Archivio del Tag ‘massacro’
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Carpeoro: tutto resti com’è. Così l’Isis obbedisce al potere
Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto, sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».Per capire il neo-terrorismo, ragiona Carpeoro, basta analizzarne il movente: «Ha un progetto politico, l’Isis?». Non se ne vede traccia: il cosiddetto Califfato Islamico è una barzelletta. «Ha una base etnica, lo Stato Islamico? Neppure: all’Islam aderiscono arabi sunniti, persiani sciiti, bosniaci ariani». E inoltre: «Provengono da un retroterra di profonde sofferenze, i miliziani jihadisti “foreign fighters”». Macché: «Il più delle volte sono figli di famiglie borghesi». Sono anche loro – più che mai – terroristi, certamente. «Ma non hanno niente in comune con un certo Pietro Micca, che nel 1706 fa saltare in aria mezza Torino per opporsi all’assedio francese». Carpeoro traccia una linea rossa che, attraverso svariate geografie, collega i “terrorismi” del passato, lontano e prossimo: da Pietro Micca ai palestinesi dell’Olp, passando per l’Ira irlandese, la Raf tedesca, le Brigate Rosse. «Ovviamente non posso approvare la violenza come metodo di lotta, ma almeno in quei casi si può leggere una coerenza, una proiezione di futuro: la liberazione di territori, la lotta politica per trasformare il governo del paese. I tedeschi della Baader-Meinhof combattevano a modo loro contro il governo di Bonn, inquinato dalla presenza di ex nazisti. Gli irlandesi volevano cacciare gli inglesi dalla loro terra. Le stesse Br aspiravano a una svolta rivoluzionaria in Italia». E l’Isis? Dov’è il suo progetto?Le cose si sono completamente ribaltate, sottolinea Carpeoro, «da quando il potere è finito nelle mani di un’élite oligarchica», che oggi «ha capito che non ha più nessuna chance democratica: non potrebbe in nessun modo godere del consenso popolare, della stima dei cittadini». E allora, per ottenere la loro obbedienza, «impugna l’arma della paura, attraverso il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, cioè attribuito agli islamici in modo fraudolento, ma in realtà concepito e diretto da menti massoniche occidentali, gestito da settori dei servizi segreti e affidato a sciagurata manovalanza che si dichiara islamista, pilotata e manipolata in modo da danneggiare innanzitutto l’Islam, che con il terrorismo non c’entra niente». E’ un massone (o meglio, un super-massone) lo stesso presunto capo dell’Isis, il sedicente “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain dopo esser stato improvvisamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca. Dopo Osama Bin Laden, Al-Baghdadi è l’ultima reincarnazione dell’Uomo Nero, il nemico brutto e cattivo. «Che effetto fa, allora, scoprire che quel tizio è stato iniziato alla stessa superloggia in cui sedevano sia George W. Bush che il capo di Al-Qaeda, Bin Laden?».Il primo a fare il nome di quell’organizzazione-ombra (Hathor Pentalpha, si chiama) è stato Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato a fine 2014). Sta per uscire il “sequel”, con nuovi dettagli destinati ad aggravare ulteriormente la posizione della “loggia del sangue e della vendetta” fondata da Bush senior all’inizio degli anni ‘80, dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane. Al club aderiranno l’intero gruppo neocon statunitense ma anche politici europei, come l’inglese Tony Blair (quello delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam), il francese Nicolas Sarkozy (il killer politico di Gheddafi) e il turco Recep Tayyip Erdogan, invischiato fino al collo nell’invasione della Siria da parte dell’Isis. Ma nell’album di famiglia della “Hathor” non ci sono soltanto le peggiori menti dell’Occidente: accanto ai Bush e a Blair, a Sarkozy e a Erdogan «bisogna aggiungere prima Bin Laden, poi Al-Baghdadi». E’ indispensabile, per capire con chi abbiamo davvero a che fare: l’Uomo Nero è in azione, ma non è una scheggia impazzita come i suoi kamikaze. Sta obbedendo a ordini, a istruzioni precise, che partono dai piani più alti del potere mondiale, occidentale.Un potere che, oggi, non si fa scrupolo di sparare nel mucchio: «E’ il caso dei camion lanciati sulla folla a fare strage: un metodo semplice, economico e con pochi rischi, tranne che per l’attentatore». I terrorismi di ieri sparavano su obiettivi strategici: industriali, banchieri, politici. Oggi, invece, le vittime siamo noi. «Erano terroristi la cui azione – non approvabile, per carità – nasceva comunque da infinite sofferenze, come nel caso dei palestinesi». All’epoca dell’arresto di Renato Curcio, le stesse Br non avevano ancora ucciso nessuno: «Fu Curcio a fare fuoco, sul carabiniere che aveva ucciso sua moglie, Mara Cagol, colpendola alla schiena mentre stava scappando: può un carabiniere sparare alla schiena di qualcuno?», si domanda Carpeoro. Poi, certo, la storia del “vecchio” terrorismo è a doppio fondo, piena di infiltrazioni, in tutti sensi: terroristi “in buona fede” e terroristi “gestiti” dall’intelligence, 007 complici della strategia della tensione e agenti invece onesti, fedeli alle istituzioni. Un caos sanguinoso, infernale, con code processuali infinite, misteri irrisolti e vittime eccellenti – una su tutte, da noi: Aldo Moro.«Alla base, però, c’erano posizioni nette: da una parte una visione eversiva e rivoluzionaria, o irredentista, dall’altra lo Stato». Adesso, invece, a pilotare l’eversione è direttamente il lato oscuro del potere: non ha neppure “cavalcato” il furore dell’Isis, l’ha proprio progettato a tavolino, sfruttando la disperazione di paesi arabi a cui l’Occidente infligge sterminate sofferenze, attraverso la complitcità di dittature filo-occidentali. Questo “funziona” per ottenere la necessaria manovalanza, ma non certo per provocare una sollevazione politica delle popolazioni musulmane, che dell’Isis hanno orrore. «Ieri, i terroristi volevano cambiare tutto. I terroristi di oggi, invece, rispondono agli ordini di chi è deciso a non cambiare niente, dell’attuale sistema: pochissimi hanno in mano tutto, e così deve restare». Rimarremo al buio per sempre? «Oso sperare – azzarda Carpeoro – che magari, nel giro di due o tre generazioni, questa situazione cambierà». Smascherare i mandanti, liberare le nostre società dal ricatto della paura – perfettamente consonante con il ricatto economico dell’austerity, il rigore imposto per via finanziaria dall’élite privatizzatrice che, in Europa, a partire dall’omicidio di Olof Palme, ha stroncato il seme del socialismo democratico. Smontare il teatro del terrore? «A una condizione: che si smetta di dare la caccia all’Uomo Nero. E’ lì apposta per distrarci, per farci odiare qualcuno. E’ lo schema della magia, dell’illusionismo: il potere non fa altro che darci in pasto il cattivo di turno, da detestare. Se invece smettessimo di odiare, una buona volta, avremmo fatto un passo avanti enorme».Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto (video su YouTube), sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».
