Archivio del Tag ‘licenziamenti’
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Tutto online, il lavoro sparisce: vincono solo i miliardari
Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».Sono nati giganti – cui lo stesso Lanier ha venduto ben tre “start-up”– che impiegano la millesima parte dei lavoratori che erano prima impegnati nei loro settori: anche così le strade si svuotano dei negozi, scrive Visalli su “Tempo Fertile”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Secondo alcune ricerche, è a rischio di ulteriore distruzione il 47% dei mestieri attualmente praticati negli Usa e il 40% della forza lavoro. Esempio: «Kodak, che impiegava 140.000 persone, oltre ad un enorme indotto per la distribuzione e commercializzazione di miliardi di pellicole, poi per il loro sviluppo e conservazione, è stata praticamente sostituita dai telefonini, da qualche app e qualche “social”». Un caso limite è Instagram, che impiega appena 13 dipendenti ed è stata appena venduta per un miliardo di dollari (Kodak ne valeva 28 con tutti i suoi stabilimenti). «Le catene di viaggi cedono a Expedia, Orbitz; le librerie ad Amazon; le case editrici a Kindle e al fenomeno dei libri fai-da-te; i traduttori stanno per essere spazzati via da software di traduzione che impiegano le innumerevoli traduzioni esistenti fatte da uomini, per automatizzarle e renderle sempre migliori con l’uso».Non è tutto: Skype sta per lanciare un servizio di sottotitoli automatico che “farà fuori” gli interpreti (magari insieme a Google Glass); l’istruzione universitaria potrà essere distribuita da Berkeley in tutto il mondo, a decine di milioni di discenti, a prezzi unitari bassissimi; una app (“Uber”) farà fuori i tassisti; altre stanno facendo lo stesso con gli alberghi; arriveranno le Google Car, a sfidare i camionisti; ma la cosa non dovrebbe lasciare tranquilli neppure gli analisti di borsa (“Warren”), i giornalisti, i commercialisti, gli avvocati, gli architetti. «E’ il modello della new economy, “winner takes all”. Ed è basato sullo sfruttamento senza restituzione di valore di una miriade di microcontenuti che sono sommati, resi significativi dall’immensa potenza del “big data”». Questo, continua Visalli, è il punto messo in evidenza da Lanier: il segreto del successo di Google Translate, di Facebook, di Amazon, di You Tube, è che «tutti i contenuti che nelle loro mani diventano oro sono regalati». Cosa resterà? «Sicuramente una élite dotata del capitale culturale, simbolico e informatico per rendersi necessaria nel mondo della iper-rappresentazione che ci si prepara; sono i vincenti che prendono tutto». E poi?«Qui la cosa si fa difficile», prosegue Visalli. «Una polvere di nicchie di mestieri di cura uno-ad-uno, autoprodotti e inventati; l’apologia dell’individualismo estremo. In mezzo? Se nessun meccanismo pubblico o privato (ma regolato) distribuirà le risorse che salgono ai “vincitori”, garantendo che chi veramente le produce (e non solo chi le rende aggregate, visibili e spendibili) ne abbia di che vivere, avremo un centro deserto». In quel caso, «non avremo neppure i mestieri di cura». Fondamentalmente, aggiunge il blogger, l’economia diventerà «un sistema in cui i beni sono prodotti in modo automatico da una piccolissima parte dei lavoratori». La tendenza è scendere molto sotto il 10%, forse sotto il 5%. Si tratta di lavoratori che “valgono” poco e ppercepiscono stipendi molto bassi. «I contenuti linguistici ed estetici – veicoli identitari e di senso primari – sono il vero veicolo di valore, ma si concentrano in pochissime mani; il resto, la grande parte della società, resterà impegnata in circuiti di auto-cura di reciprocità, poveri dal punto di vista monetario, ricchi da quello sociale e antropologico. Una società che potrebbe ricordare il medioevo».Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».
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Cremaschi: Renzi come Reagan, e nessuno osa fermarlo
Se le parole sono pietre, si devono lanciare con la giusta forza verso il bersaglio scelto. Invece le iniziative concrete di coloro che denunciano il disegno autoritario di Renzi non corrispondono alla gravità dell’allarme lanciato e così la denuncia stessa rischia di risultare inefficace. Sul terreno economico e sociale il governo ha adottato tutti i peggiori dogmi del liberismo. La vicenda Alitalia, come al solito presentata dal regime come l’ultima spiaggia dello sviluppo, non è solo una svendita all’incanto dopo il fallimento bipartisan di imprese, banche, governo. È anche e prima di tutto un terribile esperimento sociale, perché per la prima volta dagli anni ‘50 del secolo scorso un governo autorizza il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratrici e lavoratori, rifiutando l’utilizzo della cassa integrazione. È un altro pezzo del Jobs Act, che intende sostanzialmente cancellare la Cig. Solo il presidente più di destra del ‘900 americano, Ronald Reagan, aveva attuato con i controllori di volo una misura del genere.Ci si rende conto, dalle parti del mondo che si definisce democratico, che cosa vuol dire con la crisi economica che si aggrava dare il via ai licenziamenti di massa nelle grandi aziende? Significa che sul piano sociale non tiene più niente, che siamo come la Grecia. E infatti, dopo quel paese, il nostro è la seconda cavia dell’Europa dell’austerità e del Fiscal Compact. Con la prima si è proceduto in modo troppo brutale, al punto da suscitare una reazione politica che rischia di compromettere il disegno. Con l’Italia, che Monti e Letta stavano portando alla stessa crisi di consenso della Grecia, si è deciso di correggere la rotta. Meno bastone e, almeno all’inizio, più carota. La carota è Renzi. Il progetto di controriforma costituzionale di Renzi serve a costruire in anticipo quel sistema di potere autoritario che dovrà gestire la distruzione sociale dell’Italia.Per questo Renzi lo vende all’estero al posto dei tagli di bilancio dei suoi predecessori. E per questo banche e finanza per