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Archivio del Tag ‘Misteri’

  • Il fantasma Edoardo Agnelli, le non-indagini sulla sua fine

    Scritto il 01/12/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.
    Il primo a non credere alla versione ufficiale è un cronista di razza come Gigi Moncalvo, per un semplice motivo: nessuno svolse vere indagini. E ha dell’incredibile la trascuratezza di chi avrebbe dovuto ricostruire le ultime ore di Edoardo Agnelli. Un ragazzone di 46 anni, a lungo celebrato dall’Iran come “martire dell’Islam”. «Sulla sua morte, il governo di Teheran ci ha pedalato parecchio», dice Moncalvo, autore del saggio “Agnelli segreti”, che alla tragica fine di Edoardo dedica 8 capitoli, fondati sul fascicolo della Procura di Mondovì. La tesi degli ayatollah: Edoardo, che aveva aderito all’Islam, sarebbe stato ucciso da un complotto sionista, ordito per mettere le mani sulla Fiat manipolando l’ebreo John Philip Jacob Elkann, allora giovanissimo. Obiettivo: scongiurare il rischio che ci finisse “un musulmano”, a controllare i conti della Fiat. A far paura era la caratura di Edoardo, che aveva dichiarato guerra alla produzione di armamenti, «come le mine antiuomo che la Fiat metteva sul mercato, tramite la consociata Valsella».
    Moncalvo è un veterano dell’informazione italiana: profetico innocentista sul caso Tortora, redattore al “Giorno” e al “Corriere”, fautore dei primi Tg berlusconiani, infine dirigente Rai. E autore prolifico di saggi coraggiosi (e subito scomparsi dalle librerie) come quelli dedicati alle dinastie Agnelli e Caracciolo. «Non dico che Edoardo non si sia ucciso, né che sia stato suicidato», ribadisce a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Dico solo che, a 19 anni dal decesso, non sappiamo come sia morto: se si è tolto la vita, se è stato ucciso. Se è uscito di casa da solo, oppure no. Se è stato deposto già cadavere ai piedi di quel viadotto. L’unica verità è che non lo sappiamo». Riparlare della sua morte, osserva il giornalista, sembra sempre una cosa sgradevole, «come se si volesse rivangare il passato e non lasciare in pace un signore che è morto a 46 anni, in circostanze che sono ancora oggi misteriose, anzi misteriosissime». Stranezze: «Dopo 19 anni, il fascicolo presso il tribunale di Mondovì è ancora secretato, nonostante ci siano state inchieste, e nonostante io e alcuni avvocati abbiamo inviato alla Procura di Mondovì il mio libro “Agnelli segreti”, dove sono indicati 48 punti che rivelano come NON sono state fatte le indagini, come si è voluto nascondere una serie di responsabilità notevoli».
    Niente complottismi: solo fatti documentati. «Una massiccia campagna di stampa orchestrata dall’ufficio pubbliche relazioni della Fiat, quindi per ordine della famiglia, ha sempre voluto far credere che Edoardo si fosse suicidato». Chiariamoci, premette Moncalvo: «Tutte queste voci attorno alla sua morte si sono diffuse proprio a causa della mancata chiarezza fatta da chi aveva il potere e il dovere di intervenire: il primis il procuratore capo di Mondovì, Riccardo Bausone, ora in pensione». Edoardo «poteva dare fastidio, pur nella sua irrequietudine», nonostante «le trappole in cui era caduto». Per esempio, nel ‘90, l’incidente di Malindi, in Kenya: fermato dalla polizia per possesso di stupefacenti. «Un arresto avvenuto con accompagnamento di telecamere, cioè in una maniera che destava molti sospetti sulle modalità e sugli scopi di quella vicenda». La storia poi accelera di colpo nel ‘97, quando si spegne (a soli 33 anni) il cugino Giovannino, cioè Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, dipinto dai giornali, erroneamente, come ipotetico delfino dell’Avvocato. Al suo posto, nel Cda Fiat, anziché Edoardo viene inserito stranamente l’imberbe John. Per protestare, il primogenito chiama Paolo Griseri, affidando al “Manifesto” la più clamorosa delle interviste: non creda, mio padre, di sbarazzarsi di me.
    Attenzione: «Edoardo era considerato una sorta di lebbroso, un ragazzo da evitare. Per offenderlo, screditarlo e diffamarlo, si diceva: Edoardo è matto, drogato e sbalestrato, impregnato di teorie e filosofie confuse, piene di astrattismi e di utopie». Obiettivo: isolarlo. Griseri, oggi redattore di “Repubblica”, violò l’embargo. Incontrò il giovane Agnelli al convento dei cappuccini di Torino, una sera di nebbia. Ne uscirono frasi lapidarie. Un avvertimento: come erede, mi spetterà un terzo dalla Fiat, della Exor, dell’Accomandita Giovanni Agnelli e soprattutto della Dicembre, la società strategica che domina tutto. «Una dichiarazione che a qualcuno fa tremare i polsi: non si illuda, mio padre – precisa Edoardo – di scrivere o di disporre che quel terzo di diritto che mi spetta, delle azioni, mi venga liquidato convertendolo in denaro. No: io voglio le azioni, come mio diritto. Voglio verificare i bilanci della società, controllare i prodotti della Fiat». Edoardo lo mette proprio in chiaro: non accetterà di essere messo alla porta con una buonuscita zeppa di milioni. Vuole poter pesare, dire la sua. Per questo, esigerà un terzo della partecipazione azionaria.
