Archivio del Tag ‘Libia’
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Questi complottisti a orologeria, che poi votano la Casellati
«Complottisti a orologeria: pensano che la passi sempre liscia, chi opera nell’ombra a spese degli altri. Ma l’arresto di Sarkozy li smentisce nel modo più clamoroso». Un pensiero in controluce, quello che Gianfranco Carpeoro offre all’idomani della caduta dell’ex capo dell’Eliseo: «Un evento che, lo ammetto, mi ha fatto veramente godere», confida il saggista e simbologo, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Sarkozy è un politico pessimo, il peggior esempio di voltagabbana: ha chiesto soldi a Gheddafi e poi lo ha fatto assassinare, ha bombardato la Libia senza l’ok dell’Onu e inoltre ha fatto parte della “Hathor Pentalpha”, superloggia implicata nel terrorismo, a cominciare dal maxi-attentato dell’11 Settembre». Eppure, lo scudo della “Hathor” (fondata dai Bush) non è valso a proteggerlo. «Prendano nota, certi cospirazionisti nostrani che ragionano da orologiai: nel mondo, persino in quello dorato di Sarkozy, c’è anche l’imprevisto, la rovina». Il che non significa che, spesso, il complottismo non abbia ragione: «Un uomo come Eugenio Cefis, il capo dell’Eni dopo Mattei, è morto serenamente nel suo letto, a Montecarlo. In tanti la fanno franca, a quei livelli, dopo aver gestito il massimo potere. Poi però ci sono anche quelli come Licio Gelli, che è pur sempre stato arrestato (in Svizzera) e a cui è stata confiscata la casa, lingotti d’oro compresi».In altre parole: esistono, eccome, le grandi piramidi di potere – ma non garantiscono sempre l’impunità. Vale per Sarkozy, ma anche per Gelli, «che pure era legatissimo al generale Giuseppe Santovito, capo supremo dei servizi segreti italiani», all’epoca della strategia della tensione. Spesso il complotto esiste, ma se i complottisti prendono lucciole per lanterne – sostiene Carpeoro – i veri autori della cospirazione restano al sicuro, lontano dai riflettori. «Per esempio: nessuno ha mai meditato sul nome della P2, dove l’iniziale sta per “propaganda”. Discende da un intento iniziale, originario, della massoneria: dare lustro all’associazione, raggruppando in una loggia i “fratelli” particolarmente benemeriti, da esibire: grandi scienziati, intellettuali, banchieri, sindacalisti (come Luciano Lama, che era massone)». Ma le cose poi non sono andate secondo i piani: e nei guai è finita la P2, una loggia coperta. «Che senso ha chiamare “propaganda” una cellula segreta? E perché contrassegnarla col numero 2?». Carpeoro s’è dato la seguente risposta: «C’era già allora un’entità supeirore – la Loggia P1 – e il suo capo era proprio Cefis». Esiste ancora, la P1? «Certo, e gestisce i piani alti del potere. Lo fa in modo indisturbato: tanti complottisti stanno ancora a parlare della P2, mentre la magistratura ormai dà la caccia alla P6. Ecco perché la P1 resta dov’è, senza che nessuno la disturbi».Un errore ottico frequente, sempre lo stesso: puntare il bersaglio apparente, mancando quello giusto. Si ripercuote ovunque, anche in politica, dove al posto di Paolo Romani viene eletta presidente del Senato – coi voti dei grillini, per motivi tattici – una personalità come quella di Maria Elisabetta Alberti Casellati, anche lei di Forza Italia, vicinissima al Cavaliere. «I 5 Stelle hanno bocciato la candidatura di Romani per una vecchia storia di poco conto: permise alla figlia di usare il suo telefono, a spese dello Stato. Ma un’altra figlia – quella della Casellati – fu piazzata dalla madre in un ministero», ricorda Carpeoro. All’epoca, aggiunge, i grillini protestarono: assunzione fatta senza un concorso e senza che la candidata avesse i titoli necessari. «Ora invece i 5 Stelle tacciono: perché?». Attenzione: «Prima ancora del giudizio del tribunale, Romani provvide a pagare il conto delle chiamate della figlia», ammettendo la colpa e risarcendo lo Stato. «Dunque, cari grillini, cos’è più grave: qualche telefonata a Copenaghen o lo stipendio che ogni mese paghiamo tuttora alla figlia della neopresidente del Senato?».«Complottisti a orologeria: pensano che la passi sempre liscia, chi opera nell’ombra a spese degli altri. Ma l’arresto di Sarkozy li smentisce nel modo più clamoroso». Un pensiero in controluce, quello che Gianfranco Carpeoro offre all’indomani della caduta dell’ex capo dell’Eliseo: «Un evento che, lo ammetto, mi ha fatto veramente godere», confida il saggista e simbologo, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Sarkozy è un politico pessimo, il peggior esempio di voltagabbana: ha chiesto soldi a Gheddafi e poi lo ha fatto assassinare, ha bombardato la Libia senza l’ok dell’Onu e inoltre ha fatto parte della “Hathor Pentalpha”, superloggia implicata nel terrorismo, a cominciare dal maxi-attentato dell’11 Settembre». Eppure, lo scudo della “Hathor” (fondata dai Bush) non è valso a proteggerlo. «Prendano nota, certi cospirazionisti nostrani che ragionano da orologiai: nel mondo, persino in quello dorato di Sarkozy, c’è anche l’imprevisto, la rovina». Il che non significa che, spesso, il complottismo non abbia ragione: «Un uomo come Eugenio Cefis, il capo dell’Eni dopo Mattei, è morto serenamente nel suo letto, a Montecarlo. In tanti la fanno franca, a quei livelli, dopo aver gestito il massimo potere. Poi però ci sono anche quelli come Licio Gelli, che è pur sempre stato arrestato (in Svizzera) e a cui è stata confiscata la casa, lingotti d’oro compresi».
