Archivio del Tag ‘licenziamenti’
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Bella democrazia, se il popolo italiano non conta più niente
Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo. Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), «l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher». Camusso ha ragione: «Non c’è libertà nel lavoro senza diritti». Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: «Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita»). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5 Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale? È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così.Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo. Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastallati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.(Angelo Cannatà, “Democrazia, se il popolo non conta più nulla”, da “Micromega” del 16 gennaio 2017).Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo. Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?
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Mai che l’Isis colpisca le banche e il potere, chissà perché
«Ed è subito terrore. Ancora una volta. Secondo modalità che ritornano sempre invariate, sempre le stesse. Quasi come se si trattasse di un copione già scritto, un orrendo copione da mettere in scena a cadenza regolare». Dopo Parigi, Bruxelles e Nizza, è toccato a Berlino. Ma a chi serve, il terrorismo contemporaneo? Se lo domanda il filosofo Diego Fusaro. Che ha già la risposta: tutto quel sangue serve all’élite, per il suo dominio sul resto dell’umanità. Gli attentati, osserva Fusaro, si abbattono «sempre e solo sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate», e mai «sui luoghi reali del potere occidentale», le banche, le centrali finanziarie: «I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati». Le vittime dei terroristi sono le stesse dell’oligarchia, cioè «le masse schiavizzate, sottoproletarie, precarizzate e pauperizzate», che rappresentano il «nemico di classe», lettaralmente «bombardato» dal super-potere, attraverso «agenzie terze» che possono chiamarsi Al-Qaeda o Isis, dietro cui si intravede la regia di servizi segreti, pronti a guidare i killer e depistare regolarmente la polizia.Il terrorismo, scrive Fusaro sul “Fatto Quotidiano”, produce «un grandioso spostamento dello sguardo dalla contraddizione principale», cioè «il nesso di forza classista finanziarizzato». A reti unificate, continua il filosofo, «ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano del capitalismo finanziario (guerre imperialistiche, ecatombi di lavoratori, suicidi di piccoli imprenditori, popoli mandati in rovina)». Ci fanno credere che il nemico, «per il giovane disoccupato cristiano», sia «il giovane disoccupato islamico» e non già «il delocalizzatore, il magnate della finanza, l’apolide e sradicato signore del mondialismo che sta egualizzando il pianeta nella disuguaglianza del libero mercato». Per questa via, continua Fusaro, «il conflitto servo-signore è, ancora una volta, frammentato alla base: si ha l’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono», perché il terrorismo «frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (islamici vs cristiani, orientali vs occidentali)».Inoltre, questo terrorismo «permette l’attivazione di quel paradigma securitario che, ancora una volta, giova unicamente al signore globalista e finanziario». Si attiva il modello americano del Patriot Act innescato dall’11 Settembre: «Per garantire sicurezza, si toglie libertà». E cioè: «Meno libertà di protesta, meno libertà di organizzazione, più controlli, più ispezioni, più limitazioni». Risultato: «La massa terrorizzata accetta ciò che in condizioni normali mai accetterebbe: la perdita della libertà in nome della sicurezza». Così, a suon di stragi, si prepara il terreno per nuove guerre: «Guerre terroristiche e criminali contro i crimini del terrorismo», come in Afghanistan nel 2001 e recentemente in Siria. «Il terrorismo legittima l’imperialismo occidentale, l’interventismo umanitario, il bombardamento etico, le guerre giuste, e mille altre pratiche orwelliane che, chiamate col loro nome, rientrerebbero esse stesse nella categoria del terrorismo».L’imperialismo occidentale è «coessenziale al regime capitalistico», e viene «legittimato e fatto accettare alle masse terrorizzate e subalterne», scrive ancora Fusaro, che aggiunge: «A differenza di Pasolini, io non so i nomi. Credo, tuttavia, di sapere che cos’è davvero il terrorismo. È la fase suprema del capitalismo. È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi (per dirla con Gramsci), deve adoperarsi in ogni modo (letteralmente: in ogni modo) per favorire il consenso, per riallineare le masse, per disarticolare il dissenso, per sincronizzare le coscienze, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, secondo le debite dosi, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati».«Ed è subito terrore. Ancora una volta. Secondo modalità che ritornano sempre invariate, sempre le stesse. Quasi come se si trattasse di un copione già scritto, un orrendo copione da mettere in scena a cadenza regolare». Dopo Parigi, Bruxelles e Nizza, è toccato a Berlino. Ma a chi serve, il terrorismo contemporaneo? Se lo domanda il filosofo Diego Fusaro. Che ha già la risposta: tutto quel sangue serve all’élite, per il suo dominio sul resto dell’umanità. Gli attentati, osserva Fusaro, si abbattono «sempre e solo sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate», e mai «sui luoghi reali del potere occidentale», le banche, le centrali finanziarie: «I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati». Le vittime dei terroristi sono le stesse dell’oligarchia, cioè «le masse schiavizzate, sottoproletarie, precarizzate e pauperizzate», che rappresentano il «nemico di classe», lettaralmente «bombardato» dal super-potere, attraverso «agenzie terze» che possono chiamarsi Al-Qaeda o Isis, dietro cui si intravede la regia di servizi segreti, pronti a guidare i killer e depistare regolarmente la polizia.
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Disgustoso Poletti, avete fatto di noi i camerieri d’Europa
«Caro ministro Poletti, le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano». Comincia con queste parole la lettera aperta che Marta Fana, ricercatrice impegnata a Parigi, ha affidato a “L’Espresso” dopo la sconcertante uscita dell’ex dirigente LegaCoop, ora membro dell’esecutivo Gentiloni: «Centomila giovani in fuga dall’Italia? Conosco gente che è bene non avere tra i piedi». Poletti ha espresso in modo esplicito un pensiero che dimostra la ormai storica rassegnazione dell’ex sinistra al pensiero unico, quello del mercato, sancita da personalità come Tiziano Treu e Marco Biagi, che hanno firmato le tappe fondamentali della revoca dei diritti del lavoro, per poi arrivare allo scempio della riforma Fornero e al Jobs Act renziano. «Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più – scrive Marta Fana – non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci. Parlo dei voucher, ministro». L’Inps ha appena reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando Poletti è ministro, ne sono stati venduti oltre 265 milioni: «E’ sfruttamento. Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa».Marta Fana si riferisce a un ragazzo di 21 anni, senza indennità per malattia perché «faceva il saldatore a voucher». E aggiunge: «Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi». Quelli che sono rimasti, continua la lettera, sono coloro che per colpa di queste politiche si sono trovati in pochi anni da “generazione 1.000 euro al mese” a “generazione a 5.000 euro l’anno”. «Lo stesso vale per chi se n’è andato e forse prima o poi vi verrà il dubbio che molti se ne sono andati proprio per questo. Quelli che sono rimasti sono gli stessi che lavorano nei centri commerciali con orari lunghissimi e salari da fame. Quelli che fanno i facchini per la logistica e vedono i proprio fratelli morire ammazzati sotto un tir perché chiedevano diritti contro lo sfruttamento. Sono quelli che un lavoro non l’hanno mai trovato, quelli che a volte hanno pure pensato “meglio lavorare in nero e va tutto bene perché almeno le sigarette posso comprarle”».Sono gli stessi che «non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano», perché il governo, come i precedenti,«invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizioni materiali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa». È lo stesso governo che «spende lo 0% del Pil per il diritto all’abitare», e che «si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che garantisca a tutti dignità». Marta Fana non si dichiara “redditista”, ma spiega: «A fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà». La colpa «è vostra», scrive la Fana: è colpa di voi politici, «che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci». Il capolavoro? «Spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio – tanto ci sono i voucher», per poi ridurre le tasse sui profitti. «Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci».Il governo non crede nell’istruzione e nella cultura, vara “La Buona Scuola” ma taglia i fondi a scuola e università, e quindi spedisce il giovani a lavorare da McDonald’s: «Anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada – scrive la Fana a Poletti – chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati». Ma il peggio, continua la lettera al ministro, «è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis». L’imbarazzante esternazione del ministro? «A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti». E ancora: «Non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri». Tutto questo «rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza».In Italia, ormai, studia solo «chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara». Insiste la Fana, rivolta a Poletti: «Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto». Molti di questi genitori, poi, «con la crisi sono stati licenziati». Finito il sussudio di disoccupazione, «potevano soltanto dirci che sarebbe andata meglio, che ce l’avremmo fatta, in un modo o nell’altro. In Italia o all’estero. Chieda scusa a loro – insiste Marta Fana – perché noi delle sue scuse non abbiamo bisogno». E aggiunge: «Noi la sua arroganza, ma anche evidente ignoranza, gliel’abbiamo restituita il 4 dicembre, in cui abbiamo votato No per la Costituzione, la democrazia, contro l’accentramento dei poteri negli esecutivi». No alla supremazia del mercato. «Era anche un voto contro il Jobs Act, contro la “buona scuola”, il piano casa, l’ipotesi dello stretto di Messina, contro la compressione di qualsiasi spazio di partecipazione. E siamo gli stessi che faranno di tutto per vincere i referendum abrogativi contro il Jobs Act, dall’articolo 18 ai voucher, la battaglia è la stessa. Costi quel che costi, noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro. E seppure proverete a far saltare i referendum con qualche operazioncina di maquillage, state pur certi che sugli stessi temi ci presenteremo alle elezioni dall’estero e dall’Italia».«Caro ministro Poletti, le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano». Comincia con queste parole la lettera aperta che Marta Fana, ricercatrice impegnata a Parigi, ha affidato a “L’Espresso” dopo la sconcertante uscita dell’ex dirigente LegaCoop, ora membro dell’esecutivo Gentiloni: «Centomila giovani in fuga dall’Italia? Conosco gente che è bene non avere tra i piedi». Poletti ha espresso in modo esplicito un pensiero che dimostra la ormai storica rassegnazione dell’ex sinistra al pensiero unico, quello del mercato, sancita da personalità come Tiziano Treu e Marco Biagi, che hanno firmato le tappe fondamentali della revoca dei diritti del lavoro, per poi arrivare allo scempio della riforma Fornero e al Jobs Act renziano. «Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più – scrive Marta Fana – non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci. Parlo dei voucher, ministro». L’Inps ha appena reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando Poletti è ministro, ne sono stati venduti oltre 265 milioni: «E’ sfruttamento. Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa».