    Prende anche le distanze da John Elkann: mi meraviglia, dice, che mio padre lo abbia nominato. E’ stato un grosso errore: la nomina di “Yaki” è stata decisa contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. «Come se (e qui fa una rivelazione importante) Gianni Agnelli fosse stato in qualche modo convinto, forzato, costretto a nominare John nel Cda?». Edoardo dice che “qualcuno” ha spinto il padre ad agire in quel modo. Moncalvo pensa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, «i due “consiglieri della corona”, i due Richelieu della real casa torinese». Quasi ci fosse la seguente configurazione: intanto prepariamo il terreno a ciò che accadrà dopo la morte dell’Avvocato, all’epoca in precarie condizioni, reduce da 6 operazioni al cuore e tormentato da un tumore alla prostata (si spegnerà quasi 5 anni dopo, il 24 gennaio 2003). Quindi, “qualcuno” – per mantenere il potere – manovrò perché venisse fatto fuori, sul piano azionario, il figlio di Agnelli, per mettere al suo posto un soggetto come il ragazzino John, molto più controllabile, addomesticabile, condizionabile?
    La domanda di Moncalvo resta in sospeso, fino alle deduzioni più recenti, dopo la guerra familiare scatenata dalla sorella di Edoardo, Margherita Agnelli, sull’eredità dell’Avvocato. E se Edoardo fosse stato ancora vivo, alla morte di suo padre nel 2003? «La vedova, Marella, ha donato tutto a suo nipote John Elkann irritando la figlia, Margherita. Vivo Edoardo, alleato con sua sorella, la madre non avrebbe potuto fare quello che ha fatto, a favore di John». Quindi, ragiona Moncalvo, «la scomparsa di Edoardo ha facilitato il disegno di coloro che volevano mettere le mani sulla Fiat, o ufficialmente o dietro le quinte, o comandando attraverso un giovanotto pallido, imberbe e inesperto». Costoro, aggiunge sempre Moncalvo, se si fossero trovati sulla loro strada Edoardo Agnelli, come avrebbero potuto convincere “donna Marella” a donare la sua parte? «Come avrebbero potuto convincere John ad accoltellare sua madre, Margherita, portandole via la Dicembre e il controllo della società? E come avrebbe potuto, la stessa “donna Marella”, accoltellare alla schiena sua figlia Margherita, rompendo l’unità familiare e mettendole contro il primogenito, John? Pensate che cosa avrebbe determinato, la sola presenza di Edoardo».
    Solo ipotesi, naturalmente, perché Edoardo Agnelli è diventato ufficialmente un fantasma due anni e sette mesi dopo la famosa intervista al “Manifesto”. E qui Moncalvo, autorizzato da Margherita Agnelli a consultare le carte giudiziarie, spalanca il libro della vergogna. Il 15 novembre 2000, la famosa Fiat Croma viene avvistata da un addetto alla sicurezza autostradale, in sosta sul ponte che sovrasta il fiume Stura di Demonte, nel territorio di Fossano. Il corpo di Edoardo è rinvenuto, quasi intatto, 78 metri più in basso, ai piedi del viadotto. L’esame necroscopico è sommario, grossolanamente superficiale: il medico legale (non quello di turno, ma un medico chiamato apposta dal procuratore) sbaglia il peso e l’altezza del cadavere, togliendoli 20 chili e 20 centimetri. Dieci anni dopo, a “La storia siamo noi”, Giovanni Minoli farà una sua ricostruzione, “L’ultimo volo”, che cita le versioni alternative ma poi accredita la tesi del suicidio. Gli esperti in studio, si esaspera Moncalvo, «arriveranno a dire che è normale, se uno cade in piedi, che possa accorciarsi e diventare quasi nano».