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Terzo parricidio all’italiana, con Moro finì l’era di Bisanzio
Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.Ma davvero pensate che il disegno di Moro fosse finalizzato a portare all’opposizione la Dc e al governo il Pci nel nome di una formula politica, l’alternanza? Suvvia, è una fiaba masochista, la stessa che fece erigere a Maglie il monumento a Moro con in mano “l’Unità”. Moro pensava che l’unico modo per garantire ancora altri anni di Dc al potere fosse quello di proseguire l’integrazione avviata nei primi anni ’60 coi socialisti, estendendo il condominio ai comunisti, che al potere avrebbero perso il crisma della diversità. In lui la ragion di partito prevaleva sulla ragion di Stato, conservare al potere la Dc era priorità assoluta, come mostrò nel processo Lockeed. Poi la prospettiva dichiarata era quella, ma intanto garantiva alla Dc di continuare a governare, inglobando un’opposizione cresciuta oltre il 30%. Per far questo, qualcun altro (De Mita) pensò poi di varare la formula dell’arco costituzionale in modo da usare l’antifascismo come collante e alibi. La conventio ad excludendum dei missini era un rito d’esclusione che serviva in realtà a un’inclusione, del Pci nell’area del governo.In terzo luogo, chi avversava quel progetto? A livello internazionale gli americani e i sovietici, per ragioni complementari, riconducibili a Yalta. A livello nazionale, i comunisti duri e puri e l’ultrasinistra vedevano in Moro il Corruttore del comunismo in un governo catto-borghese, filo-atlantico, filo-capitalistico. E lo avversavano i socialisti di Craxi che restavano soffocati dall’abbraccio tra Dc e Pci; e le destre, missini in testa. Via libera invece dal capitalismo nostrano e dalle sue mosche cocchiere repubblicane (l’alleanza dei produttori). Se si chiede “cui profuit”, a chi giovò, l’assassinio di Moro, si deve dire: a tutti loro. Ma Craxi cercò di salvarlo. E la destra avrebbe capitalizzato il dissenso di chi non ci stava col compromesso storico, passando da piccolo partito marginale a grande forza di opposizione. Il consociativismo era un’occasione di crescita per la destra nazionale.A destra Moro non piaceva non solo per l’apertura a sinistra, ma per la sua politica estera, soprattutto su due questioni: la sua reazione debole alla Libia di Gheddafi che espropriò e cacciò gli italiani e il trattato sulla zona B a Trieste che segnava ancora una certa sudditanza a Tito, un tradimento e una cessione di sovranità. In quarto e ultimo luogo, cosa ha lasciato Moro in eredità politica? Poco o nulla del suo stile e della sua teoria che divenne prassi con l’altra sfinge Dc, Andreotti, salvo sterzare verso altre strategie (il Caf) liquidando il compromesso storico. Sul piano civile, col delitto Moro finì l’onda rivoluzionaria e panpolitica del ’68, s’impose il Riflusso, il Privato, l’Oblio, l’edonismo, la tv… Dopo Moro tramontò la politica come primato e militanza, tramontò il Partito, si appiattirono le ideologie, si perse l’afflato popolare. Poi ci sono le leggende morotee, gli occultismi e gli spiritismi intorno alla sua prigionia e alle sue (non) belle lettere; la storia delle tangenti e il ruolo del suo segretario Freato; le dicerie – come quella che Moro avrebbe chiesto ad Almirante di candidare nel Msi Miceli, già capo del Sid, accusato del tentato golpe – e perfino i gossip (come la presunta love story, lui sobrio e compassato, con una cantante pugliese).Lasciamo da parte pure le congetture sulla sua morte, le romanzate, pirotecniche e fumose dietrologie sul suo assassinio, che reca sicura la firma comunista delle Brigate Rosse, anche se sono verosimili le reti di complicità istituzionali e internazionali e le ombre che si allungarono sulle trattative. Infine un’impressione personale. Quand’ero ragazzo vedevo Moro, mio conterraneo, come un vetusto leader al potere dall’antichità; lento, affaticato, emaciato, dalla voce flebile, la parola paludata e la frezza bianca che ormai aveva la maggioranza assoluta della sua chioma. E invece quando morì Moro aveva solo 61 anni. Gli anni del potere, un tempo, si contavano in ere geologiche. Si dirà che un tempo era così, si diventava vecchi molto prima. Ma è pure vero che il potere conservava una sua solennità che intrecciava gerarchia e gerontocrazia, anche nei leader meno carismatici come lui. Di Moro non restarono grandi opere, grandi tracce. Solo il fumo di un lessico e lo stile felpato e cattolico di un potere e del suo logorio. Finì con Moro l’era di Bisanzio.(Marcello Veneziani, “La verità politica sul caso Moro”, da “Il Tempo” del 15 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.
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Sarkozy e la Hathor Pentalpha, superloggia del terrorismo
La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.Lo dicono, nell’appendice del bestseller “Massoni” (edito da Chiarelettere a fine 2014), quattro pesi massimi della supermassoneria internazionale, protetti dall’anonimato ma «pronti a manifestarsi, nel caso qualcuno ne contestasse le affermazioni». Non ce n’è stato bisogno: Monti, Napolitano e gli altri si sono ben guardati dal chiedere all’autore del saggio, Gioele Magaldi, di rendere pubblica l’identità di quei quattro “vecchi saggi” del massimo potere in vena di rivelazioni. Accanto a un mediorientale e a un asiatico, a parlare sono uno statunitense (che ricorda da vicino lo stratega Zbigniew Brzezinski, da poco scomparso) e un francese, il cui identikit di eminenza grigia potrebbe benissimo corrispondere a quello di Jacques Attali, già plenipotenziario di Mitterrand e poi “padrino” e king-maker di Emmanuel Macron. La tesi del libro, assolutamente dirompente, è stata oscurata dai media mainstream: da decenni, il mondo sarebbe nelle mani di 36 Ur-Lodges, potentissime superlogge massoniche sovranazionali. Dopo l’iniziale dominio delle organizzazioni di ispirazione progressista, dall’era Roosevelt fino ai Kennedy, il potere sarebbe passato all’ala neo-conservatrice (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) dopo il duplice omicidio di Bob Kennedy e del “fratello” Martin Luther King.A seguire: una guerra segreta senza risparmio di colpi – da un lato il Cile del massone Pinochet e la Grecia dei colonnelli, ma anche i ripetuti tentativi di golpe in Italia con la complicità della P2 di Gelli, e dall’altro la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo scattata non a caso il 25 aprile (del ‘74). Poi, lo sciagurato patto “United Freemanson for Globalization” per spartirsi la torta mondiale sdoganando il neoliberismo. Con in più una scheggia impazzita: la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, nella quale – secondo Magaldi – figura anche il nome di Sarkozy, accanto a quelli del turco Erdogan, protagonista degli odierni orrori in Medio Oriente, e del britannico Tony Blair, l’indimenticato inventore delle inesistenti “armi di distruzone di massa” di Saddam Hussein, ovvero “la madre di tutte le fake news”. Saddam e la guerra in Iraq, cioè Bush junior, dopo la prima Guerra del Golfo scatenata da Bush senior. Il Rubicone è stato varcato