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Archivio del Tag ‘Matteo Renzi’

  • Barnard: De Bortoli sa chi sono davvero i poteri forti?

    Scritto il 30/9/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Matteo Renzi minacciato dai Poteri Forti è la più indicibile puttanata mai scritta da un giornalista negli ultimi 160 anni. Ferruccio De Bortoli è un comico formidabile, giuro che ho riso due giorni su ’sta stronzata, non sa di cosa parla. Prima di tutto Renzi conta per i Poteri Forti come un attaccante del San Giuliano di Mezzadrino conta nella nazionale del Brasile. Ma poi, cosa sono per te Ferruccio i Poteri Forti? Per caso quella faccia da uovo di John Elkann e la Fiat che tirano i fili del tuo pupazzetto? Madonna, sono 100 anni che fanno le più brutte auto del mondo coi soldi dei contribuenti (dovremmo esultare che se ne vanno, ’sti parassiti dello Stato), e la loro finanziaria, la Exor, è un nano confronto ad altri gruppi (vedi sotto). Confindustria, Ferruccio? Quelli che ti tiravano i fili prima? Squinzi è il secondo uomo più stupido del mondo, e credo che Jeffrey Immelt manco sappia che esista. La Massoneria? Nooo, no. De Bortoli, non ci siamo.
    Vogliamo parlare di Poteri Forti? Allora che ne diciamo di Bill Gross, l’ex di Pimco? Controlla fondi d’investimento SUPERIORI a tutto il Pil della Germania… no, dico, ’sto tizio da solo ha più potere d’investimento di tutta la Germania messa assieme. Solo lui. Poi ha altri amichetti che seguono (Black Rock?). E vogliamo parlare dei signori Derivati e di chi li controlla? Sai quanti soldini sono Ferruccio? Sono 710.000.000.000.000 di dollari. E’ 10 volte il Pil di tutto il mondo in mano a una quarantina di banche. Oplà. O vogliamo parlare del “Council on Foreign Relations” e del “National Endowment for Democracy” Usa? Quelli in un pomeriggio fanno scoppiare due ‘rivoluzioni colorate’ e quattro guerre nel mondo, e se poi ci mettiamo il caro Zbignew Brzezinsky, questo tipo con una telefonata manda in colite spastica tutta la famiglia reale saudita.
    Sono tipetti che possono decidere che la tua Massoneria di puzzette italiane, caro De Bortoli – quella che può certo rovinare qualche carriera, o farmi schiantare in auto contro un muro – sparisce dal Pianeta in un mesetto e non ci rimangono neppure gli autisti del Fratelli. Matteo Renzi sarà minacciato (forse) dai poteri del pollaio Italia, ma neppure: è il coccige della Merkel, obbedisce, non lo tocca nessuno. De Bortoli, scrivi di quello che sai, non far ridere.
    (Paolo Barnard, “De Bortoli, sei un comico”, dal blog di Barnard del 29 settembre 2014).

    Matteo Renzi minacciato dai Poteri Forti è la più indicibile puttanata mai scritta da un giornalista negli ultimi 160 anni. Ferruccio De Bortoli è un comico formidabile, giuro che ho riso due giorni su ’sta stronzata, non sa di cosa parla. Prima di tutto Renzi conta per i Poteri Forti come un attaccante del San Giuliano di Mezzadrino conta nella nazionale del Brasile. Ma poi, cosa sono per te Ferruccio i Poteri Forti? Per caso quella faccia da uovo di John Elkann e la Fiat che tirano i fili del tuo pupazzetto? Madonna, sono 100 anni che fanno le più brutte auto del mondo coi soldi dei contribuenti (dovremmo esultare che se ne vanno, ’sti parassiti dello Stato), e la loro finanziaria, la Exor, è un nano confronto ad altri gruppi (vedi sotto). Confindustria, Ferruccio? Quelli che ti tiravano i fili prima? Squinzi è il secondo uomo più stupido del mondo, e credo che Jeffrey Immelt manco sappia che esista. La Massoneria? Nooo, no. De Bortoli, non ci siamo.

  • Sola andata, un futuro da migranti. Garantisce il Pd

    Scritto il 30/9/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Ne ha scritto la stampa italiana, ne hanno scritto il “Guardian” e “Le Monde”, ma noi che continuiamo a leggere restiamo ancora senza parole: il sindaco di Elmas, Valter Piscedda, paga il viaggio di sola andata ai giovani disoccupati che se ne vogliono andare. Sembra una barzelletta, invece è la realtà della classe politica sarda nel 2014. Eppure io me lo ricordo cosa scriveva Valter Piscedda, il sindaco di Elmas, nel suo sito istituzionale da candidato Pd alle elezioni regionali: «Il pensiero va anche ai più giovani: pensiamo a quei ragazzi che nonostante i loro studi non vedono prospettive. Questa situazione non è più sostenibile. Ecco perché ho deciso di candidarmi, è necessario invertire la rotta. Con Francesco Pigliaru presidente possiamo fare in modo che questa Sardegna riparta con rinnovata speranza». Quell’“invertire la rotta” suona oggi ironico, visto che la rotta suggerita da Valter Piscedda ai giovani di Elmas è quella che li porta fuori dalla Sardegna con un biglietto di sola andata e dita incrociate per un lieto futuro da emigrati.
    Chi ha votato Francesco Pigliaru presidente e Valter Piscedda come suo consigliere regionale forse non aveva capito che la Sardegna che aspettava di “ripartire con rinnovata speranza” lo avrebbe poi fatto con un bando che le regalava un viaggio di sola andata per emigrare. Il gesto del sindaco di Elmas significa solo una cosa: «Andatevene: qui non c’è speranza, non solo perché non c’è lavoro, ma anche perché chi vi governa, cioè io nel paese e la mia maggioranza in Regione, non ha la minima idea di come cambiare le vostre condizioni». Un atto di resa politica avvilente e offensivo, che fa venire voglia di chiedere a Valter Piscedda e al Partito Democratico sardo: ma se non avevi idea di come provare a risolvere il problema della disoccupazione, perché diamine ti sei candidato sindaco? Se la tua giunta non ha alcuna risposta da dare ai giovani disoccupati, perché diamine vi siete fatti eleggere al governo della Sardegna?
    Se il tuo partito non sa come dare ai sardi risposte diverse da quelle dell’emigrazione, della militarizzazione e dei tagli ai finanziamenti per la ripresa, perché avete promesso alle persone che avreste risolto la situazione? Se queste sono le vostre risposte, dimettetevi. Non siete stati eletti per mandare via i sardi dall’isola mentre i militari e gli imprenditori dalla trivella facile si preparano a sbarcarci con la benedizione del decreto “Sblocca Italia” voluto dal vostro governo. Queste le domande. Per le risposte, leggete cosa ha scritto Matteo Bellu Ticca sul sito di “Sardegna Possibile”. Sono troppe le cose che di questa giunta non tornano ed è tempo di cominciare a mostrare che qualcosa di diverso, a volerlo davvero, lo si sarebbe potuto fare.
    (Michela Murgia, “Confermata la solita rotta, quella per l’altrove”, da “Megachip” del 25 settembre 2014).