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“Caro Crozza, se non sei un buffone ti sfido a dire la verità”
Caro Crozza, ti sfido a duello: sei un buffone di talento o solo uno sbruffone? Sei anche un cittadino capace di impegnarsi per la verità? Questo il senso della sfida che Massimo Mazzucco rivolge al comico più amato d’Italia, creatore di esilaranti imitazioni destinate a sbriciolare la credibilità di tante maschere del potere. Crozza fu il primo (e l’unico, nel mainstream italiano) a mettere in scena “l’altra possibile verità” dietro al massacro del Balaclan, a poche ore dalla strage di Parigi: una coraggiosa performance di taglio teatrale, in prima serata, in cui un ineffabile uomo-ombra del supremo potere, attraverso parole livide e minacciose, lascia intendere qualcosa come “siamo stati noi, anche stavolta, e voi ci cascate sempre, credendo alla fiaba dell’Uomo Nero”. Un’uscita tempestiva e temeraria: nessuno, in televisione, si era mai spinto a tanto, mentre a Parigi la polizia dava ancora la caccia “all’Isis”. «Noi facciamo un buon lavoro con i mujaheddin: li creiamo, poi li armiamo coi vostri quattrin», canta l’infido manager della fantomatica “Inc.Cool8”. «Dopo esserci inventati questi beduin, siam costretti a bombardarli ed aumentiamo il Pil. Solo tu lo puoi far: creare dei nemici da ammazzar».Era il 20 novembre 2015, a una settimana dalla macelleria andata in scena a Parigi tra lo stadio, i bistrot del centro e il teatro divenuto tristemente famoso. Poi, quasi ad aggiustare il tiro, un anno dopo lo stesso Crozza si produce in un monologo contro il “complottismo” che fa infuriare Mazzucco, regista dei più importanti documentari realizzati sull’11 Settembre, uno dei quali trasmesso anche da Mentana su Canale 5. Filmati nei quali si dimostra – prove alla mano – che la versione ufficiale (crollo delle Torri a causa di aerei dirottati a insaputa dell’intelligence Usa) è semplicemente ridicola, completamente falsa. «Caro Crozza», gli scrive Mazzucco, «in un recente puntata del tuo show hai preso in giro i cosiddetti “complottisti”, mescolando con sapiente malizia stupidaggini da quattro soldi (come gli alieni di gomma) con argomenti molto più seri (come l’11 Settembre), nel palese tentativo di equiparare gli uni agli altri: è la vecchia tecnica, vile e disonesta, usata dai debunkers del Cicap come Piero Angela o Paolo Attivissimo».Per sfidare Crozza, Mazzucco utilizza il suo blog, “Luogo Comune”: «In particolare, parlando dell’11 Settembre – scrive – hai mescolato le Torri Gemelle con la ridicola faccenda della sosia della Clinton, concludendo “Ma ragazzi, vi rendete conto di quante puttanate si inventano ogni giorno?”, come se la stupidaggine del secondo caso dovesse automaticamente invalidare anche la serietà del primo. Nello stesso segmento – continua Mazzucco, sempre rivolto a Crozza – hai anche dichiarato “C’è gente che dubita persino dello sbarco dell’uomo sulla Luna”, con una tale saccenza che ricordava – appunto – i toni paternalistici dei debunkers sopraccitati». Ed ecco l’invito rivolto al comico: «Visto che sembri animato da certezze incrollabili, ti sfido ad un pubblico confronto su uno qualunque di questi argomenti, a tua scelta. L’11 settembre, oppure lo sbarco sulla Luna (oppure l’assassinio Kennedy, se preferisci). Uno qualunque dei grandi “complotti” della storia moderna per me va bene, non fa nessuna differenza».Mazzucco è disponibile: «Possiamo confrontarci per telefono, alla radio, sulla rete, in televisione, oppure in un bar, davanti ad una semplice telecamera. Puoi anche scegliere un moderatore di tua fiducia, se la cosa ti fa sentire più tranquillo. Per me, nuovamente, non fa nessuna differenza. Scegli tu». In questo modo, aggiunge Mazzucco, «il pubblico potrà finalmente decidere chi è che racconta le stupidaggini più grossolane: “quelli che dubitano dell’11 Settembre e dello sbarco sulla Luna”, oppure quelli che li deridono dall’alto del loro scranno televisivo, convinti di essere intoccabili». Perchè, sottolinea, «è molto facile fare i gradassi all’interno del tuo spettacolo, dove nessuno ti può contestare quello che dici. Leggermente più difficile è farlo durante un vero contraddittorio». L’appello finale: «Forza Crozza, mostraci che sai davvero di cosa parli, quando tocchi argomenti così importanti come l’11 Settembre, e che non sei solo un buffoncello che cerca il facile applauso ripetendo a macchinetta le stupidaggini altrui». Mazzucco si premura anche di informare il comico: «Se vuoi alcune delucidazioni sui casi citati, puoi scrivermi a redazione@luogocomune.net. Sono a tua disposizione».Caro Crozza, ti sfido a duello: sei un buffone di talento o solo uno sbruffone? Sei anche un cittadino capace di impegnarsi per la verità? Questo il senso della sfida che Massimo Mazzucco rivolge al comico più amato d’Italia, creatore di esilaranti imitazioni destinate a sbriciolare la credibilità di tante maschere del potere. Crozza fu il primo (e l’unico, nel mainstream italiano) a mettere in scena “l’altra possibile verità” dietro al massacro del Bataclan, a poche ore dalla strage di Parigi: una coraggiosa performance di taglio teatrale, in prima serata, in cui un ineffabile uomo-ombra del supremo potere, attraverso parole livide e minacciose, lascia intendere qualcosa come “siamo stati noi, anche stavolta, e voi ci cascate sempre, credendo alla fiaba dell’Uomo Nero”. Un’uscita tempestiva e temeraria: nessuno, in televisione, si era mai spinto a tanto, mentre a Parigi la polizia dava ancora la caccia “all’Isis”. «Noi facciamo un buon lavoro con i mujaheddin: li creiamo, poi li armiamo coi vostri quattrin», canta l’infido manager della fantomatica “Inc.Cool8”. «Dopo esserci inventati questi beduin, siam costretti a bombardarli ed aumentiamo il Pil. Solo tu lo puoi far: creare dei nemici da ammazzar».
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Gli Usa truccano gli F-18 da aerei russi, false flag in arrivo?
Vuoi vedere che “si travestono da russi” per combinare qualche disastro, utile a incolpare Mosca? Il precedente, spaventoso, è quello dell’attacco con gas leatali a Ghouta, periferia di Damasco: un massacro, condotto da jihadisti armati dall’Occidente ma a lungo attribuito all’esercito siriano, nell’estate 2013. Corollario: il conto alla rovescia per il bombardamento Nato, fermato in extremis dalla fermezza di Putin che schierò la flotta del Mar Nero davanti alla Siria, mentre il Papa organizzò una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare l’escalation. Ora ci risiamo? C’è chi lo sospetta. Un giornalista canadese, Christian Borys, ha postato su Facebook alcune foto decisamente strane: caccia americani F-18 “truccati” da Sukhoi-27 russi. Stessa, identica livrea bianco-azzurra. «Addestramento standard», precisa il reporter, «però interessante». Eccome. Specie dopo il recente bombardamento americano che ha colpito “per errore” le postazioni dell’esercito siriano, provocando un’ottantina di morti tra i soldati di Damasco e facendo precipitare la situazione in zona pericolo: il Cremlino ha annunciato che d’ora il poi la Russia abbatterà qualsiasi velivolo minacci le truppe siriane impegnate contro l’Isis.A volte, scrive Maurizio Blondet sul suo blog, l’Us Air Force dipinge i suoi aerei dei colori “nemici” per abituare i suoi piloti durante delle simulazioni. Ma il fatto è che si è diffusa (anche sulla Cnn) una conversazione del ministro degli esteri John Kerry, il primo ottobre, captata nei locali della delegazione olandese all’Onu, a margine della assemblea plenaria. Kerry parla con non meglio identificati esponenti della “resistenza” siriana, e dice loro, esasperato: ho perso ogni argomento per poter utilizzare la forza militare americana contro Assad. Parla, evidentemente, di una discussione che si è tenuta nella cerchia presidenziale, dove sostiene di essere stato messo in minoranza: «Io ho sostenuto l’uso della forza. Sono quello che ha annunciato che stavamo per attaccare Assad», riferisce ai suoi interlocutori siriani, probabilmente pensando al “conto alla rovescia” innescatosi dopo l’attacco “false flag” del 2013 con le armi chimiche. «Abbiamo un Congresso che non autorizzerebbe», continua Kerry. E spiega che in Siria “loro”, i russi, «sono stati invitati, noi no». Sicchè, «la sola ragione che ci è rimasta per volare sulla Siria è che stiamo dando la caccia all’Isis. Se andassimo a dar la caccia ad Assad, dovremmo liquidarne tutta la difesa aerea, e non abbiamo la giustificazione legale per far questo».Ma quel che la Cnn ha taciuto, rileva Blondet, è che l’intercettazione continua. Al minuto 11.18, l’interprete traduce dall’arabo all’inglese le frasi di uno dei ribelli, che si ritiene essere Raed Saleh, il rappresentante dei cosiddetti Elmetti Bianchi – quelli che “documentano” il “martirio di Aleppo” a fianco dei jihadisti sul terreno. «La Russia bombarda i civili siriani, i mercati e anche noi, la protezione civile», dice Kerry. Poi domanda: «Avete dei video degli aerei che attaccano? Possiamo avere i video che i nostri agenti hanno chiesto?». Precisa un collaboratore di Kerry: «Dei video autentici degli aerei stessi, ecco quel che ci occorre». Video di aerei russi, o che sembrino russi? Sembrano le premesse per un drammatico remake dell’attacco con il Sarin, che – come chiarì l’indagine di Carla del Ponte, la magistrata svizzera incaricata dall’Onu – fu dovuto a ordigni «forniti dai servizi segreti turchi a una delle tante bande di “ribelli” al soldo dell’Occidente e delle petromonarchie». Lo riconobbe persino la Bbc, ricorda Blondet. Ma adesso Kerry chiede ai “suoi” jihadisti siriani video di aerei russi che commettono atrocità.«Che gli occidentali siano alla disperata ricerca di un pretesto per aiutare i loro terroristi, che stanno cedendo sotto l’offensiva russo-siriana e iraniana, ce l’ha mostrato un altro episodio», racconta Blondet. Il 28 settembre, la missione di Parigi all’Onu ha lanciato l’allarme: due ospedali ad Aleppo Est sono stati bombardati. Un Tweet e una foto di edifici distrutti. «La palese menzogna è stata immediatamente ripresa da Kerry, in dichiarazione congiunta con il collega ministro francese Jean Marc Ayrault». Colpa dei russi, ovviamente. Solo che «nessuno dei gruppi d’opposizione (non erano stati istruiti prima) ha confermato la tragica notizia», nemmeno il notorio Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, gestito dal Regno Unito da un solo “investigatore”, un oppositore di Assad, si basa su contatti telefonici. «Sicchè nella conferenza stampa seguente, il portavoce del Dipartimento di Stato, tempestato da un giornalista non asservito, non ha confermato, anzi ha ammesso che può essersi trattato di “un onesto errore” da parte di Kerry».Dunque non erano russi, gli aerei su Aleppo? E non c’è nemmeno una prova che quegli ospedali siano stati davvero colpiti? Conclusione di Blondet: «Forse, dipingere i caccia Usa coi colori dei bombardieri russi è “standard exercise”. Ma se avviene un bombardamento da parte di aerei azzurrini nelle prossime ore, su un bersaglio di civili indifesi, bambini e donne, vi abbiamo documentato i preparativi di un “false flag”». Peraltro, sarebbe solo una delle tante operazioni “false flag” di cui la storia dell’interventismo americano è piena. «E magari, avvertire in anticipo contribuisce a sventarla». Non c’è pericolo, comunque, che queste notizie si affaccino al telegiornale: «Qualcuno avverta la Botteri: ci sono intercettazioni più scottanti dei discorsi grassocci di Trump sulle donne». Che ne dice, l’inviata Rai negli Usa, «di mandare il servizio di Kerry che parla coi “siriani” e vuole dei video “veri” di aerei russi che bombardano civili?».Vuoi vedere che “si travestono da russi” per combinare qualche disastro, utile a incolpare Mosca? Il precedente, spaventoso, è quello dell’attacco con gas leatali a Ghouta, periferia di Damasco: un massacro, condotto da jihadisti armati dall’Occidente ma a lungo attribuito all’esercito siriano, nell’estate 2013. Corollario: il conto alla rovescia per il bombardamento Nato, fermato in extremis dalla fermezza di Putin che schierò la flotta del Mar Nero davanti alla Siria, mentre il Papa organizzò una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare l’escalation. Ora ci risiamo? C’è chi lo sospetta. Un giornalista canadese, Christian Borys, ha postato su Twitter alcune foto decisamente strane: caccia americani F-18 “truccati” da Sukhoi-27 russi. Stessa, identica livrea bianco-azzurra. «Addestramento standard», precisa il reporter, «però interessante». Eccome. Specie dopo il recente bombardamento americano che ha colpito “per errore” le postazioni dell’esercito siriano, provocando un’ottantina di morti tra i soldati di Damasco e facendo precipitare la situazione in zona pericolo: il Cremlino ha annunciato che d’ora il poi la Russia abbatterà qualsiasi velivolo minacci le truppe siriane impegnate contro l’Isis.