con l’opaco, devastante maxi-attentato dell’11 Settembre (e la conseguente invasione dell’Afghanistan, seguita dalle guerre in Iraq e in Libia, dalla “primavera araba”, dall’atroce conflitto in Siria).Terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera – da Al-Qaeda all’Isis – secondo un copione basato sulla più accurata disinformazione, fotografato alla perfezione dall’immagine di Colin Powell che, alle Nazioni Unite, agita una prova falsa come la celebre “fialetta di antrace” per raccontare che il regime di Baghdad sarebbe pronto a sterminare l’umanità. Non fu solo una drammatica sterzata politica imposta dai “neocon” Usa, sostiene Magaldi: la strategia della tensione internazionale, che produce guerre in Medio Oriente e leggi speciali negli Usa e in Europa per rispondere agli attentati “islamici”, corrisponde alla sanguinosa strategia della “Hathor Pentalpha”, la «loggia del sangue e della vendetta» creata da Bush (padre) dopo la bruciante sconfitta alle primarie repubblicane inflittagli nel 1980 da Ronald Reagan. In questo modo, Magaldi spiega anche i due attentati simmetrici che seguirono, nel 1981: qualcuno sparò a Reagan il 30 marzo, e – per rappresaglia – i sostenitori occulti di Reagan armarono la mano di Ali Agca, che il 13 maggio sparò a Papa Wojtyla, eletto al soglio pontificio con il determinante appoggio di Brzezinski, allora vicino a Bush. Due minacciosi avvertimenti, con firme opposte ma identico stile: né a Washington né a Roma si sparò per uccidere.Fantapolitica? Ne ha tutta l’aria: a patto di rassegnarsi all’idea che sia proprio la geopolitica a esser diventata “fanta”, rendendo possibile l’impensabile. «Dispongo di 6.000 pagine di documenti che comprovano quanto affermato nel mio libro», ribadisce Magaldi, a scanso di equivoci. Il problema? Nessuno, finora, gliene ha chiesto conto: meglio la congiura del silenzio, di fronte a pagine così sconcertanti e imbarazzanti. Le grandi scelte strategiche del pianeta – sottolinea l’autore – sono state messe a punto negli ultimi 30-40 anni da superlogge storicamente neo-aristocratiche come la “Three Eyes” e la “Compass Star-Rose”, insieme alla “Edmund Burke”, alla “Leviathan”, alla “White Eagle”. Sono loro a dominare ministeri, banche, università, istituzioni internazionali finanziarie “paramassoniche” come il Fmi e la Bce. Obiettivo: sdradicare Keynes dalla politica economica dell’Occidente: via il welfare e i diritti del lavoro, guerra alla sinistra sindacale, demonizzazione del debito pubblico, privatizzazione universale, fine dello Stato sociale come garante del benessere diffuso. Svuotare la democrazia, per restituire il potere all’oligarchia – finanza, industria, multinazionali – secondo un modello neo-feudale: solo un’élite “illuminata” ha il diritto di governare il popolo. E la tenebrosa “Hathor Pentalpha”?«Semplicemente, la “Hathor” ha ritenuto che tutto questo non bastasse: il nuovo ordine antidemocratico andava imposto con la guerra e il terrorismo, a partire proprio dall’11 Settembre». Specchietto le allodole, il saudita Osama Bin Laden reclutato dalla Cia in Afghanistan negli anni ‘70, in funzione anti-sovietica. «Bin Laden fu iniziato alla “Three Eyes”: me lo confidò proprio l’uomo che lo affilò, Brzezinski». Lo stesso Brzezinski, aggiunge Magaldi, rimase deluso dalla scelta di Bin Laden di passare poi alla “Hathor Pentalpha”, la superloggia dei Bush. Simboli eloquenti: Hathor è uno dei nomi della dea egizia Iside, cara ai massoni, e il suo nome in inglese è, appunto, Isis. «Anche l’uomo che si fa chiamare Abu Bakr Al-Baghdadi, stranamente rilasciato nel 2009 dal campo di prigionia iracheno nel quale era detenuto, è stato affiliato alla “Hathor Pentalpha”». Al-Baghdadi, il presunto capo del sedicente Isis: organizzazione terroristica che, quando ha perso terreno in Siria sotto il colpi dell’offensiva militare russa, ha cominciato a colpire l’Europa. Charlie Hebdo e Bataclan, Bruxelles, la strage di Nizza. «Tutti attentati spaventosamente stragistici, “firmati” con una simbologia nacosta e nient’affatto islamica, ma saldamente ancorata alle date-simbolo del martirio dei Templari nel 1300».Ne parla nel saggio “Dalla massoneria al terrrorismo” (Revoluzione) l’esperto simbologo Gianfranco Carpeoro, massone come Magaldi, altrettanto critico rispetto al potente mileu “latomistico” globalizzato, pronto anche a fare l’uso più cinico e spregiudicato di vasti settori dei servizi segreti, ridotti a strumenti di una “sovragestione” pericolosa, che sottomette gli Stati (e i governi eletti) ai disegni di una ristretta oligarchia. «Tutto quel sangue, in Europa, è nato da una rottura all’interno dell’ala reazionaria dell’élite supermassonica», ha ripetuto Carpeoro, in trasmissioni web-streaming come quelle di “Border Nights”. Chi ha premuto sul tasto del neo-terrorismo interno – è la sua tesi – l’ha fatto per intimidire quegli elementi che, in seno all’oligarchia, si erano mostrati titubanti di fronte alla “linea dura”, quella delle stragi nelle piazze europee. «E’ in corso un’escalation, prepariamoci al peggio: in Europa potrebbe verificarsi un maxi-attentato come quello dell’11 Settembre». Previsione fortunatamente inesatta: «E’ vero», ammette Carpeoro, «le stragi sono cessate». Ma questo – spiega – dipende dal fatto che, “lassù”, si sono rimessi d’accordo su come agire, a cominciare proprio dalla Francia.Ieri, all’Eliseo c’era Hollande, un politico da intimidire (come socialista ma anche come supermassone “di sinistra”, esponente della Ur-Lodge progressista “Fraternité Verte”), a capo di un establihment incalzato dal “populismo” di Marine Le Pen. Poi invece le elezioni hanno incoronato Macron, «che a differenza di Hollande – sostiene Carpeoro – è espressione diretta di quei circoli, responsabili della “sovragestione”», fino a ieri anche terroristica, all’occorrenza. E’ lo stesso Macron che, a giorni alterni, fa l’amicone dell’Italia, promettendo a Gentiloni – in cambio di cospicue cessioni di italianità – di difendere il Belpaese dai “cattivi” tedeschi. E’ cronaca: soldati italiani spediti in Niger a far la guardia all’uranio per conto dei francesi, voci sul ridisegno delle acque territoriali a favore dei pescatori francesi, vistosa ascesa del management transalpino nel cuore del “made in Italy”. Con Gentiloni e Macron, sostiene Federico Dezzani, l’Italia si auto-declassa al rango di neo-colonia francese, nell’illusione di trovare riparo dal rigore imposto dall’ordoliberismo teutonico. Sta davvero succedendo qualcosa di strano, “lassù”, se un big come Sarkozy finisce sotto interrogatorio in un commissariato di Nanterre? Significa che la superloggia (già terrorista) “Hathor Pentalpha” è in discesa libera, nei piani alti della “sovragestione”? Inutile sperare in spiegazioni esaurienti: il mainstream si limiterà alle fonti giudiziarie sul caso Libiagate, mentre il pubblico assiste alla strana caduta di un ex superpotente come Sarkozy, in una Francia senza più attentati né stragi, dove l’oligarca Jacques Attali ha battezzato il nuovo regno di Macron, l’ex ragazzo prodigio della Banca Rothschild.La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.
