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L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti
La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.Siccome ho l’impressione che questa sensibile inversione di tendenza ancora sfugga, ve li citerò uno ad uno, esponendo sommariamente il nucleo essenziale di ciascuna critica. Prima però sento il dovere di ringraziare tutti quegli “eretici” che decisero di aiutare una piccola trasmissione di RaiDue a sfidare il silenzio dei media sul problema dell’euro. Ringrazio Alberto Bagnai per averci prestato la puntigliosa sostanza dei suoi studi; ringrazio Paolo Barnard per le sue memorabili requisitorie; ringrazio Claudio Borghi, Antonio Rinaldi e Nino Galloni per essersi misurati in mille duelli con i campioni del pensiero egemone. Un ringraziamento speciale, tuttavia, va a Giulio Sapelli e a Bruno Amoroso, i nostri due “prof”, che su quei dibattiti furibondi aprirono l’ombrello protettivo della loro indiscutibile, e generosa, autorevolezza. Ora però devo cominciare la lista degli economisti “populisti” e, se permettete, inizierei dai Nobel. «La spinta per l’euro – sostiene, già nel 1997, Milton Friedman, padre del neoliberismo – è motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere impossibile una possibile guerra europea e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa».«Ma io credo che l’adozione dell’euro avrà l’effetto opposto», aggiunge Friedman. «Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti, che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio, in problemi politici di divisioni». «Adottando l’euro – prevede, nel 1999, anche il keynesiano Paul Krugman – l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». Oggi, però, il Nobel del 2008 appare ancor più convinto e agguerrito di allora: «L’Europa – insiste – non era adatta alla moneta unica, come invece gli Stati Uniti. E questo è uno dei principali motivi della fragilità del sistema Europa, almeno fino alla creazione di una garanzia bancaria continentale. L’Europa (…) ha sbagliato a scegliere la propria governance e le istituzioni per il controllo della politica economica. E’ però ancora in tempo per rimediare». Altro famigerato “avversario” dell’euro è Joseph Stiglitz. La critica del Nobel del 2001 sta tutta in una celebre, lapidaria, battuta: «Questo disastro è artificiale e in sostanza questo disastro artificiale ha quattro lettere: euro».Anche Amartya Sen, nel maggio 2013, esprime un drastico giudizio sulla moneta unica: «L’euro – confida al “Corriere” il Nobel del ‘98 – è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa». Altrettanto clamore desta il discorso fatto da James Mirrlees, Nobel per l’Economia nel 1996, alla Cà Foscari di Venezia nel dicembre 2013: «Guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso. L’uscita dall’euro non risolverebbe in automatico i problemi dell’Italia, visto che rimarrebbero le questioni derivanti dalle politiche adottate dalla Germania. Ma finché l’Italia resterà nell’euro non potrà espandere la massa di moneta in circolazione o svalutare: ecco perché s’impone la necessità di decidere se rimanere o meno nella moneta unica (…). Probabilmente dovreste sostenere il costo di un’eventuale uscita, come avvenuto in Gran Bretagna, ma dovete essere pronti a pagare questo prezzo». Chiude il panorama Christopher Pissarides. Nel dicembre 2013, nel corso di una lectio magistralis subito amplificata da “Daily Mail” e “Telegraph”, il Nobel del 2010 va dritto alla soluzione: «Per creare quella fiducia che i paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro è necessario abolire l’euro».La sequenza dei Nobel fa impressione. Ma numerosi altri economisti di indubbia fama, in questi anni, hanno infranto il tabù dei problemi dell’euro; e io credo che, alla vigilia di una campagna elettorale che tenterà di costringere gli avversari dell’euro alla pubblica abiura, sia giusto e doveroso darvene conto. Sul “Corriere” del 14 marzo scorso l’ex governatore della Bank of England, Mervin King, pronostica che «l’Eurozona, in mancanza di un reale cambiamento, precipiterà di nuovo nella crisi». «Senza l’unione fiscale – è il ragionamento di King – l’unione monetaria è stata prematura, un terribile errore. (…) La disoccupazione, in particolare quella dei giovani, è così alta che non sorprende vedere l’ascesa di nuovi partiti politici che incolpano l’unione monetaria. Vengono liquidati come populisti, ma le loro critiche sono basate su fatti economici che le élite non capiscono». Un altro ex governatore centrale, Antonio Fazio, aveva espresso valutazioni analoghe nel 2016: «Dentro la stessa moneta non ci può essere un’area che è obbligata a restare in equilibrio ed un’altra che ha un forte surplus. Stiglitz ha detto che l’euro è un’istituzione fallita. Questa persona è antipatica. L’unica cosa è che gli hanno dato un premio Nobel».In difesa di Fazio, subito bersagliato dai gendarmi dell’europeismo, scende in campo Paolo Savona. «Fazio la pensa come me», spiega l’ex ministro dell’industria, ex Bankitalia, ex Confindustria ed ex Ocse in un’intervista ad “Avvenire”: «L’euro non è mai stato irreversibile, se non a chiacchiere. Un sistema mal costruito può durare a lungo ma, prima o dopo, deflagra. E se il governo e la Banca d’Italia non hanno un piano B, verranno condannati dalla storia». Merita una citazione anche la svolta di Luigi Zingales. Da convinto sostenitore dell’euro, il rispettatissimo docente della University of Chicago – che in Italia collaborò al progetto euro-liberista di “Fare per fermare il declino” – ammette, con encomiabile onestà, il cambio di prospettiva. «Senza una politica fiscale comune – spiega a “la Repubblica” nel settembre 2016 – l’euro non è sostenibile. O si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi».Una doverosa menzione spetta, infine, anche a Lucrezia Reichlin che per il “Corriere della Sera” ha recentemente passato in rassegna le “fragilità” dell’euro. «Dal punto di vista economico – scrive l’economista chiamata da Trichet nella struttura dirigenziale della Bce – l’euro avrebbe dovuto risolvere il problema dell’instabilità del sistema dei cambi fissi o semi-fissi adottati dall’Europa dopo la fine di Bretton Woods (…). Il problema che è apparso evidente nell’ultima crisi, però, è che la mera introduzione della moneta unica, senza istituzioni adeguate di sostegno, non garantisce la stabilità ma semplicemente tramuta le tensioni sul mercato del cambio del regime precedente in tensioni sul mercato del debito sovrano». Sei Nobel, due governatori centrali, un ex ministro del governo Ciampi e due stimatissimi accademici. In tanti anni di dibattiti televisivi ho capito che titoli e credenziali possono riuscire a prevalere sulle buone argomentazioni. Per questo ho voluto ricordare che anche molti dei più accreditati economisti hanno affermato pubblicamente che l’euro è una moneta mal costruita, che ora si può solo correggere o lasciar morire. E somiglia ad una parabola del destino che questo dilemma metta ora, l’uno di fronte all’altro, i due volti della stessa persona: il Draghi di ieri contro il Draghi di oggi.(Alessandro Montanari, “L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti”, dal blog “Interesse Nazionale”, novembre 2017).La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.