ora si accontentano di riforme politiche al posto di quelle economiche. Perché i poteri finanziari che hanno fatto diventare presidente del consiglio uno sconosciuto sindaco di Firenze vogliono che, una volta avviato, il percorso liberista non si fermi più. Ci vuole allora una manomissione complessiva e organica della Costituzione, che garantisca a un potere insindacabile di poter privatizzare servizi, chiudere ospedali, vendere alle multinazionali, cancellare contratti e diritti, licenziare, precarizzare, selezionare. Quello che le élites speravano facesse Berlusconi nel 1994. Dopo venti anni quel disegno viene realizzato da Renzi, con ben altro sostegno in Italia ed in Europa.Non facciamo i provinciali, la controriforma renziana non è tanto figlia della P2 quanto di Bilderberg. Il principio che la ispira è molto semplice e in fondo e quello di tutte le dittature: si vota una volta e poi chi vince comanda per sempre, impedendo l’organizzazione e la rappresentanza ad ogni forma di vera critica, contestazione, dissenso. Di fronte a tutto questo il campo avverso o critico è complessivamente incerto, contraddittorio, confuso. Nel mondo sindacale, Cisl, Uil e Ugl sono oramai paracarri del sistema renziano, al quale son stati concessi in dono da Marchionne. La Cgil si muove come un pugile suonato, e i colpi che riceve non la fanno reagire. Intanto l’accordo del 10 gennaio diventa la trasposizione del’Italicum sul terreno della rappresentanza sindacale. Anzi è persino peggio, perché quell’intesa programma l’esclusione del dissenso addirittura prima del (e non con il) voto.Dalla Fiom, alla sinistra Cgil, ai sindacati di base non sono poche le forze che si oppongono a questo sistema, ma non lo stanno facendo assieme e con la dovuta determinazione comune. Soprattutto la Fiom non trasforma il suo dissenso in vera disobbedienza e così avanza la normalizzazione sindacale. Sul piano politico il “Movimento 5 Stelle”, con tutto il rispetto, pare entrato dopo le europee in una fase confusionale, nella quale sta forse emergendo la debolezza delle sue basi politiche di fondo. Così oscilla tra la denuncia della svolta autoritaria e le letterine di buoni propositi indirizzati a chi di quella svolta è l’artefice. Le sinistre che si sono raccolte attorno alla Lista Tsipras non hanno ancora chiarito cosa vogliono fare da grandi. E quando ci provano, si spaccano. La sinistra radicale italiana non è in crisi per l’assenza di buoni propositi, belle idee e bei programmi, ma per una storia di incoerenze tra il dire ed il fare. Queste forze sono oggi disponibili a combattere il Pd renziano ovunque, per esempio e per cominciare in Emilia Romagna nelle elezioni del prossimo autunno? O si pensa ancora a tenere assieme chi vuol contrastare davvero il sistema renziano e chi si illude di condizionarlo dal suo interno?I movimenti sociali, le lotte ambientali e territoriali sono oggi una forza diffusa, che subisce una repressione autoritaria vergognosa. Ma i loro gruppi dirigenti non pensano ad una politica di alleanze con gli altri che si oppongono, lanciano le loro scadenze e si aspettano che tutti aderiscano. Così anche qui ci si logora. Il non molto vasto mondo degli intellettuali rimasto fuori dal regime delle larghe intese si muove con efficacia ridotta anche rispetto alle proprie forze reali. Pesa evidentemente la fine della guerra fredda tra mondo Fininvest e mondo Repubblica-Espresso. Entrambi oggi sono nel pacchetto di mischia renziano, con qualche dissidenza che, se non esagera, fa molto pluralismo. È comprensibile quanto sia difficile rompere con storie e schieramenti ventennali, ma la critica del pensiero unico renziano proprio questo dovrebbe fare per essere efficace.Ciò che unifica tutte queste deboli opposizioni al regime renziano è la convinzione di chi le guida di poter andare avanti come ha sempre fatto. Così si fanno la petizione, la manifestazione, l’appello, l’assemblea, come sempre. E così si contraddice il senso profondo dello stesso allarme che si lancia. Se si fanno le stesse cose di sempre, allora forse non è vero che la situazione sia così grave come la si denuncia. Se si andrà avanti così, questo periodo verrà ricordato come quello in cui, grazie anche alla fiacchezza e all’opportunismo di chi denunciava il regime, il regime nacque. Per concludere, tutte le forze democratiche che intendono davvero opporsi a Renzi e a ciò che rappresenta, ci provano a interloquire tra loro e magari a sedersi attorno ad un tavolo per discutere, anche in streaming, su cosa fare assieme per fermare il regime? O andiamo avanti così fino al disastro e alle recriminazioni finali?(Giorgio Cremaschi, “Per fermare la svolta autoritaria non bastano gli appelli”, da “Micromega” del 17 luglio 2014).Se le parole sono pietre, si devono lanciare con la giusta forza verso il bersaglio scelto. Invece le iniziative concrete di coloro che denunciano il disegno autoritario di Renzi non corrispondono alla gravità dell’allarme lanciato e così la denuncia stessa rischia di risultare inefficace. Sul terreno economico e sociale il governo ha adottato tutti i peggiori dogmi del liberismo. La vicenda Alitalia, come al solito presentata dal regime come l’ultima spiaggia dello sviluppo, non è solo una svendita all’incanto dopo il fallimento bipartisan di imprese, banche, governo. È anche e prima di tutto un terribile esperimento sociale, perché per la prima volta dagli anni ‘50 del secolo scorso un governo autorizza il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratrici e lavoratori, rifiutando l’utilizzo della cassa integrazione. È un altro pezzo del Jobs Act, che intende sostanzialmente cancellare la Cig. Solo il presidente più di destra del ‘900 americano, Ronald Reagan, aveva attuato con i controllori di volo una misura del genere.
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Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro
Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.«La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.