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Craig Roberts: russi svegliatevi, l’Occidente vi vuole morti
Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.All’Onu l’ambasciatore russo, in risposta alle accuse evidentemente gratuite del primo ministro britannico, secondo cui il governo russo ha usato un agente di gas-nervino dell’esercito per tentare di uccidere due persone sedute su una panchina inglese, è ricorso a tutti i possibili mezzi legali, inclusa l’offerta della Russia di collaborare nell’esame delle prove, per dimostrare che l’accusa del Regno Unito è stata mossa in violazione della legge e non è supportata da nessuna prova. Perché i russi pensano ancora che il governo inglese si preoccupi delle leggi o delle prove? L’Occidente ha fatto il lavaggio del cervello ai russi? Il governo inglese di Tony Blair collaborò con George W. Bush per far girare la menzogna secondo cui Saddam Hussein in Iraq aveva delle “armi di distruzione di massa”, e questa bugia è servita per invadere e distruggere l’Iraq e lasciare il paese, dopo 15 anni, in un caos assoluto. Il governo inglese ha confermato anche le menzogne su Gheddafi in Libia e ha contribuito al rovesciamento del governo libico. Il governo inglese ha confermato la menzogna secondo cui l’Iran aveva un programma di armi nucleari anche se non c’era nessuna prova, ma agli inglesi non interessavano le prove. Si stava seguendo un’agenda di lavori che doveva andare avanti indipendente dalle prove.Malgrado il Parlamento inglese abbia votato contro la partecipazione alla prevista invasione della Siria voluta da Obama, l’attuale governo sostiene ancora la menzogna secondo cui Assad sta usando armi chimiche “contro il suo stesso popolo”. Dopo tutto ciò si potrebbe anche pensare che i russi – governo, media e popolazione – dovrebbero aver compreso che l’Occidente è capace di raccontare le bugie e che lo scopo delle bugie ora è di demonizzare la Russia e prepararsi ad un attacco militare contro la Russia. Ma per qualche ragione i russi non riescono a comprendere il messaggio. I russi pensano che si tratti di una specie di errore che si potrà chiarire guardando ai fatti reali, con un regolare processo o con la diplomazia: «Per favore, ascoltateci, possiamo chiarire qualsiasi malinteso!». Come se questo appello servisse all’Occidente. Washington vuole “i malintesi”. E’ per questo che Washington li crea. L’incapacità dei russi di comprendere l’Occidente, quell’Occidente verso il quale la Russia cerca stupidamente di correre, è il motivo per cui la Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. E se invece di accettare il processo e le leggi su cui poggiano le pubbliche accuse fatte alla Russia dal primo ministro inglese senza presentare nessuna prova, l’ambasciatore russo all’Onu avesse semplicemente detto: «Se domani il Regno Unito esisterà ancora, dovrà solo ringraziare la tolleranza del governo russo»?Fidandosi della regola per cui a nessun paese occidentale gliene frega niente di niente, l’ambasciatore russo all’Onu ha permesso al pupazzo francese di Washington e agli altri Stati-fantoccio di Washington di appoggiare le accuse degli inglesi contro la Russia nonostante l’assenza di prove. Forse i russi non ci credevano, perché nessun governo europeo aveva ancora chiesto qualche prova sulla responsabilità della Russia; perché mancava, insomma, un’accusa formale. Nel mondo occidentale “eccezionale e indispensabile” governato da Washington, basta un’accusa, da sola, come prova che dimostra le bugie dette dai russi. Quando il leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn ha chiesto al Pm se avesse effettivamente delle prove che la Russia aveva tentato di uccidere l’ex agente doppiogiochista britannico, Corbyn è stato subito azzittito non solo dai corrotti conservatori ma anche da quelli del partito laburista di cui è il capo. Di quante altre prove avrà ancora bisogno la Russia per capire che i fatti, per l’Occidente, non hanno nessuna importanza?Si sveglierà questa Russia? O il suo stolto desiderio di entrare a far parte dell’Occidente farà sì che i russi resteranno impreparati allo scoppio nucleare di Washington, che per arrivare? E se il governo russo avesse detto a Washington: «Se voi o qualcuno dei vostri terroristi mercenari doveste attaccare le forze siriane, noi elimineremo la vostra presenza e anche quella di Israele dal Medio Oriente»? Cosa che la Russia può fare con un semplice schiocco di dita. Cosa farebbero gli inglesi e cosa farebbe Washington, oltre a farsela sotto? Sicuramente, coglierebbero il messaggio e deciderebbero che la pace è un’idea migliore. Il governo russo, semplicemente, non vuol capire che Washington vede tutti gli appelli dei russi a diplomazia, a rispetto della legge, a fatti e a prove, come segni di estrema debolezza e di mancanza di fiducia. Washington e tutti i suoi paesi-fantoccio non hanno bisogno di fatti. Seguono la loro agenda. I russi, se ancora vogliono guardare ai fatti, fanno solo vedere di essere deboli. E questa manifestazione della debolezza russa incoraggia l’aggressività di Washington. Ma forse il desiderio della Russia di entrare a far parte dell’Occidente è più forte del desiderio di sopravvivere come nazione.(Paul Craig Roberts, “Si sveglierà, la Russia?”, da “Information Clearing House” del 15 marzo 2018, post tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio
«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
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Crisi bancaria, ricatto Bce: il prossimo governo nasce morto
Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».Dato l’alto livello di sofferenze già emerse (e che emergeranno nel sistema bancario italiano, soprattutto nel Monte dei Paschi di Siena), «queste nuove regole in prospettiva scateneranno una crisi bancaria generale, perché molte banche semplicemente non hanno i soldi per coprire le perdite e salteranno». Va anche considerato che «molte banche, da tempo, stanno concedendo crediti in modo piuttosto spensierato, allo scopo di raggiungere budget elevati». Le nuove regole annunciate per la primavera «indurranno le banche a restringere il credito, e ciò strozzerà l’economia». Secondo Della Luna, «nessun governo reggerebbe a un tale disastro, quindi il prossimo governo italiano dovrà inginocchiarsi ai grandi banchieri per impetrare rinvii dell’applicazione delle nuove regole e aiuti per adeguarsi ad esse nel tempo». Ma gli “aiuti”, si sa, «sono condizionati all’obbedienza politica, cioè a che il governo faccia le riforme, le cessioni di sovranità e le privatizzazioni che richiedono i grandi banchieri. E’ già avvenuto nel 2011».Sempre secondo Della Luna, quindi, «il prossimo governo dovrà dimenticare e far dimenticare alla gente tutte le promesse elettorali di farsi sentire in Europa, di sforare il 3%, di varare la Flat Tax, di fare grandi investimenti, di sostenere i poveri». I programmi elettorali sono stati bollati come velleitari, perché non indicano concretamente le coperture? Certo: «Sono velleitari, anzi illusori, soprattutto perché non tengono conto del fatto che l’Italia, come la Grecia, è sottoposta gerarchicamente al comando e al bastone di interessi esterni ad essa, che si stanno prendendo i suoi migliori assets aziendali». Da diversi decenni, «e ancor più con l’imposizione della guerra alla Libia e con il colpo di stato del 2011», l’Italia è stata «completamente sottomessa a quegli interessi». Peggio: «I suoi vertici istituzionali collaborano con essi». In più, «la ribellione a tutela dell’interesse nazionale, anche solo parziale, non è tollerata e viene repressa attraverso la Bce, l’Ecofin, il Fmi». Volete un governo che faccia gli interessi del vostro paese, per cui pagate le tasse? «Allora cambiate paese», taglia corto Della Luna.Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».