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Perso l’Isis, gli Usa puntano sui curdi per restare in Siria
Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».E’ l’ennesima prova del vero volto della guerra siriana, dove l’Occidente ha sfruttato le prime proteste contro Assad, sul modello della “primavera araba”, per incunearsi in Siria – cioè a ridosso dell’Iran – con feroci milizie islamiste, finanziate e protette da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, nonché Arabia Saudita e Qatar, con il supporto occulto di Israele e lo sfrontato appoggio logistico della Turchia. Il modello operativo: lo stesso della Libia, da cui sono stati fatti affluire molti reparti impiegati contro Gheddafi. Variante: in Siria, dopo la prima versione della guerriglia, targata “Esercito Siriano Libero”, si è passati direttamente al regime terroristico dell’Isis, fino all’impiego di armi di distruzione di massa come il gas Sarin impiegato nella strage di civili alla periferia di Damasco nel settembre 2013. Sviluppi che hanno consentito a Putin di intervenire direttamente, coi bombardieri installati sul suolo siriano. Da qui l’abbattimento del Sukhoi-24 ad opera di un F-16 turco e, pochi mesi dopo, il fallito golpe ad Ankara che ha ribaltato i giochi: oggi, infatti, lo stesso Erdogan stringe la mano a Putin e annuncia che la Turchia si farà garante dell’integrità territoriale della Siria, cioè il paese che proprio i turchi – più di ogni altro – hanno contribuito a devastare, attraverso le armate dell’Isis.Il punto-chiave della svolta, riassume Blondet, sono i combattimenti ora in corso nel nord, ad Hasakah, tra le truppe siriane e la milizia curda dell’Ypg, spalleggiata da centinaia di commandos americani. Una situazione come quella di Aleppo, ma rovesciata: l’esercito siriano occupa la città, ma è circondato dalle milizie curde. Lo Ypg ha intimato ai “regolari” di abbandonare Hasakah, dove l’esercito di Assad è il solo protettore della grossa minoranza cristiana (assira), che teme di dover subire una pulizia etnica se i curdi avessero la meglio. Secondo Blondet, Hasakah potrebbe diventare una delle città del futuro Stato curdo, secondo un programma ben collaudato: “sfratto” delle minoranze e «plebiscito per l’appartenenza allo Stato curdo prossimo venturo, garantito da Usa e Sion». La milizia curda «è assistita dagli americani con la scusa che “combatte lo Stato Islamico” – che nella zona non c’è: combatte invece l’armata legittima di Damasco». I giochi si sono fatti pericolosi quando l’aviazione siriana – intervenuta per aprire vie di rifornimento al suo esercito assediato – ha quasi colpito i militari americani che sostengono l’assedio curdo.Gli aerei di Assad, scrive Blondet, hanno bombardato le posizioni Ypg: nel corso della missione aerea – accusa il Pentagono – poco è mancato che le truppe americane venissero colpite. Reazione immediata: caccia F-22 sono stati lanciati all’inseguimento dei bombardieri siriani. «Il Pentagono ha accusato Mosca, che ha risposto di non entrarci nel bombardamento di Hasakah». Ma, invece di appianare la situazione, «gli americani si sono impegnati in una gravissima escalation, di fatto minacciando di abbattere gli aerei che sorvolano Hasakah, russi o siriani che siano». In base al diritto internazionale, continua Blondet, non c’è alcuna base legale alla presenza di forze armate Usa in Siria. «Per questo, quando l’Air Force (dice) di aver cercato di contattare le forze siriane che stavano colpendo i militari americani sul terreno, Damasco ha ignorato il richiamo – altrimenti sarebbe stato ammettere che gli Usa sono un nemico occupante. Per tutta risposta, il Pentagono – invece di sloggiare le sue truppe da Hasakah, ne ha rafforzato il contingente».L’enormità della situazione, aggiunge Blondet, è stata rilevata dal giornalista tedesco Thomas Wiegold, che ha twittato: “Come? Ora gli Usa praticano il divieto di operare alle forze di un paese sul suo territorio?”. «Il punto è che il voltafaccia di Erdoğan ha messo in grave pericolo la promessa fatta da Usa e Israele ai curdi, di ritagliare per loro uno Stato indipendente (e loro satellite) nella zona tra Turchia, Siria, Iraq e Iran», osserva ancora Blondet. «Erdoğan si è recentemente pronunciato, in inaudita coordinazione con Teheran per “il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria”, di cui quindi Turchia e Iran si fanno garanti (insieme ai russi e a Pechino): quindi nessuno smembramento della Siria per linee etniche e religiose; capendo finalmente che la Turchia, dal progetto, ha solo da perdere – un terzo del suo territorio, abitato dai curdi». Lo ha ripetuto qualche giorno fa il nuovo primo ministro turco Yildirim: «Nei prossimi sei mesi giocheremo un ruolo più attivo in Siria, voglio dire non permetteremo che la Siria sia divisa secondo linee etniche: ci assicureremo che il suo governo non sia basato su etnie».Il fatto è che l’anno scorso, i rappresentanti della regione curda (già autonoma sotto la Costituzione siriana) hanno elevato un annuncio di federalizzazione: annuncio unilaterale, non concordato e incostituzionale – su aperta istigazione statunitense. Gli Usa hanno fornito ai secessionisti «addestramento, armi, munizioni e 350 milioni di dollari “per combattere l’Isis”». La traduzione di Blondet: «Ormai è chiaro che, per i neocon che hanno occupato la politica estera Usa, i trattati internazionali sono stracci di carta: la forza è la sola “ragione”», inlcusa la pulizia etnica. «Oltretutto, i folli sentono l’urgenza frenetica di contrastare i successi di Mosca nell’area, di “far pagare un prezzo a Putin e ad Assad”; recuperare il danno inferto ai loro progetti da Erdoğan e vendicarsi di lui». A questo servirebbe la promessa fatta ai curdi, che lottano da decenni – soprattutto in Iraq e in Turchia – per il loro diritto a esistere, come popolo. Washington oggi ne impugna la causa, in modo evidentemente strumentale. E pericoloso: dietro alla Siria ci sono Mosca, Teheran e Pechino. «L’orribile attentato di Gaziantep, che ha sterminato più di cinquanta curdi partecipanti al matrimonio di un capoccia locale, capo del partito curdo rappresentato ad Ankara, si deve situare in questo quadro», conclude Blondet. «Naturalmente Erdoğan ha accusato l’Isis (ha imparato dagli americani); i curdi presenti hanno accusato Erdoğan. Non senza ragione, credo. Nella gara all’escalation irresponsabile, i neocon non sono i soli».Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».
