schiavitù. «Teneteveli, i vostri soldi: non li vogliamo più», disse il giovane leader del Burkina Faso, assassinato nel 1987 tre mesi dopo quel coraggioso discorso, in cui chiedeva agli Stati africani di non pagare più il debito estero (la Russia di Putin ha appena condonato il suo, annullando gli oneri a carico dei paesi africani verso Mosca). E mentre la verità ufficiale tuttora nega che a uccidere Sankara sia stato l’attuale presidente del Burkina Faso, Blaise Compaorè, ricevuto all’Eliseo con tutti gli onori da François Mitterrand, l’Unione Europea si appresta a varare un Piano Marshall per l’Africa che, in cambio di infrastrutture, aggraverà il debito del continente nero, quasi sempre retto da dittature filo-occidentali come quella dell’Eritrea, i cui profughi (che sbarcano a Lampedusa) fuggono da un regime a cui l’Italia vende costosi armamenti.L’Africa però resta materia da campagna elettorale: Berlusconi evoca il pugno di ferro contro “mezzo milione di immigrati criminali”, mentre Massimo D’Alema sostiene che proprio ai migranti è affidato il futuro demografico di un paese come l’Italia, dove non ci si sposa più e non si fanno più figli (a causa della crisi economica indotta dall’euro e dal rigore Ue, cosa che D’Alema evita accuratamente di precisare). Nel frattempo restano loro, i sopravissuti alla pericolosa traversata del Canale di Sicilia, a bordo di carrette del mare il più delle volte recuperate in extremis dalla marina militare italiana. Senza una politica degna di questo nome, sottolinea Nicola Gratteri, non ci sarebbe da vantarsi se il flusso dei disperati dovesse calare: «Ogni sera sentiamo ai telegiornali che gli sbarchi sono diminuiti del 3, del 15, del 20%, ma mentre noi parliamo so che ci sono delle donne che vengono violentate o bambini che vengono bastonati a sangue». Le gabbie in Libia per rinchiuderli come animali? «Non sto tranquillo perché ne arrivano duemila in meno», aggiunge il magistrato, per il quale evidentemente la parola “umanità” ha ancora un senso universale, non negoziabile né trasformabile in spazzatura elettolare “di destra” o “di sinistra”.Al magistrato antimafia Nicola Gratteri, uomo simbolo del contrasto alla ‘ndrangheta calabrese, non va giù l’accordo stretto dall’Italia con il governo di Tripoli per fermare i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo. «La strategia di Minniti non mi è piaciuta», dice il procuratore capo di Catanzaro, intervistato da “La7”, «perché non è da Stato civile e occidentale far costruire delle gabbie sulle coste della Libia per impedire che gli immigrati partano». E’ soltanto «un tappo», degradante e indegno, che non risolve certo il problema dell’esodo di popolazioni in fuga dalla guerra e dalla fame, tutti fenomeni innescati dall’economia occidentale e dalla sua geopolitica neo-coloniale. «Bisognerebbe andare in centro Africa, mandare i servizi segreti per capire chi organizza queste traversate nel deserto, e poi andare lì e costruire aziende agricole, ospedali, scuole e rendere il territorio vivibile», sostiene il giudice, chiarendo che – se si vuol sperare di porre un freno all’oceano dei migranti – è necessario investire in Africa per gli africani, non per gli occidentali. Solo a quel punto, «poi, è ovvio che bisogna creare dei flussi regolamentati per la libera circolazione di tutti gli uomini del mondo».
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Odiavano Silvio, hanno sfasciato l’Italia e oggi tifano per lui
Spiegatecelo, davvero, Angela Merkel e Bill Emmott, Eugenio Scalfari, Romano Prodi ed Elsa Fornero, sinceri democratici e antiberlusconiani d’antan: esattamente, in cosa Berlusconi, oggi, sarebbe migliore rispetto a ieri? Perché un Berlusconi manovratore occulto dovrebbe essere più “fit” di un Berlusconi premier, caro Bill Emmott? Cosa la induce a pensare, caro Eugenio Scalfari, che oggi, improvvisamente, il populismo di quello che lei definì «un bananiere a ventiquattro carati, cioè un uomo d’affari che fa i suoi affari con la politica» oggi abbia «almeno una sua sostanza»? E ancora: come mai, professor Prodi, solo ora ha sentito il bisogno di ricordarci che quella sua defenestrazione ingloriosa, nell’autunno del 2011, fosse una specie di complotto internazionale, per fargli pagare «la posizione italiana a favore di Putin, di Gheddafi e della stabilità iraniana»? Cosa la induce a credere, cara Elsa Fornero, che quel Cavaliere «conosca bene la realtà economica, e sappia distinguere tra le cose che sono possibili», dopo che ha promesso, nell’ordine, di cancellare «gli effetti deleteri» della riforma delle pensioni che porta il suo nome, di pagare le dentiere agli anziani, di alzare le pensioni minime a mille euro, di affiancare all’euro un’altra moneta di conio nazionale, di introdurre una generica “flat tax” (senza specificare a quale aliquota intenda porre l’asticella), di ampliare la “no-tax area” per chi guadagna meno di mille euro al mese e di abolire il Jobs Act?E come mai tutto questo ben di Dio dovrebbe costituire un argine ai populisti, Frau Merkel, e aggiungiamo noi, a una crescita spropositata del debito pubblico italiano? Raccontiamoci tutte le fregnacce che vogliamo, dai, ma almeno non prendiamoci per i fondelli: Berlusconi oggi è molto peggio di quanto non lo fosse nel 1994, nel 2001, nel 2006, nel 2008 e nel 2013 e un suo ritorno a Palazzo Chigi, da king o da kingmaker, sarebbe una tragedia in qualunque paese con un minimo di serietà. Allora aveva una classe dirigente, piacesse o meno, con titoli e competenze per prendere in mano il timone di un paese; oggi è costretto a improvvisare un nome come quello dell’ex generale Gallitelli come possibile presidente del Consiglio, o Maurizio Gasparri come presidente del Senato o della Regione Lazio. Allora aveva una piattaforma programmatica perlomeno coerente e proporzionata, ancorata a un principio di realtà, oggi accatasta proposte che nemmeno Trump. Allora, perlomeno a sprazzi, aveva la volontà di cambiare il paese a immagine e somiglianza della sua visione