    Ne ha scritto la stampa italiana, ne hanno scritto il “Guardian” e “Le Monde”, ma noi che continuiamo a leggere restiamo ancora senza parole: il sindaco di Elmas, Valter Piscedda, paga il viaggio di sola andata ai giovani disoccupati che se ne vogliono andare. Sembra una barzelletta, invece è la realtà della classe politica sarda nel 2014. Eppure io me lo ricordo cosa scriveva Valter Piscedda, il sindaco di Elmas, nel suo sito istituzionale da candidato Pd alle elezioni regionali: «Il pensiero va anche ai più giovani: pensiamo a quei ragazzi che nonostante i loro studi non vedono prospettive. Questa situazione non è più sostenibile. Ecco perché ho deciso di candidarmi, è necessario invertire la rotta. Con Francesco Pigliaru presidente possiamo fare in modo che questa Sardegna riparta con rinnovata speranza». Quell’“invertire la rotta” suona oggi ironico, visto che la rotta suggerita da Valter Piscedda ai giovani di Elmas è quella che li porta fuori dalla Sardegna con un biglietto di sola andata e dita incrociate per un lieto futuro da emigrati.

  • Gros: scordatevi la ripresa, la Germania la impedirà

    Scritto il 29/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannamdo il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».
    Non sarà mai sconfessata «la linea della Germania, di contrasto alla crisi del debito», prende nota il blog di Gad Lerner commentando l’intervista a “Repubblica” concessa da Gros all’indomani del vertice dell’Ecofin e dell’Eurogruppo a Milano il 13 settembre, riunioni caratterizzate dal duello tra il premier italiano e Katainen, vicepresidente in pectore della Commissone Europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, nominato dalla Merkel. L’incontro di Milano sarà da ricordare, dice Gros, perchè «probabilmente rappresenta la fine delle speranze dell’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». La prova, secondo Daniel Gros, è la nuova manovra di bilancio approntata da Berlino: la grande coalizione tra Angela Merkel e i socialdemocratici dell’Spd ha ridotto gli investimenti pubblici per realizzare una finanziaria senza nuovi debiti, «un obiettivo condiviso praticamente da tutti i partiti tedeschi presenti al Bundestag, con l’eccezione della sinistra radicale», la Linke. Una manovra che «spegne le richieste di chi chiedeva a Berlino la maggior mobilitazione di risorse pubbliche al fine di stimolare la crescita nell’Eurozona».
    «Da questa posizione di ortodosso rispetto del rigore la Germania non si muoverà», osserva Lerner, e secondo Daniel Gros la composizione della nuova Commissione Juncker evidenzia come non è possibile attendersi alcuna svolta. «I toni concilianti dell’Ecofin sono poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane», dice il tecnocrate tedesco. «Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che forse preoccupa anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca». L’Italia ha un debito pubblico al 136%? «Non so come faccia a poter spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità”». Quanto al  ricatto delle “riforme” neoliberiste, ispirate dal mercantilismo neoclassicista dell’export – massima competitività derivante dalla compressione salariale per tagliare i costi di produzione, sacrificando alla legge dell’export i consumi interni e il benessere sociale della nazione – per il dottor Gros si tratta di una speranza vana, perché il “no” della Germania non cambierebbe. «Non credo che la risposta di Berlino sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un paese che ha il 25% di disoccupazione, solo per un paio di riforme fatte».

    Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannando il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».

  • Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo

    Scritto il 27/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
    Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.
    I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?
    Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.
    Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.
    (Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).

    Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.

  • De Bortoli l’anti-Renzi, un suicidio le sanzioni alla Russia

    Scritto il 25/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    «Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.
    «Renzi non mi convince», scrive De Bortoli sul “Corriere” il 24 settembre. «Se vorrà veramente “cambiare verso” a questo paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso». Ha «una personalità egocentrica», che è «irrinunciabile per un leader» ma nel suo caso è «ipertrofica». Fatto «non irrilevante», visto che Renzi è «un uomo solo al comando del paese (e del principale partito), senza veri rivali». Vuol fare tutto da solo, e la sua squadra di governo «è in qualche caso di una debolezza disarmante»: il sospetto è che alcuni ministri «siano stati scelti per non far ombra al premier». In troppi casi «la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier», e additrittura «a prevalere è la toscanità», non il valore. La competenza? «Un criterio secondario». L’esperienza? «Un intralcio, non una necessità». L’irruenza può scuotere la “palude”, ma «non sempre è preferibile alla saggezza negoziale». Inoltre, «la muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan». Ovvero: «Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto».
    Se Renzi è un oratore travolgente, «il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa». Il marketing della politica? «Se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso». E in Europa, «meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti». Attenzione: «Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere». E qui sorge quello che De Bortoli definisce l’interrogativo più spinoso: «Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015». Quindi «sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti, liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria». Ultimo consiglio al premier: «Quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi Troika), e tantomeno quella bianca».
    Il durissimo attacco di De Bortoli costituisce il punto culminante di un crescendo di critiche taglienti portate avanti dalle firme di punta di Via Solferino, scrive Edoardo Petti su “Formiche.net”. Prima Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulla strategia economica del premier, poi i corsivi di Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia e Pierluigi Battista. Ora, l’intervento a gamba tesa del direttore. Per Giancarlo Galli, l’asprezza di De Bortoli riflette «lo stato d’animo di un mondo imprenditoriale lombardo e italiano che, tranne l’eccezione della Fiat ormai pienamente americana, è preoccupato per l’eccessivo filo-americanismo del premier». Le sanzioni contro la Russia? «Quella è la punta dell’iceberg», sostiene Galli. «La classe economica del nostro paese ritiene che gli sbocchi privilegiati delle attività commerciali italiane siano i mercati orientali, Russi e asiatici in primo luogo. E per questo motivo ha giudicato malissimo la politica muscolare perseguita dal presidente del Consiglio verso Mosca, da cui importiamo energia e soprattutto gas metano. Comparto fondamentale, in cui gli Usa si apprestano a far concorrenza alla Russia attraverso la ricerca e raffinazione dello “shale gas”». In più, aggiunge Galli, gli industriali italiani guardano con timore all’offensiva del premier contro l’articolo 18 e i sindacati: «Potrebbe creare una fase di turbolenza negli ambienti di lavoro, ed è l’ultima cosa di cui gli imprenditori hanno bisogno».
    Di fatto, scrive Gianni Gambarotta, Renzi e il suo modo di far politica sono stati demoliti: col suo editoriale, De Bortoli ha tagliato i ponti col palazzo che oggi conta. Dunque si dimostrano infondate «le voci che puntasse, dopo l’uscita da via Solferino nell’aprile prossimo, a una presidenza Rai». De Bortoli «non si prende nemmeno il disturbo di accennare, nel suo tacitiano articolo, al centro di potere che ruota attorno ai suoi editori». Ormai «gioca una sua partita di direttore di quotidiano libero da ogni vincolo». Ma che cosa ha in mente per il futuro? «Un futuro che si immagina ancora lungo e intenso, dato che Fdb ha solo 60 anni, e in 40 di brillante carriera ha dimostrato di essere un eccellente professionista e di amare molto il lavoro». Gambarotta ricorda che di De Bortoli si parlò come possibile sindaco di Milano dopo Gabriele Albertini. Non se ne fece nulla, «però quella mezza idea di tanti anni fa potrebbe essere ripescata dal cassetto, e magari non solo a livello locale», conclude Gambarotta. «La politica italiana di oggi è un immenso nulla nel quale rimbombano i bla-bla-bla di Renzi. In questo vuoto una personalità come de Bortoli sarebbe un gigante».