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Ciao Ue, pure i francesi di sinistra voteranno Marine Le Pen
La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».Anche la Francia, dunque, sta per presentare il conto di «una globalizzazione avvenuta a rotta di collo», con un “politicamente corretto” «imposto aggressivamente e dall’arroganza delle élite». Qualcosa sta franando, scrive Siegel in una riflessione proposta da “Voci dall’Estero”, se è vero che i sondaggisti non ne azzeccano più una, dalla Brexit a Trump. Non sono nemmno riusciti a prevedere che l’ex primo ministro François Fillon avrebbe vinto le primarie per diventare il candidato conservatore alle elezioni presidenziali del prossimo aprile in Francia. Con le sue idee «conservatrici in ambito sociale ma liberiste in campo economico», Fillon «rappresenta un allineamento di opinioni che non si vedeva dagli anni ’40 dell’Ottocento». Tutto sta cambiando, e non se n’è accorto neppure Jean-Claude Juncker, «lussemburghese sconosciuto ai più», ormai «diventato il pubblico zimbello durante il periodo precedente al voto sulla Brexit». Fillon ha detto ai francesi che vuole “ridare al paese la sua libertà”. E come? «Ha promesso di tagliare mezzo milione di posti di lavoro nel settore pubblico, di mettere fine alla settimana lavorativa di 35 ore e di ridurre la corposa regolamentazione del lavoro francese da 3.000 ad appena 150 pagine». Sarebbe una sorta di rivoluzione, scrive Siegel: «La Francia moderna non si è mai sottoposta alle riforme liberiste che hanno ravvivato le economie di Gran Bretagna, Canada, Svezia e Germania».In Francia, continua Siegel, la spesa pubblica rappresenta oggi il 57% dell’economia, «e come negli Stati Uniti – ma peggio – il libero mercato è stato strangolato da uno statalismo fuori controllo». Lo scrittore cattolico George Marlin, di New York, ha descritto come gli elettori cattolici della “Rust Belt”, la fascia degli Stati Uniti centrali dove si collocano le maggiori capitali industriali, oggi in declino, sono «infuriati per l’atrofia economica e per il “politicamente corretto” del liberalismo sociale», e quindi si sono orientati verso Donald Trump, determinandone la vittoria. Qualcosa di simile è successo in Francia, scrive Siegel: «Nell’aprile 2017 Fillon, anglofilo e cattolico praticamente, potrebbe verosimilmente contrapporsi a Marine Le Pen, la leader anti-islamista del Front National, nel ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi». Se ciò accade, «gli espertoni scopriranno che la loro mappa mentale è resa del tutto obsoleta da un conflitto tra due candidati entrambi “conservatori”». E questo è avvenuto «perché la classe lavoratrice francese, una volta rivendicata dalla “sinistra”, è stata abbandonata dai socialisti, così come è avvenuto con la loro controparte in America».I socialisti «si sono dissolti nella ricerca di una incoerente alleanza tra elettori gay, islamici e femministi». Ben li rappresenta il presidente François Hollande, che «ha governato con così tanta inettitudine da raccogliere oggi appena il 4% dei consensi». Al confronto, Hillary Clinton se l’è cavata piuttosto bene con gli uomini della classe lavoratrice bianca, ottenendo il 38% dei voti. «I socialisti francesi sono ritornati alla posizione marginale che avevano nell’Ottocento», scrive ancora Siegel, che ricorda che nel 2001 il padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen, sostenitore della Francia di Vichy, scosse il mondo arrivando secondo alla prima tornata elettorale delle elezioni presidenziali francesi, scavalcando il socialista Lionel Jospin. Il 16% dei voti raccolto da Jospin fu quasi raggiunto da «un confuso assortimento da museo di comunisti, maoisti e trotskisti». Messi assieme, i partiti estremisti della destra e della sinistra avevano raccolto circa un terzo dei voti. Ma poi, nelle elezioni generali, i partiti mainstream si unirono per sostenere Jacques Chirac, che batté Jean-Marie Le Pen con l’82% dei suffragi. Ma il 2016 è diverso, avverte Siegel: «La Francia è demoralizzata. È scossa dall’aggressione musulmana. Si è trascinata per decenni con meno dell’1% di crescita annuale. Il suo tasso di disoccupazione è vicino alla doppia cifra, la disoccupazione giovanile al 24% spinge schiere di giovani verso Londra, Berlino e New York». A rivendicare le parole d’ordine della sinistra – lavoro, diritti, sovranità – è rimasta solo Marine Le Pen.La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».
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Addavenì Roosevelt, ma per ora ci sono i padroni di Matteo
Sarà anche meno simpatico di prima, però è stato bravo, Matteo. Li ha messi tutti nel sacco: Bersani, Letta, Berlusconi. Poi ha fatto il Jobs Act, rottamando quel che restava dei diritti del lavoro, in un paese devastato dal rigore indotto dall’Eurozona. Quindi ha regalato a BlackRock metà di Poste Italiane, società che andava benissimo e fruttava ogni anno quasi mezzo miliardo, allo Stato. E adesso rilancia: più potere al governo, una sola Camera, o me o il diluvio. Ma è solo un esecutore, Matteo. Un esecutore ambizioso, certo, dotato di talento narrativo: è riuscito a far credere di lavorare davvero per l’Italia, anziché per i soliti grandi manovratori, da cui dipende il suo avvenire. Come Jamie Dimon, boss della Jp Morgan, quello che “la Costituzione italiana è oblsoleta, tutela ancora troppo i diritti sociali”. Dimon e Larry Fink, di BlackRock. E Michael Ledeen, super-falco dell’ultradestra americana, suo consigliere-ombra per la politica estera. E il fido Marco Carrai, legato a Israele come Yoram Gutgeld, “mente” economica del Pd renziano ridotto a cinghia di trasmissione dei supremi poteri. “Doveva” vincere, Matteo, contro il timido Letta, l’esausto Silvio, l’increscioso Bersani che consegnò l’Italia a Mario Monti, sottoscrivendo l’operazione internazionale affidata, per la regia italiana, a Giorgio Napolitano.Tutti a sparare contro Gelli, dice Gioele Magaldi, e nessuno che dica – a parte lui – che nello stesso anno in cui Berlusconi entrava nella P2, Napolitano veniva affiliato alla “Three Eyes”, la potentissima Ur-Lodge plasmata da personaggi come Kissinger e Rockefeller. Proprio alla “Three Eyes”, dice sempre Magaldi (massone progressista), il giovane Matteo sta tuttora “bussando”, sperando di essere accolto – nella “Three Eyes”, faro storico della destra massonica mondiale, ma anche presso altri «circuiti massonici neo-aristocratici, segnatamente quelli di cui è protagonista Mario Draghi», come le superlogge “Pan-Europa”, “Edmund Burke”, “Compass Star-Rose” e “Der Ring”, il cui venerabile maestro è il ministro delle finanze tedesco, il terribile Wolfgang Schaeuble. Sono informazioni ormai accessibili al pubblico: Magaldi le ha inserite nel suo libro “Massoni”, edito da Chiarelettere, che i media mainstream hanno evitato di recensire. «Non c’è la documentazione di quanto si afferma», ha detto qualcuno. Magaldi ha sempre risposto prontamente: «Ho a disposizione 6.000 pagine di documenti, se qualcuno dubita della veridicità di quanto ho lo scritto me lo dica, gli dimostrerò che si sbaglia». Silenzio assoluto, naturalmente.Tornando a Matteo: ha avuto buon gioco nel liquidare Letta («che è un esponente dell’Opus Dei», dichiara un altro analista di appartenenza massonica, Gianfranco Carpeoro, autore del dirompente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, pubblicato da Uno Editori). Lo stesso Carpeoro aggiunge: quei “salotti” non lo vogliono, Renzi, perché allarmati – persino loro – dalla straordinaria disinvoltura del fiorentino, troppo privo di scrupoli (“Enrico stai sereno”) persino per i super-squali del massimo potere. Fatto fuori brutalmente Letta, Renzi ha illuso anche Berlusconi, facendosi credere disponibile a condividere il ridisegno strutturale del paese, dalla Costituzione alla legge elettorale. E, prima ancora, aveva bruciato sul traguardo il pessimo Bersani, inchiodato da Grillo alla “non-vittoria” del 2013. Bersani, ovvero: l’emblema della sinistra “politically correct” che ha dato a intendere agli italiani, per vent’anni, che il problema del paese era Berlusconi, e non la svendita dell’Italia ai super-padroni stranieri che manovrano i tecnocrati di Bruxelles, utilizzando l’abortita Unione Europea per svalutare le economie del Sud Europa, deindustrializzare, delocalizzare, demolire i diritti, far crollare il Pil, far esplodere il debito, ridurre l’ex classe media all’esasperazione che sta dietro al successo di Marine Le Pen e Donald Trump.I tempi stanno per cambiare? Forse, e non solo negli Usa. Lo disse, mesi fa, una delle più importanti eminenze grigie del “back office” super-massonico del potere americano, Zbigniew Brzezinki, già