del mondo, oggi è mosso solo dal desiderio di mettere al sicuro Mediaset e di garantire un happy ending alle sue aziende, per evitare vengano spolpate vive appena lui e Confalonieri non saranno più in grado di occuparsene. Allora vi faceva schifo, oggi è un simpaticone. Molto bene.Anzi no, non va bene un bel niente. Fatevelo dire da chi anti-berlusconiano non è mai stato. L’unica differenza, cari nostri, è che oggi Berlusconi vi serve come l’aria. Perché con le sue sparate è l’argine perfetto a Salvini e Di Maio. Perché pensate che se la gente si beve le sue sparate, meglio ancora se sono patacche, non si berrà le loro. Perché siete convinti che potrà fare solo da stampella, non certo tornare a comandare. Perché avete la certezza, sotto sotto, che sia solo una carcassa di Caimano, vecchio, stanco, incapace di fare danni. Una notizia: i danni li state facendo voi, a questo giro, e sono più grandi di quel che potete immaginare. Perché i prossimi saranno anni di sacrifici e lo sapete benissimo. Perché la gente è stupida finché volete, ma si accorge se la state fregando e se una volta al governo Berlusconi non farà quel che ha promesso, o non gli sarà concesso di farlo dai vincoli di bilancio che oggi tutti fingono di non vedere, ci penseranno Grillo e Salvini ad accogliere a braccia aperte tutti i delusi dal Cavaliere. Perché state distruggendo tutta la poca o tanta credibilità che vi ha accompagnato per vent’anni abbondanti, investendola, tutta in una volta sola, nella speranza (vana?) di cinque anni tranquilli. Perché il prezzo che dovrete pagare sarà ciò contro cui avete combattuto per un quarto di secolo, quel conflitto d’interessi vulnus primordiale del vostro feroce anti-berlusconismo. Perché anche prendendo il 15-20% Berlusconi stravincerà la sua lunga partita politica. Perché tutta questa melassa ipocrita è un distillato purissimo di doppia verità, ancora peggio del venticinquennale perbenismo moralista che ha accompagnato Re Silvio come un’ombra. E no, non servirà a nulla, se non a lui.(Francesco Cancellato, “Berlusconi è diventato ‘buono’? La peggiore bugia di questa campagna elettorale”, da “Linkiesta” dell’11 gennaio 2018).Spiegatecelo, davvero, Angela Merkel e Bill Emmott, Eugenio Scalfari, Romano Prodi ed Elsa Fornero, sinceri democratici e antiberlusconiani d’antan: esattamente, in cosa Berlusconi, oggi, sarebbe migliore rispetto a ieri? Perché un Berlusconi manovratore occulto dovrebbe essere più “fit” di un Berlusconi premier, caro Bill Emmott? Cosa la induce a pensare, caro Eugenio Scalfari, che oggi, improvvisamente, il populismo di quello che lei definì «un bananiere a ventiquattro carati, cioè un uomo d’affari che fa i suoi affari con la politica» oggi abbia «almeno una sua sostanza»? E ancora: come mai, professor Prodi, solo ora ha sentito il bisogno di ricordarci che quella sua defenestrazione ingloriosa, nell’autunno del 2011, fosse una specie di complotto internazionale, per fargli pagare «la posizione italiana a favore di Putin, di Gheddafi e della stabilità iraniana»? Cosa la induce a credere, cara Elsa Fornero, che quel Cavaliere «conosca bene la realtà economica, e sappia distinguere tra le cose che sono possibili», dopo che ha promesso, nell’ordine, di cancellare «gli effetti deleteri» della riforma delle pensioni che porta il suo nome, di pagare le dentiere agli anziani, di alzare le pensioni minime a mille euro, di affiancare all’euro un’altra moneta di conio nazionale, di introdurre una generica “flat tax” (senza specificare a quale aliquota intenda porre l’asticella), di ampliare la “no-tax area” per chi guadagna meno di mille euro al mese e di abolire il Jobs Act?
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Grimaldi: golpe Cia in corso in Iran, via rivoluzione colorata
«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».All’epoca, scrive Grimaldi sul suo blog, venne scatenata la sedicente “rivoluzione verde”, dove «settori della borghesia ricca, nostalgica della sanguinaria dittatura del fantoccio occidentale Reza Pahlevi e famelica di neoliberismo per poter sottrarre beni e diritti ai ceti popolari valorizzati da Ahmadinejad, vennero mandati, da agenti infiltrati del terrorismo internazionale, allo scontro con lo Stato». Il pretesto era il solito: «Brogli nella vittoria di Ahamedinejad, riscatto delle donne oppresse da burka e bigottismo patriarcale». Allora, continua Grimaldi, si trattava di ridurre la crescente influenza di Teheran sul cosiddetto “arco scita”, «espressione depistante utilizzata per descrivere governi e popolazioni resistenti all’imperialismo Usa e israeliano, neutralizzare il suo ruolo di prezioso fornitore di gas e petrolio a paesi su cui l’Occidente intende esercitare il dominio energetico, bloccare il modello di emancipazione sociale messo in atto da Ahmadinejad e l’impetuoso sviluppo industriale del paese». Al centro della “sceneggiata” era la presunta volontà di Teheran di dotarsi di armamento atomico, quando la stessa Aiaea, l’agenzia Onu per l’energia atomica, insisteva a dimostrare che lo sviluppo nucleare dell’Iran era dedicato esclusivamente a uso civile, sanitario ed energetico.Con l’avvento del “moderato” Hassan Rouhani, reso possibile dal fatto che il “conservatore” Ahmadinejad non poteva presentarsi per un terzo mandato e che il suo schieramento aveva fronteggiato le elezioni diviso (“moderato” e “conservatore” sono i termini «che i media ci infliggono per designare chi è gradito e chi sgradito all’Occidente»), avviene secondo Grimaldi «l’indecorosa resa, la rivincita dei “quartieri alti” di Teheran, un’offensiva privatizzatrice e, pietra angolare dell’indipendenza o meno del paese, l’accordo sul nucleare con gli Usa che ha privato l’Iran quasi interamente del suo potenziale di nucleare civile». Il che avrebbe dovuto portare alla normalizzazione dei rapporti con Usa e Occidente, alla fine di sanzioni tra le più feroci e genocide mai inflitte, alla pacificazione della regione. Invece, «è sotto gli occhi di tutti a cosa ha portato l’arrendevolezza