    «Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.

  • Italia affondata dall’euro, ma non per Grillo e Travaglio

    Scritto il 25/9/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Chi è oggi, cosa dice, cosa fa la sinistra italiana nel momento in cui la destra annaspa e dimostra di non essere la dispensatrice di miracoli che forse molti elettori avevano creduto che fosse? Si decide ad assumere un nome, un volto, un programma, oppure vuol continuare a fare (sia pure, bisogna riconoscerlo, sottovoce e urbanamente) delle prove d’orchestra alla Fellini? Sono domande che non aspettano risposte perché nessuno, purtroppo, ha i titoli per darne, ma che mezza Italia si pone. È vero che forse anche l’altra mezza. Ma non è una consolazione». Così Indro Montanelli, sul “Corriere” del 7 giugno 2001, un mese e mezzo prima di lasciarci, chiudeva quello che sarebbe stato il suo penultimo editoriale. S’intitolava “Il tricheco di sinistra” e, nel momento del massimo consenso berlusconiano, «profetizzava il declino del Caimano inseguito dalle sue bugie», scrive Marco Travaglio, «ma anche l’atavica incapacità della sinistra di proporre un progetto alternativo per le sue divisioni, compromissioni e confusioni». Oggi, «Grillo, Casaleggio e gli eletti M5S farebbero bene a leggerselo e a rifletterci».
    Il successo dei “5 Stelle”, continua Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «nasce proprio dal tradimento del centrosinistra», gravato da «inciuci e malaffari» e colpevole di aver «abbandonato i temi della legalità, dell’ambiente, dell’equità, della trasparenza e della partecipazione, regalando immense praterie ai “grillini”». Nella visione di Travaglio, tra le imputazioni a carico del centrosinistra, manca però la più importante, l’unica che pesi davvero nella grande crisi: l’analisi della situazione economica, la consegna dello Stato all’élite finanziaria per tramite dell’Unione Europea e del suo braccio armato, l’euro. Mai una denuncia chiara e inequivocabile, né da Travaglio né dai grillini. Alla vigilia delle europee, addirittura, Casaleggio dichiarò proprio a Travaglio: «Non siamo contro l’euro», testualmente. «Dopo sei mesi di campagna elettorale, Renzi è finalmente costretto a fare delle scelte e a misurare le sue slide con la dura realtà dei conti che non tornano e dei soldi che non ci sono», scrive Travaglio il 19 settembre sul suo giornale, ancora una volta senza domandarsi perché “i soldi non ci sono”.
    Il giornalista preferisce attaccare la propaganda di Renzi: «L’atterraggio dell’empireo dei tweet e dei selfie sulla terraferma dei numeri è tutt’altro che indolore». E aggiunge: «Il 99% degli annunci sono balle, ma soprattutto molte delle poche cose fatte non funzionano perché sono sbagliate. E qualcuno comincia a capire che la ripresa era una leggenda metropolitana e che a fare i sacrifici saranno i soliti noti: i lavoratori, un’altra volta scippati dei loro diritti; i contribuenti onesti, spremuti da un’evasione spaventosa che il governo non vuole neppure solleticare; e i cittadini, sempre più espropriati del diritto di voto (per il Senato e le Province, e pure per la Camera dei nominati)». Vero, in Parlamento i “5 Stelle” si sono battuti. «Ciò che manca però è un progetto complessivo che risulti credibile e autorevole», insiste Travaglio. Un progetto magari un po’ più solido delle sortite goliardiche di Grillo. Visibilità: manca «una figura credibile e autorevole» che ogni sera spieghi in televisione «la posizione della prima e spesso unica forza di opposizione». Quello che conta, però, i grillini non l’hanno ancora detto, né in aula né sui media. E cioè che, con l’euro – costosa moneta “straniera” presa a credito – nessuna uscita dalla crisi è possibile.

    «Chi è oggi, cosa dice, cosa fa la sinistra italiana nel momento in cui la destra annaspa e dimostra di non essere la dispensatrice di miracoli che forse molti elettori avevano creduto che fosse? Si decide ad assumere un nome, un volto, un programma, oppure vuol continuare a fare (sia pure, bisogna riconoscerlo, sottovoce e urbanamente) delle prove d’orchestra alla Fellini? Sono domande che non aspettano risposte perché nessuno, purtroppo, ha i titoli per darne, ma che mezza Italia si pone. È vero che forse anche l’altra mezza. Ma non è una consolazione». Così Indro Montanelli, sul “Corriere” del 7 giugno 2001, un mese e mezzo prima di lasciarci, chiudeva quello che sarebbe stato il suo penultimo editoriale. S’intitolava “Il tricheco di sinistra” e, nel momento del massimo consenso berlusconiano, «profetizzava il declino del Caimano inseguito dalle sue bugie», scrive Marco Travaglio, «ma anche l’atavica incapacità della sinistra di proporre un progetto alternativo per le sue divisioni, compromissioni e confusioni». Oggi, «Grillo, Casaleggio e gli eletti M5S farebbero bene a leggerselo e a rifletterci».