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Ha inghiottito il mondo, è il mostro chiamato neoliberismo
Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.All’indomani della crisi finanziaria del 2008, scrive Metcalf in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, il termine neoliberismo è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle: non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i democratici Usa e i laburisti inglesi, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi: Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie (che li hanno arricchiti). E nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle diseguaglianze. Ormai l’accusa di neoliberismo è un’arma retorica, «un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra». Ma il neoliberismo, osserva Metcalf, è anche un filtro attraverso cui guardare il mondo: «I pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili)».Naturalmente, si trattava di «indebolire lo Stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione», nel frattempo abbattendo le tasse e spianando la strada al business senza regole. E’ anche e soprattutto «un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati». Basta vedere «in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci». Lo stesso linguaggio, prima limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) ora «è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale», ridotta a marketing permanente. Neoliberismo non significa solo «politiche a favore del mercato o compromessi col capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti». È anche «la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze», come se la concorrenza fosse «l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana».Non appena il neoliberismo – certificato come reale – ha «reso evidente l’ipocrisia universale del mercato», allora «i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere». Negli Usa, Hillary Clinton, cioè «il super-cattivo dei neoliberal», ha perso nei confronti di Trump, «un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio». Contro la globalizzazione, scrive Metcalf, si è riaffermata l’identità nazionale nel modo più duro possibile: da una parte la Brexit e, oltreoceano, «un folle a ruota libera» alla Casa Bianca. «Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo», afferma l’analista inglese, secondo cui – per capire bene il fenomeno – è meglio archiviare i Clinton e tornare alla radice del male: «C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero».Il più importante fra di loro, l’economista austriaco Friedrich von Hayek, «non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia: pensava di risolvere il problema della modernità». Per Hayek, «il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi: rivelava la verità». Solo che «la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto». Ovvero: «Grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica», scrive Metcalf. Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe “l’illuminazione”, pensò di aver incontrato qualcosa di inedito: «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse – ha scritto – portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?». Non era tecnicismo economistico, né una polemica reazionaria contro il collettivismo: «Era un modo di far nascere un mondo nuovo», sostiene Metcalf. «Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente».La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era un moralista del XVIII secolo, «pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società». Il neoliberismo? «E’ Adam Smith senza il suo timore», dice Metcalf. «Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo, dato che era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla». Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. «Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale».Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua Metcalf, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Più tardi, lo stesso Hayek ammise addirittura di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. «Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes». Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale, alla pari della microeconomia del XX secolo», nonché «la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». Il pensiero di Keynes, un uomo che non ha vissuto né previsto la guerra fredda, era comunque «riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda». Allo stesso modo, osserva Metcalf, «anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek».L’economista austriaco aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia col dire che le attività umane sono una forma di calcolo economico e possono così assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto: prezzo. «I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta». Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. «Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma – prosegue Metcalf – esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso». Uomini e donne che «hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse». Attraverso la concorrenza diventa possibile, per citare il sociologo Will Davies, «discernere chi e che cosa ha valore». E così, rileva Metcalf , nel pensiero di Kayek non ha più alcun posto «tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento: una classe media prospera e una sfera civile, istituzioni libere, suffragio universale, libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa».In Hajek viene mancare «il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità». L’austriaco, infatti, «ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato. Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno Stato minimo, noto come “liberalismo classico”». Nel liberalismo classico, infatti, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciar fare” a loro. Il neoliberismo, invece, «riconosce che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato». E quindi, «le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente». Per questo, «lo Stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo». E non è tutto: «Ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente».La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita. «Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge». Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra, e si lamentava di essere circondato da «stranieri» e «orientali di tutti i tipi», nonché da «europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza». Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo: «Un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale». Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente: «E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare».Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società. Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale». Affermazione forte: il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. «Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare», scrive Metcalf. «L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi».Via dall’ateneo, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. «Anche i suoi colleghi conservatori dell’università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra”, come si suol dire». Ancora nel 1972, quando un amico andò a trovare Hayek a Salisburgo, «trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile: nessuno si interessava a quello che aveva scritto!». C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher, che «esaltava Hayek di fronte a tutti e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro». Hayek si incontrò privatamente con la “lady di ferro” nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia.L’incontro durò mezz’ora. Al termine, lo staff della Thatcher chiese ad Hayek cosa ne pensasse. «Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo». Rispose: «Lei è veramente bella». La Grande Idea di Hayek non è granché, come idea, fino a che non la ingigantisci. Continua Metcalf. «Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?».Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’Occidente sin dal 17° secolo, continua Metcalf. «L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa?». Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. «Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica». Lo scrive nel 1922 il saggio “Etica e interpretazione economica” di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek: «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso: l’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».Gli economisti, prosegue Metcalf, avevano dibattutto aspramente per 200 anni su come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin Delano Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal. Quegli economisti «fondarono l’università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi». Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura”. «Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo». Non che fossero meno dogmatici di Hayek o più disposti a “perdonare” lo Stato per e le tasse e la spesa pubblica. «Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore».Questo, continua Metcalf, ha fatto sì che Simons, Viner e Knight venissero completamente dimenticati dalla storia. «È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione». Ma più di chiunque altro, «anche più di Hayek stesso», è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che «ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek». Prima, però, ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è «in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi», e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo. «I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore».Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita, sottolinea Metcalf, nega ciò che di noi è più caratteristico: «Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici». Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di “onniscienza sociale” significa «ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare, la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle». Di conseguenza, la sfera pubblica, cioè lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri, «cessa di essere lo spazio della deliberazione e diventa un mercato di click, “like” e “retweet”». Internet? «E’ la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo: uno spazio pseudo-pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”».«Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati», sostiene Metcalf. «Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale». A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, «una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori». Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute, dice il il filosofo ed economista Albert Hirschman: un gusto che si può contestare diventa un valore. Uomini e donne, dice Hirschman, hanno anche la capacità di rivedere i loro desideri, volontà e preferenze, per chiedersi se valga la pena di volere quelle cose. E’ decisivo: «Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione».Ragiona Metcalf: «L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo». Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, invece, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, «non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra». Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman «è un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative”, a differenza delle scienze». Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente, e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. E quando i nostri dibattiti non sono più risolte con ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dall’arbitrio del potere. «È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi».Il grande progetto di Hayek, concepito negli anni ’30 e ’40 per impedire di ricadere nel caos politico e nel fascismo, «ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse», rivela Metcalf. Era un’idea «fin dall’inizio intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggereci», anche perché «la società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta a uno scontro tra mere opinioni, finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili». Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di un ormai novantenne Hayek. «Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes». La Thatcher gli aveva appena scritto, con un tono di trionfo epocale, che niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Vedeva «un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni». Diceva: «Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno Stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere».Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali, conclude Metcalf: viviamo in un “paradiso” costruito dalla sua Grande Idea. E’ vero, purtroppo: ogni giorno «ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi, e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo». Tutto era iniziato come una visione intellettuale «onestamente apolitica», ma quel pensiero si è trasformato «in una politica ultra-reazionaria». Aggiunge Metcalf, amaramente: «Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire». L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista «non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia». Ma queste figure erano state private di rilevanza molto tempo prima che Trump cominciasse a squalificarle. E’ una storia ormai lunga quasi un secolo: e non c’è ancora in circolazione un vaccino efficace contro il virus mortale, il veleno psico-economico del neoliberismo.Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.
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Mundell, il genio malvagio dell’euro: così vi rovineremo
L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.Ma Mundell, da intraprendente canadese-americano, aveva intenzione di fare qualcosa: trovare un’arma che spazzasse via regole governative e norme sul lavoro (odiava veramente gli idraulici sindacalizzati che gli avevano fatto pagare un fracco di soldi per spostare il suo trono). «È molto difficile licenziare lavoratori in Europa», si era lamentato. La sua risposta fu l’euro. L’euro avrebbe realmente fatto il suo dovere quando sarebbero arrivate le crisi economiche, aveva spiegato Mundell. Togliere al governo il controllo sulla valuta avrebbe impedito agli odiosi, piccoli funzionari eletti di usare “estratti” di politiche monetarie e fiscali keynesiane per tirare un paese fuori dalla recessione. L’euro «mette la politica monetaria fuori dalla portata dei politici», disse. E «senza politica fiscale, l’unico modo in cui le nazioni possono mantenere i posti di lavoro è la riduzione competitiva delle regole sugli affari». Citò leggi sul lavoro, norme di tutela ambientale e, naturalmente, le tasse. L’euro avrebbe spazzato via tutto. Non si sarebbe permesso alla democrazia di interferire con il mercato – o con l’impianto idraulico!Come osserva un altro Nobel, Paul Krugman, la creazione dell’Eurozona ha violato la regola economica di base conosciuta come “area valutaria ottimale”. Era una regola inventata da Bob Mundell, ma questo non preoccupa Mundell: per lui, l’euro non riguardava la trasformazione dell’Europa in una potente unità economica unificata. Si trattava di Reagan e Thatcher. «Reagan non sarebbe stato eletto presidente senza l’influenza di Mundell», scrisse Jude Wanniski sul “Wall Street Journal”. L’economia dell’offerta pionieristica di Mundell è divenuta il modello teorico per la Reaganomics – o “economia voodoo”, come l’ha definita George Bush senior: la magica convinzione nella panacea del libero mercato che ha ispirato che le politiche della signora Thatcher. Mundell mi ha spiegato che, infatti, l’euro fa parte delle Reaganomics: «La disciplina monetaria impone la disciplina fiscale anche ai politici». E quando si verificano crisi, le nazioni economicamente disarmate hanno poco da fare, ma cancellano i regolamenti governativi all’ingrosso, privatizzano in modo massiccio le industrie statali, riducono le tasse e gettano lo stato sociale europeo nella discarica.Così, vediamo che il primo ministro Mario Monti (non eletto) ha preteso la “riforma” del diritto del lavoro in Italia per rendere più facile, per i datori di lavoro come Mundell, sparare agli idraulici toscani. Mario Draghi, capo (non eletto) della Banca Centrale Europea, chiede “riforme strutturali” – un eufemismo per i sistemi di frantumazione dei lavoratori. Cita la teoria nebulosa che questa “svalutazione interna” di ogni nazione li renderà tutti più competitivi. Monti e Draghi non possono credibilmente spiegare come, se ogni paese del continente riduce la propria forza lavoro, chiunque può ottenere un vantaggio competitivo. Ma non devono spiegare le proprie politiche; devono solo lasciare che i mercati agiscano sui titoli di Stato di ogni nazione. Quindi, l’unione monetaria è la guerra di classe con altri mezzi.La crisi in Europa e le fiamme della Grecia hanno prodotto il bagliore di ciò che il sommo filosofo Joseph Schumpeter ha chiamato “distruzione creativa”. L’apologeta del libero mercato Thomas Friedman, seguace di Schumpeter, volò ad Atene per visitare il “tempio improvvisato” della banca bruciata dove tre persone erano morte dopo esser state bombardate dai manifestanti anarchici, e ha usato l’occasione per condurre un’omelia sulla globalizzazione e l’“irresponsabilità” greca. Le fiamme, la disoccupazione di massa, la svendita delle risorse nazionali porterebbero ciò che Friedman definiva “rigenerazione” della Grecia e, in ultima analisi, di tutta l’Eurozona. Così che Mundell e gli altri con ville possono ben mettere i loro bagni ovunque vogliono. Lungi dall’essere un fallimento, l’euro, che era il figlio di Mundell, è riuscito probabilmente ad andare al di là dei sogni più selvaggi del suo progenitore.(Greg Palast, “Robert Mundell, il genio malvagio dell’euro”, dal “Guardian” del 26 giugno 2012).L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.