di Rouhani». Il progetto di “regime change” mancato da Obama, Hillary Clinton e Netanyahu è fallito clamorosamente, ma i nemici dell’Iran non hanno mai mollato la presa, tra fake news e attentati terroristici contro scienziati iraniani e contro la stessa popolazione civile, «affidati a una setta di fuorusciti riparata a Parigi e a Washington e da lì foraggiata e armata: i Mek, Mujahedin del Popolo».A far saltare i nervi al blocco occidentale, aggiunge Grimaldi, è stato il sostegno dato dall’Iran «alla resistenza irachena e iraniana contro Usa, Israele, Nato e loro mercenariato jihadista», nonché «l’impetuosa crescita del suo prestigio e della sua influenza nella regione». E così «siamo ai pogrom di oggi, che annunciano una nuova “rivoluzione verde” che in Occidente si spera risolutrice». Ma che non lo sarà, sostiene sempre Grimaldi, «alla luce dell’unità del popolo iraniano, della sua coscienza politica, del suo patriottismo». Dal giorno in cui la rivoluzione khomeinista ha posto fine alle ingerenze colonialiste e poi imperialiste (si ricordi il colpo di Stato angloamericano contro il premier Mossadeq nel 1952 e la restaurazione imperiale sotto lo Shah), «l’Occidente non ha mai cessato di fornire all’opinione pubblica un quadro grottescamente distorto dell’Iran e dei suoi 80 milioni di abitanti». Oggi, prosegue Grimaldi, «si riparte con la totale falsità di una dittatura, una società oppressa dal clero, una catastrofe economico-sociale, una matrice di terrorismo e instabilità in tutta la regione». Tutto “merito” degli Stati Uniti: «La potenza che s’inventa interferenze russe nelle proprie elezioni, ma che non ha trascurato di intervenire, con tangenti, ricatti, manipolazione di settori sociali, tsunami mediatici e colpi di Stato, in praticamente ogni processo elettorale e genericamente politico dove fosse in gioco il dominio Usa, rinnova l’operazione fallita del 2009: obiettivo, ancora una volta il “regime change” e, in mancanza, l’aggressione, o diretta, o affidata a surrogati».Secondo Grimaldi, le politiche neoliberiste di Rouhani «hanno annullato in parte il progresso delle classi popolari realizzato da Ahmadinejad». Soprattutto, le sanzioni che l’accordo nucleare avrebbe dovuto far sospendere (ma che Trump ha rafforzato) hanno peggiorato le condizioni di vita di vaste masse: aumento dei prezzi di carburanti ed energia, annullamento dei sussidi alimentari, inflazione, crisi del bazar, disoccupazione. «Ed è successo quanto s’è visto e documentato a Kiev, Bengasi in Libia, Deraa in Siria, Caracas». Un copione: «Parte una pacifica rivendicazione di piazza in varie città iraniane, nel giro di ore, secondo un programma dettagliato pubblicato in rete, in varie città spuntano gruppetti di non più di 50 soggetti che, alle richieste di aumenti salariali e altri interventi economici, sovrappongono slogan anti-sistema, contro il governo e, con particolare virulenza contro il “dittatore” Khamenei, che è dittatore quanto lo è il capo di Stato di qualsiasi paese europeo». Se “morte al dittatore” e “morte a Khamenei” ci riportano dritti agli auspici indirizzati a Maduro, Gheddafi o Assad, «l’inconfutabile marchio israeliano risuona nelle imprecazioni contro il ruolo regionale dell’Iran e contro l’impegno per la Palestina, Gaza e il Libano: “Giù le mani dal Medioriente”, “No Gaza”, “No Libano”».Non passano che poche ore e, immancabili, partono colpi di arma da fuoco, non si capisce bene da quale parte (per i media occidentali inconfutabilmente dalla polizia) e cadono le prime vittime. Poi, a tempo scaduto, «escono fuori prove, video, testimonianze e confessioni che attestano la presenza di infiltrati impegnati a sparare sulla folla: su questo aspetto, tuttavia, i mass media appaiono distratti». Intanto, aggiunge Grimaldi, «hanno lucidato le proprie trombe tutti gli squalificatissimi arnesi della cosiddetta “società civile” e dei “diritti umani”, gli scontati travestimenti dell’intelligence imperialista, da Amnesty International a Hrw e alla National Endowment for Democracy, con pesce pilota, da noi, il “Manifesto”, zelantissimo su tutte le campagne delle false sinistre e vere destre internazionali: russofobia, “dittatori”, migranti e Ong sorosiane, molestie, gender, “populisti”, “sovranisti”, “minaccia fascista” incombente (che, per carità, non riguarda mica censura, militarizzazione, securitarismo, bellicismo, colonialismo, guerra ai poveri su entrambi i lati dell’Atlantico)».Una di queste entità, «la Foundation for Defense of Democracies, del talmudista Mark Dubowitz», ha sintetizzato il programma di distruzione dell’Iran, nel plauso del direttore della Cia, Mike Pompeo e del segretario di Stato Tillerson, nei termini di un appello a Trump di lanciare «l’offensiva finale contro il regime di Teheran, indebolendone le finanze attraverso più massicce sanzioni economiche e minandone la direzione attraverso la mobilitazione delle forze pro-democrazia». E il Congresso «ha votato cospicui finanziamenti ai terroristi del Mek, la cui presidente, Maryam Rajavi, non ha perso l’occasione peri incitare “l’eroico popolo dell’Iran” all’assassinio del dittatore Khamenei e alla liberazione dei prigionieri politici». Presto, conclude Grimaldi, emergerà anche una nuova eroina-simbolo della “rivoluzione democratica”, sul modello di Neda Soltan. Ricordate la giovane manifestante di Teheran “uccisa” dagli agenti del regime «di cui, poi, un video dimostrava la finta morte allestita con finto sangue dai suoi compari e un giornale tedesco, la “Sueddeutsche Zeitung”, la “resurrezione” in Germania». Nulla di nuovo sotto il sole: «Solo che questa volta temo che, constatati i propri rovesci in Medio Oriente, grazie anche all’Iran, i veri Stati canaglia vogliano andare fino in fondo. E qui, amici, la controinformazione è vitale».«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».
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Soldati italiani in Niger, a proteggere l’uranio dei francesi
Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».