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Barnard: euro-criminali, verrà il giorno che la pagherete
Questo programma ha cercato in tutti i modi di impedirvi di scivolare: vi ha dato gli avvisi, gli strumenti, le soluzioni. Datemi un minuto e mezzo per raccontarvi quello che noi per primi (e unici, in Italia) via abbiamo raccontato di questa catastrofe che è l’Eurozona. Noi vi abbiamo raccontato il salvataggio delle banche, vi abbiamo detto come è successo che una ricapitalizzazione della Banca d’Italia in realtà si è trasformata in qualcosa di diverso da quello che ha detto quel giornale da… del “Sole 24 Ore”. In realtà la ricapitalizzazione di Bankitalia si è trasformata in una ricapitalizzazione continua e gratuita delle banche italiane che sono fallite, ma non hanno ricapitalizzato la tua pensione. Abbiamo raccontato che le banche italiane hanno 150 miliardi di prestiti inesigibili che stanno impacchettando e che venderanno a voi cittadini, pensionati. Vi abbiamo raccontato perché le banche italiane non prestano più alle piccole e medie imprese. Siamo stati gli unici in Italia a spiegare il meccanismo del perché oggi Draghi impone delle regole, per cui le banche dicono: ok, stiamo alle regole di Draghi ma non prestiamo più alle aziende italiane.Abbiamo raccontato che la disoccupazione in questo paese costa 300 miliardi di euro l’anno, 300 miliardi di produzione mancante (la casta costa 23 miliardi di euro). Abbiam detto: smettere di guardare ai ladri di polli, veniteci dietro e cercate di capire chi veramente rovinando, fottendo la vita di tuo figlio, della tua famiglia, la vita delle persone che ami, il lavoro che hai fatto per tutta la vita. Vi abbiamo raccontato che le austerità portano deflazione. Le austerità vogliono dire meno spesa dello Stato, vuol dire meno ricchezza nelle mani dei cittadini italiani che spendono di meno, vuol dire che le aziende non possono caricare i prezzi, i prezzi crollano, le aziende licenziano: è un cane che si morde la coda in modo drammatico. Siamo stati gli unici in Italia a raccontarvi queste cose, vi abbiamo detto che il discorso delle riforme e della competitività di cui parlano tutti questi politici del Pd italiano (ma anche gli europei) non vogliono dire niente. Vogliono dire semplicemente che tu prendi 100 cani e gli butti 70 ossi in un giardino: 30 cani torneranno indietro senza osso. Tu allora li prendi, gli fai tutto il training, li rendi competitivi, fai le riforme del lavoro… però nel giardino butti solo 70 ossi a 100 cani, quindi per i prossimi ventimila anni 30 cani torneranno senza osso.Vi abbiamo raccontato che cosa vuol dire questa balla che raccontano agli italiani per abbassargli gli stipendi e rovinare uno dei paesi più ricchi del mondo. Vi abbiamo raccontato che state pagando voi: è dal 1992 – e siamo l’unica trasmissione italiana che l’ha detto, che gli italiani pagano col proprio debito e coi propri risparmi per mandare avanti il paese. Perché è dal 1992 che sono arrivati i “tecnici” – quelli seri, con la faccia da primario – e avete pagato voi per l’andamento di questo paese: non dovevate pagare voi, doveva essere lo Stato che dava a voi (e voi che risparmiavate, per fare una vita decente). Abbiamo raccontato la chemio-tassazione, abbiamo detto che non è dovuta al fatto che bisogna rendere l’Italia più competitiva: è dovuta ak fatto che esiste una moneta sciagurata, ormai considerata sciagurata da tutti gli analisti del mondo, che si chiama euro.Abbiamo raccontato di Renzi, che è l’uomo delle lenticchie, l’uomo del gioco delle tre carte che prende 5 soldi di là e li sposta di qua: non risolverà più nulla, di questo paese, vista anche la posizione anatomica di questo signor Renzi rispetto al presidente del Consiglio italiano, che si chiama Angela Merkel. La cosa più grave che abbiamo denunciato in questo programma è che il sistema-Europa, i trattati europei – che nessuno di voi ha mai votato, né letto, né conosciuto – hanno sottratto all’Italia la sovranità dello Stato, del Parlamento e della Costituzione. Però c’è una cosa che voglio dire, su “La Gabbia”: Gianluigi Paragone può anche dire “ok, io ho fatto la mia carriera, ho fatto il mio mestiere, denuncio le cose che Floris non denuncia, che Santoro non denuncia”. No, non le denunciano. Massimo D’Alema, un porco della politica, va naturalmente dal porco dell’informazione – gente come Santoro, come Floris. Io voglio dire due cose, sui giornalisti della “Gabbia”: sapete che questi ragazzi, che hanno 28, 29, 30 anni, e che rincorrono Profumo, Ghizzoni, Draghi… be’, questa è gente che si suicida, professionalmente. Si suicida, perché questi ragazzi hanno trent’anni, e a lavorare non li prenderà più nessuno. E’ drammatico, perché lo fanno per voi che state a casa, lo fanno per la vostra salvezza, per raccontarvi esattamente cosa succede in questo paese – non pensano a se stessi. Ma voi dove siete? Dove siete andati?C’è stato un voto al Parlamento Europeo, e i polli – i polli europei – hanno fatto una rivolta, la rivolta dei polli. Cos’hanno fatto? Hanno preso le pennucce e hanno fatto brr-brr-brr, e il Parlamento Europeo ha fatto brr-brr-brr, ma la Commissione Europea, che non doveva mettere Juncker e invece lo metterà perché lo vuole la Merkel – se ne frega. Adesso gli daranno 5 chicchi di mais in più – 5 chicchi, non di più, perché i polli hanno fatto la rivolta, ok? E poi torneranno con la chemio-tassazione, con l’economicidio, e tanti auguri. Noi cittadini abbiamo perso, perché non sappiamo più capire, non sappiamo più ribellarci. Ci sono queste tre persone: una è Mario Draghi, l’altra è Angela Merkel e quell’altro è Jean-Claude Juncker. Questi sono i potenti d’Europa, quelli che decidono del destino di milioni di persone, della sofferenza di milioni di vostri figli – senza coscienza, senza rimorso. E poi ci sono i patetici, osceni servi di scena Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi. E questi ridono, perché sanno di aver vinto. Ma io dico: no, non avete vinto. Sentite bene quanto vi prometto: verrà un giorno…(Paolo Barnard, “Ve l’avevamo detto, ma voi avete votato per la rivolta dei polli”, testo dell’intervento alla trasmissione “La Gabbia” su La7 nel giugno 2014).Questo programma ha cercato in tutti i modi di impedirvi di scivolare: vi ha dato gli avvisi, gli strumenti, le soluzioni. Datemi un minuto e mezzo per raccontarvi quello che noi per primi (e unici, in Italia) via abbiamo raccontato di questa catastrofe che è l’Eurozona. Noi vi abbiamo raccontato il salvataggio delle banche, vi abbiamo detto come è successo che una ricapitalizzazione della Banca d’Italia in realtà si è trasformata in qualcosa di diverso da quello che ha detto quel giornale da… del “Sole 24 Ore”. In realtà la ricapitalizzazione di Bankitalia si è trasformata in una ricapitalizzazione continua e gratuita delle banche italiane che sono fallite, ma non hanno ricapitalizzato la tua pensione. Abbiamo raccontato che le banche italiane hanno 150 miliardi di prestiti inesigibili che stanno impacchettando e che venderanno a voi cittadini, pensionati. Vi abbiamo raccontato perché le banche italiane non prestano più alle piccole e medie imprese. Siamo stati gli unici in Italia a spiegare il meccanismo del perché oggi Draghi impone delle regole, per cui le banche dicono: ok, stiamo alle regole di Draghi ma non prestiamo più alle aziende italiane.