  • Il golpe dei mille giorni, Renzi continua a prenderci in giro

    Scritto il 24/9/14 • nella Categoria: idee • (6)

    In una situazione di emergenza nazionale in cui sia indispensabile compiere determinate mosse, è legittimato un governo emergenziale transitorio, privo di mandato popolare, che si insedii per fare immediatamente quelle poche cose necessarie, diciamo in cento giorni, e poi si vada alle elezioni, per passare dalla legittimazione emergenziale a quella democratica, che è quella normale. Un governo così non è più legittimo, ma commette un colpo di Stato, se non fa quelle cose ma converte il proprio termine da cento giorni a mille giorni oltre quelli che è già stato in carica, cioè se si converte da governo transitorio in governo di legislatura e medio termine, come se avesse avuto il mandato popolare. Ancor più ciò è vero se quel governo è il terzo governo emergenziale di fila senza mandato popolare. Aggiungiamo che questo governo emergenziale e non eletto è anche il terzo governo di fila che persegue certe determinate politiche economiche e sotto cui i fondamentali dell’economia stanno peggiorando, assieme alle prospettive economiche.
    Aggiungiamo ancora che tutti questi governi sono stati nominati e sostenuti specificamente nelle loro politiche economiche dal medesimo Capo dello Stato, sia pure su indicazioni o direttive straniere; onde qualora anche questo governo dovesse fallire e andarsene, quel medesimo Capo di Stato dovrebbe andarsene insieme ad esso, perdendo la faccia. Perciò è da temersi che farà di tutto per difenderlo nonostante i suoi insuccessi e la sempre più chiara illegittimità politica del suo premier. Renzi o chi per lui ha impostato la sua politica su due tempi: nel primo tempo, fino alle elezioni europee, l’obiettivo era raccogliere quanto più consenso popolare possibile suscitando aspettative a brevissimo termine; per poi usare, nel secondo tempo, questo consenso così ottenuto come legittimazione per restare a lungo al potere pur avendo tradito quelle aspettative.
    Così abbiamo avuto, nel primo tempo: a) la promessa di una grande riforma al mese – poi irrealizzata; b) la promessa di cambiare le regole dell’Ue soprattutto in punto di vincoli di bilancio – poi tradita con la piena adesione al rigore merkeliano e alla linea di Monti; c) l’attrazione di voti con la mancia degli 80 euro, che ora si scopre finanziata con prelievi da altre parti; d) la promessa di estensione a tutti di questa mancia, che ora Renzi ammette irrealizzabile; e) la promessa di rottamare i vecchi e di adottare le primarie come metodo per le elezioni degli enti territoriali – nettamente tradita con le nomine e conferme di uomini di apparato, senza primarie, ma con logica “ripartitoria”, soprattutto in Toscana; f) l’immagine vincente di attivismo, forza, sicurezza di sé, velocità – che ora si scoprono come modi per svolazzare intorno ai problemi, dando l’impressione di averli in pugno tutti ma senza affrontarne e trattarne realmente alcuno: l’unica possibilità per un inetto; g) la promessa di dimettersi se non avesse mantenuto le suddette promesse.
    Tutte queste ingannevoli promesse hanno nondimeno prodotto un raccolto di voti europei per il Pd, grazie a cui oggi Renzi può dire: è andata come è andata, i tempi si allungano, ma comunque io ho avuto il 41% dei consensi, quindi sono legittimato a governare; passiamo al passo dopo passo, ci prendiamo (ulteriori) mille giorni da oggi, realizzeremo il programma, giudicateci dopo. E questo si chiama barare. Quanti voti avresti preso, Renzi, se la gente avesse saputo che avresti tradito tutte le promesse in base alle quali ti votava? E poi: i voti per il Parlamento Europeo, come fai a convertirli in voti politici nazionali? E anche: che maggioranza avresti ora, e avresti avuto ieri in Senato, se Berlusconi non avesse il guinzaglio elettrico dei suoi processi e dell’affidamento in prova al servizio sociale, se cioè fosse politicamente libero? E’ grazie a questi fattori a dir poco anomali, a dir poco incostituzionali, che resti ancora sulla poltrona e che sei riuscito a mettere le mani sulla Costituzione, cincischiando con riforme sterili, mentre l’economia si sfascia sempre di più.
    (Marco Della Luna, “Il golpe dei mille giorni”, dal blog di Della Luna del 4 settembre 2014).

    In una situazione di emergenza nazionale in cui sia indispensabile compiere determinate mosse, è legittimato un governo emergenziale transitorio, privo di mandato popolare, che si insedii per fare immediatamente quelle poche cose necessarie, diciamo in cento giorni, e poi si vada alle elezioni, per passare dalla legittimazione emergenziale a quella democratica, che è quella normale. Un governo così non è più legittimo, ma commette un colpo di Stato, se non fa quelle cose ma converte il proprio termine da cento giorni a mille giorni oltre quelli che è già stato in carica, cioè se si converte da governo transitorio in governo di legislatura e medio termine, come se avesse avuto il mandato popolare. Ancor più ciò è vero se quel governo è il terzo governo emergenziale di fila senza mandato popolare. Aggiungiamo che questo governo emergenziale e non eletto è anche il terzo governo di fila che persegue certe determinate politiche economiche e sotto cui i fondamentali dell’economia stanno peggiorando, assieme alle prospettive economiche.