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Della Luna: tengono in vita l’Italia solo per finire di svuotarla
Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.E perché stupirsi? La legalità è l’interesse più diffuso, dunque il più disperso, il più debole, quindi il più perdente. E’ un interesse impotente a difendere se stesso. Il popolo è bue perché è popolo, non per altra ragione. Per contro, gli interessi concentrati, dei pochi contro i molti, soprattutto se illeciti e nascosti, sono anche poteri forti, e hanno buon gioco a comprare chi gli serve e a mettere nei posti giusti i loro fiduciari. Gli esponenti del regime italiano vantano oggi una ripresa economica, sia pur da fanalino di coda, ma non dicono che le previsioni per i prossimi 25 anni mostrano il sistema-paese Italia in costante perdita di produttività-competitività rispetto agli altri paesi comunitari e Ocse. Il che comporta che, per competere sui costi di produzione, si dovrà continuare a tagliare i salari reali, i diritti dei lavoratori, le pensioni, gli investimenti, e che in prospettiva l’Italia è spacciata, perché già da 25 anni sta perdendo in produttività comparata, e 50 anni così implicano che il paese non è più vitale. Spacciata, anche perché il governo deve perseguire una politica di saldi primari attivi (cioè togliere con le tasse dalla società più denaro di quanto riversa in essa, nonostante che la società sia in grave carenza di denaro).Altro che virtuosità, risanamento, ripresa: tutto deve andare ai banchieri che prestano i soldi, compresa la proprietà delle aziende. Senza investimenti strategici non vi è recupero di produttività, non vi è fine del declino. Ciò accelererà la fuga di capitali, imprenditori, lavoratori qualificati e cervelli. Questo destino fallimentare è connaturato all’Italia unitaria, a questo Stato voluto e creato dall’estero per servire ed essere sfruttato da potenze straniere, come spiegato in precedenti articoli. Uno Stato sbagliato per composizione, che è stata fatta accozzando nazioni preunitarie troppo diverse tra loro e che perciò non hanno mai legato ma hanno generato una governance parassitaria e incompetente, che sa solo arricchirsi rubando sui trasferimenti dalle aree efficienti a quelle inefficienti, e in generale sulle risorse pubbliche e private. Uno Stato vassallo, in cui la politica è decisa dall’estero e alla classe politica interna, come unico spazio di azione, rimane la competizione-lottizzazione nel saccheggio del cittadino e della spesa pubblica. Non potendo procurarsi consensi con le buone politiche nell’interesse nazionale, i nostri politicanti se li procurano distribuendo privilegi clientelari. Questo è il modo di produzione della legittimazione elettorale in Italia.I potentati stranieri dominanti sostengono e legittimano quelle forze politiche e burocratiche italiane che meglio servono i loro interessi a spese degli italiani (fino a mandare eserciti italiani a combattere servilmente guerre americane e francesi contro gli interessi italiani), consentendo loro in cambio di continuare i loro traffici con piccole banche, appalti truccati. E’ grazie a siffatti rapporti con la partitocrazia e la burocrazia italiane che potentati stranieri hanno acquisito il controllo di (quasi) tutte le imprese di punta e strategiche italiane, nonché della Banca d’Italia e del sistema creditizio. E’ così che il governo ha regolarmente sottoscritto, sotto ricatto di rating, contratti finanziari scientemente rovinosi a vantaggio delle controparti dominanti come Morgan Stanley, con perdite per decine di miliardi – vedasi il commento dell’onorevolele Brunetta all’audizione della dottoressa Cannata in commissione banche, audizione che si è cercato di mettere in ombra col polverone sulle dichiarazioni del presidente di Consob Giuseppe Vegas alla medesima commissione sul caso Etruria-Boschi, tacendo sul ministro e sugli alti dirigenti del Tesoro che sono poi passati a Morgan Stanley.Un simile Stato, come apparato, non può vivere se non attraverso una corruzione sistemica, quindi intessuta nelle istituzioni anche di controllo (le campagne di lotta contro la corruzione, ovviamente, sono una presa per i fondelli). I suoi partiti politici sono galassie di comitati di affari dediti ad operazioni illecite o quantomeno scorrette. Le rispettive segreterie fanno da organo di coordinamento tra tali comitati, e di ricezione delle richieste di interessi stranieri (talvolta anche nazionali) dominanti. Che forza avrebbero i partiti di potere se non gestissero (clientelarmente) appalti, crediti, assunzioni, licenze? Nessuna. I partiti che si staccano da quelli di potere per perseguire ideali sociali e di giustizia, sistematicamente, si spengono; non sono vitali, sebbene abbiano talora ottime idee e grande onestà, proprio perché non si portano dietro alcuna fetta di spesa pubblica, alcuna risorsa clientelare. Laddove vi sono seri interessi in gioco, le leggi, anche dagli organi di controllo e giustizia, sono osservate solo marginalmente, soprattutto per mantenere una minima facciata di legittimità agli occhi della gente comune.In realtà, vi è una netta divisione tra chi è soggetto alla legge e chi sta sopra di essa e la usa sugli altri per schiacciarli e spremerli. Il potere pubblico è inteso come proprietà privata, come diritto di passare sopra le regole e di togliere diritti agli altri, cioè di derogare alla legalità. Adesso, in campagna elettorale, è inevitabile che i partiti millantino, ciascuno, di avere la capacità e la volontà di salvare il paese e di combattere la corruzione. Lo afferma quella (pseudo) sinistra che è stata l’esecutore più attivo e fedele degli interessi stranieri, che più ha collaborato nel sottomettere ad essi tutto il paese, nello spremerlo per arricchire gli squali della finanza predona, nel sabotare l’economia e l’ordine pubblico, nell’imporre un pensiero e un linguaggio unico che impedissero persino di descrivere ciò che essa stava e sta perpetrando. Poi abbiamo un Berlusconi, proprietario del principale partito del centrodestra, che ha sempre usato i voti di chi gli dava fiducia per sostenere la linea della (pseudo) sinistra e della Germania, persino il rovinoso governo Monti, al fine di difendere i propri interessi aziendali e processuali – un Berlusconi da sempre condizionabile mediante attacchi giudiziari che scattano quando serve.Abbiamo una Lega con analisi e propositi condivisibili, la quale un tempo era indipendentista e ora non lo è più, almeno nelle dichiarazioni, e si propone come tutrice degli interessi nazionali pan-italiani entro un’Ue e un euro in cui vuole rimanere. Purtroppo, sino ad ora, su scala nazionale, la Lega ha realizzato niente o quasi dei suoi programmi, pur essendo stata a lungo al governo. Abbiamo infine una M5S che conta numerosi esponenti validi, coraggiosi e liberamente agenti, ma i cui titolari – quelli che enunciano che “uno vale uno” – non si sa che mete abbiano e che interessi incarnino, anche se appaiono significativi legami con gli Usa. Abbiamo infine una nuova, furbesca legge elettorale, che lascia nelle mani delle segreterie (negandole agli elettori) non solo la scelta dei parlamentari, ma anche la decisione sul nuovo governo: una legge tipicamente partitocratica. No, signori miei, non illudetevi: il processo di disfacimento e la parassitosi maligna interna ed esterna continueranno più saldamente che mai, con la Bce che sosterrà il debito pubblico, differendo il collasso, per consentire di portare a compimento il piano di trasferimento delle risorse del paese. Niente cambierà con le prossime elezioni. L’unico cambiamento possibile e concreto lo realizza chi emigra.(Marco Della Luna, Il Re è nudo ma niente succede, dal blog di Della Luna del 17 dicembre 2017).Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.