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Il Tpi: Milosevic innocente, estraneo alle stragi in Bosnia
Presentato come il Macellaio dei Balcani, paragonato a Hitler, destituito e demolito insieme alla Jugoslavia, quindi arrestato e lasciato marcire per cinque anni nel carcere olandese dove poi è morto, l’11 marzo 2006. Salvo poi “scoprire”, adesso, che il leader serbo Slobodan Milosevic non era il responsabile dei crimini di guerra commessi in Bosnia dal 1992 al 1995. L’orrendo massacro della guerra civile bosniaca, dice oggi il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, fu organizzato dalle milizie serbo-bosniache dello “psichiatra pazzo” Radovan Karadzic, arrestato nel 2008 e condannato a 40 anni di pena per il genociodio di Sbrebrenica, nonché per crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi. Il principale esecutore delle “operazioni”, il generale Ratko Mladic, è stato estradato in Olanda nel 2011, presso il tribunale occidentale che adesso – a cinque anni dalla strana morte di Milosevic, vittima di un malore – dichiara che il leader di Belgrado non ha mai promosso né avallato le missioni di sterminio. Al contrario: secondo il Tpi, Milosevic avrebbe fatto di tutto per frenare Karadzic e Mladic.Interrogando Karadzic, i giudici hanno appurato che «il rapporto tra Milosevic e l’accusato si era deteriorato a partire dal 1992», scrive “InSerbia.info”, riportando stralci degli atti processuali. Se all’inizio Belgrado appoggiava i serbo-bosniaci per evitare che la secessione della Bosnia-Erzegovina (dopo quelle di Slovenia e Croazia) frantumasse definitivamente la Jugoslavia, a partire dal 1992 Milosevic si è opposto al progetto della Repubblica Serbia di Bosnia, caldeggiato da Karadzic e Mladic: «Non possiamo prenderci quello che non è nostro», disse Milosevic al leader serbo-bosniaco. Emerge inoltre la preoccupazione di Milosevic per il ricorso alla violenza nei confronti dei civili: «Tutte le componenti, compresa quella musulmana, devono essere protette». Per il leader serbo, l’obiettivo numero uno era «porre fine alla guerra», ripristinando in Bosnia un equilibrio tra le diverse etnie. A massacri compiuti, durante colloqui ufficiali con funzionari governativi, Milosevic ribadì seccamente la sua opinione: «Il più grande errore dei serbo-bosniaci è stato quello di volere una completa sconfitta dei musulmani di Bosnia». Per questo, Belgrado ridusse progressivamente il suo sostegno ai serbo-bosniaci, premendo perché accettassero i piani di pace.«Prima lo ammazzano e poi lo scagionano», commenta Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”, puntando il dito contro il Tpi, un apparato «elefantiaco» (1200 dipendenti), nato come organo giudiziario delle Nazioni Unite. «Costituendosi come parte civile nel processo contro Karadzic – spiega Santoianni – gli eredi di Milosevic sono riusciti ad ottenere una sentenza che, se pur indirettamente, scagiona Slobodan Milosevic dalle accuse per le quali era stato arrestato». La corte di giustizia ha affidato le indagini a un gruppo di lavoro diretto dal professor Cees Wiebes dell’Università di Amsterdam, che in un rapporto di circa 7.000 pagine, reso pubblico nel giugno di quest’anno, scagiona Milosevic. Lo stesso Santoianni denuncia il silenzio dei media mainstream di fronte alla notizia, che smentisce di colpo la colossale montatura, basata su calunnie e orchestrata dai media, per annientare la Serbia e il suo leader. Stampa occidentale assolutamente reticente? «Non me ne meraviglio – scrive Santoianni – considerando il livello che ha raggiunto l’“informazione”, e che ha fatto sì che a diffondere questa notizia siano stati siti serbi o russi. Una delle poche eccezioni è costituita dal sito del giornale inglese del “Guardian”».Anche per Giulietto Chiesa, «è comprensibile che tutti tacciano» sulla riabilitazione di Milosevic. Tutti i grandi media del mondo, cioè «coloro che in un coro unanime lo definirono il “macellaio dei Balcani”; coloro che lo paragonarono a Hitler, iniziando la serie che sarebbe poi continuata con Saddam Hussein, con Muhamar Gheddafi, e che vorrebbero continuare con Bashar el Assad». Ed è altrettanto comprensibile, aggiunge Chiesa su “Megachip”, che tacciano «le cancellerie occidentali, in specie quella americana, che vollero la fine della Jugoslavia e la fine di Milosevic». Possono farlo, tecnicamente, perché la “riabilitazione” formale di Slobodan Milosevic non c’è ancora stata: «La sentenza che la contiene è quella che ha portato lo stesso tribunale a condannare a 40 anni di reclusione Radovan Karadzic. Dunque bisogna leggere quella lunghissima sentenza per scoprire che Milosevic non fu colpevole delle accuse per cui passò in prigione gli ultimi cinque anni della sua vita, da tutti esecrato. Il trucco è tutto qui». La sentenza contro Karadzic risale al 24 marzo di quest’anno. «Siamo quasi alla metà di agosto e tutto il mainstream mondiale non si è accorto di niente. Oppure ha ritenuto utile non accorgersi di niente».Così, continua Chiesa, «tutti i leader occidentali non sono costretti a chiedere scusa, alla Jugoslavia, alla Serbia, ai popoli europei ignari». In realtà, «a ben vedere, toccherebbe a loro adesso sedere sul banco degl’imputati. Infatti, nella sua sentenza del 24 marzo, il tribunale che processò Milosevic dice che “non è soddisfatto dell’insufficiente prova che Milosevic fu favorevole” al piano di espulsione dei musulmani bosniaci e dei croato-bosniaci dal territorio della Bosnia preteso dai serbi». La stessa sentenza, a più riprese, ribadisce – citando documenti – l’esistenza di divergenze sostanziali tra Milosevic e Karadzic in diversi passaggi cruciali della tragica crisi. Milosevic si oppose alla decisione della costituzione della “Repubblica Srpskaja”. «E tante altre circostanze, ora scoperte, rivelano quello che coloro che volevano sapere già sapevano: e cioè che Milosevic, fino alla fine, cioè fino all’inizio dei bombardamenti della Nato sulla Serbia, aveva cercato un accordo con gli occidentali e che fu la signora Albright che decise che quell’accordo non dovesse essere siglato».«Cinque anni di prigione – gli ultimi della sua vita – furono decisi nelle capitali europee e americana in spregio a ogni giustizia, in nome del sopruso con cui lo stato Jugoslavo venne fatto a pezzi», scrive Chiesa. «E la sua morte in carcere avvenne in circostanze estremamente sospette e particolarmente disumane. Ufficialmente ebbe un attacco di cuore. Ma esso arrivò due settimane dopo che il Tribunale gli aveva negato il permesso di essere curato in Russia, come aveva chiesto. Morì nella sua cella, l’ex presidente jugoslavo, tre giorni dopo che il suo avvocato aveva inviato una sua lettera al ministro degli esteri russo, in cui diceva di temere di essere avvelenato». Adesso, conclude Chiesa, «sappiamo quale fu la “giustizia” che quel tribunale perseguiva: quella dei vincitori. Scagiona ora Milosevic, ma tiene nascosta la sua decisione. Non è una distrazione. Il giudice che ha presieduto il processo contro Karadzic, il coreano O-Gon Kwon, era anche tra i giudici che stavano processando Milosevic, prima che morisse. Costui conosceva tutti gli atti di entrambi i processi. Adesso non resta che chiedersi chi paga il suo stipendio e quello dei suoi onorati colleghi».Sempre “InSerbia.info”, una delle fonti della notizia proveniente dall’Aja, sostiene che valga la pena di ricordare, ancora, le strane circostanze della morte di Milosevic, nella sua cella del carcere Tpi a Schevenigen. Da un prelievo eseguito il 12 gennaio 2006, nel sangue del detenuto era stata rilevata una sostanza come la rifampicina, un antibiotico che può provocare pericolose crisi respiratorie. L’esito non fu rivelato al paziente fino al 3 marzo,«a causa della posizione giuridica difficile in cui il dottor Falke (responsabile medico del tribunale) si trovò in virtù delle disposizioni di legge olandesi in materia di segreto medico». La presenza di Rifamicin (farmaco non prescritto) nel sangue di Milosevic «avrebbe contrastato il farmaco contro l’alta pressione che stava prendendo, aumentando così il rischio di un attacco di cuore. Quello che alla fine l’ha ucciso. «Tutto questo – conclude “InSerbia.info” – dà luogo al fondato sospetto che potenti interessi geopolitici preferirono che Milosevic morisse prima della fine del suo processo, dato il “rischio” di vederlo assolto, una volta smontate le menzogne dell’accusa». Anche per questo, forse, per la cattura di Karadzic e Mladic si attese la morte di Milosevic.L’Uomo Nero? Era innocente. Presentato come il Macellaio dei Balcani, paragonato a Hitler, considerato alla stregua di Bin Laden, Saddam, Gheddafi. Quindi destituito e demolito insieme alla Jugoslavia. Arrestato come un criminale e lasciato marcire per cinque anni nel carcere olandese dove poi è morto, l’11 marzo 2006. Salvo poi “scoprire”, adesso, che il leader serbo Slobodan Milosevic non era il responsabile dei crimini di guerra commessi in Bosnia dal 1992 al 1995. L’orrendo massacro della guerra civile bosniaca, dice oggi il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, fu organizzato dalle milizie serbo-bosniache dello “psichiatra pazzo” Radovan Karadzic, arrestato nel 2008 e condannato a 40 anni di pena per il genocidio di Sbrebrenica, nonché per crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi. Il principale esecutore delle “operazioni”, il generale Ratko Mladic, è stato estradato in Olanda nel 2011, presso il tribunale occidentale che adesso – a cinque anni dalla strana morte di Milosevic, vittima di un malore – dichiara che il leader di Belgrado non ha mai promosso né avallato le missioni di sterminio. Al contrario: secondo il Tpi, Milosevic avrebbe fatto di tutto per frenare Karadzic e Mladic.