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Grillo: stop al racket dell’oscuro parassita chiamato Europa
Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.In Italia ha funzionato anche meglio: solo nel 2013, più di trecento aziende al giorno sono state costrette a chiudere. Il motivo è semplice: i grandi sacerdoti dell’austerity hanno basato la loro religione su dati parziali. Non serviva essere economisti per accorgersi che una compressione della spesa in un momento di crisi avrebbe portato a una stagnazione, la quale avrebbe peggiorato la crisi. Perfino al Fondo Monetario Internazionale, alla fine, se ne sono accorti: Blanchard ha ammesso l’errore, ma nessuno ha cambiato direzione. Ne ammazza di più la medicina della malattia, ma nessuno che pensi di interrompere il salasso: si continua a succhiare sangue alle aziende, alle imprese, ai lavoratori, ai pensionati, ai cittadini, ai quali si sottrae ogni giorno una fetta di sovranità, per conferirla nelle mani di un oscuro centro di potere governato da non eletti. Così, questa Europa si è trasformata in un gigantesco parassita, un parassita che vive sulle nostre spalle, un parassita che ci afferra per la gola e ci toglie ossigeno.Ci rassicurano che le cose vanno meglio, che la crisi sta passando, che si intravede la luce alla fine del tunnel, ma sono i fari del treno che ci sta per venire addosso! Il treno si chiama Fiscal Compact, il nuovo irrigidimento del Patto di Stabilità e di Crescita che negli anni è stato sforato dalla stragrande maggioranza degli Stati europei. Così, a un paziente già ammalato, hanno somministrato il colpo di grazia: il pareggio di bilancio. Che in Italia abbiamo inserito addirittura nella Costituzione. Significa che se non abbiamo soldi non possiamo neppure trovarne, privi come siamo di sovranità monetaria, senza indebitarci. Una genialata! In più, ci hanno chiesto di ridurre il rapporto debito pubblico-Pil al 60% in 20 anni. Significa prendere un tessuto economico già disastrato, un tessuto imprenditoriale disperato, un tessuto assistenziale ai limiti dell’inesistente, e applicarvi tagli a pioggia pari anche a 50 miliardi all’anno per vent’anni! E lo chiamano “grande sogno europeo”! Ci accorgeremo presto delle conseguenze del Fiscal Compact sui paesi già piegati dal rigore a tutti i costi. «E poi», come in un celebre romanzo di Agatha Christie, «non ne rimase nessuno».Non contenti, per salvare gli amici degli amici, cioè il mondo della tecno-finanza la cui sconsiderata ingordigia ha ridotto in povertà decine di milioni di persone, hanno istituito il Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e l’hanno ratificato quatti quatti, zitti zitti, come piace a loro. Il Mes indebita interi popoli all’infinito, impegnandosi per centinaia di miliardi che possono essere rinnovati a piacere da un gruppo di oscuri oligarchi che si ritrovano in Lussemburgo, come una setta, senza che nessuno possa leggere le carte che si passano, senza che nessuno possa citarli in giudizio, senza che nessun governo nazionale, neppure futuro, possa rifiutarsi di pagare. E a fronte di questo salasso, che per l’Italia vale da subito 125 miliardi e poi chi lo sa, se un giorno dovessimo avere bisogno di essere salvati, il Mes ci presta i soldi. Ce li presta! E’ come se tu pagassi una kasko per l’assicurazione della tua auto e poi, quando qualcuno ti viene addosso, ti prestano i soldi per il carrozziere. Ce li prestano in cambio di “condizionalità”. Le chiamano “condizionalità”. Ma significano “cessioni di sovranità”. Si infilano nei Parlamenti nazionali e sottraggono ai cittadini ogni giorno un pezzetto dei loro diritti, per conferirli dentro a qualcosa che non c’è ancora. E’ a questo che è servita la crisi. Perché le guerre oggi non si fanno più con i carri armati. Si fanno con lo spread. Da un carrarmato ti puoi difendere: lo spread non lo vedi e non lo senti. E’ un assassino perfetto. Silenzioso ed ineffabile.Grazie allo spread puoi creare strumenti micidiali come l’Erf. Hanno sempre questi nomi biblici, quasi rassicuranti: il Fondo Europeo di Riscatto. Ti fanno credere che devi essere riscattato, perché sei un Piigs. Sei un Piigs anche se versi più soldi all’Europa di quanti alla fine l’Europa non te ne renda. E allora come ti riscattano? Se non ce la fai a rispettare il Fiscal Compact, vengono a suonare con l’esattore alla frontiera, e ti costringono a consegnare gli asset patrimoniali nazionali, le riserve valutarie, le riserve auree e parte del gettito fiscale fino ad ottenere garanzie per tutta la parte eccedente il rapporto del 60% del debito sul Pil. Un curatore fallimentare poi vende tutto. Una immensa Equitalia al cubo! E se consideriamo il gettito fiscale come lo stipendio di uno Stato, l’Europa si trasforma in un creditore che ti impone la cessione del quinto senza che tu possa avere più il controllo del tuo conto in banca.Cosa sarebbe tutto questo? Cosa stiamo diventando? E’ un’immensa Matrix, siamo governati da scienziati pazzi che fanno esperimenti di ingegneria tecnologico-finanziaria su interi popoli e se poi gli esperimenti falliscono e decine di milioni di persone muoiono, allora fa niente: siamo tutti sacrificabili. L’importante è che la casta mondiale, quel 10% degli abitanti della Terra che detiene il 90% delle ricchezze, sopravviva e continui a godere di ottima salute. In Grecia negli ultimi due anni si sono suicidate oltre 7.000 persone: gente che l’ha fatta finita non perché avesse perso il lavoro, ma perché non aveva più neppure da mangiare. Ci sono genitori che hanno deciso di abbandonare i propri figli negli orfanotrofi per garantirgli almeno un pasto al giorno e un letto caldo per l’inverno. In Italia, rispetto ai livelli pre-crisi, ci sono tre milioni di poveri in più (+93,9%), 3 milioni e 700.000 persone disoccupate in più (+122,3%), il Pil è crollato del 9%, la produzione industriale è precipitata del 23,6%, le costruzioni del 43,15%, i consumi delle famiglie si sono ridotti dell’8%, gli investimenti del 27,5%, c’è il -7,8% di occupazione e abbiamo perso quasi due milioni di posti di lavoro.E’ questo il grande successo dell’Europa? Una élite di mentitori di professione che cambia i