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Hanno mangiato la brioche: Macron, capolavoro del potere
Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?E cosa ci si può aspettare da corpi elettorali sistematicamente frastornati da un’informazione divenuta cane da guardia del gregge e sempre più composti dalle generazioni perdute, rassegnate alla precarietà, votate al dilettantismo e orgogliose di “spiccicare” in inglese per poter imitare modelli di subordinazione e di primitivismo antropologico? Cosa ci si può attendere da giovani di apparente sinistra che affermano di aver dovuto scegliere tra fascismo e capitalismo? Nemmeno si accorgono che i capitalisti hanno scelto per loro fin dall’inizio, che hanno creato le condizioni per una dicotomia così ridicola tra una signora di provincia piuttosto confusa e dunque anche erratica sui temi della campagna e un giovanotto ricco, arrogante e del tutto irrilevante sul piano della politica e dell’intelligenza. Li hanno messi nel recinto lasciando che fossero loro stessi a chiuderlo; il vecchio fascismo è usato da quello nuovo come un’arma per la lotta di classe.Per quanta generosità e per quanta abilità possano avere i dirigenti che vengono da un altro mondo come Mélenchon, cosa possono mai fare con questa creta antropologica creata dal neoliberismo? E’ come se Michelangelo dovesse creare la Pietà col pongo e dipingere la Sistina con le bombolette. Infatti chi non voleva scegliere il capitalismo poteva astenersi invece di andare a fornire il proprio contributo, negare quanto meno il consenso, relativizzando la vittoria di Macron. E di certo non si ci saranno difficoltà per la potente macchina mediatica a riproporre lo stesso rozzo schema dicotomico alle legislative tra poco più di un mese. Sarà ancora capitalismo contro fascismo, democrazia contro comunismo, crescita contro i fantasmi di recessione annunciata, sicurezza contro libertà (magari con qualche sollecitato apporto del Califfo), il giovane presidente contro il vecchio Parlamento anche se a Macron non dovrebbe poi dispiacere: insomma la caricatura della dialettica, quella che è stata così efficace specie dopo il crollo del comunismo e il contemporaneo crollo della cultura politica.Mélenchon, il leader della sinistra, aveva rifiutato di cadere in questo semplicistico tranello, evitando la logica del meno peggio nella speranza di poter mettere un argine ai poteri finanziari almeno alle legislative, condizionando l’Eliseo, ma dai risultati che vediamo, dalla demonizzazione e dal ricatto che è stato esercitato su di lui e dalla esiguità della pattuglia dei non macronisti per necessità, si può legittimamente dare per fallito anche questo progetto. C’è chi pensa che questa situazione di impotenza porterà a una serie di secessioni interne nella sinistra, tra Francia periferica e Francia metropolitana, tra Francia repubblicana e Francia mussulmana, tra Francia operaia e Francia borghese, insomma a una decostruzione del paese. Ma questo è per l’appunto l’obiettivo del capitale globale: fare in modo che vi sia meno società collettiva possibile per potere dominare meglio: più un paese è spaccato all’interno, meglio è, nonostante i problemi che questo può creare. Quindi è vero che Macron all’Eliseo finirà per radicalizzare la battaglia politica, ma nel contesto attuale questo non potrà che portare acqua al mulino dei suoi burattinai.(“Hanno mangiato la brioche”, dal blog “Il Simplicissimus” dell’8 maggio 2017).Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?
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Marco Bersani: questa élite non tollera più la democrazia
«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile». Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. «Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bsogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere». Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».Questa svolta, continua Marco Bersani, evidenzia «la necessità di una riflessione molto profonda sulla relazione tra politiche liberiste e democrazia, nesso sinora dato per scontato e immodificabile». In questo senso, aggiunge, «sarà utile tenere a mente come l’atto di nascita delle teorie economiche liberiste sia avvenuto esattamente attraverso la feroce distruzione della democrazia, elemento che depone molto più a favore di una relazione di contingenza, piuttosto che di consustanzialità fra le stesse». D’altronde, secondo lo stesso Bersani, di paradossi come questo è piena la storia: «I banchieri creditori furono i primi a salutare la nascita della democrazia parlamentare nei Paesi Bassi durante il Rinascimento, e in Gran Bretagna dopo la rivoluzione del 1688, perché, contrariamente alle epoche precedenti, nelle quali i debiti erano appannaggio di principi e sovrani e divenivano inesigibili con la loro morte, il fatto che i parlamenti potessero contrarre debiti pubblici per conto dello Stato rendeva perennemente esigibili gli accordi e i contratti stipulati».Come scrisse Richard Eherenberg, storico del Rinascimento, «chiunque forniva crediti a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità e dalla volontà del debitore di pagare». Il caso, continua Eherenberg, era molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le corporazioni, per le associazioni di individui uniti da interessi comuni. «Secondo una norma generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con l’esposizione della sua persona che delle sue proprietà». Naturalmente, sottolinea Bersani, la finanza si conforma alla democrazia per poi premere per un sistema oligarchico. “Not with tanks, but with banks”, ovvero: «Ciò che in Cile fu reso possibile dai carri armati, oggi viene realizzato attraverso la finanziarizzazione e la trappola “shock” del debito». Visto che l’enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari in questi anni «ha stringente necessità di essere reinvestita», e dato che «i terreni di valorizzazione possibili sono quelli relativi alla deregolamentazione del lavoro, alla dismissione del patrimonio, alla privatizzazione dei servizi pubblici», ciò che le lobby finanziarie si propongono è «un processo di espropriazione totale di diritti e beni comuni, che poco si può accompagnare con il mantenimento di modelli di decisionalità basati sulla democrazia».Per la banca d’affari Jp Morgan, «i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione». L’attacco alla democrazia, richiamato dalla Jp Morgan nel 2013, secondo Marco Bersani è particolarmente evidente con i trattati di libero commercio (Ttip, Ceta), attraverso i quali si tenta il passaggio definitivo dallo Stato di diritto a quello di mercato, permettendo alle grandi multinazionali di non rispondere – impugnandole davanti a una corte arbitrale internazionale – alle leggi promulgate dai parlamenti nazionali. E questa tendenza «è altrettanto chiara nella progressiva erosione degli spazi democratici». Si manifesta a livello locale, «con sindaci che, da garanti dei diritti di una comunità, ne diventano gli sceriffi addetti al controllo sociale delle fasce di popolazione “indecorose”», ma anche sul piano nazionale, «con l’accentramento dei poteri sui governi, invece che sulle assemblee elettive: era questo il disegno “costituzionale” di Renzi, seppellito da una valanga di “No”». Fenomeno ancor più vistoso a livello europeo, «con il commissariamento di fatto di ogni scelta di politica economica e sociale, attraverso i vincoli finanziari di Maastricht e del Fiscal Compact».Tutto ciò, continua Bersani, produce un paradossale circolo vizioso: «Più la democrazia viene erosa, più aumenta la separatezza tra politica istituzionale e società, producendo una forte disaffezione sociale verso la “casta”, più quest’ultima può continuare a perseguire la strada dell’oligarchia al servizio dei grandi interessi finanziari». Per questo, conclude, oggi ogni lotta per la riappropriazione sociale «deve porsi il doppio obiettivo della “socializzazione della politica” e della “politicizzazione della società”». Ovvero: deve «porre con forza, da una parte, la riappropriazione di ogni spazio di democrazia diretta e dal basso e dall’altra, premere per un salto culturale e di qualità delle lotte dei movimenti sociali, che devono inserire, nelle proprie rivendicazioni “specifiche”, gli aspetti sistemici contro l’economia del debito e per una nuova democrazia reale».«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile». Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. «Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bisogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere». Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».