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Magaldi: Nizza, minaccia cifrata. Prossimo attentato, Italia
Dopo Nizza, ormai è chiaro: nelle intenzioni dei killer, le prossime vittime saremo noi italiani. Sempre che le “menti raffinatissime” che progettano le stragi (non chiamiamole Isis, a meno che non si voglia fare dell’umorismo nero) riescano a superare il formidabile muro di sicurezza, finora invalicabile, che ha protetto il nostro paese in questo interminabile, sanguinoso frangente. Una stagione di violenza cieca, inaugurata dal primo massacro francese, quello della redazione di “Charlie Hebdo” il 7 gennaio 2015, le cui indagini sono state bloccate – con l’imposizione del segreto militare – dopo che la magistratura parigina aveva scoperto il ruolo della Dgse, il servizio di intelligence, nella triangolazione delle armi, di provenienza slovacca, fornite al commando stragista attraverso un trafficante belga. A tradurre la cronaca in analisi è un illustre massone come Gioele Magaldi, uomo di vasti studi, protagonista di clamorose rivelazioni attraverso il dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, vero e proprio caso editoriale, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014. Oggi, mentre in tutta Europa si scatenano kamikaze presentati come “lupi solitari”, Magaldi avverte: il prossimo maxi-attentato, in stile “francese”, potrebbe colpire proprio l’Italia. Ma c’è chi si sta impegnando a fondo per scongiurarlo.«Se finora nulla di grave è accaduto nel nostro paese», dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio” in una trasmissione su web seguita in diretta da centinaia di migliaia di ascoltatori, «è solo per merito dei servizi segreti italiani, che stanno operando un controllo assoluto del territorio in termini di sicurezza, grazie anche alla strettissima sinergia con l’intelligence Usa, che non vuole assolutamente che l’Italia venga colpita». La lettura che Magaldi fornisce degli eventi è interamente massonica: «Sono in azione elementi dei servizi di sicurezza americani che provengono dai settori più progressisti della massoneria», e sanno perfettamente di doversi impegnare contro “colleghi” ascrivibili alla massoneria “reazionaria”, al servizio dell’élite neo-aristocratica, che sarebbe il vero “cervello” di tutte le operazioni di strategia della tensione messe in atto, a livello internazionale, negli ultimi anni. Fino alle più recenti stragi: da quella del Bataclan, compiuta nell’autunno 2016 (il 13 novembre, data-simbolo per la massoneria di ispirazione “templare”) a quello di Bruxelles del 22 marzo, in cui furono colpiti aeroporto e metropolitana (“come in cielo, così in terra”, sempre in chiave simbolica). Da Nizza, poi un “avvertimento” ancora più esplicito. Rivolto palesemente all’Italia.«Nizza un tempo era italiana, e in più è la città natale di Garibaldi – massone anche lui e, per inciso, storicamente, primo “gran maestro” del Grande Oriente d’Italia». E’ dunque perfettamente plausibile, dice Magaldi, ragionare in termini simbolico-esoterici, se si vuole tentare di interpretare i fatti: il vero movente, i veri mandanti (non certo l’Islam “radicale” del jihadismo, che semmai si limita a fornire sciagurata manodopera, largamente inconsapevole del ruolo dei burattinai occulti). Nizza, cioè quasi-Italia, e per giunta il 14 luglio: data-simbolo della “Révolution”, progettata e celebrata dalla massoneria progressista europea non solo francese: furono in paricolare i massoni italiani – Garibaldi in primis, e con lui Mazzini e Cavour – a ispirarsi al 14 luglio per puntare all’unità d’Italia. «Letta in questa chiave la strage di Nizza, il responso è ultra-palese: una minaccia chiarissima al nostro paese». L’Italia “sigillata”, finora, dalla super-efficienza dei suoi servizi? Cioè gli stessi che negli anni di piombo si distinsero per il loro ruolo opaco nelle “stragi impunite”? «Nessuno nega la stagione dei depistaggi e delle infiltrazioni», precisa Magaldi. Che però aggiunge: «Oggi la situazione è completamente cambiata. E la collaborazione virtuosa tra i nostri servizi e quelli americani, per la protezione delle nostre città, ha raggiunto un livello senza precedenti nella storia».Non siamo al riparo al 100%, naturalmente. «Se però un grave attentato dovesse verificarsi, ne capiremo il motivo: vorrà dire che questa straordinaria barriera di sicurezza sarà stata violata dall’interno». Quella, suggerisce Magaldi, è la vera “battaglia” in corso, che si gioca interamente nell’ombra. Perché una cosa è certa: senza “coperture”, oggi, in Europa, è praticamente impossibile compiere stragi. «Lo dimostra, una volta di più, l’incredibile superficialità dell’apparato di sicurezza dispiegato a Nizza, che faceva acqua da tutte le parti». Corollario invariabile: i killer vengono sempre uccisi prima che possano parlare, raccontare la loro storia, motivare il loro gesto. «Sarebbe interessante poterli ascoltare, ma finora non è stato mai possibile», ricorda Magaldi, che dichiara di attingere a fonti riservate ma documentabili, come quelle che alimentano il suo poderoso libro sui “misfatti” della massoneria di potere nel ‘900, tra rivoluzioni e golpe, evoluzioni democratiche e svolte autoritarie, fino alla globalizzazione forzata e all’imposizione del dominio della finanza sull’economia, attraverso lo strapotere di 36 Ur-Lodges, superlogge segrete e internazionali davvero “a responsabilità illimitata”.La peggiore di tutte, sempre secondo Magaldi, fu fondata nel 1980 da George Herbert Bush, per rispondere alla bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane. Evento che provocò due attentati “simmetrici”, a breve distanza l’uno dall’altro: l’attentato al presidente Reagan e, poco dopo, quello a Papa Wojtyla, che era stato sostenuto nella corsa al soglio pontificio dal super-massone Zbigniew Brzezinski, polacco come Giovanni Paolo II e primo “reclutatore” di Osama Bin Laden in Afghanistan (sono di pubblico dominio le foto che documentano quell’incontro). Poi, come sappiamo, Bin Laden fu trasformato in “uomo nero” e accusato – in modo assolutamente infondato – della strage dell’11 Settembre. La cui regia, sostiene sempre Magaldi, coinvolge invece la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush coinvolgendo poi politici come Blair, l’uomo delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam usate per radere al suolo l’Iraq. Ma anche Sarkozy, cioè l’artefice della liquidazione di Gheddafi che ha trasformato la Libia in un inferno terroristico, anticamera della guerra civile in Siria. E poi un tipetto come Erdogan, grande regista occulto della macelleria siriana targata Isis, prima ancora che para-golpista.La Hathor Pentalpha, scrive Magaldi, è definita “loggia del sangue e della vendetta”. Attenzione, come sempre, ai simboli: Hathor è l’altro nome di Iside, la dea egizia cara ai massoni. Pertanto, «non è un caso che l’armata dei tagliatori di teste sia stata battezzata proprio Isis». Una “firma”, appunto. Come quelle, sempre cifrate, di chi si nasconde dietro i killer jihadisti che oggi colpiscono Parigi, Bruxelles, Nizza. E domani anche Roma? Non resta che sperare nella super-intelligence evocata da Magaldi, cui spesso viene contestata la mancata esibizione delle fonti. Se si parla di servizi segreti, va da sé, le citazioni dirette sono tecnicamente impossibili. Ma in realtà, a partire dall’introduzione presente già nella prima edizione nel suo libro, Magaldi chiarisce: «Ogni fatto menzionato è documentabile, ho con me 6.000 pagine di documenti. Se qualcuno desidera chiarimenti, sarò lieto di esibire il materiale». Finora, però, nessuno si è azzardato a farne richiesta, nonostante i personaggi citati siano centinaia, di ieri e di oggi, fino a soggetti tuttora in piena attività come la Merkel e Obama, oppure Draghi, Monti, Napolitano. Silenzio su tutta la linea: strano, vero?Dopo Nizza, ormai è chiaro: nelle intenzioni dei killer, le prossime vittime saremo noi italiani. Sempre che le “menti raffinatissime” che progettano le stragi (non chiamiamole Isis, a meno che non si voglia fare dell’umorismo nero) riescano a superare il formidabile muro di sicurezza, finora invalicabile, che ha protetto il nostro paese in questo interminabile, sanguinoso frangente. Una stagione di violenza cieca, inaugurata dal primo massacro francese, quello della redazione di “Charlie Hebdo” il 7 gennaio 2015, le cui indagini sono state bloccate – con l’imposizione del segreto militare – dopo che la magistratura parigina aveva scoperto il ruolo della Dgse, il servizio di intelligence, nella triangolazione delle armi, di provenienza slovacca, fornite al commando stragista attraverso un trafficante belga. A tradurre la cronaca in analisi è un illustre massone come Gioele Magaldi, uomo di vasti studi, protagonista di clamorose rivelazioni attraverso il dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, vero e proprio caso editoriale, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014. Oggi, mentre in tutta Europa si scatenano kamikaze presentati come “lupi solitari”, Magaldi avverte: il prossimo maxi-attentato, in stile “francese”, potrebbe colpire proprio l’Italia. Ma c’è chi si sta impegnando a fondo per scongiurarlo.
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Terrore fai da te, il mostro sfugge al suo stesso inventore?