metodi di calcolo alla bisogna, facendo così sparire in un attimo i dati che non devono essere mostrati? A noi in Italia raccontano spesso che servono più sacrifici, perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma l’Europa che vogliamo noi non è quella che continua a drenare linfa dalla propria gente, che rovina i suoi imprenditori, i suoi lavoratori, che toglie lo Stato sociale ai deboli e tutela i ricchi e i forti. L’Europa che vogliamo noi non è quella che costringe le democrazie in crisi a versare centinaia di miliardi che finiscono su un conto in Lussemburgo a finanziare le democrazie che stanno bene, quelle della Tripla A, come la Germania. L’Europa che vogliamo noi non è quella oscura, un buco nero nel quale tutto entra e dal quale nulla esce, ma è l’Europa della democrazia diretta, dei referendum popolari, delle informazioni che circolano e della conoscenza condivisa. E’ l’Europa consapevole delle scelte ambientali che possono ancora cambiare le sorti del nostro pianeta. E’ l’Europa della libertà individuale, dei diritti, della sostenibilità. E’ l’Europa dei cittadini, non quella di Van Rompuy.(Beppe Grillo, estratti dal discorso “L’Europa che vogliamo”, pronunciato a Strasburgo il 1° luglio 2014).Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.
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Realfonzo: un referendum contro il pareggio di bilancio
Noi riteniamo che le politiche di austerità, con i tagli indiscriminati alla spesa pubblica e gli aumenti della pressione fiscale, siano una sciagura per l’Italia e più in generale per l’Europa. Già nel 2010 io ed altri promuovemmo una lettera contro l’austerità che fu sottoscritta da circa 300 economisti italiani e stranieri, tra cui autorevolissimi studiosi, ma i governi italiani non hanno mutato di una virgola la loro azione. Ci siamo quindi convinti che di fronte a questa sciagura ed emergenza nazionale ed europea, sia necessario mettere in campo il più ampio schieramento possibile di forze politiche e sociali, con un referendum. Da qui abbiamo definito un comitato promotore largo e eterogeneo, con personalità molto diverse per formazione culturale e sensibilità politica. I quattro quesiti propongono di abrogare alcune disposizioni della legge 243 del 2012, la legge ordinaria che applica la riforma costituzionale del pareggio di bilancio spingendo sulla linea di austerità addirittura più del Fiscal Compact e dei trattati europei.
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Educati e repressi, come il mostro della porta accanto
Si può cercare di analizzare l’apparentemente incomprensibile, l’inconcepibile? E’ il copione che con crescente insistenza ripropone la cronaca, anche da aree teoricamente evolute come l’hinterland milanese, «civilizzato se non civile». Il caso di Yara Gambirasio a Brembate quello della donna uccisa a Motta Visconti coi due figli piccoli. Giusto evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dice Massimo Fini, perché l’anonima folla inferocita e pronta al linciaggio «fa più paura e orrore dello stesso assassino». A Motta Visconti il killer è stato Carlo Lissi, marito e padre delle vittime, reo confesso. «Fino all’altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello». Un delitto che sgomenta, scrive Fini sul “Gazzettino”, perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità, senza un movente plausibile. «Si tratta di uno di quei “delitti delle villette a schiera”, come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti», quelli che i criminologi chiamano «“crimini espressivi”, omicidi senza un perché». In netto aumento, in Italia. Motivo? Se cacci la violenza dalla porta, quella rientra dalla finestra – travestita da mostro.Massimo Fini denuncia «la pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale», dimenticando che l’aggressività, «che è una componente fondamentale e vitale dell’essere umano», se viene «compressa come una molla», alla fine «risalta poi fuori nelle forme più mostruose». Un esempio: Lisi, l’assassino di Motta Visconti. «Io credo che se non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di “Genny ‘a carogna”, forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso».Fini cita lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim, che ricorda come nel suo villaggio natale l’uccisione collettiva del maiale – cerimonia molto cruenta, cui partecipavano anche i bambini come lui – fosse uno sfogo naturale dell’aggressività dei componenti della comunità, che in quel modo evitava guai peggiori. «Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari», conclude Fini. Gli antenati «non cercavano di abolire del tutto l’aggressività», ma si limitavano a canalizzarla «in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili». Esempi in tutto il mondo: dai neri africani col rituale della “guerra finta” agli antichi greci con la figura del “capro espiatorio”, «non a caso chiamato “pharmakos”, medicina». In altre parole: «Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali».Si può cercare di analizzare l’apparentemente incomprensibile, l’inconcepibile? E’ il copione che con crescente insistenza ripropone la cronaca, anche da aree teoricamente evolute come l’hinterland milanese, «civilizzato se non civile». Il caso di Yara Gambirasio a Brembate quello della donna uccisa a Motta Visconti coi due figli piccoli. Giusto evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dice Massimo Fini, perché l’anonima folla inferocita e pronta al linciaggio «fa più paura e orrore dello stesso assassino». A Motta Visconti il killer è stato Carlo Lissi, marito e padre delle vittime, reo confesso. «Fino all’altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello». Un delitto che sgomenta, scrive Fini sul “Gazzettino”, perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità, senza un movente plausibile. «Si tratta di uno di quei “delitti delle villette a schiera”, come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti», quelli che i criminologi chiamano «“crimini espressivi”, omicidi senza un perché». In netto aumento, in Italia. Motivo? Se cacci la violenza dalla porta, quella rientra dalla finestra – travestita da mostro.