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I cannibali di Pamela e la fine (meritata) della razza bianca
Noi, “bianchi”, ci stiamo estinguendo. E ce lo meritiamo. Parola dell’avvocato Marco Della Luna, impietoso critico del sistema neoliberista, bancario e finanziario. Stiamo sparendo, lo dicono i numeri: «La razza bianca si sta estinguendo per denatalità, anche nella sua principale riserva, la Russia». Sembra che abbia maturato «un certo disincanto verso la vita e fosche aspettative circa il futuro». E all’interno dell’estinzione della razza bianca «sta avvenendo una seconda estinzione, forse più grave: l’estinzione della civiltà occidentale, creazione peculiare di una parte della razza bianca (diciamo essenzialmente dell’area greca, italica, franco-germanica e britannica)». Per Della Luna, la nostra «è l’unica civiltà che abbia concepito e in parte realizzato un pensiero scientifico, una filosofia razionale, le idee di democrazia, di Stato di diritto, di eguaglianza, di diritti individuali dell’uomo». Questa civiltà «sta estinguendosi per un generale imbarbarimento edonista e consumista» nonché «per il declino dei suoi capisaldi, per l’effetto della globalizzazione e della finanziarizzazione della società», senza contare «la pesante immigrazione di massa da aree culturali immensamente distanti e con caratteri generalmente opposti». Nella prospettiva dell’estinzione della nostra civiltà, «la minaccia della catastrofe ecologica ci angoscerà meno, appunto perché non colpirà gente simile a noi».Tutelare la “razza bianca” di fronte alla sua incombente estinzione? «Io la penso diversamente», dice Della Luna, secondo cui il mondo «sta diventando una fogna avvelenata senza via d’uscita», tiranneggiato da «una dominazione tecnologico-finanziaria disumana», al punto che, ormai, «estinguersi è un privilegio, è una liberazione, è un diritto che rivendichiamo». Meglio «lasciare questo mondo guastato all’avanzata di genti che lo accettano, anzi se lo vogliono proprio prendere, nonostante sia ridotto così». Provocazione inaccettabile, ovviamente, per chi ha figli. Una cosa, Della Luna, la pretende: «Essere lasciati estinguere in pace e con decoro, senza pressioni e intrusioni violente». Un caso atroce? Quello di Pamela Mastropietro, la ragazza uccisa e smembrata a Macerata. «Era stata irretita da alcuni nigeriani, membri della potente mafia tribale nigeriana». Una mafia che «spaccia droga, prostituzione e altro», e che «opera alla luce del sole e indisturbata nelle nostre città». Il che, sostiene l’avvocato, «implica che essa dispone di complicità opportunamente comperate negli apparati dello Stato italiano, il medesimo che va a imbarcare i migranti sotto le coste libiche». E il fatto che la criminalità migrante, specie africana, venga sostanzialmente tollerata, sempre secondo Della Luna, lascia supporre che le sue attività in Italia (droga, prostituzione, traffico di organi) «siano materia oggetto di accordi a livello politico nazionale», addirittura, «appoggiati dai capi dell’immigrazionismo organizzato, sia imprenditoriali, che politici, che religiosi».Il cadavere di Pamela, si apprende, è stato «dissezionato con grande perizia tecnica». Ma gli organi, «rilevanti per i sacrifici umani e per il pasto cannibalico rituale», non sono stati ritrovati. Forse perché la gente non si inquieti troppo? «Questi riti fanno parte del background culturale di quelle tribù nigeriane, in cui magia nera e affiliazione mafiosa e potere politico sono tutt’uno», continua Della Luna. Intanto, a Macerata si tengono manifestazioni in favore del meticciato, e l’Onu «rende noto il suo piano per la sostituzione del poco prolifico popolo italiano con il massiccio impianto di africani». Gli italiani però non sarebbero più così favorevoli all’idea del “melting”: «Sono divenuti in maggioranza afroscettici, oltreché euroscettici». Uno scenario da apocalisse? Della Luna l’aveva prefigurato nel saggio “Le chiavi del potere”, pubblicato nel 2003. Scriveva: per impedirgli di sentirsi libero di controllare il potere politico e il denaro pubblico, si costringe il cittadino a vivere nell’insicurezza, «attivamente importando criminalità soprattutto da paesi extracomunitari, e non reprimendola, anzi incoraggiandola quando criminali o facinorosi si impossessano di interi quartieri o spadroneggiano in ampie zone geografiche, sotto gli occhi di tutti, espropriandoci del nostro territorio, mentre le istituzioni non intervengono nemmeno su denuncia dei cittadini».«Si vuole che questi ultimi capiscano chiaramente che non sono cittadini, ma qualcosa di meno», sottolinea Della Luna. La legge scritta esiste, ma gli italiani «non possono pretendere che chi ha il potere la faccia osservare». E’ come se si dicesse: “Noi vi riduciamo a un livello di dignità e diritti inferiori a quelli degli immigrati clandestini”. «Il principale problema politico nella globalizzazione, da parte del potere, è produrre e governare le masse di consumisti-lavoratori imbecilli richieste dall’economia e dal bisogno di consenso», si legge ne “Le chiavi del potere”. «Il genere umano è ridotto a mera componente del ciclo produttivo del profitto. I popoli che non si prestano più al buon funzionamento del ciclo, anche per scarsa prolificità e troppa criticità – ossia noi – vengono rimpiazzati con invasioni di immigranti e neutralizzati con l’assistenzialismo, la droga e il rimbecillimento televisivo, in modo che non si accorgano e non si oppongano». Buonismo, cioè eutanasia di massa? «Guardate le nuove generazioni: in larga parte menomate da un’educazione narcisizzante, che non insegna il governo dei propri impulsi quindi non forma all’indipendenza e all’applicazione; instupidite dalla televisione, dalla discoteca, da un uso dilagante di droghe; esistenzialmente fragilissime; istruite da una scuola penosamente inadeguata; giovani pieni di esigenze, schizzinosi, delicati, incapaci di sostenere privazioni e frustrazioni».I giovani italiani «devono competere con immigrati che in larga parte sono spinti da fortissima motivazione ad affermarsi, sono disposti a sacrifici e disagi, capaci di rinunce e disciplina, ma anche di violenza – la quale fa spesso parte della loro storia di vita e di adattamento sin dalla nascita. Sono capaci di fare e sopportare cose che i nostri neanche si sognano, e