consigliere di Carter e stratega della globalizzazione. Ammonì Obama e la Clinton: basta provocazioni, è tempo di un accordo stabile con Russia e Cina. Su un altro piano, a queste dichiarazioni fa ora eco un altro super-potente, il francese Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e “maestro” di Massimo D’Alema. L’epoca dell’austerity è finita, ha detto, ed è stata una catastrofe per l’Europa. Serve un nuovo Roosevelt che cambi faccia al vecchio continente, tornando a investire sulla spesa pubblica per produrre posti di lavoro. Sembra di sognare: nato come socialista, Attali divenne uno dei massimi artefici della politica neo-conservatrice che ha devastato l’Europa, da Maastricht in poi, precipitando nella crisi i paesi dell’Eurozona. Ora Attali ci ripensa: abbiamo sbagliato tutto, ammette. Nel suo piccolo ha sbagliato tutto anche Matteo, ultimamente, facendosi benedire dal tandem morente Obama-Hillary.Si mette male, per il referendum renziano? Chi può dirlo. Certo è che non esiste ancora un piano-B. Da una parte la Merkel e Juncker a puntellare la tecnocrazia della crisi, dall’altra l’esplosione dei cosiddetti populismi. Al povero Matteo, gli italiani credono sempre meno – e a milioni correranno a votare, anche solo per cancellargli dalla faccia il suo trionfalismo ipocrita e provinciale, ormai grottesco. Ma dov’è l’alternativa? Dov’è il nuovo Roosevelt di cui parla l’anziano Attali? Secondo un sondaggio commissionato dalla “Stampa”, due italiani su tre hanno paura di abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea, non riconoscendo né l’uno né l’altra come le vere cause del disastro che subiscono, tra aziende chiuse, lavoratori a spasso, super-tassazione, erosione dei risparmi, zero futuro. Di fronte c’è un Everest praticamente invalicabile, la disinformazione sistemica: il debito pubblico è visto ancora come una colpa, anziché una leva di sviluppo. Le élite ci hanno lavorato per decenni: media, università, libri. Sfugge, al cittadino comune, il valore decisivo della sovranità statale. Non gliel’hanno spiegato né i sindacati né la sinistra di Bersani e quella di D’Alema, che andava a scuola da Attali quando ques’ultimo progettava l’annientamento dell’Europa. Restano i 5 Stelle, dice qualcuno. I 5 Stelle, appunto. Il nuovo Roosevelt può attendere.Sarà anche meno simpatico di prima, però è stato bravo, Matteo. Li ha messi tutti nel sacco: Bersani, Letta, Berlusconi. Poi ha fatto il Jobs Act, rottamando quel che restava dei diritti del lavoro, in un paese devastato dal rigore indotto dall’Eurozona. Quindi ha regalato a BlackRock metà di Poste Italiane, società che andava benissimo e fruttava ogni anno quasi mezzo miliardo, allo Stato. E adesso rilancia: più potere al governo, una sola Camera, o me o il diluvio. Ma è solo un esecutore, Matteo. Un esecutore ambizioso, certo, dotato di talento narrativo: è riuscito a far credere di lavorare davvero per l’Italia, anziché per i soliti grandi manovratori, da cui dipende il suo avvenire. Come Jamie Dimon, boss della Jp Morgan, quello che “la Costituzione italiana è oblsoleta, tutela ancora troppo i diritti sociali”. Dimon e Larry Fink, di BlackRock. E Michael Ledeen, super-falco dell’ultradestra americana, suo consigliere-ombra per la politica estera. E il fido Marco Carrai, legato a Israele come Yoram Gutgeld, “mente” economica del Pd renziano ridotto a cinghia di trasmissione dei supremi poteri. “Doveva” vincere, Matteo, contro il timido Letta, l’esausto Silvio, l’increscioso Bersani che consegnò l’Italia a Mario Monti, sottoscrivendo l’operazione internazionale affidata, per la regia italiana, a Giorgio Napolitano.
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Jobs Act, misero imbroglio fallito: peggior legge di sempre
Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.Operazione costosissima: 8.000 euro l’anno per tre anni vuol dire 24.000 euro di decontribuzione a contratto. Si chiama furto di denaro pubblico. Solo che, prima, gli ispettorati Inps vigilavano e controllavano. Ora hanno smesso di farlo. Praticamente abbiamo regalato 10 miliardi agli evasori. Ecco perché sono cresciuti i contratti senza articolo 18. L’unica condizione era che il lavoratore da assumere non avesse già avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi sei mesi precedenti, perché altrimenti tutti sarebbero ricorsi a licenziamenti, immediatamente seguiti dalle assunzioni con l’incentivo. La decontribuzione veniva invece concessa se il lavoratore avesse prima lavorato con contratto precario, perché queste trasformazioni sarebbero state utilizzate dalla propaganda e diventate il fiore all’occhiello del governo Renzi come grande protagonista della lotta al precariato. E i contratti infatti ora diminuiscono. Nel corso del 2015 si sono registrati 1,4 milioni di nuovi rapporti a tempo indeterminato incentivati, ma con quasi 500.000 trasformazioni di contratti a termine e quasi 100.00 di contratti di apprendistato, oltre alle trasformazioni di centinaia di migliaia di “co.co.pro.”, figura giuridica abrogata dal gennaio di quest’anno.Ma c’è dell’altro. Nel 2016, la decontribuzione è stata ridotta per i contratti di quest’ultimo anno da 8.060 a 3.250 e la sua durata decurtata da 36 a 24 mesi. Allora l’imbroglio è stato svelato. L’Inps, infatti, nei primi quattro mesi del 2016 ha accertato una diminuzione del 78% dei contratti a tempo indeterminato, sostituiti da contratti precari e a termine e addirittura voucher, forma di mercificazione inaudita del lavoro umano. Possiamo parlare di bluff, e anche di reato. Le diverse centinaia di migliaia di trasformazioni dei contratti precari nascondevano una circostanza: erano quasi sempre irregolari. Mancava una causale precisa o l’insegnamento, come nell’apprendistato o il progetto, con la conseguenza che, per legge, quei rapporti dovevano essere considerati già tutti a tempo indeterminato fin dal loro inizio. E dunque l’Inps non poteva concedere la decontribuzione legata alla apparente trasformazione nei nuovi contratti a tutele crescenti. La stessa legge 190/2014 vietava di concedere la decontribuzione ai lavoratori che già fossero in realtà a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti.Il Jobs Act ha aperto anche la strada ai licenziamenti. E’ diventato un’arma di intimidazione individuale e collettiva. In una fabbrica, i lavoratori dopo aver timbrato l’ingresso volevano indossare i vestiti da lavoro necessari alle condizioni di sicurezza per quella fabbrica e poi cominciare. Il padrone invece pretendeva che la vestizione fosse fatta fuori orario. I lavoratori hanno protestato e il padrone ha licenziato subito il primo di loro che si era rifiutato. Gli altri sono stati così intimiditi. Il licenziato al massimo potrà avere 4 mensilità, e che resti a casa. Queste sono le propagandate tutele crescenti. L’articolo 18 era dunque l’ostacolo da rimuovere, l’architrave da spezzare. Una straordinaria norma anti-ricatto, che consentiva il godimento di altri diritti. Era un diritto-architrave, appunto. Oggi abbiamo lavoratori sotto il regime Fornero e altri con il contratto a tutele crescenti. Un balzo enorme indietro, un peggioramento enorme della disciplina del lavoro.Certamente i lavoratori hanno subìto un insulto, ma si possono riprendere tutele e diritti. Con i referendum della Cgil. Che, se passassero, cancellerebbero le tutele crescenti e abolirebbero i voucher, reintroducendo i limiti di responsabilità nella catena degli appalti. Dobbiamo sfruttrare questa occasione e farne un uso positivo per eliminare l’inferno che si è creato in Italia: via articolo 18, contratti a termine senza causale, licenziamenti e voucher. Peggio di così… Il sistema dei nuovi ammortizzatori? Sono un netto peggioramento. Abolita l’indennità di mobilità, abolite molte causali della cassa integrazione e ridotte le altre. Ora c’è il modello americano, della fabbrica a fisarmonica: licenzio e assumo, lavoratori come stracci. La tanto decantata Naspi è esattamente il contrario di ciò che deve essere la sicurezza sociale, basata com’è sul presupposto assicurativo. Perché penalizza chi ha lavorato poco. La Naspi è ridicola. Questo chiude il cerchio: abbiamo la sottrazione di tutele nel posto di lavoro, non c’è cassa integrazione e mobilità, la Naspi penalizza. Vogliono i lavoratori come cagnolini fedeli ai datori di lavoro.(Piergiovanni Alleva, dichiarazioni rilasciate a Vindice Lecis per l’intervista “Ecco perché il colossale e costoso flop del Jobs Act”, pubblicata su “Fuoripagina” il 21 novembre 2016. Il professor Alleva è uno dei più importanti giuslavoristi italiani: ha insegnato diritto del lavoro nelle università di Bologna e Ancona).Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.