  • Estinto lo Stato, l’unico re di denari è il Calamaro Vampiro

    Scritto il 20/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Togli allo Stato la moneta, e avrai questo risultato: i nuovi Stati sono le banche. Loro, e soltanto loro, decidono dove investire denaro: ovviamente, per guadagnarci sopra. E’ la «lezione drammatica» che si ricava dall’ultima spettacolare impresa del “Vampire Squid” planetario, la famigerata Goldman Sachs. Il “calamaro vampiro” di Wall Street, accusa Paolo Barnard, ha infatti battuto ogni record con la sua «ultima, indicibile porcata mondiale», ipotecando le finanze di un intero paese, il Portogallo. Certo, aveva le carte in regola per farlo: la Goldman, che affondato la Grecia, è la piovra che in Europa ha reclutato anche politici e tecnocrati, da Prodi a Monti. «Ha piazzato i suoi tentacoli ovunque nel mondo». Il top lo mise in mostra nella crisi finanziaria del 2007: «Era in combutta con l’Hedge Fund di John Paulson per truffare mezzo pianeta e tre quarti d’America vendendo prodotti finanziari marci, mentre allo stesso tempo scommetteva contro quei prodotti per intascare polizze assicurative».
    Nulla hanno potuto il senatore Carl Levin e la sua commissione d’indagine del Senato Usa: «Ci hanno provato in tutti i modi a fermare il Calamaro Vampiro, ma quegli occhi spaventosamente furbi di Lloyd Blankfein, il n.1 al Calamaro, hanno disarmato persino un gigante furioso come Levin. E Goldman ha continuato imperterrita». Ora, continua Barnard nel suo blog, si scopre che il “calamaro vampiro” «si è inventato una banca fittizia in Lussemburgo per prestare 835 milioni di dollari fittizi al portoghese Banco Espirito Santo, che era ed è una delle banche più fallite della storia, per poi intascarsi le intermediazioni fittizie che sarebbero apparse come “positivi” sui libri contabili del Vampiro per allettare gli investitori». E non è tutto: «Allo stesso tempo, Goldman si è ricomprata parte del finto prestito a tassi ridicoli per poi rivenderlo, scremandoci sopra, agli investitori gonzi del mondo». E qui, aggiunge Barnard, «il Calamaro fa un’altra porcata: investe una manciata di soldi in azioni del Banco Espirito Santo (che si sta letteralmente decomponendo come un cadavere) così che tutto il mondo dei gonzi avrebbe detto: “Ohi! Se Goldman investe lì allora cavoli! compriamo subito anche noi!”. Compriamo cioè la truffa di cui sopra. Geniali eh?».
    Il Calamaro Vampiro stavolta «finisce però con una mezza sconfitta», perché il collasso del Banco portoghese a inizio agosto «gli blocca la truffa a metà binario». Ma niente paura: «Goldman non perde mai, e già il Portogallo sta pianificando di rimborsargli il resto». In pratica, «un girotondo fasullo: banca finta, soldi finti, transazioni inesistenti, ma gente vera fottuta nel portafoglio per cifre colossali». Il tutto, sottolinea Barnard, reso possibile dal fatto che «la finanza dei Calamari Vampiri si serve di cervelli che si mangiano un astrofisico in 60 secondi e che lavorano 24 su 24 e inventano cose come questa fatta col Banco portoghese». Cose che hanno anche un bel nome: Spv, cioè “Special Purpose Vehicles”, ma che hanno anche «la bella caratteristica non comparire nei libri contabili delle banche in questione». Sicché, ora che il momento dell’esame europeo della salute delle nostre banche si avvicina (ottobre), quante di queste banche sono zeppe di Spv marci nascosti in ogni anfratto degli istituti? «Voi credete che Draghi li scoprirà? Se poi arrivate al mondo dei Derivati, addio, facciamo ciao ciao con la manina a questi mostri spaziali del Potere e mettiamoci tutti in fila per il tatuaggio sul braccio. Stessa proporzione di potere».
    Per Barnard, l’amara lezione proprio questa: «Ma vi rendete conto che oggi, con la scomparsa della spesa dello Stato uccisa dalle Austerità Eurozona, le banche sono diventate Stati? Vi rendete conto di cosa fanno questi mostri e che incredibile abilità hanno di aggirare tutto e tutti sul pianeta? E quindi vi rendete conto che la vostra vita economica, che è tutto – dal pane al mutuo, al negozio, ai libri di scuola, alla salute – è totalmente in mano a queste macchinazioni più astruse e potenti della fisica delle particelle? Vi rendete conto che tutto il teatrino nazionale dei grilli renzini cottarellucci e vino non conta nulla? Chi comanda e chi vi rovina la vita sono altri». Barnard è sconsolato: «La gente non capisce niente, la gente va coi buffoni di moda, vota gli 80 euro, e soprattutto – anche mai dovessero aver intuito qualcosa – alla fine non fanno niente, nulla, morti davanti alla Tv o stramorti davanti al pc». Disperazione: «Trasmettere alla gente le notizie che veramente gli cambiano la vita, quelle che gliela devastano, quelle che gli rivelano chi davvero comanda disprezzandoli, indifferenti a qualsiasi loro sofferenza, dirgli il male che gli faranno (tanto), e il futuro da schiavi dei loro figli, be’, raccontargli tutto questo è inutile». Semplificando ferocente: «Boing, boing, boing. Questo è l’audio dei nostri tentativi di far capire agli italiani qualsiasi cosa che veramente conti per la loro vita. Strumentazione: palla da tennis e muro di gomma».

    Togli allo Stato la moneta, e avrai questo risultato: i nuovi Stati sono le banche. Loro, e soltanto loro, decidono dove investire denaro: ovviamente, per guadagnarci sopra. E’ la «lezione drammatica» che si ricava dall’ultima spettacolare impresa del “Vampire Squid” planetario, la famigerata Goldman Sachs. Il “calamaro vampiro” di Wall Street, accusa Paolo Barnard, ha infatti battuto ogni record con la sua «ultima, indicibile porcata mondiale», ipotecando le finanze di un intero paese, il Portogallo. Certo, aveva le carte in regola per farlo: la Goldman, che affondato la Grecia, è la piovra che in Europa ha reclutato anche politici e tecnocrati, da Prodi a Monti. «Ha piazzato i suoi tentacoli ovunque nel mondo». Il top lo mise in mostra nella crisi finanziaria del 2007: «Era in combutta con l’Hedge Fund di John Paulson per truffare mezzo pianeta e tre quarti d’America vendendo prodotti finanziari marci, mentre allo stesso tempo scommetteva contro quei prodotti per intascare polizze assicurative».