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Illusioni e delusioni, lo show del Magus sul ring del potere
Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.Per Barnard, la politica occidentale è stata scientificamente colonizzata dal potere economico, a partire dagli anni ‘70, sulla scorta del Memorandum Powell tradotto in tutte le lingue, attraverso la Trilaterale dei Kissinger e dei Rockefeller, e declinato in manuali di propaganda che hanno fatto storia, fino alla “Crisi della democrazia” celeberata nel Vangelo di Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, per arrivare ai Chigaco Boys di Milton Friedman e al Nobel per l’Economia assegnato al grande stratega europeo del governo “illuminato” dell’élite, l’austriaco Friedrick von Hayek. Università, editoria, informazione: un unico grande coro, per dire che il mercato ha sempre ragione, che “non c’è alternativa” (Thatcher), che bisogna rimuovere ogni ostacolo alla finanza speculativa (Bill Clinton). E’ così che la destra economica si è imposta anche sulla sinistra, colonizzando partiti, sindacati e leader, da Massimo D’Alema a Gerhard Schroeder, da Tony Blair a Romano Prodi, per affermare l’onnipotenza “storica” nel neoliberismo, fino all’ordoliberismo dei super-massoni Angela Merkel, Mario Draghi, Wolfgang Schaeuble, Giorgio Napolitano, Jacques Attali, Jens Weidmann, François Hollande.Cade Grillo, perdendo la sua residua “credibilità antisistema” proprio mentre si affaccia sugli Usa e sul mondo il nuovo regno del presidente Trump, presentatosi come alfiere del “popolo” contro l’oligarchia? Illusioni ottiche, sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone e scrittore, esperto di simbologia e studioso del potere come «schema astratto, che “fabbrica” persone utili si suoi scopi». Il super-potere apolide ha rottamato per via giudiziaria la Prima Repubblica italiana, gremita anche di personaggi come Craxi e Andreotti, scomodi per il nuovo vertice europeo che si doveva imporre? Vero, ma i partiti di Craxi e Andreotti «facevano i congressi con i morti, gestendo pacchetti di voti di militanti defunti da tempo». E i cittadini dov’erano? A casa, come sempre. Rassegnati alla “fine della storia” celebrata dall’ultimo cantore della Trilaterale, Francis Fukuyama. Persuasi della “morte delle ideologie”. Una liberazione? Al contrario: «L’ideologia – sottolina Carpeoro – contiene il futuro: è l’idea di come vorremmo la società fra trent’anni. C’è qualche politico, oggi, che pensa a un orizzonte che vada oltre i sei mesi?».Carpeoro è uno studioso dei Rosacroce, misteriosi antesignani dell’anarchismo socialista utopico e pre-marxista, le cui prime parole d’ordine sono probabilmente contenute nel manifesto “Fama Fraternitatis”, che nel 1614 chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni. Un mondo migliore, liberato dalla logica del dominio, la cui comparsa sulla Terra uno studioso come Francesco Saba Sardi fa risalire addirittura al neolitico, con la scoperta dell’agricoltura e l’improvvisa necessità di possedere terre, gestirle, difenderle, conquistarle. Proprio l’esigenza di sudditi, destinati a lavorare e combattere, secondo Saba Sardi partorì “l’invenzione” della religione, da parte del re-sacerdote, come pretesto per l’obbedienza e la sottomissione, da cui – per successiva e ulteriore degenerazione – nacque il Magus, l’uomo del potere che utilizza la conoscenza per manipolare la comunità.E’ una storia lunga 12.000 anni, con di mezzo imperi e dominazioni, millenni di evoluzione, grandiosi progressi, guerre, rivoluzioni. Per Carpeoro, però, siamo ancora e sempre prigionieri del cerchio magico tracciato da Magus di turno: all’interno del cerchio vivono promesse di miracoli, fuori dal cerchio ci minaccia il Nemico. «Rompere il cerchio significa imparare a chiedersi perché, il perché delle cose». Ovvero: «Perché questo sistema prevede che, perché noi stiamo meglio, altri devono per forza stare peggio?». Il Magus ha una caratteristica invariabile: non rischia mai, davvero. Durante la sanguinosa fase storica della decolonizzazione, nel secondo ‘900, l’ideologia comunista ha partorito personaggi come Patrick Lumumba, Ernesto Che Guevara, Thomas Sankara. Hanno tutti pagato, con la vita, il prezzo delle loro idee. Loro la vedevano, eccome, la proiezione nel tempo della società ideale. Oggi invece – altra epoca, altro millennio – i più restano a casa, con idee a portata di click, limitandosi ad assistere alla caduta del Magus di turno, senza mai mettere in discussione – nella vita quotidiana – il potere che l’aveva creato, per accomodare il pubblico nel suo rassicurante cerchio magico. Poi il cerchio esplode, come una bolla di sapone, nel lutto degli adepti. Il potere invece se la ride, sta già fabbricando il Magus che verrà.Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.
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Curati meglio, pagando Unipol: è la procto-politica del Pd
In Proctologia, la medicina di ano-retto, esiste una sindrome che prende il nome di Ipertono Anale (ano troppo contratto). In questi casi il proctologo prescrive una serie di dilatazioni anali graduali che si fanno in bagno, dopo bidè caldi nella zona, usando dilatatori di plastica di varie dimensioni: inizi da quello da 1 cm, poi 1,5, poi 2 ecc. finché il muscolo anale si allenta e il sintomo passa. Il Pd usa precisamente la stessa tecnica nella sua politica coi cittadini. Iniziano con l’infilarti il mignolo nel sedere, con suadenti descrizioni del perché. Poi indice, poi due dita, poi la mano, poi ‘full fisting’ con avambraccio a seguito, poi un pilone da seggiovia. Io la chiamo Proctopolitica. E qui non si sta scherzando, per nulla. Leggete sotto. Questi bastardi da impiccagione senza processo che si chiamano Pd, cioè la sinistra del fascismo finanziario, applicano la Proctopolitica da anni ormai, come gli ha insegnato la Cgil, la quale ha imparato dal Pci, che imparò dal Council on Foreign Relation Usa e da Milton Friedman (lunga storia).Ho già dato conto dell’applicazione della Proctopolitica Pd nell’articolo sul salva-banche di Renzi e Poletti. Ora lo stanno facendo nella Sanità, tema purtroppo penosissimo perché si parla di malattia, sofferenza, di quella parte della vita che è veramente il suo massimo orrore (in Occidente), perché la parola finale è morte, addio a tutto ciò che siamo e che abbiamo amato. Il fatto che vado a descrivere è forse noto ad alcuni (non il neologismo Proctopolitica di cui mi faccio vanto), ma c’è un assioma che è utile tenere a mente quando si vuole contrastare la devastante inculata (pane al pane…) che il Pd ci rifilerà in Sanità. Non che tutto ciò valga la pena di essere scritto per la gggènte, e lo ribadisco: i cittadini italiani, le scimmie-cani in maggioranza, se ne strafottono come porci di qualsiasi cosa riguardi la malattia, di chi e di come ci curano, delle strutture, di come si formano i medici, e non ci spendono mai neppure un quarto d’ora di lotta in tutta una vita per tutelarsi, loro, sti ‘tantoamenoncapita’ teste di cazzo. Non solo: quando quei pochissimi eroi tentano di informarli perché si attivino sulla voragine della Sanità, si toccano le palle e tirano dritto (ne so qualcosa da 22 anni). Ma poi, ’sti stronzi, li vedi arrivare in corsia stravolti quando una bella patacca scura gli fa ciao ciao dalla lastra Tac. Pianti e strepiti, proteste perché non ci sono i letti, e le liste d’attesa sono la Milano-Nairobi.Come si diceva durante la Rivoluzione Francese, “hai i diritti per cui hai lottato”, e ho di recente risposto a un mio lettore medico con queste parole: «Non guardi mai nel profondo degli occhi dei suoi ammalati, perché se no li prende a schiaffi e li caccia a calci, ’sti menefreghisti che mai un minuto in tutta la vita si sono occupati di sofferenza e malattia, ma ora vogliono tutto (bambini esclusi)». Ma… questo non solleva la politica dalle sue responsabilità sancite dalla Costituzione (be’, i brandelli che ne rimangono dopo il tritacarne Ue) di garantirci le cure migliori, per tutti, e senza che dobbiamo vendere un rene per curare quell’altro. Ma anche la politica, col permesso della fantastica gggènte, se ne fotte. Non tutta. Come dicevo sopra, c’è