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Si goda Trump, l’infame sinistra che ha tradito il popolo
«Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».Filmò tutto per “Report”, Barnard. La mid-class si domandava cosa mai volessero quei “bifolchi” che «ancora pretendevano un salario quando i miliardi si potevano fare a Wall Street, nella Silicon Valley e con Google». E quindi «che crepassero, a milioni, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e di San Francisco, cioè i Democratici e parte dei Repubblicani ‘Liberal’». Il reportage per la Gabanelli, scrive Barnard nel suo blog, includeva una manifestazione a Pittsburgh dove migliaia di anziani marciavano con il trespolo della flebo attaccata al braccio e i cartelli “O la cena, o le cure”. «Ma che cazzo volevano ’sti bifolchi che ancora pretendevano la sanità pubblica quando bastava una polizza per avere tutto? Non l’avevano? Incapaci e falliti loro, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e San Francisco. Poco importa se la sanità ObamaCare ha strafallito dopo aver regalato 70 miliardi di dollari alle assicurazioni. Poco importa se il manifatturiero Usa cerca oggi 3,5 milioni di lavoratori che nessuno ha mai istruito. Sapete, i ragazzi dovevano studiare economics, servizi… non essere bifolchi colletti blu».Dall’America all’Europa: Halikidiki, un villaggio nell’est greco, appena a sud di Macedonia e Bulgaria. «Fu dopo il Trattato di Maastrich e col progressivo allargamento a est della Ue che in Grecia iniziarono a piovere orde di lavoratori dell’est europeo, gente disperata per una cena e che di regola forniva la stessa manodopera di un greco al 40% in meno», racconta Barnard. «L’imbianchino di Halkidiki che incontrai, Sakis Martini, non aveva mai avuto un problema prima. Casetta, soldi, auto, e tanto lavoro. Quando l’incontrai io, aveva subito un crollo di commesse tragico». Si era ridotto a tornare alla pesca notturna per racimolare due soldi in più. «Sono albanesi, macedoni, e chissà da dove», gli disse, «ci stanno fottendo la vita». Ma a Bruxelles «una scrollata di spalle dei colletti bianchi calciava in un angolo il bifolco greco che non capiva l’illuminante destino di una Grande Unione Europea in espansione!». Stessa amarezza per il signor Elio, un pomeriggio del 2000. «Se ne stava passeggiando, mani dietro la schiena, alla periferia di Bologna, quando un cane lupo lo aggredisce. Il cane apparteneva a un campo nomadi, i rom, specie protetta dall’Unesco». Quando il malcapitato protestò coi rom, fu preso a spintoni. Si rivolse alla polizia, ma l’agente gli disse: «Non posso farci nulla. Se li tocco, quelli denunciano me». Scrisse al “Resto del Carlino” una lettera di protesta, «e gli fu risposto dall’illuminata sinistra degli allora Democratici di Sinistra che era un razzista. Tornò a casa, nero di livore, a 76 anni e con una gamba zoppa».Una sera, continua Barnard, si trovava a una cena in un salotto buono «della sinistra Pds, Ds poi Pd», in compagnia di insegnanti, psicologi, politologi. Si mise a urlare: «Questa truffa delle nuove sinistre intellettual-elitarie, voi colletti bianchi sinistra snob, politcally correct e soprattutto servi della nuova finanza mondiale, porterà milioni di occidentali a buttarsi alla destra di Gianfranco Fini o di Bush, e saranno cazzi, stolti!». Dice oggi Barnard: «Donald J. Trump ha vinto esattamente per questo. L’Europa, dalla Le Pen alla Lega, da Alba Dorata in Grecia a Hofer in Austria a Farage in Inghilterra, segue e seguirà. Lo urlai 16 anni or sono».Il “New York Times” ha un grafico oggi che fa impressione, continua Barnard. C’è una mappa bianca con solo i confini degli Stati Usa, coperta da uno sciame di micro-freccette rosse che indicano lo spostamento dei colletti blu verso Trump. «Lo sciame diventa un’invasione di locuste precisamente sopra Pittsburgh, la Pennsylvania, ma anche a ovest e a est lungo tutto la “Rust Belt”. Questo, 16 anni dopo il mio stare in piedi su quel ponte arrugginito a guardare una devastazione sociale che denunciai».Nel tritacarne, osserva Barnard, sono finite anche le classi medie americane, che vedono i loro redditi in termini reali stagnanti addirittura dal 1972, epoca Nixon. «Gente che si trovò a milioni a dormire in tenda dopo la crisi dei subprime, mentre Obama sborsava 13.000 miliardi di dollari per salvare le banche. Una classe media che oggi paga dal 4 al 12% in più su polizze sanità che non coprono neppure un diabete serio. Ci sono anche loro fra i dimenticati dal Dio Sinistra finanziaria politically correct. Ci sono anche loro fra i Trump boys». E’ semplicissimo: «La trasmutazione delle sinistre, sia europee che americane, in arroganti fighetti intellettualoidi snob, politically correct “sons of a bitch”, ’ste sinistre totalmente vendute alla nuova era della finanza speculativa, nemici giurati di qualsiasi economia reale di salari, pensioni, scuole, sanità». Questa «trasmutazione infame delle sinistre», accusa Barnard, «ha tradito per 30 anni centinaia di milioni di persone. Le ha lasciate a marcire, le ha lasciate a gridare proteste a cui veniva risposto dal New Labour di Tony Blair, dai socialisti di Mitterrand in poi, dall’infame Pds-Pd-Unipol, Monte dei Paschi-Lista Tsipras, dai Democratici Usa sopra ogni altro, cioè dalle sinistre intellettual-elitarie, colletti bianchi snob politically correct, e soprattutto servi della nuova finanza mondiale».«Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».