fanno figli a non finire». Se si lascia che questa competizione dilaghi, scriveva Della Luna 15 anni fa, «possiamo considerarci già sopraffatti, sconfitti e scacciati». Il problema? «Non è la nostra superiorità, bensì la nostra inferiorità». Rammolliti dalla società dei consumi: «Le esigenze del capitale e la ricerca del consenso hanno richiesto la coltivazione di personalità deboli e dipendenti dal consumismo, poco disposti alla rinuncia e al sacrificio. Hanno plasmato così i popoli dell’Occidente. Ma ora, popoli così plasmati non rendono più, non vanno più bene. Hanno troppe pretese ecologiche, sindacali, assistenziali; non si riproducono; contestano; non comperano più come prima. Vanno rimpiazzati: dentro gli altri!». Mettere in dubbio il dovere di accoglienza? «E’ immorale e fascista». Secondo Della Luna, «l’etologia, confermando la storia, ci avverte che l’uomo, una volta sciolto il suo legame col territorio, perde l’attitudine a difendersi e diventa remissivo, facilmente dominabile».Noi, “bianchi”, ci stiamo estinguendo. E ce lo meritiamo. Parola dell’avvocato Marco Della Luna, impietoso critico del sistema neoliberista, bancario e finanziario. Stiamo sparendo, lo dicono i numeri: «La razza bianca si sta estinguendo per denatalità, anche nella sua principale riserva, la Russia». Sembra che abbia maturato «un certo disincanto verso la vita e fosche aspettative circa il futuro». E all’interno dell’estinzione della razza bianca «sta avvenendo una seconda estinzione, forse più grave: l’estinzione della civiltà occidentale, creazione peculiare di una parte della razza bianca (diciamo essenzialmente dell’area greca, italica, franco-germanica e britannica)». Per Della Luna, la nostra «è l’unica civiltà che abbia concepito e in parte realizzato un pensiero scientifico, una filosofia razionale, le idee di democrazia, di Stato di diritto, di eguaglianza, di diritti individuali dell’uomo». Questa civiltà «sta estinguendosi per un generale imbarbarimento edonista e consumista» nonché «per il declino dei suoi capisaldi, per l’effetto della globalizzazione e della finanziarizzazione della società», senza contare «la pesante immigrazione di massa da aree culturali immensamente distanti e con caratteri generalmente opposti». Nella prospettiva dell’estinzione della nostra civiltà, «la minaccia della catastrofe ecologica ci angoscerà meno, appunto perché non colpirà gente simile a noi».
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Lacrime e sangue: Silvio, Renzi e Di Maio sottomessi all’Ue
Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune. Il Pd ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la Ue ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli Stati Sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera Ue a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del Consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della Ue, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso. Ora ci riprova.Nel 1700 un conservatore inglese, Johnson, affermò che il patriottismo era l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi vale per l’europeismo. Non toccare la Fornero e il Jobs Act, avanti con i tagli alla spesa pubblica, mantenere gli impegni di applicazione del Fiscal Compact che Gentiloni e Padoan hanno sottoscritto a Bruxelles e che la Ue verrà a riscuotere il 5 marzo. Missioni di guerra europee come quella sporchissima in Niger. Il centrosinistra vuole semplicemente continuare a fare ciò che ha fatto e si è impegnato a fare. La bandiera degli Stati Uniti d’Europa, che hanno minori possibilità di realizzarsi di quelli mondiali, serve a raccogliere un poco di elettorato liberaldemocratico, quello che una volta si chiamava atlantico per la sua fedeltà ai soli “Stati uniti” esistenti, quelli d’America. Ma soprattutto serve ad accreditare il Pd come solo riferimento per i padroni della Ue, Macron, Merkel, Rajoy. Cui però oggi si rivolge anche Berlusconi. Il capo del centrodestra ha lasciato a Salvini il lavoro sporco sulla xenofobia e sul razzismo, peraltro oggi perfettamente compatibile con la Ue che fa accordi coi tagliagole libici, o con Erdogan, per fermare i migranti.Così, mentre il leghista urla “padroni in casa nostra”, Berlusconi va dai padroni veri a concordare il programma. Ha bisogno di ottenere il via libera Ue alla colossale riduzione delle tasse per i ricchi e al piccolo aumento delle pensioni più basse, nonché ad una abolizione della Fornero più simbolica che effettiva. I vertici europei non sono affezionati a questa o a quella misura, dall’epoca di Monti e dei massacri greci hanno appreso che si possono avere migliori risultati, se si allunga il guinzaglio con cui si tengono legati i governi degli Stati sotto controllo. Berlusconi questo lo sa benissimo, quindi ha fatto alla Ue una proposta che non può rifiutare. L’obbedienza assoluta al Fiscal Compact e un gigantesco piano di privatizzazioni a garanzia di essa. Quindi per banche e multinazionali tedesche e francesi, e naturalmente per tutte le altre, si preparano nuove occasioni di ottimi affari. Perché la commissione Ue dovrebbe fare obiezioni a chi realizza la parte fondamentale del suo programma liberista, mettendo all’asta il proprio paese così come ha fatto per la sua squadra di calcio?Berlusconi ha promesso alla Ue che il suo governo rispetterà rigidamente il vincolo del deficit di bilancio al di sotto del 3%. Il Movimento 5 Stelle invece propone di superarlo per far crescere l’economia. Sembrerebbe che con questa e altre misure la forza politica guidata da Di Maio abbia davvero deciso di rompere con l’austerità europea. Ma non è così. Si chiama “clausola di dissolvenza” la parte di un trattato o accordo che può mettere in discussione tutto il resto. Il programma in 20 punti varato dai Cinque Stelle ha la propria “dissolvenza” al punto 16. Lì si propone di ridurre il debito pubblico di ben 40 punti in dieci anni. È la pura applicazione del peggior vincolo del Fiscal Compact, che non impone solo il pareggio di bilancio, ma la riduzione dell’ammontare del debito fino al 60 % del Pil. Con un rapporto attualmente al 130% nessuno nella Ue pensa che l’Italia possa, e neppure debba, raggiungere quell’obiettivo. Ma la riduzione del rapporto debito-Pil al 90% farebbe felice anche Schaeuble. E questo è quanto propongono