un partito italiano che eccelle nella sua porcaggine nella gestione mafiosa e speculativa della Sanità: il Pd. Io so cose fatte da ’sti bastardi, i ‘compagni’ del fascismo finanziario di destra, che farebbero vomitare Niki Vendola e svenire Formigoni. Oggi, e alcuni già lo sanno, il Pd sta introducendo la Proctopolitica per la finale privatizzazione della Sanità. E il laboratorio è ovviamente quello del Feudo Emilia Romagna.Oltre 200.000 bolognesi sono cascati nella fase 1 della Proctopolitica sanitaria Pd, dilatatore da 1 cm. Si sono assicurati con UniSalute, Gruppo Unipol, con la promessa che in caso di necessità mediche avranno accesso privilegiato a visite, diagnostica e interventi presso strutture pubbliche negli spazi della libera professione dei medici pubblici. L’accordo UniSalute e Usl Bologna è già stato firmato il 27 aprile. Sembra un buon affare, ma una semplice considerazione logica fa a pezzi questa truffa. E qui sta l’assioma che vale la pena farvi imparare. La nuova convenzione crea infatti due categorie di cittadini: quelli che rimarranno dipendenti dalle prestazioni erogate dal Servizio Pubblico con o senza ticket – chiamiamoli cittadini-A. E quelli che essendo assicurati privatamente con UniSalute avranno accessi privilegiati al medesimo Servizio Pubblico ma in regime di libera professione – chiamiamoli cittadini-B.Il direttore generale della Ausl di Bologna, Chiara Gibertoni, assicura che non vi saranno disparità di trattamento fra queste due categorie, né prolungamenti delle già tragiche liste d’attesa per i non assicurati privati. Ma ciò è palesemente falso. Eccovi perché: se fosse vero che i cittadini-A usufruiranno di prestazioni mediche di identica qualità rispetto ai cittadini assicurati-B, perché mai i B dovrebbero sborsare ulteriore denaro per assicurarsi con UniSalute? Chi glielo fa fare, se nella sanità tradizionale ricevessero cure d’identica qualità e senza pagare polizze? Già, chi cazzo glielo fa fare? Ma non lo capite che la risposta è ovvia e campeggia gigantesca nella mente di qualsiasi persona razionale? Sia i cittadini-B che -A saranno costretti ad assicurarsi privatamente in numeri sempre maggiori perché in realtà il Sistema Sanitario pubblico erogato tradizionalmente via semplice ticket… verrà di proposito degradato al punto da non lasciare altra scelta, sia ai cittadini-B che ai cittadini-A, se non correre ad assicurarsi pur di essere curati decentemente in ospedali pubblici ma nel settore libera professione, per l’ovvio e glorioso beneficio finanziario del settore assicurativo.Capito il trucco di ’sti bastardi? E non è un allarme. E’ realtà già oggi per chiunque abbia sfortunatamente a che fare da paziente con la sempre più depauperata Sanità pubblica. In Sanità non esiste la magia della “botte piena e della moglie ubriaca”, cioè la magia dell’esistenza di Sistemi Sanitari pubblici che erogano servizi della medesima qualità dei Sistemi Sanitari partecipati dai privati. Altrimenti, ribadisco, nessuno si rivolgerebbe mai ai privati – perché spendere altri soldi se col ticket mi curo bene lo stesso? E i privati si seccherebbero al sole. E’ ovvio, ribadisco, che la Sanità pubblica sarà resa una tale miseria da forzare masse di cittadini verso le assicurazioni pur di curarsi in modo decente. E questa è una privatizzazione graduale della Sanità che vi sta entrando in c…(finisce per ulo) courtesy of the fantastic Proctopolitica del Pd e di Unipol. Siete Procto-pronti? Abituatevi.(Paolo Barnard, “Vi dovete abituare alla proctologia del Pd, introducing alla Proctopolitica”, dal blog di Barnard del 7 maggio 2016).In Proctologia, la medicina di ano-retto, esiste una sindrome che prende il nome di Ipertono Anale (ano troppo contratto). In questi casi il proctologo prescrive una serie di dilatazioni anali graduali che si fanno in bagno, dopo bidè caldi nella zona, usando dilatatori di plastica di varie dimensioni: inizi da quello da 1 cm, poi 1,5, poi 2 ecc. finché il muscolo anale si allenta e il sintomo passa. Il Pd usa precisamente la stessa tecnica nella sua politica coi cittadini. Iniziano con l’infilarti il mignolo nel sedere, con suadenti descrizioni del perché. Poi indice, poi due dita, poi la mano, poi ‘full fisting’ con avambraccio a seguito, poi un pilone da seggiovia. Io la chiamo Proctopolitica. E qui non si sta scherzando, per nulla. Leggete sotto. Questi bastardi da impiccagione senza processo che si chiamano Pd, cioè la sinistra del fascismo finanziario, applicano la Proctopolitica da anni ormai, come gli ha insegnato la Cgil, la quale ha imparato dal Pci, che imparò dal Council on Foreign Relation Usa e da Milton Friedman (lunga storia).
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Il laburista Corbyn: diamo soldi alla gente, non alle banche
Se non diamo soldi direttamente alla gente, non usciremo dalla crisi: per questo lo Stato deve tornare “padrone” della sua moneta. Jeremy Corbyn, attualmente in testa nei sondaggi per la leadership del partito laburista britannico, vuole «un Quantitave Easing per le persone, anziché per le banche», ovvero: un nuovo mandato alla Banca d’Inghilterra, per «migliorare la nostra economia investendo massicciamente in nuove abitazioni, nell’energia, nei trasporti e nei progetti digitali». Si tratterebbe di un processo, spiega il suo consigliere economico Richard Murphy, tramite il quale «viene riacquistato il debito che era stato deliberatamente creato da una banca d’investimenti “verde”, o da un ente locale, o da un’azienda sanitaria o da altre agenzie, con lo scopo specifico di finanziare nuovi investimenti nell’economia – visto che i grandi mercati commerciali e finanziari non sono in grado di effettuarli nella quantità necessaria». Secondo il “Telegraph”, una vittoria di Corbyn alle prossime elezioni «metterebbe la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles».Tra gli scettici si schiera l’economista Tony Yates, già in forza alla Bank of England, secondo cui «questa strada conduce alla rovina della politica monetaria: è esattamente quello che ha fatto lo Zimbabwe, che ha smesso di pagare i suoi debiti stampando nuova moneta». Anche il governatore della banca centrale inglese, Mark Carney, ha paura di Corbyn: dice che la sua proposta, se attuata, «porterebbe alla rimozione di qualsiasi disciplina in materia di politica fiscale». In altre parole, l’establihsment finanziario teme che il leader laburista minacci seriamente il monopolio della finanza privata, con una svolta radicalmente sovranista e popolare a beneficio della finanza pubblica. Una prospettiva, scrive Ellen Brown in un post su “Counterpunch” ripreso da “Come Don Chisciotte”, che allarma da sempre l’élite bancaria di Wall Street e della City, pronta ad agitare puntualmente lo spauracchio dell’iper-inflazione ogni volta che una banca centrale – dalla Fed alla Bce – annuncia un forte sconto sul costo del denaro. Guerre valutarie, svalutazioni competitive ai danni degli Stati vicini e inflazione galoppante? I Qe sono in corso fin dalla fine degli anni ‘90, eppure «questa presunta iperinflazione non si è mai verificata».La Federal Reserve ha appena smesso di stampare nuova moneta per comprare titoli di Stato, la Banca del Giappone ha stampato soldi per anni «per cercare di risollevare la sua economia da decenni di perma-recessione» e la Bce ha tagliato il suo “tasso di deposito” a meno dello 0,2% per cercare di forzare i risparmiatori ad investire. Questo però «significa che i risparmiatori devono pagare le banche perché queste pensino ai loro soldi». La Cina, continua Ellen Brown, ha iniettato 310 miliardi di dollari per puntellare un mercato azionario che ha ceduto quasi il 43% rispetto al suo picco. Ha spinto in basso lo yuan cinese e ha speso altri 200 miliardi di dollari per impedire ulteriori cadute, allentando anche le regole per il credito bancario. Tuttavia, non c’è alcun segno della minacciata iperinflazione: «Il taglio dei tassi e la stampa di denaro hanno reso attraente l’acquisto di azioni, immobili e obbligazioni che producono un reddito regolare superiore ai tassi d’interesse, che sono prossimi allo zero». Eppure, l’economia reale non si riprende. Perché?