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Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
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Sionismo, cent’anni di guerra: dopo la Siria, tocca all’Iran
Un secolo di guerra, in Medio Oriente, grazie al sionismo: lo scorso 2 novembre ricorrevano i cento anni dalla Dichiarazione Balfour, evento che ha marcato indelebilmente la storia contemporanea della regione mediorientale. Con quell’atto politico-diplomatico,ricorda Gaetano Colonna, il governo inglese – sotto la pressione del movimento sionista, collegatosi ai vertici del potere britannico e statunitense nel corso della Prima Guerra Mondiale – aprì la strada alla nascita dello Stato ebraico, poi nato nel 1948. «Molti eventi epocali hanno segnato la drammatica storia di quest’area del mondo, che da allora non ha più conosciuto la pace», rileva Colonna su “Clarissa”: prima il crollo dell’Impero Ottomano e la spartizione fra le potenze occidentali dei territori arabi, poi il controllo della produzione e delle riserve di petrolio, «anch’esso divenuto fattore strategico durante la Grande Guerra dopo che la flotta inglese convertì i suoi propulsori navali a questo carburante». Dalla sua formazione, lo Stato di Israele ha condotto ripetute guerre che «gli hanno consentito di raggiungere un livello di potenza militare e di influenza politica planetaria», passando per «l’annientamento del nazionalismo arabo», di cui il regime sirano di Bashar Assad – oggetto di un violentissimo processo di destabilizzazione – è l’ultimo epigono.In parallelo, il terremoto regionale innescato da sionismo ha provocato la diffusione dell’integralismo islamico, «prima foraggiato dall’Occidente durante la Guerra Fredda, sia in funzione anti-comunista che anti-nazionalista, poi presentato quale nemico mortale e divenuto strumento di una nuova “strategia della tensione” internazionale». Nel frattempo è cresciuta la contrapposizione fra l’Islam sciita guidato dall’Iran, protagonista della rivoluzione khomeinista del 1979, e l’Islam integralista dei wahabbiti in Arabia Saudita, «inattacabile pilastro del sistema di controllo occidentale delle risorse petrolifere fin dal 1943, con l’accordo fra Roosevelt ed il re predone Ibn Saud». Negli ultimi mesi, aggiunge Colonna, «in questo teatro geopolitico fondamentale per gli equilibri di potenza internazionali e dunque per la pace mondiale», abbiamo assistito a ulteriori, pericolosi sviluppi: appare sempre più credibile «la probabilità di un conflitto, rivolto a dare un assetto definitivo a quest’area totalmente destabilizzata dai diretti interventi occidentali in Iraq e in Afghanistan fra il 1991 ed il 2003».Il rapido dissolversi delle aspettative suscitate mediaticamente dalla cosiddetta “primavera araba”, inoltre, «ha mostrato quanto essa fosse in realtà semplicemente rivolta a demolire gli ultimi due regimi del Medio Oriente allargato, Gheddafi in Libia e gli Assad in Siria, sopravvissuti alla neutralizzazione delle classi dirigenti arabe, laiche e nazionaliste, ispirate negli anni Sessanta da un socialismo di tipo populista e anticomunista». L’aprirsi dello spaventoso conflitto siriano, che secondo i calcoli sauditi e occidentali avrebbe dovuto risolversi in pochi mesi, «ha avuto un effetto complessivamente devastante, poiché ha completato il processo di disgregazione delle entità statali dell’intero Medio Oriente, lungo una fascia che oggi corre dal Kurdistan fino al Mare Mediterraneo, dall’Iran al Libano – realizzando per la prima volta in un secolo l’unificazione su di un’unica linea di frattura di una molteplicità di conflitti via via accumulatisi: quello curdo-turco, quello sunnita-shiita, quello israelo-libanese-iraniano». Tutto questo, osserva Colonna, è avvenuto mentre gli Stati Uniti «andavano progressivamente focalizzando il proprio sistema di potenza sull’Oceano Pacifico, come nuovo baricentro degli interessi mondiali nordamericani», spinti su questa rotta «dal crescere della potenza cinese e dal pericolo del costituirsi di un asse indo-russo-cinese in grado di controllare lo Hearthland mondiale – costante preoccupazione di lungo periodo di ogni stratega americano».La sostanziale incapacità degli Usa di costruire una pace in Medio Oriente ha fatto sì che le amministrazioni statunitensi «accolgano oggi le indicazioni strategiche di quella classe dirigente mista americano-israeliana che disegna la politica mediorientale nordamericana». Una classe dirigente che dalla fine degli anni ‘80 «suggeriva non disinteressatamente di delegare allo Stato di Israele la tutela degli interessi dell’America in Medio Oriente», cosa che oggi avviene pienamente. Classe dirigente «bene impersonata da Jared Kushner, autorevole genero del presidente Trump, membro di influenti istituzioni del sionismo statunitense, che ha di fatto delegato a lui la gestione dei rapporti con Israele e con gli alleati arabi mediorientali». Al giovane Kushner, o meglio «a quell’ambiente culturale nordamericano che attribuisce un valore ideologico determinante allo Stato ebraico», secondo Colonna si ascrive oggi il riconoscimento che gli Stati Uniti hanno fatto di Gerusalemme come capitale di Israele, secondo le aspettative sioniste. «Un evento che, a cento anni dalla dichiarazione Balfour, assume un significato sintomatico del livello a cui questo storico movimento è oggi giunto nell’Occidente anglosassone e nel mondo».Colonna ipotizza che questa storica decisione giunga proprio quando si è ormai certi di aver predisposto il quadro politico e militare necessario e sufficiente a sostenerne fino in fondo tutti i possibili contraccolpi. «Sintomo non banale di questo deciso atteggiamento, che ha quasi il sapore di una sfida alla comunità internazionale, è stata l’inaugurazione lo scorso settembre della prima base Usa con personale americano ufficialmente stabilita nello Stato di Israele, all’interno della Mashabim Air Base israeliana, nel deserto del Negev: e dunque in tutto e per tutto vincolata alla catena di comando e al controllo dello Stato ebraico». Il coinvolgimento nel conflitto siriano della Russia di Putin, «dimostratasi assai più efficiente sul piano militare di quanto non siano apparsi gli Stati Uniti e la Nato», in questa luce conferma l’investimento su Israele come «garanzia della stabilizzazione del conflitto», anche da parte di Mosca: «Nessuno dei velivoli israeliani che, violando lo spazio aereo libanese, hanno ripetutamente colpito la Siria, compresa la capitale Damasco, è stato mai oggetto di alcuna azione né difensiva né controffensiva, nonostante la completa copertura di quest’area da parte della efficiente sorveglianza elettronica russa».Il recente attacco israeliano in Siria contro un’installazione militare a quanto pare dell’Iran, colpita il 2 dicembre, «appare indicativo di quanto la creazione di quella faglia conflittuale che parte dal Mediterraneo per giungere all’Iran possa dimostrasi pericolosa sul piano bellico», avverte Colonna. Al presidente francese Macron, il premier israeliano Netanyahu ha spiegato, senza mezzi termini, che «dopo la vittoria sullo Stato Islamico, la situazione è mutata perché forze filo-iraniane hanno assunto il controllo della situazione». D’ora in avanti, ha aggiunto, «Israele considera le attività dell’Iran in Siria come obiettivi militari per cui non esiteremo ad agire se la nostra sicurezza lo richiederà». In questo contesto «si deve anche inquadrare l’impressionante accelerazione della situazione in Arabia Saudita, che è il secondo partner degli Stati Uniti per importanza strategica nella regione: un partner al quale da sempre sono stati delegate molte delle operazioni più delicate, in cui il fattore islamico è stato utilizzato spregiudicatamente dall’Occidente a sostegno della propria politica di potenza – dall’utilizzo anti-terzaforzista negli anni della Guerra Fredda, dalla formazione dei Talebani in Afghanistan per dare un colpo decisivo all’Urss, al ruolo di piattaforma di lancio delle offensive occidentali contro l’Iraq, alla destabilizzazione della Siria, fors’anche all’esecuzione degli attacchi alle Twin Towers del 2001».Proprio in questi ultimi mesi, coincidenti con la preparazione dell’evento storico del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, l’Arabia Saudita (o meglio, una nuova leva di oligarchi sauditi, cresciuti nel clima di integrazione politica e finanziaria con i centri del capitalismo anglosassone) ha dato vita a una potente spinta modificatrice degli assetti sauditi: dall’intensificazione del conflitto nello Yemen, all’ostracismo contro il Qatar, vuoi per il suo aperturismo all’Iran ma soprattutto per il ruolo di competitor del rapporto privilegiato con l’Occidente, fino all’incredibile vicenda della “cattura” del premier libanese Hariri, rimasto alcuni giorni in ostaggio del governo saudita, fino a quando Macron non ha dato garanzie sulla volontà di estromettere l’Iran dal Libano e forse anche di più, l’impegno a contrastare l’ormai troppo potente Hezbollah in Libano. Una vicenda «accolta nella più totale indifferenza da parte europea, nonostante fosse ben chiaro il peso della posta in gioco per la nostra sicurezza – oltre che per quel poco che resta del diritto internazionale».Tutto sembra pronto, secondo Colonna, per «ridisegnare il Medio Oriente secondo le linee strategiche affermate negli ultimi cento anni dal movimento sionista, fattosi potenza internazionale con lo Stato di Israele». O queste mosse saranno accolte supinamente, «con il beneplacito della Russia di Putin, la rabbiosa accettazione dell’Iran e la definitiva disgregazione del Libano», oppure «avremo un nuovo conflitto, che potrebbe essere a bassa intensità, ma potrebbe anche suscitare imprevedibili effetti a catena». Per Colonna, l’Europa porta una gravissima responsabilità: non ha saputo distinguere la propria posizione da quella anglosassone, ha mantenuto la Nato come proprio strumento militare «ben sapendo che esso non ha mai operato a favore dell’unità del nostro continente», e in più ha «incoraggiato la penetrazione militare e tecnologica israeliana nei centri nevralgici della sicurezza europea». Un discorso a parte meriterebbe poi la situazione italiana, «nella cui storia gli ultimi decenni hanno dimostrato, insieme ad una progressiva rinuncia ai nostri interessi strategici essenziali, un acritico accoglimento di tutti i desiderata israeliani». Attenzione: «Le ragioni di questo completo allineameno italiano, e della sua rilevanza per la stessa politica interna del nostro paese, è una storia ancora tutta da scrivere».Un secolo di guerra, in Medio Oriente, grazie al sionismo: lo scorso 2 novembre ricorrevano i cento anni dalla Dichiarazione Balfour, evento che ha marcato indelebilmente la storia contemporanea della regione mediorientale. Con quell’atto politico-diplomatico,ricorda Gaetano Colonna, il governo inglese – sotto la pressione del movimento sionista, collegatosi ai vertici del potere britannico e statunitense nel corso della Prima Guerra Mondiale – aprì la strada alla nascita dello Stato ebraico, poi nato nel 1948. «Molti eventi epocali hanno segnato la drammatica storia di quest’area del mondo, che da allora non ha più conosciuto la pace», rileva Colonna su “Clarissa”: prima il crollo dell’Impero Ottomano e la spartizione fra le potenze occidentali dei territori arabi, poi il controllo della produzione e delle riserve di petrolio, «anch’esso divenuto fattore strategico durante la Grande Guerra dopo che la flotta inglese convertì i suoi propulsori navali a questo carburante». Dalla sua formazione, lo Stato di Israele ha condotto ripetute guerre che «gli hanno consentito di raggiungere un livello di potenza militare e di influenza politica planetaria», passando per «l’annientamento del nazionalismo arabo», di cui il regime siriano di Bashar Assad – oggetto di un violentissimo processo di destabilizzazione – è l’ultimo epigono.