Di Maio e i suoi, cioè un taglio di spesa pubblica di 40 e più miliardi all’anno, aggiuntivo a tutti gli altri.O pensano alla più ingegnosa finanza creativa del nuovo millennio, o credono ad un tasso di sviluppo del 5% all’anno, oppure i Cinque Stelle hanno programmato dieci anni di lacrime e sangue… E tutte le altre loro proposte sono aria fritta, perché solo il punto 16 conta davvero e li accredita preso la Ue. Diversi sono gli strumenti, Jobs Act e Fornero, privatizzazioni, tagli draconiani alla spesa pubblica, ma tutti i principali schieramenti elettorali hanno in comune la volontà di essere accettati dalla Ue come fedeli esecutori del suo comando e dei suoi vincoli, primo fra tutti il Fiscal Compact. Il liberismo europeo in Italia può giocare su tre tavoli, sicuro di vincere in ogni caso. “Liberi e Uguali” a sua volta non rappresenta certo un’alternativa ai tre schieramenti liberisti che si contendono il governo, non solo perché su questi temi non sono pervenuti, ma perché come massima ambizione i suoi leader si propongono di rifare il centrosinistra col Pd. La bufala degli Stati Uniti d’Europa vale anche per loro. Solo “Potere al Popolo” propone la rottura con trattati e vincoli Ue come condizione per realizzare davvero un’altra politica economica e sociale. Per questo oggi è la sola forza di alternativa, destinata a crescere nonostante tutto le si opponga.(Giorgio Cremaschi, “Tre diversi liberismi a gara per obbedire alla Ue”, da “Micromega” del 23 gennaio 2018).Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune. Il Pd ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la Ue ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli Stati Sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera Ue a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del Consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della Ue, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso. Ora ci riprova.
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Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
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Scalea: Italia in Niger per servire la Francia, che ci tradirà
L’Italia in Niger con i suoi soldati solo per tentare di ingraziarsi la Francia, vera padrona dell’Africa sub-sahariana e delle sue immense risorse naturali, nella vana speranza che Parigi pacifichi il territorio libico. Errore: «La Francia che vorremmo ingraziarci affinché assuma l’onere di stabilizzare la Libia al posto nostro, è la stessa Francia che nel 2011 ha sprofondato la Libia nel caos, per giunta nel tentativo premuroso di soffiare il petrolio all’Eni». Lo afferma l’analista geopolitico Daniele Scalea, direttore dell’Isag di Roma, Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, nonché e condirettore della rivista scientifica “Geopolitica”. Scalea ricorda che i militari italiani schierati in Africa non potranno fare altro che proteggere gli interessi transalpini: «Nel solo Niger, le compagnie francesi hanno in mano uranio, carbone, ferro, fosfato e petrolio». Il vero senso della missione richiesta da Macron, a cui Gentiloni ha detto sì, non è il contrasto del traffico di migranti ma «il controllo francese sul Sahel».Gli uomini del contingente italiano, scrive Scalea su Facebook in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, non potranno debellare i jihadisti: la missione è formalmente “no combat”, con regole d’ingaggio iper-restrittive. Non potranno neppure bloccare i trafficanti di esseri umani: «Manca un accordo col Niger per arrestarli e consegnarli alla giustizia». Inoltre, i militari italiani «non potranno pattugliare efficacemente il tratto di confine ipotizzato: per le deficienze giuridiche di cui sopra e per quelle materiali di un contingente troppo leggero». I nostri soldati avranno al massimo la possibilità di addestrare le forze armate nigerine, «ma in tal caso il contingente è sovra-dimensionato». In realtà, sostiene Scalea, i militari italiani in Niger saranno subordinati al servizio della missione francese “Barkhane” nel Sahel, per la quale Macron cerca coperture: «Servono quasi 450 milioni, e la buona volontà di Arabia Saudita, Eau, Ue e altri finanziatori non è ancora sufficiente».L’Operazione Barkhane, tra le altre cose, «combatte le insorgenze islamiste», ma «il pesce grosso da pescare è un altro», cioè il pieno controllo di Parigi sull’intera fascia sub-sahariana, ricchissima di materie prime strategiche come l’uranio, fondamentale per l’energia nucleare francese. «La strategia del governo italiano è dunque quella usuale, che i nostri politici e la nostra “comunità degli affari esteri” tanto amano: rispondere di sì a chiunque ci richieda militari, nella speranza che poi si ricordi di noi quando abbiamo bisogno di interventi in qualche area critica», scrive Scalea. Questa strategia (fallimentare) «la si è seguita a lungo con Usa e Ue», e adesso «Gentiloni l’ha estesa pure alla Francia, per porsi sotto l’egida di Macron». Inutile farsi illusioni: «E’ purtroppo una strategia che dà scarse garanzie di successo: è dalla Guerra di Crimea (1853-56) che non funziona più». Secondo Scalea, «bisognerebbe ricordare, a chi di dovere, che il proverbio recita: “Non mordere la mano che ti nutre”, e non: “Lecca la mano che ti bastona”».L’Italia in Niger con i suoi soldati solo per tentare di ingraziarsi la Francia, vera padrona dell’Africa sub-sahariana e delle sue immense risorse naturali, nella vana speranza che Parigi pacifichi il territorio libico. Errore: «La Francia che vorremmo ingraziarci affinché assuma l’onere di stabilizzare la Libia al posto nostro, è la stessa Francia che nel 2011 ha sprofondato la Libia nel caos, per giunta nel tentativo premuroso di soffiare il petrolio all’Eni». Lo afferma l’analista geopolitico Daniele Scalea, direttore dell’Isag di Roma, Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, nonché e condirettore della rivista scientifica “Geopolitica”. Scalea ricorda che i militari italiani schierati in Africa non potranno fare altro che proteggere gli interessi transalpini: «Nel solo Niger, le compagnie francesi hanno in mano uranio, carbone, ferro, fosfato e petrolio». Il vero senso della missione richiesta da Macron, a cui Gentiloni ha detto sì, non è il contrasto del traffico di migranti ma «il controllo francese sul Sahel».