Il terrorismo mondiale negli ultimi 15 anni sembra essersi articolato in tre fasi diverse. La prima fase è stata quella in cui si è voluto creare il nuovo brand internazionale del cosiddetto “terrorismo islamico”. L’evento madre ovviamente è stato l’11 Settembre, il quale a sua volta era stato ottimamente preparato dalla “false flag” del primo attentato alle Torri Gemelle, otto anni prima. Una volta che i media mondiali si sono bevuti la messinscena dell’11 Settembre, è stato universalmente stabilito che il terrorismo islamico esisteva, e da quel giorno tutta la geopolitica mondiale ha cominciato a ruotare intorno a questa nuova realtà, con le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq a farla ovviamente da protagoniste. Poi è arrivato l’attentato di Londra del 2005, e con questa terza “false flag” clamorosa è stato stabilito non soltanto che il terrorismo islamico esisteva, ma che avrebbe potuto continuare a colpirci in ogni momento, in ogni parte del mondo. Grazie a questo, i vari governi occidentali hanno ottenuto di poter dare numerosi giri di vite ai diritti civili dei propri cittadini. Questo ha portato alla chiusura della prima fase.Nella seconda fase i grandi burattinai del terrorismo mondiale hanno iniziato a godere dei frutti di ciò che avevano seminato. […] Ogni volta che era necessario, negli Stati Uniti arrivava puntuale un comunicato di Bin Laden, inteso a mantenere viva la paura nella popolazione. E quando non c’era un comunicato di Bin Laden, c’era sempre un imbecille pronto a farsi beccare con le mutande piene di esplosivo mentre si imbarcava su un aereo internazionale. Qualunque attentato succedesse nel mondo – ci veniva detto – era sempre fatto da qualcuno che era in qualche modo “collegato ad Al Qaeda”. E così sono passati gli anni, con una popolazione occidentale alla quale veniva regolarmente ricordato che esiste un “pericolo islamico”. Israele ne ha approfittato per far passare sotto silenzio la sua truculenta repressione nella striscia di Gaza. Staterelli minori magari ne approfittavano per regolare dei conti interni, facendo ricadere il tutto sotto la bandiera del terrorismo. Diversi equilibri nelle nazioni africane venivano alterati con la scusa del terrorismo. E poi naturalmente c’è stata l’Isis, che ha raccolto l’eredità di una Al Qaeda ormai logora e senza più credibilità, rilanciando in Occidente la paura dei tagliagole.E così, da un’operazione all’altra, siamo arrivati all’anno funesto 2015, nel quale sono stati perpetrati i due attentati in Francia (Charlie Hebdo e Bataclàn) che hanno stabilito definitivamente che da oggi anche noi europei dobbiamo avere costantemente paura. E gli attentati di Bruxelles hanno fatto da perfetto corollario ai primi due. Ora però questa seconda fase sembra terminata, o meglio, sembra che sia sfuggita di mano ai suoi creatori, per dare luogo ad un’ondata di attentati fai-da-te che diventa sempre più difficile da catalogare all’interno di categorie ben precise. Talmente poco ortodossi sembrano essere questi terroristi dell’ultima ora, che i media si sono affrettati ad inventare un nuovo termine: il terrorista “radicalizzato rapidamente”. Come se il terrorista fosse una specie di bibita liofilizzata contenuta in bustina, nella quale basta versare un po’ d’acqua per “radicalizzarlo” dalla sera alla mattina.In realtà gli ultimi episodi – quello di Nizza, il treno in Germania, e per ultimo la strage di Monaco – mostrano chiaramente che ormai le redini del controllo sono sfuggite a chi questo terrorismo l’aveva inventato, e gli episodi di emulazione – impossibili per loro stessa natura da catalogare – rischiano di diventare la caratteristica predominante di questa terza fase. Una fase in cui chiunque abbia una pistola si disegna in casa una bandiera dell’Isis e poi esce per massacrare la zia che gli ha rotto i coglioni, oppure per fare fuori una scolaresca solo per fnire il giorno dopo sui giornali. In altre parole, come era già successo in passato, gli americani hanno creato il mostro, e ora il mostro gli sta scappando di mano. Ne saranno felici i neocons, storici fautori del caos totale.(Massimo Mazzucco, “Terrorismo, è iniziata la terza fase?”, da “Luogo Comune” del 23 luglio 2016).Il terrorismo mondiale negli ultimi 15 anni sembra essersi articolato in tre fasi diverse. La prima fase è stata quella in cui si è voluto creare il nuovo brand internazionale del cosiddetto “terrorismo islamico”. L’evento madre ovviamente è stato l’11 Settembre, il quale a sua volta era stato ottimamente preparato dalla “false flag” del primo attentato alle Torri Gemelle, otto anni prima. Una volta che i media mondiali si sono bevuti la messinscena dell’11 Settembre, è stato universalmente stabilito che il terrorismo islamico esisteva, e da quel giorno tutta la geopolitica mondiale ha cominciato a ruotare intorno a questa nuova realtà, con le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq a farla ovviamente da protagoniste. Poi è arrivato l’attentato di Londra del 2005, e con questa terza “false flag” clamorosa è stato stabilito non soltanto che il terrorismo islamico esisteva, ma che avrebbe potuto continuare a colpirci in ogni momento, in ogni parte del mondo. Grazie a questo, i vari governi occidentali hanno ottenuto di poter dare numerosi giri di vite ai diritti civili dei propri cittadini. Questo ha portato alla chiusura della prima fase.
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Magaldi: da Nizza ad Ankara, nessuno vi racconta la verità
Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.Primo capitolo, la Francia: il paese è chiaramente sotto attacco a partire dalla strage della redazione di Charlie Hebdo, le cui indagini sono state fermate dal governo Hollande con l’apposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura parigina, della triangolazione che ha coinvolto la Dgse, cioè i servizi segreti francesi, nella fornitura di armi al commando-killer (armi slovacche, acquistate in Belgio sotto la copertura dell’intelligence). Il grande spauracchio dell’ultimo scorcio si chiama Isis? Si tratta di un paravento, sostiene Magaldi, nonché di una “firma”: Isis è anche il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor, e Hathor Pentalpha è il nome della “loggia del sangue e della vendetta” fondata nel 1980 da Bush padre quando fu battuto da Reagan alle primarie repubblicane. A quella cupola di potere, sempre secondo Magaldi, è ascrivibile la regia dell’11 Settembre, con annessa “fabbricazione del nemico”, da Al-Qaeda a Saddam Hussein: della Hathor Pentalpha, scrive Magaldi, hanno fatte parte sia Tony Blair, “l’inventore” delle armi di distruzione di massa irachene, sia Nicolas Sarkozy, il demolitore del regime di Gheddafi. E inoltre lo stesso Erdogan, il massimo padrino dell’Isis.«Da fonti riservate – racconta Magaldi a “Colors Radio” – sapevo con certezza che in Turchia si stesse preparando un golpe: non il maldestro tentativo cui abbiamo appena assistito, facilmente controllato da Erdogan, ma un golpe autentico, programmato per l’autunno». Niente di più facile che il “sultano” l’abbia semplicemente anticipato, in modo farsesco, provando a disinnescare la minaccia. Ma attenzione: «Erdogan sa benissimo che i suoi veri, potenti nemici non sono toccabili: la sua repressione, feroce e molto rumorosa, non li sfiorerà neppure. Nel caso di un golpe a tutti gli effetti, quindi con il coinvolgimento dei massimi vertici dell’esercito, della marina e dell’aviazione, oltre che con la partecipazione degli Usa e di Israele, Erdogan verrebbe liquidato in poche ore, arrestato o ucciso». Cosa manca, al puzzle? Il piatto forte: le elezioni Usa. Solo allora, cioè dopo novembre, è plausibile che il quadro geopolitico possa chiarirsi. A cominciare da Ankara: al di là del chiasso organizzato in queste ore da Erdogan, dice Magaldi, la Turchia non ha ancora deciso “cosa fare da grande”. E soprattutto: come chiudere la pratica Isis, di cui resta la principale azionista.Quanto alla strage di Nizza, si tratta della «ripetizione ormai stanca» di un copione già invecchiato, quello dei tagliatori di teste che hanno seminato il terrore – con sapiente regia hollywoodiana – tra Iraq e Siria. La dominante, oggi, si chiama caos. E nessuno – tantomeno Erdogan – sa esattamente cosa accadrà domani, ovvero: su quale configurazione di forze si baseranno i poteri forti, anche super-massonici, che finora hanno assegnato precisi spazi agli attori sul terreno, da Obama a Putin, dalla Merkel a Erdogan. Sempre secondo Magaldi, il network trasversale della super-massoneria progressista si è impegnato con successo nelle primarie Usa, da un lato lanciando Bernie Sanders per spostare a sinistra la politica della Clinton, e dall’altro utilizzando Donald Trump come cavallo di Troia per eliminare dalla corsa il pericolo numero uno, Jeb Bush, ultimo esemplare della filiera Hathor Pentalpha. Comunque vada a novembre, conclude Magaldi, gli “architetti del terrore” dovrebbero finalmente perdere terreno: la stessa Clinton si starebbe smarcando da certi legami pericolosi con i settori più opachi del potere di Washington, e Trump non sarebbe certo disponibile a coprire azioni di macelleria internazionale come quelle a cui stiamo assistendo.Una grande retromarcia, dopo 15 anni di orrori? Qualche segnale lo stiamo già avendo, dice un altro analista dal solido retroterra massonica come Gianfranco Carpeoro: a inquietare i gestori del massimo potere è proprio la recente “diserzione” di una parte del vertice planetario, non più disposto ad avallare la strategia della tensione (da Bin Laden al Califfato) promossa dall’élite neo-aristocratica, quella che ha cinicamente ideato e gestito l’austerity europea incarnata da Draghi e Merkel. Se cresce il bilancio di sangue, anche in Europa – questa la tesi – è perché il potere oligarchico si sta indebolendo e teme di perdere la sua presa. E’ di ieri lo strappo del Brexit, e la Francia resta sotto tiro anche per via del suo ruolo-cardine in una struttura antidemocratica come l’attuale Unione Europea. I tempi stanno per cambiare? Se sì, a quanto pare, non sarà una passeggiata: è saggio aspettarsi di tutto, in questa fase di incertissima transizione. Certo, dice ancora Magaldi, bisogna tenere gli occhi aperti: è impensabile che la sicurezza francese abbia potuto “dimenticarsi” di quel camion-killer, parcheggiato da giorni sul lungomare di Nizza. E forse il primo a cadere sarà proprio il capo della “democratura” turca: «Erdogan sembra forte, ma in realtà è fragilissimo». Un consiglio? Allacciare le cinture, in attesa delle elezioni Usa.Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.