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Macché neofascismo: comanda il denaro, l’Italia non esiste
Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.Appare ormai chiaramente che le costituzioni reali oggi sono foggiate e trasformate dalle tecnologie finanziarie, informatiche, elettroniche e biologiche (sempre più rapidamente evolutive) della dominazione top-down sulla società. Non sono fatte dalle ideologie o dalle morali diffuse né da processi democratici. L’Italia unitaria è stata progettata e realizzata durante il cosiddetto Risorgimento da forze e interessi esterni ad essa (finanza anglo-francese), progettata e costruita come una specie di protettorato al loro servizio e non per essere uno Stato indipendente. Tale essa è rimasta e rimarrà. Nel corso della sua storia, l’Italia unitaria ha cercato più volte di sollevarsi a una condizione di indipendenza e parità con le altre potenze e di tutelare i propri interessi rispetto ad esse. Tentò dapprima partecipando alla Grande Guerra, ma poi gli Usa imposero che rinunciasse a quanto le spettava in base ai trattati con l’Intesa. La seconda volta tentò con Mussolini, conquistando una sorta di impero e alleandosi con Hitler; finì come sappiamo: da quella sconfitta in poi, abbiamo più di cento basi militari Usa sul territorio nazionale.Si provarono a darle almeno una qualche autonomia politica e capacità di difendere i propri interessi dapprima Craxi (ricordate Sigonella e la sua politica medio-orientale?) e poi Berlusconi (ricordate i suoi accordi con la Libia e la sua resistenza alle imposizioni tedesche in materia di bilancio?): entrambi sono stati tolti di mezzo con mezzi giudiziari. Dimenticavo: prima ancora aveva tentato qualcosa di simile Enrico Mattei (ricordate la sua politica petrolifera in concorrenza con i petrolieri angloamericani?), e fu tolto di mezzo con l’esplosivo. I migliori interpreti del ruolo dell’italia (con la “i” minuscola) nell’ordinamento mondiale sono stati, per contro, gli statisti europeisti come Ciampi e da ultimo soprattutto Giorgio Napolitano con l’operazione Monti, che oggi viene messa alla luce persino da gente quale Romano Prodi, come colpo di palazzo richiesto dall’estero.(Marco Della Luna, “Simboli fascisti e destini italiani”, dal blog di Della Luna del 7 dicembre 2017).Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento. L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia. Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour. L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse. Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia. L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord. Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava. E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato. Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico. Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana. Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista? Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo? E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861? Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere. Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche». Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano. Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo. Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero. Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi. Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti. Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni. Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume. Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini. Inglesi e americani, massoni e cardinali? Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
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Satanismo e potere, da Charles Manson a Michael Jackson
Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.Dall’infernale notte dell’estate ‘69, scrive Mazzucco su “Luogo Comune”, i media si sono impegnati in tutti i modi per trovare una valida motivazione a quella strage apparentemente insensata. Il meglio che sono riusciti a partorire? «E’ l’ipotesi che Manson volesse vendicarsi contro il proprietario della villa – il produttore discografico Terry Melcher – perché non aveva voluto pubblicare le sue canzoni (Manson era anche cantautore)». Potrebbe non essere affatto una falsa pista, sostiene Carpeoro ai microfoni di “Border Nights”, perché Manson voleva davvero diventare una rockstar e si era messo in contatto con Spector, che è attualmente in carcere per omicidio. Non solo: in tempi recenti, dalla prigione, Manson ha chiesto formalmente di incontrare Spector, che si è rifiutato di vederlo. In tanti anni – dice Carpeoro – pur professandosi innocente, Manson non ha mai osato raccontare quello che probabilmente sapeva, di quella notte maledetta: di cosa aveva paura? E perché tanta insistenza nel voler a tutti i costi incontrare Phil Spector, in carcere? Forse, ipotizza Carpeoro, Charles Manson era convinto che Spector custodisse un segreto indicibile, su quella notte che gli era costata l’ergastolo. Cos’era avvenuto, davvero, in quella villa di Bel Air a Los Angeles, al numero 10050 di Cielo Drive?Per l’avvocato Paolo Franceschetti, il caso Manson è la fotocopia di quello italiano delle “Bestie di Satana”. Stesso copione: assassini improbabili e indagini superficiali, nessun movente, niente prove (solo alcune confessioni) e niente armi del delitto. «La strage americana, eseguita con la micidiale competenza di un commando di killer, sarebbe stata commessa da un pugno di giovanissime, scalze e sbandate, strafatte di droga: l’accusa è fondata su indizi di cartapesta». Autore di analisi sui maggiori gialli irrisoliti della cronaca italiana come gli “omicidi rituali” (uno su tutti, il caso del Mostro di Firenze), Franceschetti inquadra gli indizi di una possibile pista esoterica: «Nessuno degli inquirenti nota alcuni particolari curiosi che, a tacer d’altro, avrebbero perlomeno dovuto insospettire». Roman Polanski, per esempio: «Al momento del delitto non era in casa, ma in Europa a promuovere il suo film appena terminato: “Rosemary’s Baby”. Il film parla di una donna che mette al mondo un bambino per consacrarlo a Satana (nel finale infatti la donna partorisce), e nel cast figura in veste di consulente nientemeno che il fondatore e leader della Chiesa di Satana, Anton La Vey, l’autore del libro “La Bibbia di Satana”. Il film era quindi qualcosa di più di un semplice film di fantasia». Nessuno, continua Franceschetti, notò che una delle vittime attribuite alla Manson Family si chiamava proprio Rosemary. Si tratta di Rosemary LaBianca, uccisa con 41 coltellate l’indomani, 11 agosto, a due passi dal luogo del primo eccidio.