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Vince Trump? Parla all’America rovinata dal mondialismo
Sono passati solo pochi giorni dallo spoglio e la vittoria di Trump è confermata. I media americani non san ancora che pesci pigliare, i media europei, che salvo poche eccezioni, avevano sposato la più “estabilished” Clinton si stanno arrabattando per uscire con analisi “pro Trump”. Ma perché Donald ha vinto? Descritto fino a pochi giorni fa come un ninfomane, folle, guerrafondaio ed evasore di tasse (toccate tutto agli americani tranne sesso e tasse) ora è president. A mio modesto avviso quello che ha convinto gli americani è stata la decisione di Trump, al netto delle sue passioni (di 35 anni fa?) per il sesso femminile, in merito all’economia e la politica estera. Il discorso che ha fatto a Gettysburg il 22 ottobre ha conquistato il popolo americano. Vale la pena considerare alcuni elementi sinteticamente catturati da questo speech. Un americano su 4 nella fascia lavorativa dai 25 ai 54 anni è disoccupato; 1 uomo ogni 6 nella fascia d’età 18-34 è in prigione o è disoccupato; 45 milioni di americani sono poveri; l’entrata media annuale (real median household) è di $1,274 più bassa rispetto al 2000.Dal 2002 l’America ha perso oltre 70.000 fabbriche e 5 milioni di posti di lavoro nel settore manufatturiero. Gli agricoltori non se la passano meglio. Il deficit in beni è salito a 766 miliardi di dollari e sono stati persi oltre 300 miliardi all’anno in furti di proprietà intellettuali. Le attività produttive americane emigrate all’estero (off-shoring) hanno esacerbato questo scenario. Dal Nafta del 1993 all’entrata nel Wto della Cina fino ai recenti accordi con il Sud Corea del 2012 firmato Hillary Clinton. Stati manufatturieri come Michigan, Ohio e North Carolina sono stati particolarmente colpiti. Sotto il mandato di Obama-Clinton molti progetti infrastrutturali sono stati ritardati e o ostacolati. Oltre 60.000 ponti americani sono considerati “strutturalmente deficienti”. Il traffico costa all’economia americana oltre 100 miliardi di dollari all’anno. Sei milioni di americani sono esposti ad acqua contaminata.L’agenda dei primi cento giorni che Trump ha illustrato durante il discorso ha conquistato l’America (punti già menzionati più volte durante la sua campagna). Facciamo alcuni esempi. La Middle Class Tax Relief and Simplification Act. La più grande riduzione delle tasse per la classe media (gli sconfitti di 20 anni di globalizzazione Usa). Una famiglia con due figli avrà un taglio della tassazione del 35%. Stando alla Tax Foundation il piano di tasse di Trump potrebbe da solo aumentare l’economia del 7%, accrescere gli stipendi del 5-6%. Le Pmi, la spina dorsale dell’economia, vedranno le loro tasse tagliate quasi della metà, dal 35% al 15%. I risparmi saranno usati per assumere e espandersi nella comunità (questo ovviamente è tutto da vedere, ma le Pmi tendono ad avere un maggior legame con il territorio in fatto di assunzioni). I miliardi di dollari americani nascosti all’estero saranno rimpatriati con una tassa una tantum del 10%. La Tax Foundation stima che il piano di Trump aumenterà il Pil di un punto percentuale all’anno. Per contro hanno stimato che il progetto di tasse della Clinton decrescerà il Pil di un quarto di punto su base annua.La posizione di Trump, per certi aspetti isolazionista, mira a far uscire gli Usa da ogni accordo internazionale che li danneggi (danneggi la produzione e l’industria nativa) sulla base dell’articolo 2205. Una politica simile mira ad attivare il “End The Offshoring Act”. Una soluzione che stabilisca tariffe che scoraggino le aziende a licenziare personale per trasferirsi all’estero. Questa combinazione di soluzioni ha sicuramente colpito la popolazione bianca stremata e fortemente impoverita, specialmente i colletti blu (la classe media e operaia). Rispetto al settore energetico, Trump ha spinto per una produzione domestica di energia da ogni fonte fossile (poco ecologica ma una forte spinta all’occupazione). In accordo con l’analisi del “Wall Street Journal”, «oltre una dozzina di progetti infrastrutturali energetici, del valore di 33 miliardi di dollari, sono stati rifiutati dal regolatore dal 2012». Stando alla analisi dell’Heritage Foundation, entro il 2030, le restrizioni energetiche del duo Obama-Clinton elimineranno circa mezzo milione di posti di lavoro nel manufatturiero. Queste idee, insieme alle molte altre spiegate a Gettysburg, hanno infiammato gli animi degli americani.(Enrico Verga, “Elezioni Usa 2016, 10 novembre: Trump ha vinto”, dal “Fatto Quotidiano” del 2 novembre 2016).Sono passati solo pochi giorni dallo spoglio e la vittoria di Trump è confermata. I media americani non san ancora che pesci pigliare, i media europei, che salvo poche eccezioni, avevano sposato la più “estabilished” Clinton si stanno arrabattando per uscire con analisi “pro Trump”. Ma perché Donald ha vinto? Descritto fino a pochi giorni fa come un ninfomane, folle, guerrafondaio ed evasore di tasse (toccate tutto agli americani tranne sesso e tasse) ora è president. A mio modesto avviso quello che ha convinto gli americani è stata la decisione di Trump, al netto delle sue passioni (di 35 anni fa?) per il sesso femminile, in merito all’economia e la politica estera. Il discorso che ha fatto a Gettysburg il 22 ottobre ha conquistato il popolo americano. Vale la pena considerare alcuni elementi sinteticamente catturati da questo speech. Un americano su 4 nella fascia lavorativa dai 25 ai 54 anni è disoccupato; 1 uomo ogni 6 nella fascia d’età 18-34 è in prigione o è disoccupato; 45 milioni di americani sono poveri; l’entrata media annuale (real median household) è di $1,274 più bassa rispetto al 2000.
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Il potere è guerra. E pretende il nostro Sì al referendum
Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.In un lungo intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, La Valle parte dall’Italia, dove «succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa». Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. «E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato». L’ex parlamentare della Sinistra Indipendente non usa giri di parole: «E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra». In Africa, in Medio Oriente e anche in Europa «si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori». Nel resto del mondo, peraltro, lo spettacolo non è migliore: è appena fallito il G20 ad Hangzhou, in Cina. I “grandi della terra”, «che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo», non sanno che fare «per i profughi, per le guerre», non vogliono «evitare la catastrofe ambientale», né tantomeno «promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra».L’unica cosa che decidono «è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania». E in tutto questo l’Italia che fa? «Fa eleggere i senatori dai consigli regionali». Ed è l’Italia a crescita zero, col 39% di giovani disoccupati, il lavoro precario, i licenziamenti in aumento: «I poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone». Il governo Renzi «fa una legge elettorale che esclude dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona». Si dice: ce lo chiede l’Europa, cioè il fantasma di un sogno lontano e completamente abortito. «Se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci venga proposta una riforma così».La verità è rivoluzionaria, certo, ma bisogna conoscerla per tempo: «Il guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è passato». Esempio: «Se si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato venti anni prima con la Carta di San Francisco». Idem: «Se si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti suicidi in tutto il mondo». E ancora: «Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in cui è stata precipitata».Dunque, insiste La Valle, la verità del referendum anti-Renzi va conosciuta “finché si è in tempo”. Il vantato risparmio sui costi della politica? Ridicolo: per la Ragioneria Generale dello Stato, il taglio della paga dei senatori vale appena 58 milioni, mentre il costo del Senato resta. Il risparmio sui tempi della politica? Illusione: il bicameralismo rimane, perché «si introducono sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere», creando «un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze». Non è la legge Boschi il vero oggetto della consultazione: la verità è nascosta dietro le urne. Il referendum è «un evento di rivelazione che squarcia il velo sulla situazione com’è: è uno svelamento della vera lotta che si sta svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco». Il voto è rivelatore dello stato del mondo. Bisogna trovare la sua verità nascosta, il suo vero “movente”, la sua vera premeditazione, partendo proprio da Renzi: ha ammesso che la riforma gli è stata “suggerita” da Napolitano. E prima ancora dalla Jp Morgan, che già nel 2013 accusava la nostra Costituzione di tutelare eccessivamente i diritti del lavoro e «la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere».E’ il diktat storico della Commissione Trilaterale fondata da Rockefeller: limitare la democrazia. «La stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali che li rappresentano, il “Financial Times” e il “Wall Street Journal”, i quali dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese». Ci si è messo anche l’ambasciatore americano a Roma: se in Italia vincesse il No, gli “investitori” scapperebbero. I diritti del lavoro Renzi li ha già “sistemati” col Jobs Act. “Spegnendo” il Senato diverrebbe padrone dell’agenda parlamentare. E con l’Italicum – 340 deputati su 615 al partito di maggioranza, a prescindere dal numero di voti ottenuti – ne farebbe “un uomo solo al comando”: sfiduciare il governo, se pessimo, sarebbe prerogativa esclusiva del partito stesso, non più degli eletti. In più le nuove procedure introdotte «renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le leggi di iniziativa popolare». Risultato: «Ci sarà una diminuzione della possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere». Si accorgeranno, “i cittadini”, che sono stati proprio loro a spingere Renzi fin lassù?Tra gli “indizi” che svelano la vera natura della sfida, Raniero La Valle cita la risposta di Romano Prodi, interrogato sul voto: non mi pronuncio, ha detto, perché altrimenti turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. «Dunque non è una questione italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo». Mondo che, continua La Valle, era già cambiato – in modo drastico – ben prima dell’11 settembre 2001. Per lo storico britannico Eric Hobsbawm, il “secolo breve” finì già nel 1991: lì fu dato inizio «a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello definitivo», tant’è vero che l’economista Francis Fukuyama, beniamino della Trilaterale, lo definì come la “fine della storia”: il capitalismo senza più freni, che si finanziarizza e impone in tutto il mondo la legge del più forte. Un potere totalitario che abbatte diritti, conquiste sociali e sovranità democratiche. E attenzione: secondo La Valle «c’è una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica, all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore».Ed ecco il punto: il sacrificio simbolico. Secondo l’antropololo francese René Girard, fin dall’inizio della storia della civiltà, il “delitto fondatore” è l’uccisione della vittima innocente. «Ossia c’è un sacrificio, grazie al quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali». Per un padre dell’Illuminismo come il filosofo inglese Thomas Hobbes, lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano assume il monopolio della forza, ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà. Anche secondo Freud, all’origine della società civile c’è un “delitto fondatore”: quello dell’uccisione del padre. «Se poi si va a guardare la storia – continua La Valle – si trovano molti “delitti fondatori”. Cesare molte volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo, l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo americano”». Da noi, «l’uccisione di Moro è il “delitto fondatore” dell’Italia che si pente delle sue conquiste democratiche e popolari».E qual è il “delitto fondatore” dell’attuale regime del capitalismo globale? Qual è il crimine sacrificale che “battezza” il nuovo regime planetario basato sul governo del denaro? Quale grande evento sdogana questa “economia che uccide”, istituzionalizzando un sistema in base al quale, perché qualcuno stia meglio, altri “devono” stare peggio? E’ la guerra, naturalmente: per la precisione la prima Guerra del Golfo, quella del 1991. «È a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale», scrive Raniero La Valle, che cita una data precisa: il 26 novembre 1991. Quel giorno, il nuovo “regime” si presentò in Italia. Il ministro della difesa Rognoni illustrò in commissione, alla Camera, il Nuovo Modello di Difesa. La “nuova” guerra, quella di oggi. Svanito il nemico sovietico, la vecchia Nato non serviva più: tramontata la guerra fredda, veniva meno anche la deterrenza nucleare. Opportunità storica: investire nella pace e nello sviluppo i miliardi fino ad allora destinati ad armamenti ormai inutili. «Ma l’Occidente fa un’altra scelta: si riappropria della guerra e la esibisce a tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima Guerra del Golfo del 1991».Ci siamo: cambia la natura della Nato, il nemico non è pià l’Est ma il Sud. L’Occidente «cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’Onu». Tramontano anche «gli ideali della comunità internazionale, che erano la sicurezza e la pace». Meglio la guerra, per assicurarsi in modo permanente l’accesso privilegiato alle materie prime, come il petrolio. Riflesso italiano: via l’esercito di leva, serve una milizia di professionisti. Da impiegare non più in Italia ma all’estero, nelle missioni “umanitarie”. Mediterraneo, Somalia, Medio Oriente, Golfo Persico: «La nuova contrapposizione è con l’Islam», a partire dal conflitto israelo-palestinese. «Chi ha detto che non abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991». Col Nuovo Modello di Difesa imposto all’Italia «non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’Onu: viene istituzionalizzata la guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza che avranno l’Islam come nemico». In Parlamento «non si dovrebbe parlare d’altro», e invece «nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non giungerà mai in aula».Un modello-fantasma, sotterraneo ma pienamente operativo da subito: «Tutto quello che è avvenuto in seguito – dalla guerra nei Balcani alle Torri Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a pezzi che oggi, come dice il Papa, è in corso – ne è stato la conseguenza e lo svolgimento». E allora, meglio si capisce, oggi, la verità del referendum renziano: «La nuova Costituzione è la quadratura del cerchio», avverte La Valle. «Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale, con la guerra permanente: chi vuole mantenerli è considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua, i mercati si turbano». La politica? Si faccia da parte: «Non deve interferire sulla competizione e i conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di Stato. Se lo Stato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo dicono i nuovi trattati del commercio globale».Si scrive referendum, ma si legge: ultimo appello. Per Raniero La Valle, votare No «è l’unica speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla schiavitù del mercato globale». Perché «sia la società selvaggia che, con il No, sia dichiarata in difetto e attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il diritto». E’ toccato a Renzi indossare quella maschera, ma al suo posto poteva esseci chiunque altro. Certo, l’attuale premier si è dimostrato l’uomo giusto al posto giusto: «Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi», per sgombrare il campo dagli ultimi inciampi rappresentati dalle Costituzioni che “ripudiano la guerra”. Tutto è guerra, ormai. Questa economia è guerra. Pefettamente mondializzata, a partire dal fatidico 1991, l’anno del “sacrificio” dell’Iraq che spalancò le porte alla nuova epoca fondata sulla violenza internazionale. Da allora, «la guerra è lo strumento supremo per difendere il mercato e far vincere nel mercato».Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.
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Ciao Usa, meglio la Cina: ecco il Brexit. L’Ue? E’ già finita
«Nessuno sembra capire le conseguenze della decisione britannica di lasciare l’Unione Europea: la separazione dei britannici dalla Ue non si farà affatto lentamente, perché l’Unione crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per l’uscita della Gran Bretagna». Così la vede il giornalista Thierry Meyssan, analista internazionale. Tesi: al netto del chiasso dei “populismi” alla Farage, il voto inglese è stato voluto da chi comanda a Londra, che ha ormai capito che il tempo del dominio Usa – di cui Bruxelles è una succursale – è ormai al tramonto. Meglio allora sbaraccare, tenendosi le mani libere per essere i primi, in Europa, a chiudere un accordo strategico col nuovo vincitore, la Cina. La posta in gioco non ha nulla a che fare con le polemiche sull’immigrazione: «Il divario tra la realtà e il discorso politico-mediatico illustra la malattia di cui soffrono le élites occidentali: la loro incompetenza». Ancora nel 1989, il Pcus non “vedeva” il crollo del Muro di Berlino. Poi vennero la fine del Comecon e del Patto di Varsavia, il collasso dell’Urss. «In un futuro assai prossimo assisteremo in modo identico alla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato e – se non staranno abbastanza attenti – allo smantellamento degli Stati Uniti».A differenza delle spacconate di Nigel Farage, l’Ukip non è all’origine del referendum che ha appena vinto, scrive Meyssan su “Megachip”. «Questa decisione è stata imposta a David Cameron da membri del partito conservatore: per loro, la politica di Londra deve essere un adattamento pragmatico al mondo che cambia. Questa “nazione di bottegai”, come la definiva Napoleone, osserva che gli Stati Uniti non sono più né la più grande economia del mondo, né la prima potenza militare. Non hanno dunque più motivo di essere i loro partner privilegiati». Proprio come Margaret Thatcher non ha esitato a distruggere l’industria britannica per trasformare il suo paese in un centro finanziario globale, continua Meyssan, allo stesso modo «questi conservatori non hanno esitato ad aprire la via all’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord, e quindi alla perdita del petrolio del Mare del Nord, per fare della City il primo centro finanziario “off shore” dello yuan».La campagna per il Brexit è stata ampiamente sostenuta dalla Gentry e da Buckingham Palace, che hanno mobilitato la stampa popolare per fare appello a ritornare all’indipendenza. E, contrariamente a quanto spiega la stampa europea, la separazione dei britannici da Bruxelles avverrà alla velocità della luce, cioè prima che possa crollare la stessa Unione Europea. Meyssan insiste con il paragone con l’Urss, che si afflosciò in un amen, una volta iniziato il movimento centrifugo. «Gli Stati membri della Ue che si aggrappano ai rami e continuano a salvare quel che resta dell’Unione non riusciranno ad adattarsi alla nuova situazione, con il rischio di sperimentare le convulsioni dolorose dei primi anni della nuova Russia: caduta vertiginosa del livello di vita e della speranza di vita». E ancora: «Tutti credono, a torto, che il Brexit apra una breccia in cui gli euroscettici andranno a introdursi». Ma il Brexit è solo «una risposta al declino degli Stati Uniti».Il Pentagono, che prepara il vertice Nato a Varsavia, «non ha capito che non era più in grado di imporre ai suoi alleati di sviluppare il loro bilancio della difesa e di sostenere le sue avventure militari». Il dominio di Washington nel mondo è terminato? «Quel che abbiamo è un cambiamento d’epoca».La caduta del blocco sovietico, continua Meyssan, è stata dapprima la morte di una visione del mondo: i sovietici e i loro alleati volevano costruire una società solidale in cui si mettessero quante più cose possibili in comune. Ma hanno avuto «una burocrazia titanica e dei dirigenti necrotizzati». Il Muro di Berlino? «Non è stato abbattuto da anti-comunisti, ma da una coalizione di giovani comunisti e di Chiese luterane. Intendevano rifondare l’ideale comunista liberato dalla tutela sovietica, dalla polizia politica e dalla burocrazia. Sono stati traditi dalle loro élites che, dopo aver servito gli interessi dei sovietici si sono precipitate con tanto ardore a servire quelli degli statunitensi». Oggi, gli elettori del Brexit più impegnati cercano in primo luogo di riguadagnare la loro sovranità nazionale e di far pagare ai leader dell’Europa occidentale l’arroganza di cui hanno dato ampia prova con l’imposizione del Trattato di Lisbona dopo il rifiuto popolare della Costituzione europea (2004- 07). Potrebbero anche essere delusi da ciò che seguirà, sostiene Meyssan. «Il Brexit segna la fine della dominazione ideologica degli Stati Uniti, quella della democrazia al ribasso delle “quattro libertà”», indicate da Roosevelt nel 1941: libertà di parola e di espressione, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura di un’aggressione straniera. «Se gli inglesi risaliranno alle loro tradizioni, gli europei continentali ritroveranno gli interrogativi delle rivoluzioni francese e russa sulla legittimità del potere, e rovesceranno le loro istituzioni a rischio di veder risorgere il conflitto franco-tedesco».Qualcosa di tellurico sta già avvenendo in Francia, dove i sindacati rifiutano il disegno di legge sul lavoro redatto dal governo Valls sulla base di un rapporto dell’Unione Europea, a sua volta ispirato dalle istruzioni del Dipartimento di Stato Usa. «Se la mobilitazione della Cgt ha permesso ai francesi di scoprire il ruolo dell’Ue in questo caso, non hanno ancora colto in cosa consista l’articolazione Ue-Usa. Hanno capito che invertendo le norme e mettendo i contratti aziendali al di sopra dei contratti di settore, il governo rimetteva in realtà in questione la preminenza della legge sul contratto, ma ignorano la strategia di Joseph Korbel e dei suoi due figli, la sua figlia naturale democratica Madeleine Albright e la sua figlia adottiva repubblicana Condoleezza Rice. Il professor Korbel affermava che, per dominare il mondo, era sufficiente che Washington imponesse una riscrittura delle relazioni internazionali secondo termini giuridici anglosassoni. In effetti, nel porre il contratto al di sopra della legge, il diritto anglosassone privilegia nel lungo periodo i ricchi e i potenti in rapporto ai poveri e ai miserabili».