  • Attac: una rivolta dei sindaci contro l’esproprio dei servizi

    Scritto il 17/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.
    Come già Berlusconi, continua il portavoce di “Attac Italia”, anche Renzi si mette la foglia di fico di non nominare l’acqua fra i servizi da consegnare ai capitali finanziari. Ma a parte il fatto che il referendum non riguardava solo l’acqua, bensì tutti i servizi pubblici locali, è evidente l’effetto domino del provvedimento, sia sulle società multi-utility che già oggi gestiscono più servizi (acqua compresa), sia su tutti gli enti locali che verrebbero inevitabilmente spinti a privatizzare tutto, anche per poter usufruire delle somme derivanti dalla cessione di quote, che il governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del Patto di Stabilità. In fondo, è la direzione nella quale procedono il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio Usa-Ue, e l’analogo Tisa, trattato sui servizi pubblici, al quale spalancherebbe una breccia definitiva la manomissione del Titolo V della Costituzione, spacciata come “riforma”, per impedire a Comuni e Regioni di continuare a gestire i servizi nell’interesse pubblico.
    «Nel pieno della crisi sistemica – scrive Bersani – ecco dunque il cambio di verso dello scattante premier: non più l’obsoleta privatizzazione dei servizi pubblici locali, bensì la loro diretta consegna agli interessi dei grandi capitali finanziari, che da tempo attendono di poter avviare un nuovo ciclo di accumulazione, attraverso “mercati” redditizi e sicuri (si può vivere senza beni essenziali?) e gestiti in condizione di monopolio assoluto (per un solo territorio vi è un solo acquedotto, un solo servizio rifiuti)». Da queste norme, «traspare in tutta evidenza l’idea non tanto dell’eliminazione del “pubblico” – quello è bene che rimanga, altrimenti chi potrebbe organizzare il controllo sociale autoritario delle comunità? – bensì della sua trasformazione da erogatore di servizi e garante di diritti, con un’eminente funzione pubblica e sociale, in veicolo per l’espansione della sfera d’influenza degli interessi finanziari sulla società».
    Ancora una volta, aggiunge Bersani, sarà la Cassa Depositi e Prestiti ad essere utilizzata per questo enorme «disegno di espropriazione dei beni comuni». Infatti, «come già per la dismissione del patrimonio pubblico degli enti locali, è già allo studio un apposito fondo per finanziare anche la privatizzazione dei servizi pubblici locali». Secondo l’esponente di “Attac”, emerge – oggi più che mai – la necessità di una «nuova, ampia e inclusiva mobilitazione sociale», che deve «assumere la riappropriazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale come obiettivo di tutti i movimenti in lotta per l’acqua e i beni comuni». Serve «una nuova finanza pubblica e sociale», ovviamente impensabile sotto il regime dell’euro, «a partire dalla socializzazione della Cassa Depositi e Prestiti». E se il disegno di espropriazione dei servizi pubblici locali «viene portato avanti con il pieno consenso dell’Anci, espresso a più riprese dal suo presidente Fassino», una domanda sorge spontanea: «Non è il momento per i molti sindaci che ancora non hanno abdicato al proprio ruolo di primi garanti della democrazia di prossimità per le comunità locali, di iniziare a ragionare su un’aggregazione alternativa degli enti locali, fuori e contro un’Anci al servizio dei poteri forti?».

    Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.

  • Foa: così gli italiani credono a Mr. Bean, l’allievo di Blair

    Scritto il 16/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Matteo Renzi è un giocoliere delle parole e non è certo un caso se da ragazzo era soprannominato “il bomba” ovvero colui che la spara grosse. Il “physique du rôle” d’altronde ce l’ha: tutto guizzi, smorfie, moine. Il premier è dotato di un ego così ipertrofico da impedirgli di capire quando non è il caso ovvero quando la sua naturale teatralità sfocia nel grottesco e, sovente, nel ridicolo. Ognuno di noi arrossirebbe se venisse fotografato in pose che evocano più le gag di Mr Bean che la postura consona a un primo ministro. Lui no.
    Ed è permaloso, tenace, combattiero, replica colpo su colpo, come ha dimostrato con la scenetta del gelato in risposta agli sberleffi dell’“Economist”. L’uomo è fatto così. Ma se fosse solo un istrione di strada oggi non sarebbe primo ministro. L’istinto – per far carriera a questi livelli – non basta. Ci vuole anche del metodo. Che non è certo farina del suo sacco.
    Per giudicare Renzi non basta esaminarlo con i parametri della politica italiana, bisogna ricorrere a quelli dello spin, ovvero delle tecniche che da oltre un ventennio consentono a leader politici, anglosassoni ma non solo, di brillare sulla scena politica, dissimulando i loro veri obiettivi politici (ed economici) con una strategia di comunicazione volta a sedurre e a distrarre il pubblico. Da Tony Blair a Bill Clinton a Barack Obama, passando per il primo Nicolas Sarkozy, per l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder e persino per l’ex presidente americano George Bush, inetto nella comunicazione, ma che grazie alle alchimie del suo “stregone” Karl Rove è riuscito a farsi eleggere due volte. Matteo Renzi è il primo politico italiano che ha raggiunto il potere usando le stesse tecniche e, non a caso – a quanto si deduce dalle biografie più autentiche, quelle non agiografiche – ha frequentato gli stessi referenti internazionali, soprattutto anglosassoni.
    Discorso lungo, questo che non posso liquidare in un post. Qui mi limito a rilevare due tecniche tipiche dello spin. Nella fase di creazione del consenso, Renzi ricorreva sistematicamente agli ossimori, ovvero alla capacità di accostare termini o concetti in contrastro tra loro. Esempi: Io sono contro la disoccupazione, però non si può negare che di fronte a certi comportamenti il licenziamento è giusto. Io, da uomo di sinistra, riconosco i diritti dei lavoratori, però non possiamo dimenticare quelli degli imprenditori. Io, da cattolico, sono per la famiglia tradizionale, però non posso non essere solidale con i gay. In questa maniera Renzi è riuscito a piacere quasi a tutti: a cattolici e atei, alla sinistra chic e alla destra borghese, perchè attraverso l’ossimoro ogni ascoltatore si sentiva rassicurato nelle sue convinzioni più profonde e ognuno pensava: Renzi è uno dei nostri.
    Poi, una volta al governo, ha applicato la teoria dell’annuncio, sul modello di Tony Blair e del suo bravissimo e spregiudicato spin doctor Alistair Campbell, i quali dovendo “nutrire” la stampa e, sapendo che pubblico e giornalisti hanno la memoria corta, si inventarono letteralmente le notizie, prediligendo quelle di facile comprensione, familiari al grande pubblico e sensazionaliste. Quasi tutte naturalmente risultarono dei bluff, però servivano a Blair per passare come un innovatore, movimentista, uno che “cambiava le cose”. Sia chiaro: in 10 anni a Downing Street Blair ha comunque lasciato il segno, ma se non avesse fatto ampio uso dello spin non sarebbe passato alla storia come un grande comunicatore e probabilmente sarebbe finito rosolato dalla stampa. Avete capito a chi si ispira Matteo Renzi?
    Dubito fortemente che abbia la capacità innovativa di Tony Blair – anche perchè se anche volesse cambiare davvero, le ganasce dell’Unione Europea e di Maastricht scatterebbero immediatamente, impedendoglielo – ma sul fronte dello spin può considerarsi il suo italico erede. Ricordate i primi mesi a Palazzo Chigi? Era una sequenza di annunci roboanti: “una riforma al mese”, prometteva («A marzo facciamo la riforma del lavoro, ad aprile della pubblica amministrazione, a maggio del fisco…», e così via). Roboanti quanto alla luce dei fatti inconsistenti. Non ha concluso nulla, però le rifome le ha vestite bene, consapevole della forza degli slogan. Decreto Slocca Italia, Bonus 80 euro, Rivoluzione Giustizia, Miliardi per le Grandi Opere, condite con frasi del tipo: «Non lasceremo il futuro ai gufi e a chi scommette sul fallimento. Siamo al lavoro». «Se l’Italia deve cambiare, nessuno può chiamarsi fuori. Nessuno può tirarsi indietro. Vale per tutti i settori». «Dobbiamo giocare all’attacco, non in difesa. Scegliere il coraggio, non la paura».
    Così irresistibilmente generiche e volte a suscitare un consenso esclusivamente emotivo. Chi vuole essere dalla parte dei gufi? Chi non vuole cambiare? Chi non ha coraggio? Nella conferenza stampa odierna il velocista Matteo ha scoperto improvvisamente le virtù del mezzofondo e ha presentato il decreto “Passo Dopo Passo”. L’uomo che voleva cambiare l’Italia in cento giorni ora ne chiede mille, per essere giudicato, udite, udite, nel maggio 2017. Ma naturalmente la colpa non è sua: è dei gufi, dei disfattisti, dei paurosi. Lui è il pifferaio senza paura. Il dramma è che, a quanto pare, incanta ancora gran parte degli italiani. Per ora.
    (Marcello Foa, “Renzi, tecniche di manipolazione: così seduce e inganna gli italiani”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 1° settembre 2014).