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Altro che Isis: chi pilota il terrore teme la Brexit e Trump
Ci stanno massacrando, utilizzando la solita manovalanza per le stragi “false flag”. Excalation del terrorismo, ci attendono sei mesi d’inferno: quelli che separano le due paure capitali dell’élite, la Brexit e la vittoria di Trump. «Il sistema euro-atlantico, d’ora in avanti, lotta per la sua sopravvivenza», annuncia Federico Dezzani, che allinea l’inquietudine della super-casta mondiale con l’esplodere degli attentati. «La carneficina di Orlando è l’inizio della strategia della tensione che accompagnerà i prossimi, convulsi, mesi», scrive Dezzani sul suo blog. «A distanza di nemmeno 48 ore è la volta dell’ennesimo attentato dell’Isis in Francia, peso massimo europeo in piena crisi, attraversata da proteste e disordini sempre più accesi. L’escalation di violenza è sintomo che le oligarchie hanno perso il controllo della situazione». L’angoscia che attanaglia le élite atlantiche, aggiunge Dezzani, ricorda quella vissuta dalla classe dirigente europea tra la prima e la seconda guerra mondiale: «Si avverte chiaramente come un’epoca stia finendo ed un mondo, ancora funzionante dal punto di vista formale, sia in realtà in rapida decomposizione».Capita così che il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, uno dei massimi alfieri dell’atlantismo, evochi con riferimento alla Brexit la fine della civiltà occidentale. Puro delirio: «Il collasso dell’Unione Europea e dell’Alleanza Nord Atlantica implicherebbe la fine solo delle oligarchie cui appartiene l’ex-premier polacco, non certo dei popoli europei che, al contrario, potrebbero finalmente rifiatare e riacquistare spazi di manovra». La crucialità del momento, continua Dezzani, nasce dall’accavallarsi di una molteplicità di consultazioni elettorali e dal concomitante deteriorarsi dell’economia, negli Usa come nell’Eurozona: si comincia con il referendum inglese sulla permanenza nella Ue e si termina con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, mentre il rialzo del tassi da parte della Fed è procrastinato sine die e l’Eurozona si dibatte ancora nella deflazione, a distanza di 15 mesi dall’avvio dell’allentamento quantitativo della Bce. «Una vittoria degli anti-europeisti al referendum inglese, un successo di Donald Trump alle presidenziali, il ritorno dell’Eurozona in recessione, rischiano di infliggere il colpo di grazia alla già traballante impalcatura atlantica».Per Dezzani, le contromisure adottate dall’establishment sono riconducibili ad un unico comun denominatore: incutere paura. «Si minaccia l’opinione pubblica inglese di recessione e pesanti sacrifici economici nel caso cui il Regno Unito uscisse dalla Ue, si assaltano i mercati finanziari europei per scongiurare l’eventualità che altri paesi indicano referendum analoghi, si dipingono scenari a tinte fosche qualora si affermassero i candidati “populisti”». Ma attenzione: «Gli effetti sull’elettorato sarebbero modesti senza l’apporto dell’ingrediente più esplosivo: il terrorismo. Bombardando l’opinione pubblica con notizie, immagini e video di stragi compiute nei luoghi della quotidianità (aeroporti, stazioni ferroviarie, discoteche, stadi, quartieri della movida) si ottiene un duplice risultato: si distoglie l’attenzione dalle criticità economiche e si genera domanda di normalità e sicurezza, a discapito delle formazioni anti-establishment e a vantaggio dei partiti tradizionali, difensori dell’ordine vigente».Non è quindi un caso se l’inizio di questa fase delicatissima sia stato scandito da due attentati compiuti a distanza di nemmeno 48 ore l’uno dall’altro, il primo negli Stati Uniti ed il secondo in Francia, entrambi perpetrati ufficialmente allo Stato Islamico. «Dire “Isis” equivale a dire “servizi israeliani ed angloamericani” e sul perché Tel Aviv, Washington e Londra svolgano un ruolo così attivo nella strategia della tensione che sta insanguinando l’Europa, già ci soffermammo in occasione degli attentati di Bruxelles: l’Unione Europea rappresenta il “contenitore geopolitico” dentro cui è racchiuso il Vecchio Continente e la sua sopravvivenza è di vitale importanza per piegare i 28 membri ad unica volontà (quella atlantica), come hanno dimostrato in questi anni i casi delle sanzioni economiche all’Iran e alla Russia». E così, l’attentato dell’11 giugno («firma inequivocabile») al locale omosessuale di Orlando, Florida, «è la sanguinosa ouverture della strategia della tensione che accompagnerà l’Occidente per i prossimi mesi». Omar Mateen, americano di origine afghane, già inserito dall’Fbi in una lista di possibili simpatizzanti dell’Isis, si arma fino ai denti e fa irruzione in una discoteca, dove replica il copione del Bataclan.Per inquadrare l’attentato in una cornice più ampia e ricondurlo all’angoscia delle oligarchie atlantiche, Dezzani consiglia la lettura dell’editoriale “Orlando and Trump’s America” apparso sul “New York Times” il 13 giugno e firmato da Roger Cohen. Il giornalista si fa interprete delle paure che attanagliano le élite, allarmate per la valanga degli eventi (il Brexit, la vittoria alle presidenziali di Trump, l’ingresso all’Eliseo di Marine Le Pen) che rischia di sommergerle. Secondo Cohen, la strage di Orlando e i crescenti consensi raccolti da Trump e dalla Le Pen germogliano nello stesso humus: il malessere economico, la rivolta contro le élite e la frustrazione sociale. «Sono le cause che spingono l’elettorato verso pericolosi salti nel vuoto e i lupi solitari ad imbracciare i fucili». L’esplicito richiamo alla Francia è profetico: nemmeno due giorni dopo, «la strategia della tensione sorvola l’Atlantico e torna a materializzarsi in Francia, la più grande minaccia al sistema atlantico sul versante europeo, seconda solo ad una vittoria degli anti-europeisti all’imminente referendum inglese».Della Francia si è scritto moltissimo: le opache trame degli 007 della Dgse dietro all’attentato di Charlie Hebdo, la censura imposta ai magistrati col segreto militare, le firme “templari” della strage del 13 novembre 2015. Francia in ebollizione, contro il Jobs Act che l’Eliseo vorrebbe infliggere ai cittadini, in ossequio ai diktat neoliberisti della Troika, le famigerate riforme strutturali. Puntuale, la sedicente Isis, cioè «la stessa organizzazione che russi, iraniani e siriani hanno quasi smantellato in Medio Oriente», è tornata a colpire – a cronometro – nella notte tra il 13 ed il 14 giugno, a Magnanville, periferia nord-occidentale di Parigi. Autore dell’ennesima prodezza-kamizake, il solito jihadista già noto ai servizi, Larossi Abballa, che uccide un poliziotto e sua moglie. Finale invariabile: crivellato dal fuoco delle teste di cuoio. Per Dezzani, il duplice omicidio di Magnanville targato Isis è «una vera e propria ciambella di salvataggio lanciata a François Hollande», che ha appena stabilito un nuovo record in termini di impopolarità (è detestato dall’83% dei francesi).«L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è così dirottata sull’attacco del “Califfato”, proprio quando a Parigi, nelle stesse ore, è in programma la nuova mobilitazione dei sindacati contro la riforma del lavoro, una prova di forza con cui la Confédération générale du travail e le altre sigle sindacali di sinistra vogliono spingere l’esecutivo socialista alla capitolazione, costringendolo a ritirare la riforma». La protesta sta crescendo per estensione e profondità, continua Dezzani: «Dopo le raffinerie, i treni, le metropolitane, i porti e il personale di Air France, agli scioperi hanno aderito anche gli addetti alla raccolta dei rifiuti a Parigi». E così, «nonostante lo stato d’emergenza, nonostante il freno inibitorio della minaccia terroristica», con i media concentrati solo sull’attentato, la mobilitazione di Parigi il 14 giugno ha coinvolto un milione e 300.000 cittadini, rafforzando la volontà dei sindacati a continuare gli scioperi ad oltranza.«L’efferatezza della strage di Orlando, il susseguirsi a distanza di meno di 48 ore dell’attacco a Magnanville, l’organizzazione approssimativa degli attentati ed il concomitante crollo delle piazze finanziarie, sono segnali dell’impotenza e dello stato confusionale in cui versa l’establishment euro-atlantico, conscio di quanto l’intera impalcatura su cui è costruito il suo potere sia vicina al collasso», conclude Dezzani. «La prossima, decisiva, tappa è il referendum inglese sulla permanenza nella Ue. L’esplosione del terrorismo internazionale a distanza di pochi giorni dalla consultazione corrobora l’ipotesi che le forze anti-europeiste siano in testa, proprio come il “venerdi nero dell’Isis”, la serie di attentati che insanguinò Tunisia, Francia, Kuwait e Somalia il 26 giugno 2015, preannunciò la vittoria dell’Oxi al referendum greco del 5 luglio». Tutto lascia pensare che lo scenario cambierà di ora in ora, peggiorando ulteriormente, secondo questo invariabile copione di morte e terrore.Ci stanno massacrando, utilizzando la solita manovalanza per le stragi “false flag”. Excalation del terrorismo, ci attendono sei mesi d’inferno: quelli che separano le due paure capitali dell’élite, la Brexit e la vittoria di Trump. «Il sistema euro-atlantico, d’ora in avanti, lotta per la sua sopravvivenza», annuncia Federico Dezzani, che allinea l’inquietudine della super-casta mondiale con l’esplodere degli attentati. «La carneficina di Orlando è l’inizio della strategia della tensione che accompagnerà i prossimi, convulsi, mesi», scrive Dezzani sul suo blog. «A distanza di nemmeno 48 ore è la volta dell’ennesimo attentato dell’Isis in Francia, peso massimo europeo in piena crisi, attraversata da proteste e disordini sempre più accesi. L’escalation di violenza è sintomo che le oligarchie hanno perso il controllo della situazione». L’angoscia che attanaglia le élite atlantiche, aggiunge Dezzani, ricorda quella vissuta dalla classe dirigente europea tra la prima e la seconda guerra mondiale: «Si avverte chiaramente come un’epoca stia finendo ed un mondo, ancora funzionante dal punto di vista formale, sia in realtà in rapida decomposizione».