«Secondo la teoria economica convenzionale, conseguentemente all’aumento della massa monetaria, una maggior quantità di denaro dovrebbe essere a caccia di un minor numero di beni, il che farebbe salire i prezzi. Perché allora non è successo, nonostante vari Qe di dimensioni mondiali?». La teoria monetarista convenzionale era unanimemente accettata fino all’arrivo della Grande Depressione, quando John Maynard Keynes e altri economisti notarono che i massicci fallimenti bancari avevano portato ad una sostanziale riduzione dell’offerta di moneta. Contraddicendo la teoria classica, la carenza di denaro stava incidendo sempre di più sui prezzi. Questo fatto, ricorda Ellen Brown, sembrava fosse direttamente collegato con la massiccia ondata di disoccupazione e con il fatto che le risorse restavano inutilizzate. «I prodotti marcivano a terra, mentre la gente moriva di fame, perché non c’erano i soldi per pagare i lavoratori che li avrebbero dovuto raccogliere, o per i consumatori che li avrebbero potuto acquistare».La teoria convenzionale ha poi ceduto il passo alla teoria keynesiana, che – ricorda Asad Zaman sul “New York Times” – si basa su un’idea molto semplice, ovvero che la conduzione delle attività ordinarie di un’economia richiede una certa quantità di denaro: «Se la quantità di denaro è inferiore a quella necessaria, allora le imprese non possono funzionare – non possono fare acquisti [prodotti da rivendere, materie prime da lavorare etc.], pagare i lavoratori o affittare i negozi. E’ stata questa la causa fondamentale della Grande Depressione». La soluzione era piuttosto semplice: aumentare l’offerta di moneta. «Keynes suggerì che avremmo potuto stampare denaro e seppellirlo nelle miniere di carbone perché i lavoratori disoccupati potessero essere occupati a scavare». Se il denaro fosse stato disponibile in quantità sufficiente, le imprese avrebbero ripreso a vivere e gli operai disoccupati avrebbero trovato un lavoro.C’è un consenso quasi universale, ormai, su questa idea. Persino il neoliberista Milton Friedman, leader dei “Chicago Boys” e avversario delle idee keynesiane, ha ammesso che la riduzione dell’offerta di moneta è stata la causa della Grande Depressione. «Invece di seppellire i soldi nelle miniere, suggerì che il denaro avrebbe dovuto essere lanciato dagli elicotteri, per risolvere il problema della disoccupazione». E questo, sottolinea Ellen Brown, è esattamente il punto in cui siamo ora: «Nonostante i ripetuti cicli di Qe, c’è ancora troppo poco denaro a caccia di troppi beni». Infatti, «i ricchi diventano sempre più ricchi, conseguentemente ai salvataggi bancari e ai tassi d’interesse molto bassi, ma non ci sono soldi nell’economia reale, che resta priva dei fondi necessari per creare la domanda, che a sua volta creerebbe posti di lavoro». Per essere efficace, aggiunge la Brown, il denaro “lanciato dall’elicottero” dovrebbe cadere direttamente nel portafoglio dei consumatori: «Iniettare un certa quantità di denaro nell’economia reale è fondamentale per poterla mettere di nuovo in movimento».Secondo la teoria del credito sociale, persino la creazione di nuovi posti di lavoro non risolve del tutto il problema del troppo poco denaro nelle tasche dei lavoratori, perché possano essere svuotati gli scaffali dei supermercati. I venditori fissano i prezzi per coprire i loro costi, molto più alti del semplice salario dei lavoratori. Il primo, per importanza, fra i costi non salariali, è l’interesse sul denaro preso in prestito per poter pagare la manodopera e i materiali, prima ancora che ci sia un prodotto da vendere. La stragrande maggioranza della massa monetaria entra in circolazione sotto forma di prestiti bancari, come ha recentemente riconosciuto la stessa Banca d’Inghilterra. Le banche creano il capitale, ma non l’interesse necessario per rimborsare i prestiti che hanno concesso, lasciando un “eccesso di debito” che richiede a sua volta la creazione di sempre più debito, nel tentativo di colmare il divario. L’unico antidoto si chiama: sovranità monetaria per l’interesse pubblico, cioè «emissione di “soldi senza debiti”, ovvero di “soldi senza interessi”, da far scendere direttamente nel portafoglio dei consumatori». In altre parole, «un dividendo nazionale, pagato direttamente dal Tesoro».Come Keynes insegna, l’inflazione dei prezzi si verifica solo quando l’economia raggiunge la sua piena capacità produttiva; prima di allora, l’aumento della domanda richiede un aumento dell’offerta: se un numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di beni e servizi, allora la domanda e l’offerta si alzeranno insieme. «Nei mercati globali di oggi, le pressioni inflazionistiche hanno uno sbocco nella capacità produttiva in eccesso della Cina e nel maggior uso di robot, computer e macchine», scrive la Brown. «Le economie globali hanno decisamente molta strada da fare prima di raggiungere la piena capacità produttiva». Secondo Paolo Barnard, autore dell’esplosivo saggio “Il più grande crimine”, che denuncia il “golpe” europeo della privatizzazione della moneta con l’introduzione dell’euro, la disoccupazione di massa è esattamente l’obiettivo numero uno dell’élite finanziaria, mentre il recupero della sovranità monetaria permetterebbe di raggiungere il risultato storico della piena occupazione, quella che il “vero potere” teme più di ogni altra cosa, perché riuscirebbe a riscattare milioni di persone dalla condizione di precarietà e bisogno.Secondo Peter Spence, del “Telegraph”, l’ostacolo più impegnativo per la rivoluzionaria proposta di Corbyn è l’Unione Europea. In particolare, l’articolo 123 del “mostruoso” Trattato di Lisbona (quello che lo stesso Giuliano Amato ha definito “scritto in modo tale da essere deliberatamente incomprensibile”), vieta alle banche centrali di stampare moneta per finanziare la spesa pubblica, confermando la tesi di Barnard: Ue ed Eurozona rappresentano un sofisticato sistema tecnocratico di sottomissione, creato dall’élite finanziaria per confiscare democrazia partendo dalla demolizione dello Stato come soggetto garante del benessere dei cittadini, grazie ai micidiali tagli imposti al welfare e alla demonizzazione del debito pubblico, che da strumento fisiologico dell’economia statale (investimenti, a deficit, per creare servizi, infrastrutture e posti di lavoro) si trasforma in “colpa”, declassando lo Stato a soggetto privato, in balia delle banche (in questo caso la Bce).In realtà, di fronte al collasso dell’economia europea provocato proprio dal rigore imposto dall’Eurozona, la stessa Bce alla fine è stata costretta a ricorrere al “quantitative easing”, sia pure solo per gli istituti di credito. Perché allora – chiede Corbyn – non andare oltre, piegando ulteriormente questa norma, in modo che possa avvantaggiare direttamente l’economia reale, le famiglie, le aziende, le infrastrutture nazionali? Nell’Europa devastata dall’austerity, la proposta del leader laburista è il primo segnale di una svolta epocale: la fine del monopolio privato della finanza, imposto come dogma attraverso una “guerra” sanguinosa, durata decenni, di cui il devastante declassamento dell’Italia e l’atroce sacrificio della Grecia non sono che gli ultimi capitoli.Se non diamo soldi direttamente alla gente, non usciremo dalla crisi: per questo lo Stato deve tornare “padrone” della sua moneta. Jeremy Corbyn, nuovo leader del partito laburista britannico, vuole «un Quantitave Easing per le persone, anziché per le banche», ovvero: un nuovo mandato alla Banca d’Inghilterra, per «migliorare la nostra economia investendo massicciamente in nuove abitazioni, nell’energia, nei trasporti e nei progetti digitali». Si tratterebbe di un processo, spiega il suo consigliere economico Richard Murphy, tramite il quale «viene riacquistato il debito che era stato deliberatamente creato da una banca d’investimenti “verde”, o da un ente locale, o da un’azienda sanitaria o da altre agenzie, con lo scopo specifico di finanziare nuovi investimenti nell’economia – visto che i grandi mercati commerciali e finanziari non sono in grado di effettuarli nella quantità necessaria». Secondo il “Telegraph”, una vittoria di Corbyn alle prossime elezioni «metterebbe la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles».