    Matteo Renzi è un giocoliere delle parole e non è certo un caso se da ragazzo era soprannominato “il bomba” ovvero colui che la spara grosse. Il “physique du rôle” d’altronde ce l’ha: tutto guizzi, smorfie, moine. Il premier è dotato di un ego così ipertrofico da impedirgli di capire quando non è il caso ovvero quando la sua naturale teatralità sfocia nel grottesco e, sovente, nel ridicolo. Ognuno di noi arrossirebbe se venisse fotografato in pose che evocano più le gag di Mr Bean che la postura consona a un primo ministro. Lui no. Ed è permaloso, tenace, combattiero, replica colpo su colpo, come ha dimostrato con la scenetta del gelato in risposta agli sberleffi dell’“Economist”. L’uomo è fatto così. Ma se fosse solo un istrione di strada oggi non sarebbe primo ministro. L’istinto – per far carriera a questi livelli – non basta. Ci vuole anche del metodo. Che non è certo farina del suo sacco.

  • Matteo Renzi non è serio, ma per fortuna c’è Saviano

    Scritto il 14/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Saviano contro Renzi? Sfida fra titani. Mentre il rottamatore inanella chiacchiere, figuracce e “riforme” a orologeria, capaci teoricamente di smantellare quel che resta dell’Italia, in ossequio al doppio diktat della Germania e dell’élite neoliberista mondiale, l’autore di “Gomorra” critica «lo stile di governo di Matteo Renzi, caratterizzato da un approccio non adeguato alla gravità del momento». Lo rileva Gad Lerner sul suo blog, citando il settimanale “L’Espresso”, su cui l’autore partenopeo gestisce la rubrica “L’Antitaliano”, un tempo firmata dal grande Giorgio Bocca. «Il momento è gravissimo», per cui «la necessità di serietà è illimitata», sostiene Saviano, sul giornale uscito il 12 settembre. Il premier e i suoi ministri «dovrebbero rendersi conto che non è possibile sempre e comunque strizzare l’occhio alla più stantia rappresentazione della cialtroneria nazionale», scrive Saviano.
    Una critica che prende di mira l’infelice immagine di Renzi, che si esibisce con un cono gelato proprio mentre viene annunciato il cronicizzarsi della recessione. «Se il giorno in cui si è ufficializzata la deflazione che ha portato l’economia italiana al 1959 il nostro premier ha teatralmente mangiato il gelato – scrive sempre Saviano – forse a breve sarà costretto a presentarsi al paese in ginocchio e con la testa bassa, in un vuoto di parole, finalmente rappresentativo del disastro». Lo scrittore, spiega Lerner, si riferisce alla risposta di Renzi all’“Economist”: il settimanale britannico aveva dedicato una copertina, al solito provocatoria, sul ritorno dell’eurocrisi. L’immagine: una barca di banconote col simbolo dell’euro, a bordo la Merkel, Hollande e Renzi che ostentano disinteresse e a poppa Mario Draghi che tenta di tirar fuori l’acqua per evitare l’affondamento. Saviano concorda, e tira in ballo addirittura il Cavaliere: «Si pensava che con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, quell’eterno rinvio ai tipici personaggi della commedia all’italiana fosse esaurito».
    Berlusconi, nientemeno. «Si sperava che il pagliaccio e l’abile battutista con responsabilità di governo avessero lasciato il terreno a una generazione di persone serie, in grado di cogliere la gravità delle situazioni e dunque capace di lavorare con discrezione a soluzioni anche dolorose, ma di largo respiro». Questo dunque il Saviano-pensiero: persone serie, per decisioni gravi e naturalmente dolorose. Il serissimo Monti, l’austera Merkel, il micidiale Van Rompuy. Il problema dell’Italia? Non l’Unione Europea, non l’Eurozona, non il sabotaggio dello Stato a scopo di privatizzazione. Non il taglio del welfare, la scure su salari e pensioni, l’iper-tassazione, il Fiscal Compact, il pareggio di bilancio in Costituzione, la svendita del paese, l’assalto ai beni comuni. Il problema non è la disoccupazione indotta dall’élite globalista, macché. Il problema dell’Italia è la carenza di serietà. Parola di Saviano, cioè del mainstream: Benigni, Fabio Fazio, Gramellini, gli editorialisti del “Corsera”e di “Repubblica”, gli ospiti di Bruno Vespa.
    Grido di dolore: non servono i vuoti annunci di Renzi, bisogna fermare l’emorragia di giovani talenti. «Ci vuole un investimento forte sul capitale umano», scrive lo scrittore anti-camorra, lungi dal domandarsi perché, improvvisamente, “non ci sono più soldi” e lo Stato è costretto a ricorrere ferocemente alle tasse per restare in piedi. E poi, diamine, lo stile: «Ci si aspetterebbe umiltà, silenzio, riservatezza: esistere solo quando si è al lavoro, rifuggendo ogni futilità». Anche così, attraverso il Saviano di turno, continua l’offensiva del “Gruppo Espresso” contro Matteo Renzi, “reo” di aver spodestato brutalmente il serissimo Enrico Letta, col quale Eugenio Scalfari era solito cenare, magari in compagnia del compassato Giorgio Napolitano e dell’algido Mario Draghi. Bei tempi, quelli. Che serietà. E che stile.