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Gli Usa: con Craxi l’Italia era un paese rispettato e sovrano
A 18 anni dalla morte di Bettino Craxi, ricordare una delle più importanti figure politiche del dopoguerra può essere utile per cogliere la parabola di un paese un tempo protagonista della scena internazionale, e metterlo a confronto con la sua irrilevanza politica nel contesto attuale. Se prima era impensabile che l’Italia craxiana rimanesse fuori dalla porta dei consessi internazionali che contano, oggi purtroppo questo è una amara realtà. Per capire come veniva considerata l’Italia prima del suo declino sulla scena internazionale è interessante vedere cosa ne pensava il suo storico alleato, gli Usa, in un documento – analizzato in passato da ricercatori e storici di Craxi – del Dipartimento di Stato Usa intitolato “Il fattore Craxi nella politica estera italiana”, nel quale Washington si sofferma ad analizzare l’appiglio del tutto peculiare di Bettino Craxi nella conduzione delle relazioni internazionali dell’Italia. Sono i diplomatici americani stessi di stanza all’ambasciata Usa in Italia, a rendersi conto della personalità forte dell’ex segretario socialista. Un atteggiamento che dapprima sorprende gli americani, abituati più ai modi pacati e misurati dei predecessori di Craxi a Palazzo Chigi. Il suo stile, nel documento, viene definito «determinato e diretto», tanto da portarlo occasionalmente «fuori dai margini».Washington guarda con curiosità ma anche con preoccupazione a questo nuovo interlocutore italiano, il quale non sembra temere lo scontro con lo storico alleato. L’amicizia e il rapporto con gli Usa non sono mai in discussione, ma non si respira affatto un’aria di sudditanza nei confronti degli americani. Al contrario Craxi durante la sua esperienza a Palazzo Chigi dal 1983 al 1987, ha delineato chiaramente i confini dei rapporti bilaterali tra i due paesi. In nessun momento, l’amicizia Italia-Usa andava nella direzione di piegare gli interessi nazionali ad esclusivo vantaggio di quelli del partner statunitense. Sigonella è solamente l’apogeo di uno tra i momenti più importanti di Craxi a Palazzo Chigi, e segna un chiaro trionfo geopolitico italiano che non mancò di suscitare un certo scalpore negli ambienti internazionali. Quando il segretario socialista arriva a schierare nella drammatica notte del 10 ottobre 1985 i carabinieri contro i Navy Seals che nella base di Sigonella volevano prendere in custodia i terroristi dell’Achille Lauro, nonostante la competenza giurisdizionale sui loro reati fosse chiaramente italiana, gli americani capiscono che il primo ministro italiano fa sul serio.Lo stesso Dipartimento di Stato Usa nel documento non può fare a meno di riconoscere che in quella circostanza, Craxi uscì chiaramente come pieno «difensore della sovranità nazionale» da quella delicata crisi diplomatica tra i due paesi, tanto che Washington si sofferma a ripensare «l’attività militare nell’area». Gli Usa, più semplicemente, si rendono conto che l’Italia non è una dépendance dove possono prendersi la libertà di intervenire senza consultare i padroni di casa. Ma non è questo l’unico momento di una politica estera tesa, dal principio alla fine, alla difesa della sovranità nazionale. Sigonella non è un episodio estemporaneo frutto di un’esplosione di orgoglio nazionale poi sopito successivamente. Solamente l’anno dopo, l’Italia si trova nel bel mezzo di un’altra crisi diplomatica ancora una volta con il suo alleato di riferimento, gli Usa, e la Libia. Il 14 aprile 1986 gli Stati Uniti bombardano la residenza di Gheddafi, il quale risponde il giorno dopo con un fallito attacco missilistico contro l’isola di Lampedusa. Craxi è furente con il suo alleato per quella decisione unilaterale di attaccare la Libia e non manca di esternarlo pubblicamente agli americani. Anche in questa circostanza, si legge nell’analisi, Washington stessa non può fare altro che prendere atto che l’Italia sotto la conduzione craxiana rivendica il suo spazio di indipendenza e sovranità, e non è disposta a sacrificare i suoi rapporti con altre potenze in nome del rapporto privilegiato con gli Stati Uniti.Il “fattore Craxi” di cui parlano gli americani si può identificare proprio con il principio guida imprescindibile che ha accompagnato tutta l’originale esperienza di Bettino Craxi al governo, ovvero la protezione degli interessi italiani prima di ogni cosa. L’Italia non veniva umiliata dalle potenze estere proprio perché dotata di una classe dirigente che mai avrebbe permesso che il paese avesse subito affronti pari a quelli che sta subendo attualmente nei contesti europei ed internazionali. La rotta della sovranità nazionale è stata smarrita, sostituita da una volontà di asservimento di una mediocre classe dirigente genuflessa ai desiderata delle potenze estere pur di raggiungere i propri scopi personali. L’europeismo era la cifra politica di Craxi in politica estera, ma non era certamente una religione come quella attuale alla quale è impossibile opporsi “perché non c’è alternativa”. Fu proprio lui stesso dall’esilio di Hammamet negli ultimi anni della sua vita ad intuire la deriva che avrebbe portato il cieco rispetto di quei parametri di Maastricht, divenuti un tabù intoccabile che nessun premier osa rimettere in discussione. «L’Italia è un grande paese», disse Craxi, e deve far valere i suoi diritti in Europa. Quanti politici di oggi hanno il suo attaccamento alla patria? La riconquista della sovranità passa per la maturazione di una classe dirigente con una coscienza nazionale e un amor patrio. Bettino Craxi aveva tutto questo. Ecco perché va ricordato.(Cesare Sacchetti, “Il fattore Craxi, Bettino visto dagli americani”, da “La Cruna dell’Ago” del 18 gennaio 2018).A 18 anni dalla morte di Bettino Craxi, ricordare una delle più importanti figure politiche del dopoguerra può essere utile per cogliere la parabola di un paese un tempo protagonista della scena internazionale, e metterlo a confronto con la sua irrilevanza politica nel contesto attuale. Se prima era impensabile che l’Italia craxiana rimanesse fuori dalla porta dei consessi internazionali che contano, oggi purtroppo questo è una amara realtà. Per capire come veniva considerata l’Italia prima del suo declino sulla scena internazionale è interessante vedere cosa ne pensava il suo storico alleato, gli Usa, in un documento – analizzato in passato da ricercatori e storici di Craxi – del Dipartimento di Stato Usa intitolato “Il fattore Craxi nella politica estera italiana”, nel quale Washington si sofferma ad analizzare l’appiglio del tutto peculiare di Bettino Craxi nella conduzione delle relazioni internazionali dell’Italia. Sono i diplomatici americani stessi di stanza all’ambasciata Usa in Italia, a rendersi conto della personalità forte dell’ex segretario socialista. Un atteggiamento che dapprima sorprende gli americani, abituati più ai modi pacati e misurati dei predecessori di Craxi a Palazzo Chigi. Il suo stile, nel documento, viene definito «determinato e diretto», tanto da portarlo occasionalmente «fuori dai margini».