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I grandi ladri dell’élite mondiale: uno scandalo al giorno
Siamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.Ebbene, lunedì scopriamo che la medesima banca avrebbe allungato circa 400 milioni di commissioni a un suo azionista per evitare il fallimento. Le autorità inglesi indagano. Ma non finisce qui. Questa volta è il procuratore generale di New York a prendere di mira Barclays (con Goldman Sachs e Credit Suisse). È un’inchiesta delicatissima sugli scambi ad alta frequenza e su piattaforme (su cui si scambiano titoli) piuttosto oscure. Per darvi un’idea, sul mercato italiano (nonostante la Tobin tax, inutile anche su questo) circa il 22 per cento degli scambi si svolge in queste forme. Manipolare tassi di interesse e scambi sul mercato, per un’istituzione finanziaria, è il peccato peggiore che si possa immaginare. Non è un caso, la notizia è di ieri, che il mercato dell’argento nato a Londra 117 anni fa, il prossimo 14 agosto chiude battenti: chi si fida di questi trader?Martedì scopriamo che Bnp Paribas, una delle principali banche francesi, e il solito Credit Suisse, sono nuovamente nei guai con gli americani. I francesi rischiano una multarella da 3,5 miliardi (praticamente l’Imu sulla prima casa). Mica un fulmine a ciel sereno: a Parigi si aspettavano una sanzione da un miliardino. Triplicata. I banchieri avrebbero fatto affari con paesi sotto embargo, e avrebbero continuato a farlo anche quando pizzicati dalle autorità americane. Si tratterebbe della multa più alta mai pagata da una banca in America. Il record, di due anni fa, era di Hsbc che versò 1,2 miliardi per aver riciclato i dollari dei narcotrafficanti. Il quel caso, visto che si raggiunse un accordo con il dipartimento di giustizia, venne coniato il termine (solo per le tangenti bancarie anglosassoni): “too big to jail”, troppo grandi per la galera. Il ministro delle finanze francese si è presentato in America per fare lobby, ma il procuratore generale lo ha spaventato e in un video ha detto che nessuna banca è più “too big to jail”. Si è dimenticato del passato.Mercoledì c’è poco da segnalare. Non vorrete commentare Bernie Ecclestone. Il boss della F1 si presenta al tribunale di Monaco con aereo privato, limo, traduttrice privata, stuolo di avvocati e parcheggia nel sotterraneo riservato ai giudici. Con questa pattuglia di assistenti ascolta il suo accusatore che la spara: Bernie mi ha offerto una mazzetta di 80 milioni di dollari per cedere la sua quota della F1. E mi ha anche spiegato che conveniva farlo a Singapore, perché si tratta di un porto sicuro: non paghi le tasse e non ti beccano. Peanuts. Bernie prende il suo jet e se ne va: altro che Maltauro. Giovedì ci si diverte. I giudici cinesi mettono sotto accusa l’inglese Gsk. Il colosso farmaceutico avrebbe pagato stecche a non finire su tutto il territorio cinese, per vendere i suoi medicinali al prezzo otto volte superiore al resto del mondo. Già sentita questa storia. L’indagine va avanti da 10 mesi. Il gruppo licenzia alcuni manager di vertice. Nell’ultimo trimestre del 2013 Gsk, vede crollare le vendite in Cina quasi del 30%. Le autorità parlano di «corruzione su larga scala».Ma torniamo alle nostre banchette. Proprio nel giorno delle indagini su Bazoli & Pesenti, scopriamo che una delle più grandi istituzioni americane, Citi, licenzia 11 dirigenti chiave in Messico. Avrebbero prestato 400 milioni di dollari, grazie all’emissione di fatture false e senza vedere indietro il becco di un quattrino. Poca roba rispetto all’indagine aperta contemporaneamente in Massachusetts, sulla medesima controllata di Citi in Messico, per un’ipotesi di riciclaggio del narcotraffico. Venerdì scopriamo, sempre sulla prima pagina del “Ft”, che il capo di Deutsche Bank se la prende con i propri trader. Invia loro una mail dicendo di non dire più parolacce. «È tutto registrato e al prossimo scandalo (del genere manipolazione tassi di interesse) farebbe molto male alla reputazione della banca, vedere il linguaggio scurrile con cui parlate» è più o meno il senso della richiesta.Venerdì è un giorno buono per la stampa specializzata in corruzione, cioè quella finanziaria. Ci sono i broker americani che pagano prostitute per i propri clienti, c’è la casa automobilistica che non cambia elettronica difettosa e potenzialmente mortale, c’è il tycoon brasiliano che vende le sue azioni il giorno prima del fallimento e nessuno lo può toccare. Insomma c’è, come sempre, di tutto. Resta il fatto che siamo dei dilettanti. Ma dei professionisti nel pensare presuntuosamente di essere peggio di tutti al mondo.(Nicola Porro, “Stecche e tangenti? All’estero sì che ci sanno fare”, dal blog di Porro su “Il Giornale” del 19 maggio 2014).http://www.ilgiornale.it/news/interni/stecche-e-tangenti-allestero-s-che-ci-sanno-fare-zuppa-porro-1020294.htmlSiamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.