    Saviano contro Renzi: sfida fra titani. Mentre il rottamatore inanella chiacchiere, figuracce e “riforme” a orologeria, capaci teoricamente di smantellare quel che resta dell’Italia, in ossequio al doppio diktat della Germania e dell’élite neoliberista mondiale, l’autore di “Gomorra” critica «lo stile di governo di Matteo Renzi, caratterizzato da un approccio non adeguato alla gravità del momento». Lo rileva Gad Lerner sul suo blog, citando il settimanale “L’Espresso”, su cui l’autore partenopeo gestisce la rubrica “L’Antitaliano”, un tempo firmata dal grande Giorgio Bocca. «Il momento è gravissimo», per cui «la necessità di serietà è illimitata», sostiene Saviano, sul giornale uscito il 12 settembre. Il premier e i suoi ministri «dovrebbero rendersi conto che non è possibile sempre e comunque strizzare l’occhio alla più stantia rappresentazione della cialtroneria nazionale», scrive Saviano.

  • Estulin: vogliono sterminarci, è la cupola dell’apocalisse

    Scritto il 12/9/14 • nella Categoria: idee • (4)

    «Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.
    Perché la Nato sta alzando i toni con la Russia? «Per capirlo bisogna guardare a Detroit, uno scenario post-apocalittico degno di un film di Will Smith. Le persone che tirano le fila del mondo vogliono le guerre, la crescita zero e la deindustrializzazione, vogliono che ogni città del mondo assomigli a Detroit». Progresso e sviluppo non dovrebbero essere direttamente proporzionali alla densità di popolazione? «Grazie ai progressi tecnologici, le società si sviluppano, creano ricchezza e costruiscono. Ma chi tira le fila del mondo sa che la Terra è un pianeta molto piccolo, con risorse naturali limitate e una popolazione in continua crescita. Ora siamo 7 miliardi e stiamo già esaurendo le risorse naturali. Ci sarà sempre abbastanza spazio sul pianeta, ma non abbastanza cibo e acqua per tutti. Perché i potenti sopravvivano, noi dobbiamo morire». Come intendono fare? «Distruggendo le nazioni a vantaggio delle strutture sovranazionali controllate dal denaro che gestiscono. Le corporazioni governano il mondo per conto dei governi che esse controllano. Così è successo con l’Unione Europea».
    E Putin non rientra in questo disegno. «Pensavano di poterlo controllare». Perché non ci riescono? «La Russia è una superpotenza nucleare. È questo che la rende tremendamente pericolosa agli occhi di questa gente. La Cina, per esempio, ha una grande popolazione ma non è una potenza nucleare. E per questo non è un pericolo. Mentre l’economia cinese può essere distrutta nel giro di un minuto, le tecnologie russe non possono essere annientate». Dove vogliono arrivare col conflitto in Ucraina? «Togliere il gas all’Europa per farla morire di freddo… Quando parlo di potere, non lo identifico con persone che siedono su un trono, ma con un concetto sovranazionale. L’idea è appunto distruggere ogni nazione». Alla fine non ci sarà più alcuna patria? «L’alleanza è orientata verso una struttura mondiale, che per essere controllata ha bisogno di nazioni deboli». È possibile fare qualche nome? «Christine Lagarde, Mario Draghi, Mario Monti, Petro Oleksijovyč Porošenko. Tutte queste persone sono sostituibili. Prendete Renzi: la sua politica conduce alla distruzione dell’Italia. Perché lo fa, dal momento che dovrebbe fare l’interesse del vostro paese? Non è logico».
    Non è poi tanto diverso da Monti. «I vari Renzi, Monti, Prodi sono traditori dell’Italia, non lavorano nell’interesse del paese. Renzi non ha mandato politico, nessuna legittimazione, non è stato eletto». L’ultimo premier eletto democraticamente è stato Berlusconi. «E questo è il motivo per cui c’è stato uno sforzo così ben orchestrato per distruggerlo». È il Bilderberg a tirare le fila? «Il Bilderberg era molto influente negli anni Cinquanta, nel mondo postbellico. Ora è molto meno importante di quanto non si creda. Organizzazioni come il Bilderberg o la Trilaterale non sono il vertice di nulla. Sono la cinghia di trasmissione. I veri processi decisionali hanno luogo ancora più in alto. L’Aspen Institute è molto più importate del Bilderberg». Nessuno ne parla. «I giornali mainstream fanno parte di questo gioco. Pensare che media come il “New York Times”, il “Washington Post” o “Le Monde” siano indipendenti, è da idioti. I giornalisti lavorano per azionisti che decidono la linea editoriale del giornale». Vale anche per l’Italia? «Il “Corriere della Sera”, “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore” siedono spesso alle riunioni del Bilderberg. Non c’è metodo più efficace che far passare le loro idee nella stampa mainstream».
    Anche l’estremismo e il terrorismo islamico rientrano in questo disegno? «Certamante. Non è possibile credere che Obama lavori nell’interesse degli Stati Uniti. Come è impensabile credere che un’organizzazione come l’Isis sia passata, nel giro di poche settimane, dall’anonimato più assoluto a rappresentare la peggiore organizzazione terroristica del mondo». Come si “costruisce” un nemico? «Con gruppi come Isis, Hamas, Hezbollah o Al-Qaeda, succede quello che chiamiamo “blow-back”, cioè quello che succede quando soffi il fumo e ti torna in faccia. L’effetto è sempre lo stesso: si costruisce e si finazia un gruppo terroristico, in Ucraina come in Medio Oriente, e dopo un certo periodo di gestazione questo ti torna indietro e ti colpisce. In ogni operazione non c’è mai un solo obiettivo, ma sempre molti obiettivi. Un obiettivo lavora per te, un altro contro di te».
    Tutto già calcolato? «Un qualsiasi attacco implica l’uso dell’esercito e, quindi, la necessità di investire soldi nell’industria bellica. La formula è la stessa, cambiano solo i giocatori. Oltre alla guerra ci sono modi diversi per ottenere lo stesso risultato: la fame, la siccità, le droghe, la malattie. Li stanno usando tutti. Così da un lato distruggono il mondo economicamente, dall’altro usano i soldi per sviluppare tecnologie così potenti e futuristiche da creare un gap tra noi e loro sempre più marcato». Eppure faticano a contrastare l’ebola… «Macché! È solo un esempio per vedere la reazione della popolazione mondiale. Viene presentata come un’epidemia ma ha ammazzato appena tremila persone negli ultimi dieci anni. Ogni anno raffreddore, tosse e influenza ne uccidono 30.000 solo negli Stati Uniti. La prossima volta che ci sarà una vera epidemia, conosceranno già le reazioni umane».
    (“Ecco chi tira i fili del terrore per sovvertire l’ordine mondiale”, intervista di Andrea Indini a Daniel Estulin, da “Il Giornale” dell’11 settembre 2014).

    «Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.

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