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Mont Pélerin, il vivaio degli oligarchi che ci stanno uccidendo
Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali. Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la superiorità fuor di discussione del libero mercato; la categorica riduzione del ruolo dello Stato a costruttore e guardiano delle condizioni che permettono la massima diffusione dell’uno e dell’altro. Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi. Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine, ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe) quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan (1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico. Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico-politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero – specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky. Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica economica della Ue contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia – come ha dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi, poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino. La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia, in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare. Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della Ue le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della Ue.Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare». Al fiume di pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti. Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni? Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.(Luciano Gallino, “La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo, da “La Repubblica” del 27 luglio 2015, ripreso da “Micromega”).Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.
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Toscano: se gli euro-delinquenti temono persino la Grecia
In Europa esistono fondamentalmente due posizioni nei confronti del governo guidato da Tsipras. Da una parte ci sono gli europeisti ordo-liberisti alla Jean-Claude Juncker che cercano di salvaguardare le politiche di austerità insieme all’unità della zona euro; dall’altra ci sono gli ordo-liberisti a trazione più spiccatamente neonazista come Wolfang Schaeuble che spingono la Grecia fuori dall’euro pur di non mettere minimamente in discussione le politiche in voga nel resto d’Europa. Draghi, affiliato presso la Ur-Lodge “Der Ring”, officina massonica che esprime proprio l’attuale ministro delle finanze tedesco nella qualità di “maestro venerabile”, è schierato dalla parte degli “intransigenti”. Domanda: come mai due figuri nefasti del calibro di Schaeuble e Draghi, architetti che sovraintendono la distruzione della civiltà occidentale, stanno facendo di tutto per rompere nei fatti il tabù riguardante la presunta irreversibilità della moneta unica? Forse perché a loro dell’euro, quale momento prodromico per la successiva realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, non gliene frega nulla?Lo volete capire o no che, al di là delle tecnicalità maniacali che albergano nella mente di qualche aspirante intellettuale, è la politica che muove e cesella la realtà usando alla bisogna i diversi strumenti di cui dispone? L’euro è solo uno strumento, usato fino ad oggi come arma contundente per bastonare contemporaneamente e su larga scala. Ma l’euro, proprio perché potenzialmente in grado di coprire un campo vasto, potrebbe in teoria rimediare ai danni compiuti con la stessa rapidità con la quale sono stati creati. Se Draghi, anziché iniettare i soliti miliardi nel corpo putrido di un sistema finanziario autoreferenziale, usasse la liquidità di cui dispone per offrire a tutti i governi dell’area euro la copertura di un programma per la piena occupazione, valido cioè dal Portogallo alla Lettonia, la crisi non finirebbe in un batter di ciglia? E perché Draghi non considera neppure una opzione di questo tipo? Forse perché tale scelta risulterebbe incompatibile con il rispetto dello Statuto o dei Trattati, così per come vanno ripetendo i soliti tromboni?Lo Statuto e i Trattati non si scrivono né si interpretano da soli, limitandosi a cristallizzare giuridicamente le posizioni di potere imposte dai gruppi prevalenti. E quindi, nel caso in cui i rapporti di forza dovessero mutare, finirebbero con il cambiare in automatico anche le leggi, i trattati e i regolamenti firmati e pensati al fine di legittimare ex post decisioni già prese in sede politica e non giuridica. Tutto chiaro fin qui? I neonazisti ora al potere in Europa non possono correre il rischio di dover ripensare a breve le politiche dell’austerità, magari a causa della rapida e diffusa ascesa di partiti desiderosi di offrire a tutti i cittadini del Vecchio Continente un paradigma orientato per davvero al rilancio della crescita, dell’occupazione e della giustizia sociale. Con l’obiettivo evidente di allontanare un simile spauracchio, quindi, i “venerabili maestri” Draghi e Schaeuble scelgono di gettare la maschera, invitando coerentemente e in modo spiccio i non allineati a tornare a battere una moneta nazionale. Voi credete per davvero che i neonazisti tecnocratici che governano ora i processi politici in Europa non sappiano che l’Europa sia sul punto di implodere? Non sappiano cioè che il giochino “taglio della spesa più riforme strutturali” non incanti più nessuno?Dall’impasse i padroni possono uscire in sintesi in due modi: o cambiando le politiche europee in profondità, che vuol dire emissione di eurobond finalizzati al lancio di un grande piano di investimenti, Bce prestatrice di ultima istanza costretta a comprare per legge tutti i titoli emessi da un auspicabile Tesoro europeo, nonché immediata attuazione di un programma finanziato a deficit per realizzare la piena occupazione; o incentivando e cavalcando la tigre di un nazionalismo di ritorno che serve per spostare l’obiettivo e per garantire la prosecuzione di politiche classiste da imporre ora, non più con il consenso carpito con l’inganno, ma con la forza bruta che deriva dall’uso sapiente di manganello e olio di ricino. In Italia, per esempio, la posizioni economiche di chi pensa di risolvere tutto uscendo dall’euro sono chiaramente anti-keynesiane. Salvini insegue il mito di Rebushka, noto discepolo di Friedman, mentre i grillini sembrano ancora suggestionati da pulsioni antisprechi e pro-decrescita. Entrambi, rimanendo su posizioni simili, possono di sicuro contare sul tacito sostegno delle logge più reazionarie e perverse del pianeta.(Francesco Maria Toscano, “Vi siete chiesti perché i nazisti tecnocratici Draghi e Schaeuble spingano la Grecia fuori dall’euro?”, dal blog “Il Moralista” del 13 marzo 2015. Toscano è co-fondatore, con Gioele Magaldi, del “Movimento Roosevelt”).In Europa esistono fondamentalmente due posizioni nei confronti del governo guidato da Tsipras. Da una parte ci sono gli europeisti ordo-liberisti alla Jean-Claude Juncker che cercano di salvaguardare le politiche di austerità insieme all’unità della zona euro; dall’altra ci sono gli ordo-liberisti a trazione più spiccatamente neonazista come Wolfang Schaeuble che spingono la Grecia fuori dall’euro pur di non mettere minimamente in discussione le politiche in voga nel resto d’Europa. Draghi, affiliato presso la Ur-Lodge “Der Ring”, officina massonica che esprime proprio l’attuale ministro delle finanze tedesco nella qualità di “maestro venerabile”, è schierato dalla parte degli “intransigenti”. Domanda: come mai due figuri nefasti del calibro di Schaeuble e Draghi, architetti che sovraintendono la distruzione della civiltà occidentale, stanno facendo di tutto per rompere nei fatti il tabù riguardante la presunta irreversibilità della moneta unica? Forse perché a loro dell’euro, quale momento prodromico per la successiva realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, non gliene frega nulla?