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Svalutazione, i miracoli dell’export e la catastrofe euro
In un mondo glabalizzato, la svalutazione competitiva – invocata e impugnata da molti no-euro – non sarebbe più un toccasana, sostengono Carlo Altomonte e Tommaso Sonno, in un intervento su “La Voce”, ripreso da “Megachip”. La loro critica alla “svalutazione facile” si concentra però su un solo aspetto dell’economia, e cioè l’export, mentre trascura totalmente il problema più acuto della presente crisi economico-finanziaria, ovvero l’attacco storico allo Stato, ricattato dalla finanza mondiale e dalla moneta “privatizzata” che trasforma in un incubo il peso del debito pubblico. Molti economisti, sia i “sovranisti” keynesiani che i fautori della riconversione sostenibile dell’economia, insistono infatti sulla fragilità strutturale di un sistema economico neoliberista fondato sulle esportazioni, a cui sarebbe necessario contrapporre un sistema alternativo, nazionale, più ecologico, fondato sulla domanda interna e sulla filiera corta, l’economia sociale dei territori.Nel loro lungo intervento, nel quale si elencano i presunti rischi dell’uscita dalla camicia di forza della moneta unica governata dalla Bce su input della Bundesbank, Sonno e Altomonte dimostrano che «l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli Usa». Oggi, aggiungono i due analisti, l’80% del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore: «Mentre uscire da una “value chain” è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente». Rilevanti, inoltre, «i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali».Sempre riguardo all’export, «agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco-dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più». Con una svalutazione della nuova lira, aggiungono Altomonte e Sonno, se decidessero di non modificare i loro prezzi, «le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia». In compenso «le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania».Questa è la ragione che spinge i due analisti a sostenere che «un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia». La colpa dei no-euro dell’ultima ora? «Guardare al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso». Se è vero però che i vantaggi della moneta sovrana per le esportazioni potrebbero essere effimeri, sono invece catastroficamente palesi tutti gli svantaggi dell’euro per l’economia nazionale complessiva, la tenuta dello Stato, il governo democratico delle istituzioni. E a proposito di storia, bisogna risalire non al secolo scorso, ma al medioevo feudale, per rilevare un analogo dispositivo di potere, così verticistico, elitario e oligarchico. La politica dell’euro di fatto amputa lo Stato nelle sue prerogative costituzionali (investire, a deficit, per i cittadini) e gli toglie il portafoglio con cui far fronte al debito pubblico e alla spesa sociale. Ne sono diretta conseguenza la contrazione del credito, la chiusura di centomila aziende all’anno, la super-tassazione, la disoccupazione record. In altre parole: l’unica certezza è che, se resta nell’euro, l’Italia non ha scampo. E secondo il sociologo Luciano Gallino, un’economia fatta di solo export – cioè di salari sempre più magri, per riuscire a competere nella fabbrica-mondo – finirà a gambe all’aria anche la Germania.In un mondo globalizzato, la svalutazione competitiva – invocata e impugnata da molti no-euro – non sarebbe più un toccasana, sostengono i bocconiani Carlo Altomonte e Tommaso Sonno, in un intervento su “La Voce”, ripreso da “Megachip”. La loro critica alla “svalutazione facile” si concentra però su un solo aspetto dell’economia, e cioè l’export, trascurando totalmente il problema più acuto della presente crisi economico-finanziaria, ovvero l’attacco storico allo Stato, ricattato dalla finanza mondiale e dalla moneta “privatizzata” che trasforma in un incubo il peso del debito pubblico. Molti economisti, sia i “sovranisti” keynesiani che i fautori della riconversione sostenibile dell’economia, insistono infatti sulla fragilità strutturale di un sistema economico neoliberista fondato sulle esportazioni, a cui sarebbe necessario contrapporre un sistema alternativo, nazionale, più ecologico, fondato sulla domanda interna e sulla filiera corta, l’economia sociale dei territori.
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Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti
Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
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Brancaccio: tutti precari? Pessimo affare, ditelo a Renzi
«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».Dare ossigeno all’economia senza aumentare il deficit oltre i limiti imposti da Bruxelles? «La scommessa di Renzi – rispettare il vincolo e abbassare le tasse – si basa evidentemente sulla possibilità che il Pil aumenti, che sia cioè il denominatore ad aumentare facendo scendere il rapporto», dice Brancaccio, intervistato da Luca Sappino per “L’Espresso”. L’economista è scettico: «L’effetto espansivo che Renzi ha previsto di ottenere con questa riduzione delle tasse sarà in realtà modesto, e verrà in parte mitigato dalla diminuzione della spesa pubblica. La spending review su cui tutti puntano può avere un effetto contrario agli 80 euro in busta paga, soprattutto quando si tagliano spese sensibili, come ad esempio il trasporto pubblico». Per il 2014, aggiunge Brancaccio, il taglio della spesa sarà certamente inferiore rispetto a quanto previsto da Renzi. «E’ chiaro quindi che siamo di fronte a un buco di bilancio. Anzi, in un certo senso dovremmo augurarcelo. Anche perché, a prescindere dalle cifre, non esiste un programma di revisione della spesa che sia credibile se realizzato in un semestre».La storia, continua Brancaccio, ci insegna che le revisioni di spesa condotte in fretta e furia «si trasformano in tagli lineari brutali, che colpiscono sempre i soggetti più deboli e non aiutano certo la crescita del Pil». Forse, in Europa sono iniziate «le prove generali per l’annunciato scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro», ma certo non se ne esce con la dottrina della “precarietà espansiva”, perché la precarietà non espande proprio nulla. Dietro, «vi è l’idea che l’intera Eurozona si salva solo se i paesi periferici, a colpi di precarizzazione del lavoro, riescono ad abbattere i salari, i costi e i prezzi. In questo modo si dovrebbe colmare il divario di competitività rispetto alla Germania e si dovrebbero quindi riequilibrare i rapporti di credito e debito all’interno dell’Unione». La storia però smonta ogni illusione: questo meccanismo non funziona, perché «impone ai soli paesi debitori il peso del riequilibrio». In questo modo, «l’intera Unione viene trascinata in una corsa salariale al ribasso, che può determinare una deflazione generalizzata e una nuova crisi del debito».«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».