«Nonostante questa strana, troppo strana coincidenza, nessuno ipotizza neanche lontanamente un collegamento tra la promozione del film e le due stragi». E’ Carpeoro ad aggiungere un dettaglio fondamentale: «Fu proprio Phil Spector, il produttore dei Beatles, a organizzare il viaggio di Polanski in Europa per promuovere il film». Evidentemente, i due erano in strettissimo contatto. Quanto alla strage di Bel Air, Franceschetti ne esamina la simbologia: «Il delitto avviene infatti a Cielo Drive, ad opera di Manson (man-son, figlio dell’uomo, Cristo). In Cielo, quindi, Cristo uccide la Rosa» (per Franceschetti, l’allusione al fiore potrebbe essere una “firma”: la Rosa Rossa sarebbe un’associazione segreta, dedita agli omicidi rituali). «Manson, il Figlio dell’Uomo, vive nella Death Valley, la valle della morte. Vive cioè nel deserto, ed è senza fissa dimora proprio come – guarda tu che coincidenza – il Cristo dei Vangeli: Matteo 8, 20: “Le volpi hanno una tana, e gli uccelli hanno un nido, ma il figlio dell’uomo non ha un posto dove riposare”. Manco a dirlo, il primo poliziotto ad accorrere sul luogo del delitto si chiama Jerry De Rosa». Il corpo di Sharon Tate viene ritrovato legato a quello del suo giovane amante: «I sospetti sarebbero dovuti ricadere su Polanski, che alcuni considerano tutt’oggi uno dei mandanti della strage, ma nessun investigatore batte questa pista».Da ultimo, annota Franceschetti, c’è da segnalare che anche il nome della vittima più importante sembra non essere affatto casuale. Sharon, infatti, richiama il versetto biblico del Cantico dei Cantici: “Io sono la Rosa di Sharon, il Giglio delle Valli”, da cui è tratta la simbologia rosacrociana della rosa e del giglio. «In altre parole, una rappresentazione: in Cielo (Cielo Drive), il Figlio dell’Uomo (Manson), proveniente dalla Death Valley (Valle della Morte), uccide la Rosa». Se Franceschetti batte in solitaria la pista esoterica, quella del “sacrificio rituale” inscenato da poteri occulti, i giornali si affacciarono anche sull’ipotesi della vendetta, maturata nell’ambiente musicale: a ordinare la strage era stato Charles Manson, scrive la “Stampa”, solo perché le vittime «abitavano nella casa di un produttore discografico che aveva rifiutato di incidere le sue sconclusionate canzoni». Non è esatto, sostiene Carpeoro: è invece possibile che “qualcuno” abbia chiesto a Manson di mandare i suoi “ragazzi”, quella notte, in quella villa, dove la strage era già stata commessa da altri. Obiettivo: incastrare quei giovani, con le impronte digitali, per depistare le indagini? E magari ottenere in cambio, da Spector, l’agognata produzione del disco che Manson sognava?Per suffragare il suo ragionamento, Carpeoro rivela che Spector è stato un satanista: il testo della sua hit di maggior successo, “You’ve lost that lovin’ feeling” (cantata dai Righteous Brothers nel 1965) se ascoltato al contrario riproduce, pari pari, un antico rituale satanico. Di più: «La trrama del film “Rosemary’s Baby” è la storia, vera, della vita di Spector, che Polanski non avrebbe mai dovuto raccontare». Secondo Carpeoro era proprio Spector il bambino “consacrato al diavolo” da genitori satanisti: Sharon Tate sarebbe stata trucidata proprio per punire Polanski. Uccisa da chi? Non dai “fricchettoni” della Manson Family, ovviamente. «Il satanismo è un pericolo concreto», sostiene Carpeoro: «Arruola persone disposte a credere in qualcosa che non in esiste, ma che – in nome di quella cosa – possono anche uccidere». Attenzione: «E’ una delle manipolazioni di cui il potere si è spesso servito». Di cosa aveva paura, all’epoca, il potere? I Beatles, ad esempio – e Lennon in particolare – incarnavano il sentimento giovanile, anche politico, della rivolta contro il sistema. «Fu Spector a introdurre i Beatles all’Lsd», dichiara Carpeoro, «e la sua presenza finì col mettere i Beatles uno contro l’altro».Spector si fece avanti reclamando i diritti di molte canzonui dei Bealtes, che però gli furono negati: il produttiore litigò aspramente con John Lennon. Sciolti i Beatles, Lennon venne assassinato l’8 dicembre 1980 da un giovane fan, Mark David Chapman: una volta arresto, disse che aveva “obbedito alla voce del diavolo”. I diritti dei Beatles, continua Carpeoro, fuorono poi acquisiti da Michael Jackson, anche lui subito “assediato” da Spector perché gli cedesse i diritti dei “Fab Four”. Jackson fu poi ucciso da un’iniezione risultata letale, praticatagli dal dottor Conrad Murray. «Chi aveva presentato quel medico a Michael Jackson? Sempre lui, Phil Spector», aggiunge Carpeoro. E l’ombra dei Beatles – o meglio, della manipolazione che li riguarda – si allunga direttamente su Charles Manson. Ricorda Franceschetti, nella sua ricostruzione: «Secondo il procuratore Vincent Bugliosi, Manson voleva scatenare una rivolta dei neri contro i bianchi, e quella strage doveva dare il buon esempio, innescando la miccia di una rivolta globale. L’idea gli era stata suggerita da una canzone dei Beatles, “Helter Skelter”, e per questo motivo tale movente verrà anche, dai media ufficiali, individuato sinteticamente come “l’Helter Skelter”».Satanismo e rock, potere e politica? Una teoria «complicata, ma decisamente plausibile e sensata, vista specialmente l’epoca storica in cui si colloca», scrive Mazzucco. L’ipotesi è che Manson «fosse un prodotto di laboratorio della Cia, un “controllato mentale” del programma Mk-Ultra, che sarebbe stato utilizzato per gettare discredito sull’intera comunità hippie dell’epoca, e quindi per estensione sulla pericolosissima e rivoluzionaria filosofia dei “figli dei fiori”». Era l’estate del ‘69, l’anno di Woodstock, e i cosiddetti “figli dei fiori” «si stavano facendo conoscere a livello internazionale con una rivoluzione dei valori talmente radicale che certamente non poteva essere tollerata molto più a lungo dai membri dell’establishment politico di quell’epoca». Solo pochi mesi prima, infatti, era diventato presidente il conservatore Nixon. «Sarà un caso, ma i delitti Manson segnano proprio, nella storia, la fine della percezione positiva e pacifista del movimento hippie, e l’inizio di una connotazione negativa, caratterizzata dai valori antisociali professati dalla setta di Manson, che non avrebbe più abbandonato il movimento fino alla fine dei suoi giorni».In proposito, il procuratore Bugliosi (che fece condannare Manson e i suoi seguaci) ha scritto: «Il mantra di quell’epoca era pace, amore e condivisione. Prima del caso Manson la gente non aveva mai identificato gli hippie con la violenza. Poi arrivarono i membri della famiglia Manson, che avevano un’aria da hippie, ma erano criminali omicidi. E’ questo provocò uno shock in America. Come era possibile questo?». E ancora: «I delitti di Manson suonarono la campana a morto per gli hippie e per tutto quello che rappresentavano. Fu la fine di un’era. Gli anni ‘60, il decennio dell’amore, si consclusero quella notte del 9 agosto 1969». Che dite, chiosa Mazzucco: sarà stata solo una coincidenza? I presunti omicidi dell’Helter Skelter «da quella villa uscirono scalzi, per poi allontanarsi in autostop», ricorda Franceschetti. Satanismo e potere, avverte Carpeoro, possono coincidere: il primo viene usato dal secondo come copertura, come arma di distruzione. Finiti i Bealtes, eroi della rivoluzione giovanile di quegli anni. Assassinato John Lennon. Ucciso Michael Jackson, travolto da scandali (tutti inventati) dopo aver pubblicato il brano ribellista “They don’t care about us” (non gliene importa niente, di noi). E poi, ci sono quei due detenuti che non parlano: Manson che tace sulla notte della strage, Spector che si rifiuta di incontrarlo. Se qualcuno aveva paura che Manson parlasse, può rilassarsi: il caso è chiuso, Manson non parlerà più. Nemmeno con Spector.Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.