È probabile che i francesi, gli olandesi, i danesi e altri ancora cercheranno di rompere con l’Unione europea, continua Meyssan. «Dovranno per tutto ciò affrontare la loro classe dirigente. Se la durata di questa lotta è imprevedibile, il risultato non lascia più dubbi». Quanto alla Gran Bretagna, potrebbe essere Boris Johnson a gestire la transizione, che sarà rapidissima: «Il Regno Unito non aspetterà la sua uscita definitiva dalla Ue per gestire la propria politica. A cominciare dal dissociarsi dalle sanzioni prese contro la Russia e la Siria». A differenza di quel che scrive la stampa europea, la City di Londra non è direttamente influenzata dal Brexit: «Dato il suo status speciale di Stato indipendente sotto l’autorità della Corona, non ha mai fatto parte dell’Unione Europea». E così «potrà utilizzare la sovranità di Londra per sviluppare il mercato dello yuan». Già ad aprile, annota Meyssan, la City ha ottenuto i privilegi necessari firmando un accordo con la Banca centrale della Cina. «Inoltre, dovrebbe sviluppare le sue attività di paradiso fiscale per gli europei».Se il Brexit disorganizzerà temporaneamente l’economia britannica in attesa di nuove regole, è probabile che il Regno Unito – o almeno l’Inghilterra – si riorganizzerà rapidamente ottenendo il massimo profitto. «La domanda è se chi ha concepito questo terremoto avrà la saggezza di far arrivare dei benefici al proprio popolo: il Brexit è un ritorno alla sovranità nazionale, non garantisce la sovranità popolare», conclude Meyssan. «Il panorama internazionale può evolvere in modi molto diversi a seconda delle reazioni che seguiranno. Anche se questo dovesse andare male per alcune persone, è sempre meglio attenersi alla realtà come fanno i britannici, anziché persistere a stare in un sogno fino a quando questo non va in pezzi».«Nessuno sembra capire le conseguenze della decisione britannica di lasciare l’Unione Europea: la separazione dei britannici dalla Ue non si farà affatto lentamente, perché l’Unione crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per l’uscita della Gran Bretagna». Così la vede il giornalista Thierry Meyssan, analista internazionale. Tesi: al netto del chiasso dei “populismi” alla Farage, il voto inglese è stato voluto da chi comanda a Londra, che ha ormai capito che il tempo del dominio Usa – di cui Bruxelles è una succursale – è ormai al tramonto. Meglio allora sbaraccare, tenendosi le mani libere per essere i primi, in Europa, a chiudere un accordo strategico col nuovo vincitore, la Cina. La posta in gioco non ha nulla a che fare con le polemiche sull’immigrazione: «Il divario tra la realtà e il discorso politico-mediatico illustra la malattia di cui soffrono le élites occidentali: la loro incompetenza». Ancora nel 1989, il Pcus non “vedeva” il crollo del Muro di Berlino. Poi vennero la fine del Comecon e del Patto di Varsavia, il collasso dell’Urss. «In un futuro assai prossimo assisteremo in modo identico alla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato e – se non staranno abbastanza attenti – allo smantellamento degli Stati Uniti».
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Dalla Francia, campane a morto per la dittatura dell’Ue
Sono settimane che in un crescendo straordinario di mobilitazione, lavoratori, studenti, sindacati e nuovi movimenti tengono in scacco il governo francese. Pierre Moscovici, commissario Ue e compagno di partito di Hollande, ha speso la sua autorità europea per sostenere, contro la rivolta di popolo, la “Loi Travail”, la legge che copia il Jobs Act di Renzi e la precedente legge Fornero, liberalizzando i licenziamenti economici. E che soprattutto cancella il contratto nazionale rendendo più forti i contratti aziendali, cosa già possibile da noi con l’articolo 8 della legge Sacconi, fatto proprio da diversi accordi sottoscritti da Cgil, Cisl, Uil, che rende valide le “deroghe”, cioè il peggioramento, delle regole dei contratti nazionali in sede aziendale. Tutto il lavoro che ha fatto funzionare Expo a Milano è stato regolato secondo queste deroghe. Queste due misure, libertà di licenziamento e superamento dei contratti nazionali, erano già tra i punti programmatici fondamentali indicati al governo italiano il 5 agosto del 2011 dalla lettera di Draghi e Trichet, a nome della Banca Centrale Europea.Sono oggi nelle raccomandazioni e nei diktat che la Ue e la Troika rivolgono verso i paesi che devono aggiustare i conti. Quando Moscovici sostiene che la regolazione liberista del lavoro che Hollande vuole imporre in Francia è quella che esige l’Unione Europea, dice la verità. In Italia la passività e la complicità dei gruppi dirigenti di Cgil, Cisl, Uil, unite al logoramento dei movimenti di massa, alla autodistruzione della sinistra radicale e a un più generale clima di dissolvimento dello spirito democratico, di cui il “renzismo” è solo l’ultimo prodotto, hanno permesso che simili misure passassero sostanzialmente senza ostacoli. In Francia, invece, per la seconda volta dopo la Grecia, assistiamo a una ribellione generalizzata contro le regole economiche e sociali che governano l’Europa. Dopo il No popolare per ora sconfitto in Grecia dopo la resa di Tsipras, la rivolta francese parla di nuovo a tutta l’Europa. E lo fa con la voce di un popolo che nella storia del nostro continente ha spesso suonato quella campana che poi hanno sentito tutti.Il maggio 2016 in Francia ricorda come progressione della mobilitazione quello del 1968 ed è un segnale di sovvertimento generale degli equilibri di potere del continente. Segnale tanto più significativo in quanto la rivolta è contro un governo socialista. Socialisti, democristiani, conservatori, sono oggi le forze politiche che, spesso assieme e sempre con le stesse politiche liberiste, gestiscono il potere della Unione Europea. Merkel, Hollande, Cameron, Renzi sono oramai parte dello sistema di potere, per questo la rivolta francese, quale che sia il suo risultato finale, segna un punto di svolta e rottura. Rottura che si è realizzata nella piccola Austria, dove da destra e da sinistra gli elettori hanno mandato a picco democristiani e socialisti al governo da sempre. La stessa rottura, e anche qui il risultato non sarà la sola cosa a contare, ci sarà a giugno con il referendum sulla Brexit e, seppure in un contesto diverso, da noi in ottobre con quello sulla controriforma costituzionale. È tutto il sistema europeo che scricchiola e lo fa sotto l’estendersi del rifiuto e della contestazione popolare. È una crisi da accogliere con gioia.Sono convinto che, in un futuro speriamo più vicino possibile, ci si chiederà con compassione e incredulità come sia stato possibile che le decisioni fondamentali di paesi formalmente democratici siano state sottoposte al vaglio e al giudizio meticoloso di controllori esterni. Come sia stato possibile che i parlamenti abbiano accettato di rinunciare alla propria sovranità per delegarla ad autorità esterne non elette da nessuno. E soprattutto ci si chiederà come sia stato possibile che le decisioni sul lavoro, sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola, sul sistema produttivo, sulle stesse regole democratiche, siano state prese in funzione del giudizio su di esse da parte di sconosciuti burocrati installati a Bruxelles dai partiti in condivisione con le banche e il potere economico multinazionale. Ci si chiederà come sia stato possibile rinunciare a decidere sugli aspetti fondamentali della propria vita sociale, economica e politica, accettando il potere quasi assoluto di una entità astratta chiamata Europa. Entità astratta dietro la quale si sono nascosti gli interessi concreti delle élite economiche, delle classi più ricche e delle caste politiche e burocratiche di tutti paesi del continente.Tutte queste élite non avrebbero mai avuto la forza di imporre paese per paese, ognuna direttamente contro il proprio popolo, quella drammatica distruzione delle conquiste sociali e democratiche che oggi stiamo vivendo. Da sole non ce l’avrebbero fatta a smantellare la più importante conquista dei popoli del continente, il patrimonio storico politico che l’Europa avrebbe dovuto accrescere e contribuire a estendere in tutto il mondo: lo Stato sociale. Lo Stato sociale era stato sancito dalle costituzioni antifasciste del dopoguerra. Quelle costituzioni che, come la nostra, si erano date l’obiettivo non della semplice eguaglianza giuridica contenuto nei vecchi statuti liberali, ma quello della eguaglianza sociale. Questo sistema costituzionale non poteva piacere alla finanza internazionale. Nel 2013 la Banca Morgan aveva affermato in un suo documento ufficiale che le costituzioni antifasciste, con la loro marcata impronta sociale, erano un ostacolo verso il pieno dispiegarsi della controriforma liberista. Bisognava abbatterle e a questo è servito il nuovo mantra della politica senza alternative: lo vuole l’Europa!Non c’è sciocchezza ideologica più fuorviante dell’affermazione secondo la quale il limite del progetto europeo è che esso sia solo economico e non politico. È vero sostanzialmente il contrario. Il sistema europeo è un sistema politico, costruito per agevolare il dominio dei mercati sulle nostre vite e per affermare il liberismo estremo nelle relazioni economiche e sociali. La costituzione della Unione Europea, i trattati e i patti che la istituiscono e governano, da quello di Maastricht al Fiscal Compact, disegnano l’architettura rigorosa di un sistema di potere con scopi chiarissimi. L’articolo uno reale della costituzione della Unione Europea, se paragonato a quello equivalente di quella italiana, suona così: “L’Unione Europea è una oligarchia fondata sul mercato, la sovranità appartiene al potere economico e finanziario che la esercita secondo le regole della competitività e del massimo profitto”.La rivolta dei lavoratori e dei giovani francesi sconvolge la costituzione reale dell’Europa e segna l’avvio della sua crisi. I popoli hanno cominciato a capire la verità di fondo di questo sistema europeo e cioè che esso non è riformabile, può solo essere rovesciato. La Ue può solo produrre Jobs act in Italia, Loi Travail in Francia ,Memorandum in Grecia. Altro non sa e non può fare. La campana francese suona a morto per l’Unione Europea delle banche e dell’austerità e tutti popoli europei non possono che festeggiare. E prepararsi a seguire l’esempio degli scioperanti francesi.(Giorgio Cremaschi, “La campana della Francia suona per tutti i popoli europei”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 28 maggio 2016).Sono settimane che in un crescendo straordinario di mobilitazione, lavoratori, studenti, sindacati e nuovi movimenti tengono in scacco il governo francese. Pierre Moscovici, commissario Ue e compagno di partito di Hollande, ha speso la sua autorità europea per sostenere, contro la rivolta di popolo, la “Loi Travail”, la legge che copia il Jobs Act di Renzi e la precedente legge Fornero, liberalizzando i licenziamenti economici. E che soprattutto cancella il contratto nazionale rendendo più forti i contratti aziendali, cosa già possibile da noi con l’articolo 8 della legge Sacconi, fatto proprio da diversi accordi sottoscritti da Cgil, Cisl, Uil, che rende valide le “deroghe”, cioè il peggioramento, delle regole dei contratti nazionali in sede aziendale. Tutto il lavoro che ha fatto funzionare Expo a Milano è stato regolato secondo queste deroghe. Queste due misure, libertà di licenziamento e superamento dei contratti nazionali, erano già tra i punti programmatici fondamentali indicati al governo italiano il 5 agosto del 2011 dalla lettera di Draghi e Trichet, a nome della Banca Centrale Europea.