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Jobs Act, il ricatto: precari per decreto e per sempre
C’è da essere indignati, certamente e anzitutto, per il contenuto dell’annunziato decreto che precarizza definitivamente il mercato del lavoro.La riforma del contratto di lavoro a termine e di apprendistato che Matteo Renzi ha annunciato, come unica misura concreta e immediata in mezzo allo scoppiettio dei suoi annunci di riforma, preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani e adulti. Ma indignazione anche per il modo assolutamente passivo con cui le forze politiche “di sinistra” e le organizzazioni sindacali hanno accolto la notizia, anche perché probabilmente cloroformizzate dall’annunzio di una non disprezzabile “mancia” elargita ai lavoratori sotto forma di sgravio Irpef. Salvo gli opportuni approfondimenti, la sostanza è comunque chiarissima e inequivocabile. Si vuole introdurre la possibilità di stipula di un contratto di lavoro a termine senza indicazione di alcuna causale con durata lunghissima, fino a tre anni.Si dirà, ipocritamente, che questo vale solo per il “primo contratto” a termine tra lo stesso datore di lavoro e il lavoratore, ma l’ipocrisia è evidente, perché a ben guardare, il primo contratto a termine acausale sarà anche l’ultimo, in quanto dopo i 36 mesi di lavoro scatterebbe la regola legale, già esistente, secondo la quale continuando la prestazione di lavoro il contratto si trasforma a tempo indeterminato. Quale è, allora, la formula semplicissima che il decreto offre e suggerisce al datore? Tenere il lavoratore con contratto acausale e alla scadenza sostituirlo. Dal punto di vista del lavoratore significa cercare ogni tre anni un diverso datore di lavoro, e ciò all’infinito, concedendo a Dio la dignità, e rassegnandosi ad una totale sottomissione a ricatti di ogni tipo, sperando di essere confermato a tempo indeterminato una volta o l’altra. È evidente che così, lo stesso datore di lavoro nel suo complesso diventerà una sorta di favola non traducibile in realtà.Rispondo subito ad una prevedibile obiezione: si dirà che però, secondo la bozza del decreto, i lavoratori a contratto a termine acausale non potranno superare il 20% dell’occupazione aziendale: si tratta comunque di una percentuale assai alta (attualmente i contratti prevedono il 10–15%), ed è evidente che quella “fascia” del 20% funzionerà come una sorta di anello esterno all’azienda, nella quale finiranno imprigionati i nuovi assunti e dal quale usciranno solo per entrare in analogo anello di altra azienda. Per i giovani e per i disoccupati, dunque, vi è un solo futuro: restare per sempre precari triennali, ora presso una azienda, ora presso un’altra, ma la stessa sorte attende i lavoratori già stabili i quali magari si sentiranno grati a Renzi per quella mancia economica nel caso dovessero per qualsiasi ragione perdere quel posto di lavoro.Va poi aggiunto che il rispetto effettivo della percentuale massima di occupati a termine su un organico è di difficile monitoraggio: come si farà a sapere se l’azienda alfa di 100 dipendenti o con 100 dipendenti ha già colmato la suo quota di 20 lavoratori a termine? I dati già ci sarebbero presso i Centri per l’impiego, ma sono riservati. Occorrerebbe istituire, presso i Centri per l’impiego, una anagrafe pubblica dei rapporti di lavoro per ottenere l’indispensabile trasparenza: sarebbe una dimostrazione minima di onestà da parte del governo e dell’azienda, ma dobbiamo confessare tutto il nostro scetticismo. Resta da considerare la conformità di questo decreto alla normativa europea in tema di contratto a termine. Il pericolo di abuso che la normativa Ue connette alla ripetizione di brevi contratti a termine, è tutto condensato nella previsione di un lungo contratto a termine acausale, dopo il quale, se il datore consentisse di continuare la prestazione vi sarebbe la trasformazione a tempo indeterminato, ma poiché non la consentirà, vi sarà una condizione di disoccupazione e sottoccupazione, perché il prossimo datore di lavoro si comporterà nello stesso modo.Il principio europeo che la bozza del decreto con vistosa ipocrisia ripete, per il quale la forma normale del contratto di lavoro è quella a tempo indeterminato, viene così non solo aggirato e violato, ma ridotto ad una burletta e questo potrà essere fatto valere di fronte alla Corte di Giustizia Europea. Per fortuna, nel nostro paese fra il tanto diffuso conformismo anche tra le forze politiche e sindacali, esiste la coscienza critica dei singoli operatori indipendenti. Resta da esaminare lo scempio del contratto di apprendistato che viene banalizzato, eliminando qualsiasi severo controllo sulla effettività della formazione professionale ed eliminando altresì quella elementare regola antifrode per la quale non potevano essere conclusi nuovi contratti di apprendistato dal datore di lavoro che non avesse confermato a tempo indeterminato i precedenti apprendisti. È evidente che una regola di questo genere andrebbe introdotta anche per la possibile stipula di contratti a termine ed, invece, la volontà di eliminarla ove già esiste, e cioè nell’apprendistato, dimostra quali sono le vere intenzioni del governo di Matteo Renzi.(Piergiovanni Alleva, “Jobs Act, precari per decreto e per sempre”, da “Il Manifesto” del 14 marzo 2014, ripreso da “Micromega”).C’è da essere indignati, certamente e anzitutto, per il contenuto dell’annunziato decreto che precarizza definitivamente il mercato del lavoro.La riforma del contratto di lavoro a termine e di apprendistato che Matteo Renzi ha annunciato, come unica misura concreta e immediata in mezzo allo scoppiettio dei suoi annunci di riforma, preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani e adulti. Ma indignazione anche per il modo assolutamente passivo con cui le forze politiche “di sinistra” e le organizzazioni sindacali hanno accolto la notizia, anche perché probabilmente cloroformizzate dall’annunzio di una non disprezzabile “mancia” elargita ai lavoratori sotto forma di sgravio Irpef. Salvo gli opportuni approfondimenti, la sostanza è comunque chiarissima e inequivocabile. Si vuole introdurre la possibilità di stipula di un contratto di lavoro a termine senza indicazione di alcuna causale con durata lunghissima, fino a tre anni.