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Quando nel mondo c’era ancora posto per Muhammad Alì
Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.«Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato in Kentucky in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, scrive Gianni Riotta su “La Stampa”, in morte del campione. «Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi “diavoli”». Poi «si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi». Alì, continua Riotta, «aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura». Dopo di lui, l’espressione “messo alle corde” ha cambiato significato: «Alì si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto».Stessa tattica nel 1974 a Kinshasa, in Zaire, contro Foreman, «la folla a gridare “Ali Bòmaye”», Alì uccidilo! «Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman». L’anno dopo, a Manila, Alì soffre contro Frazier, vince e confessa: è stato come morire. «Ora sappiamo che era davvero “morire”», scrie Riotta. «L’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, “showman”. Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di “Selezione” dal “Reader’s Digest” andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano».«La boxe è l’imitazione di una lotta per la vita o per la morte, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento – le loro vite, accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti. La vita sul ring è ingrata, brutale e corta», scrive Joyce Carol Oates nella perfezione del suo saggio “Sulla Boxe”. «Di questa mattanza – conclude Riotta – Alì fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore». L’ultima uscita pubblica è stata contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America: una discriminazione anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Alì era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, ma ora era «impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo paese e nel mondo». Al congedo da Kinshasa, nel memorabile docu-film “Quando eravamo re”, di Lion Gast, all’aeroporto il trionfatore Alì accarezza i bambini congolesi che lo festeggiano: «Voi siete buoni, non avete idea di come sia il posto da cui vengo io». Ed era solo il 1974: un mondo in cui c’era ancora posto per un eroe come Muhammad Alì.Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
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Quelli che credono che sia tutto falso, gli attentati e i morti
«Dubitare di tutto o credere tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere» (Jules Henri Poincarè). Hanno iniziato con l’11 Settembre. Dicevano che non era vero niente, che tutto quello che abbiamo visto in televisione era falso, che non c’era nessun aereo che ha colpito le Torri Gemelle, che era tutta una messinscena creata a tavolino con le tecnologie digitali. Lo si capiva – dicevano – perché il “naso” dell’aereo spuntava da una delle due torri, oppure perché in certi fotogrammi televisivi l’ala dell’aereo sembrava momentaneamente scomparire. Poi c’è stata Sandy Hook. Anche questa era tutta una messinscena governativa: i ragazzini morti non erano morti davvero, e i genitori che li piangevano erano soltanto degli attori professionisti, pagati per fingere. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che uno di loro addirittura rideva, mentre raccontava della strage, e lo si capiva dal fatto – dicevano – che le ombre sul terreno non coincidevano con l’orario in cui sarebbe avvenuta la sparatoria.Poi c’è stata la maratona di Boston. Anche quella tutta una messinscena, con morti e feriti che non erano altro che manichini o attori professionisti. Poco importava se addirittura si fosse vista l’esplosione della bomba in diretta Tv. Era chiaramente – dicevano – una finta bomba. Poi c’è stato l’assassinio in diretta tv della giornalista americana. Anche quello era tutto un falso, secondo queste persone, girato in studio davanti ad un greenscreen. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che le assi del pavimento visto dall’alto non combaciavano con quelle viste dalla prospettiva del telecronista. Poi c’è stato Charlie Hebdo. Tutto falso anche quello. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che il poliziotto colpito a terra non perdeva nemmeno una goccia di sangue, mentre gli sparavano in testa. Poi c’è stato il Bataclàn. Anche quello, secondo loro, era tutta una messa in scena. Non si spiegavano altrimenti – dicevano – le scarsissime foto dell’eccidio all’interno del locale parigino.E poi c’è stato Bruxelles, l’altro giorno. Anche quello, tutto falso. Tutto una grandiosa messa in scena. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che c’erano in giro pochissime foto dei morti e dei feriti all’aeroporto, e che il colore della parete del metrò di Bruxelles era diverso da quello delle fotografie. Le argomentazioni, in ciascuno dei casi, sono molto varie e molto articolate. Ma qui non si tratta di metterle in discussione una per una (l’abbiamo già fatto in abbondanza, caso per caso), quanto piuttosto di comprendere il meccanismo stesso che porta certe persone ad immaginare queste complicatissime messinscene, rifiutandosi poi di riconoscere la loro intrinseca assurdità. La prima domanda che bisognerebbe porsi, infatti, di fronte a questo genere di ipotesi, è un semplicissimo “perché”? Perché mai andare a complicarsi la vita con una manipolazione digitale, in un centinaio almeno di video diversi, creando addirittura dei falsi fori di entrata degli aerei (con esplosivi, si presume), quando in realtà sarebbe stato 1000 volte più semplice prendere due aerei e schiantarli veramente contro le torri gemelle? Dove sarebbe la logica, in una scelta del genere?Perché mai andare ad inventarsi un massacro nella scuola di Sandy Hook, che t’impone poi di far scomparire letteralmente dalla circolazione tutti coloro che hai elencato come vittime, quando in realtà è molto più semplice mettere una bomba e farla esplodere davvero? Perché mai raccontare che 130 persone sono morte massacrate, disseminando il pavimento di manichini, di sangue cinematografico e di falsi cadaveri, quando in realtà era molto più semplice ammazzare veramente 130 poveri sventurati? Perché dover ricorrere a degli attori – e stiamo parlando di centinaia di attori, nel caso di Bruxelles – per mettere in scena tutte quelle persone che fuggono sul piazzale dell’aeroporto, oppure che si riversano sui marciapiedi fuori dalla fermata del metrò, quando bastano due semplici bombe, piazzate negli stessi luoghi, per ottenere lo stesso risultato?Si potrebbe andare avanti all’infinito, ad elencare le complicazioni e le difficoltà – e quindi le scarsissime probabilità di riuscita – che incontrerebbe chiunque volesse mettere in piedi una messinscena così complicata, ma forse a questo punto conviene fare un’altra considerazione, e domandarsi perché si arrivi anche solo ad immaginare una tale mancanza di senso pratico, da parte di chi organizza gli attentati. Io ritengo che dopo l’11 Settembre (quello vero, perpetrato con veri aerei scagliati contro le Torri Gemelle) in molti di noi sia completamente crollato il muro delle certezze, al punto di non fidarsi più di nulla e di nessuno. Ci siamo sentiti abbandonati, soli, in balìa del nostro destino. In altre parole, con l’11 Settembre i media ci hanno così profondamente tradito, rispetto alla fiducia che riponevamo il loro, che da quel giorno non crediamo più assolutamente a nulla di quello che i media ci raccontano. Nemmeno al fatto che è esplosa una semplice bomba nella metropolitana di Bruxelles.(Massimo Mazzucco, “Quelli che «è tutto falso»”, da “Luogo Comune” del 28 marzo 2016).«Dubitare di tutto o credere tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere» (Jules Henri Poincarè). Hanno iniziato con l’11 Settembre. Dicevano che non era vero niente, che tutto quello che abbiamo visto in televisione era falso, che non c’era nessun aereo che ha colpito le Torri Gemelle, che era tutta una messinscena creata a tavolino con le tecnologie digitali. Lo si capiva – dicevano – perché il “naso” dell’aereo spuntava da una delle due torri, oppure perché in certi fotogrammi televisivi l’ala dell’aereo sembrava momentaneamente scomparire. Poi c’è stata Sandy Hook. Anche questa era tutta una messinscena governativa: i ragazzini morti non erano morti davvero, e i genitori che li piangevano erano soltanto degli attori professionisti, pagati per fingere. Lo si capiva dal fatto – dicevano – che uno di loro addirittura rideva, mentre raccontava della strage, e lo si capiva dal fatto – dicevano – che le ombre sul terreno non coincidevano con l’orario in cui sarebbe avvenuta la sparatoria.