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Jobs Act e Ttip, francesi in rivolta. E gli italiani? Buonanotte
“Non temere il nemico, che può solo prenderti la vita. Molto meglio che temi i media, poiché quelli ti rubano la verità e l’onore. Quel potere orribile, l’opinione pubblica di una nazione, viene creato da un’orda di ignoranti, compiaciuti sempliciotti che incapaci di zappare o fabbricare scarpe, si sono dati al giornalismo per evitare il Monte di Pietà” (Mark Twain). “Una stampa cinica, mercenaria, demagogica finirà col produrre un popolo altrettanto spregevole” (Joseph Pulitzer). Le fenomenali lotte insurrezionali in Francia, dove si sta applicando la lezione latinoamericana dell’attacco allo Stato capitalista di polizia attravero il blocco dello Stato da parte di tutte le categorie che lo fanno funzionare, meriterebbe un trattamento approfondito e su vasta scala, anche per neutralizzare l’omertà della nostra tremebonda classe politica e dei nostri media asserviti. Omertà con il regime francese che si esprime attraverso l’arma di un silenzio quasi assoluto su quanto da settimane va succedendo in quel paese.Essendo noi quelli dove un prefetto può ridurre d’imperio da 24 a 4 ore uno sciopero dei trasporti, senza che il sindacato sollevi un sopracciglio, sapendo adeguatamente della Francia e dei suoi scioperi ad oltranza, potremmo scoprire che non è detto che i giochi col padrone – che sia Renzi, Boccia, Camusso, Juncker, Draghi, Obama – si debbano sempre fare secondo le regole loro. Ho trovato in rete il documento in calce che fa un interessante confronto tra la nostra situazione e quella francese. Credo che l’autore dello scritto,fidandosi del potenziale di lotta dei lavoratori italiani, pur sottolineando la diserzione dei loro rappresentanti storici, sindacali e politici, trascuri un dato importante: la passivizzazione dei settori sociali che una successione di governi al servizio del grande capitale finanziario transnazionale è riuscita a produrre. Uno degli strumenti più efficaci, dopo la creazione dello Stato della Sorveglianza Totale e della paura, è stato il depistaggio dalla contraddizione principale, quella di classe, quella del rapporto di forza tra padrone e lavoratore, tra sovrano e suddito, tra dipendenza e sovranità, all’obiettivo totalizzante dei – pur validi – diritti civili, unioni di fatto, Glbtq, adozioni.Molto importante è poi un dato storico, metapolitico: in Francia resiste un forte senso patriottico in difesa della sovranità dello Stato, che in passato, a partire da De Gaulle, aveva determinato il rifiuto dell’ingresso nell’apparato militare della Nato e poi aveva prodotto lo straordinario No al referendum sui trattati Ue. In Francia, perciò, mi sembra esserci un terreno più propizio per l’opposizione a provvedimenti di repressione e desertificazione sociale (le 45-50 ore di lavoro settimanali, i contratti aziendali a discapito di quelli nazionali di categoria, la totale flessibilità e il potere assoluto di licenziamento) che la gente percepisce essere la componente francese di un piano transnazionale di trasferimento della ricchezza dal basso in alto, di liquidazione della sovranità popolare e statale, di distruzione progressiva dei diritti e delle libertà democratiche, che hanno per mandanti i tecnocrati non eletti di Bruxelles, Wall Street e la Nato. Cioè forze esterne e prevaricatrici. Fenomeno già riscontrato in tempi recenti quando, facendosi forza della minaccia terroristica, opportunamente coltivata da Charlie Hebdo in poi, Hollande ha tentato di bloccare, con arresti preventivi alla Mussolini, le manifestazioni contro la farsa del Cop21 sul clima. E non gli è riuscito.Schiacciare la società per far passare il Ttip (e la Nato). C’è un’altra considerazione che probabilmente è stata fatta dai dirigenti delle lotte francesi e da gran parte della società. Le misure sociocide ordinate a Hollande e Valls dalle centrali sopra nominate sono il preludio al Ttip, il trattato di libero scambio Ue-Usa, Nato economica, che, come sappiamo e come validi parlamentari del M5S denunciano con forza, è inteso a radere al suolo le costituzioni europee, le salvaguardie di lavoro, ambiente, salute, sovranità, conquistate in decenni di lotte e a sottometterci agli interessi delle multinazionali Usa. Una consapevolezza che in altri paesi europei sembra già più matura, viste le manifestazioni in Germania, 250mila a Berlino, 90mila a Hannover, seguite non malamente da Roma con 30mila. In Francia si è capito che i gravissimi provvedimenti di ordine pubblico – militarizzazione della società, stati d’emergenza, caccia alle streghe per oppositori – adottati con il pretesto degli attentati terroristici (su cui aleggiano ombre nerissime), nelle intenzioni dei loro esecutori e mandanti (esterni) servono proprio a impedire che, contro il dumping sociale e la riduzione della democrazia a mero involucro formale, si possa manifestare una grande e duratura opposizione di massa.Il fatto che questo progetto sia stato messo in crisi in Francia, e addirittura in Belgio, da una vera e propria insurrezione popolare, di tutte le categorie del lavoro e con l’appoggio (Nuit Debout) di altri settori sociali, pur più volatili, ma ugualmente colpiti (prima di tutti quelli dell’lstruzione), potrebbe significare che nè un terrorismo utilizzato come alibi per lo Stato di polizia, nè un concerto mediatico omologato alle strumentalizzazioni e falsificazioni di regime, hanno avuto ancora partita vinta. C’è da augurarsi che questa storia non vada a finire come lo scontro tra i minatori britannici e la Thatcher, Lady di uranio impoverito, antesignana con Reagan di una guerra di sterminio interna e mondiale. Questi formidabili francesi hanno nel Dna il seme del 1989, di Robespierre, della Comune. I britannici del Brexit, dei minatori e, forse, di Oliver Cromwell. E il nostro di seme, quello del ’48, della lotta partigiana, del ‘68, dove s’è nascosto?(Fulvio Grimaldi, “Allons enfants!”, dal blog “Mondo Cane” del 2 giugno 2016).“Non temere il nemico, che può solo prenderti la vita. Molto meglio che temi i media, poiché quelli ti rubano la verità e l’onore. Quel potere orribile, l’opinione pubblica di una nazione, viene creato da un’orda di ignoranti, compiaciuti sempliciotti che incapaci di zappare o fabbricare scarpe, si sono dati al giornalismo per evitare il Monte di Pietà” (Mark Twain). “Una stampa cinica, mercenaria, demagogica finirà col produrre un popolo altrettanto spregevole” (Joseph Pulitzer). Le fenomenali lotte insurrezionali in Francia, dove si sta applicando la lezione latinoamericana dell’attacco allo Stato capitalista di polizia attravero il blocco dello Stato da parte di tutte le categorie che lo fanno funzionare, meriterebbe un trattamento approfondito e su vasta scala, anche per neutralizzare l’omertà della nostra tremebonda classe politica e dei nostri media asserviti. Omertà con il regime francese che si esprime attraverso l’arma di un silenzio quasi assoluto su quanto da settimane va succedendo in quel paese.