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Magaldi a Grillo: insieme, contro l’élite che minaccia l’Italia
Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.Le dimissioni Napolitano sono state, da qualcuno, messe anche in connessione con questa operazione editoriale che noi abbiamo lanciato (il libro “Massoni”, edito da Chiarelettere). Questa nostra operazione, unita ad altre, ha creato molti nervosismi. Questi fattori, naturalmente insieme ad altri, hanno indotto Napolitano a dimettersi. Il sostituto di Napolitano? Noi vigileremo, perché nel libro si parla non soltanto di massoneria aristocratica, quella che gestisce da 30-40 anni i grandi processi di globalizzazione e di insana costruzione europea, ma si parla anche di riscatto delle Ur-Lodges progressiste, l’ambiente democratico, di cui sono un “gran maestro”. Noi vigileremo su chi sarà il prossimo inquilino del Colle. In termini democratici, limpidi e trasparenti diremo di evitare che vada al Quirinale un altro personaggio nefasto come Napolitano. Se uno guarda l’Ur-Lodge a cui appartiene Napolitano e ne vede la storia, non esce benissimo uno che, come lui, è stato appartenente fino al 1978. Il prossimo presidente non sarà però influente e importante come lo è stato Napolitano, perché i tempi sono cambiati e la gente inizia ad aprire gli occhi e le orecchie. Prodi? E’ senz’altro parte del network massonico sovranazionale, in termini perfino clamorosi e insospettabili.Il “Movimento 5 Stelle”? E’ nato su esigenze molto importanti e utili, avrebbe da modificare alcune cose. Ha poi un problema interno di articolazione democratica e liberale. Noi stiamo fondando un movimento metapartitico che quindi non chiederà il consenso e non sarà concorrente né del Movimento 5 Stelle né di altri partiti, ma vuole riunire tutti i progressisti italiani ed extra-italiani, europei, per cambiare paradigma in Italia, in Europa e nel mondo, in questa cattiva globalizzazione. Questo movimento si chiama “Movimento Roosevelt” e vedrà la luce tra gennaio e febbraio 2015. Riunisce massoni e non massoni, purché accomunati da una vocazione progressista. Il nome “Movimento Roosevelt” richiama la dichiarazione dei diritti umani patrocinata da Eleanor Roosevelt, richiama la grande lezione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e la lezione economica di John Maynard Keynes, dimenticata in questa Europa tutta quanta friedmaniana e basata sui principi di un neoliberismo feroce e anche ottuso, se non fosse che è un neoliberismo in malafede, è fatto apposta, con le sue valide declinazioni per destrutturare la società europea, i suoi principi di welfare la sua prosperità.La massoneria rivendica la costruzione delle società aperte, libere, democratiche, e del pluralismo di informazione. Anche le lamentele sullo svuotamento di sostanzialità, la democrazia contemporanea, si possono fare, oggi, perché qualcuno in passato l’ha inventata, la democrazia: la democrazia e la libertà non le ha portate la cicogna, ma i massoni progressisti. L’opinione pubblica media, non solo italiana, purtroppo è facilmente manipolata dai grandi mezzi di informazione, concentrati nelle mani di editori non puri in gran parte, e questo è un caso eclatante per l’Italia. Da noi c’è poca editoria pura, il Quarto Potere che controlli gli altri tre poteri non esiste perché giornali e televisioni sono in mano a signori che hanno anche banche, assicurazioni e altri interessi industriali o finanziari. Agli italiani, e non solo a a loro, viene fatta una narrazione delle cose che prepara poi l’arrivo con le fanfare di personaggi come Monti e Letta e poi anche di Renzi che è un grande affabulatore molto più carismatico e vendibile di Monti e Letta, ma che nella sostanza ha proseguito le stesse politiche recessive e distruttive dell’interesse pubblico.Invito il “Movimento 5 Stelle” e i suoi dirigenti ad abbeverarsi, perché faremo una scuola di alta formazione politologica: faremo una Fondazione Roosevelt con interventi importanti di welfare sul territorio europeo per dimostrare che la politica dovrebbe essere intervento sulle cose, sui territori, riunendo le persone di sano intelletto e buona volontà anche di diversi schieramenti. Ma vorrei dare un ultimo consiglio agli ispiratori e ai gestori del “Movimento 5 Stelle”: accettino l’idea che non si possono abolire i partiti, e che l’alleanza tra diversi, pur mantenendo la propria identità, è l’unica possibilità di ridare sostanza alla democrazia italiana e non solo italiana. Se il “Movimento 5 Stelle” accetterà di dialogare e di allearsi con chi li considera il meno peggio nel panorama politico italiano, noi potremo avere una svolta politica importante, altrimenti si rischia di congelare milioni di voti che credono e hanno creduto, giustamente, al Movimento 5 Stelle come fattore di rinnovamento.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate al blog di Beppe Grillo per il “Passaparola” del 5 gennaio 2015).Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.
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La ricchezza non gocciola: sempre più ricchi, a nostre spese
La dottrina del trickle-down esprime l’idea per cui la ricchezza di pochi finirà con ricadere vantaggiosamente sull’intera collettività, compresi i ceti meno abbienti. Risale agli anni di Reagan, e si sviluppa coerentemente all’interno di quell’ideologia che vede nel libero mercato la migliore e unica forma di interazione economico-sociale, attribuendogli taumaturgiche virtù auto-regolanti in un contesto di perfetta concorrenza, privo di asimmetrie informative, e dove la funzione dello Stato – detentore del potere coercitivo – dev’essere strettamente limitata a garantirne le condizioni ottimali di sviluppo. Il neoliberismo, all’epoca di Reagan, aveva già iniziato quel percorso che lo avrebbe portato, nel giro di qualche anno, a essere l’ideologia di riferimento della globalizzazione: fin dagli anni Settanta i Chicago-boys di Friedman avevano potuto farsi le ossa e testare la bontà della shock-economy presso le dittature sudamericane; Fmi e Banca Mondiale si stavano orientando decisamente verso quelle direttive di politica economica che in seguito sarebbero state formalizzate sotto il nome di “Washington consensus”.Il termine trickle-down può essere tradotto con la parola “gocciolamento”. Un’espressione che evoca processi naturali, e che serve a dare alla dottrina un carattere di spontaneità irrefutabile.I neoliberisti sono bravi, in queste narrazioni: l’arbitrio che viene tradotto come libertà di decisione; la subordinazione del bene individuale a quello comune descritta come una prevaricazione indebita dello Stato; la tutela dei più deboli vista come incoraggiamento alle tendenze parassitarie; i meccanismi di previdenza accusati di essere de-responsabilizzanti.(Esempi recenti li troviamo nella retorica della compagine governativa, in particolare quella del nostro caro leader, il facondo Renzi. L’ultimo che mi ha colpito è stata quando a proposito dell’idea di mettere il Tfr in busta paga ha affermato, più o meno, che doveva finire l’epoca dello “Stato-mamma”). In rete mi sono imbattuto in una vignetta che illustra molto bene il concetto di Trickle-down, come ce lo raccontano e come funziona veramente. Molto carina, vero?, ma restava una metafora senza supporto scientifico.Manco a farlo apposta, leggo sul “Washington Post” un articolo di Christopher Ingram a commento del grafico costruito da Pavlina Tcherneva sulla base di dati ricavati dal recente lavoro di Piketty. Il titolo dell’articolo è significativo: “Il deprimente grafico che segue dimostra che i ricchi non si stanno impossessando della fetta di torta più grande: si stanno prendendo tutta la torta”. Il grafico lo trovate qui sotto: rappresenta la distribuzione dell’incremento dei redditi dal secondo dopoguerra a oggi, fra il 10% più ricco della popolazione (in rosso) e il restante 90% (in blu), e dimostra che una quota sempre maggiore di ricchezza prodotta finisce nelle tasche dei più facoltosi. Notare l’inesorabile declino della quota blu a beneficio di quella rossa, culminato con il crollo degli anni ’80 grazie agli effetti della reaganomics e della pretestuosa trickle-down theory. Notare anche come la quota blu non solo è andata diminuendo, ma negli ultimi anni è diventata in termini reali addirittura negativa. Il grafico non dice nulla che non sapessimo o sospettassimo già, ma lo dice in maniera molto eloquente. Va ricordato però che sono dati riferiti alla realtà statunitense. Dati europei, ne sono convinto, mostrerebbero una distribuzione molto più equilibrata. O no?(Mauro Poggi, “Tricke-up, la ricchezza non gocciola”, da “Appello al Popolo” del 1° novembre 2014).La dottrina del trickle-down esprime l’idea per cui la ricchezza di pochi finirà con ricadere vantaggiosamente sull’intera collettività, compresi i ceti meno abbienti. Risale agli anni di Reagan, e si sviluppa coerentemente all’interno di quell’ideologia che vede nel libero mercato la migliore e unica forma di interazione economico-sociale, attribuendogli taumaturgiche virtù auto-regolanti in un contesto di perfetta concorrenza, privo di asimmetrie informative, e dove la funzione dello Stato – detentore del potere coercitivo – dev’essere strettamente limitata a garantirne le condizioni ottimali di sviluppo. Il neoliberismo, all’epoca di Reagan, aveva già iniziato quel percorso che lo avrebbe portato, nel giro di qualche anno, a essere l’ideologia di riferimento della globalizzazione: fin dagli anni Settanta i Chicago-boys di Friedman avevano potuto farsi le ossa e testare la bontà della shock-economy presso le dittature sudamericane; Fmi e Banca Mondiale si stavano orientando decisamente verso quelle direttive di politica economica che in seguito sarebbero state formalizzate sotto il nome di “Washington consensus”.