    Gigi Moncalvo insiste sui primi istanti del ritrovamento. La polizia stradale di Cuneo, subito sul posto, viene rimpiazzata dalla polizia torinese, accorsa in forze. Il questore, Nicola Cavaliere, ha accompagnato personalmente il padre, Gianni Agnelli, a riconoscere quel che resta di suo figlio. Il procuratore Bausone fa due annunci, a caldo. Primo: non si esclude nessuna ipotesi. Secondo: sarà fondamentale l’esito dell’autopsia. Peccato però che l’autopsia non verrà mai eseguita, e che l’unica ipotesi in campo sarà quella del suicidio. L’esame autoptico, chiarisce Moncalvo, sulla carta era rischioso: se per caso nel corpo di Edoardo fossero emerse tracce di stupefacenti, sarebbe scattata d’ufficio una imbarazzante indagine parallela, a Torino, sul mondo dello spaccio eventualmente frequentato dalla vittima. Ma l’autopsia mancata, secondo Moncalvo, è solo uno degli aspetti, neppure il peggiore, della clamorosa non-indagine. La Croma era parcheggiata in modo perfetto, allineata al guard-rail, e Edoardo Agnelli non sapeva posteggiare in retromarcia. Pesava 119 chili, ed era claudicante: si aiutava col bastone, per i postumi di una caduta. In quelle condizioni, con un fisico come il suo (un metro e novanta di statura) sarebbe sgusciato dall’auto e si sarebbe arrampicato sul parapetto, alto un metro e mezzo, per poi lanciarsi sotto. E senza essere visto da nessuno, lungo un’autostrada percorsa da quasi 70 veicoli al minuto.
    Per la Procura di Mondovì, la prova regina dell’ipotetico suicidio è rappresentata dal Telepass a bordo della Croma, che registra ogni spostamento. Quella mattina: l’ingresso a Torino in direzione Savona, l’uscita a Marene, il rientro in autostrada fino al viadotto di Fossano. Coincide coi percorsi dei tre giorni precedenti: segno, per gli inquirenti, che Edoardo Agnelli vagasse in cerca di un ponte da cui gettarsi. Peccato, dice Moncalvo, che la vettura su cui era installato il Telepass viaggiasse a 150 all’ora: non certo la velocità ideale, per chi si sta guardando attorno in cerca del punto adatto in cui farla finita. Non solo: il Telepass non prova che Edoardo fosse alla guida della Croma. E non essendo collegato alla targa, non dimostra nemmeno che fosse installato su quella berlina: l’aggeggio infatti può essere benissimo trasferito da una vettura all’altra. Per giunta, la Croma disponeva di un navigatore Gps: quello sì, avrebbe rivelato con certezza i movimenti della vettura. «Ma il Gps non è stato controllato. Invece il Telepass, incredibilmente, è diventato l’unica prova su cui fondare l’ipotesi del suicidio». Del resto, meglio non dire: si stenta a credere che ci si sia davvero rifiutati di indagare.
    Eppure, visitata Villa Sole, la casa di Edoardo sulla collina torinese, la Digos – dice Moncalvo – evita di sequestrare i filmati delle telecamere di sorveglianza: sarebbe stato il primo passo, elementare. Avrebbe svelato a che ora Edoardo era uscito di casa, se era solo o accompagnato, se era ancora vivo. E se indossava già – come poi si è accertato, sotto il tragico viadotto – il suo pigiama a righe, sotto l’abito blu. E non è tutto: in casa ci sono quattro telefoni, ma nessuno chiederà alla Telecom i tabulati. Resteranno muti anche i due computer. «Erano protetti da password, dissero gli inquirenti. Per superare l’ostacolo, bastava un hacker di vent’anni». E la scorta di Edoardo? Se c’era, dormiva: «Dissero che si era allontanato senza che ne accorgessero, nonostante avessero avuto l’ordine di sorvegliarlo ovunque: la famiglia sperava che la presenza della scorta lo tenesse lontano dalla droga o da incontri con persone particolari». Cade dalle nuvole, il personale di sicurezza: dice che Edoardo se n’era andato a spasso, con la sua Croma, anche nei tre giorni precedenti. La cosa strana, osserva Moncalvo, è che la polizia non fa altre domande: anzi, si accontenta di un memoriale consegnato loro dai vigilantes, evidentemente preparato dalla società, la Orione, che gestisce la security del mondo Fiat.
    Secondo Moncalvo, a rendere gli agenti della Digos così accondiscendenti possono aver giocato tanti aspetti: il potere immenso della famiglia Agnelli, i rapporti personali del questore con l’Avvocato, e forse anche il miraggio di lasciare un giorno la divisa per un posto tra le guardie dell’Orione, dove si rischia meno e si guadagna il doppio? Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, dice Moncalvo, è innanzitutto il comportamento della magistratura. «Dieci giorni dopo il ritrovamento – racconta il giornalista – al procuratore di Mondovì arriva una lettera anonima, proveniente da un carcere di massima sicurezza del Nord Italia». Si parla apertamente di omicidio, riguardo alla fine di Edoardo. La lettera l’ha scritta probabilmente un detenuto condannato per reati di mafia, dato che (in altre sue parti) contiene riferimenti precisi a una vicenda criminale molto grave. «Nella lettera vengono accusati alcuni magistrati». Nel momento in cui Bausone riceve la missiva, per dovere d’ufficio la trasmette alla Procura generale di Torino, allora retta da Giancarlo Caselli. «Bausone allega un proprio appunto, in cui dice: è arrivata questa lettera, anonima, che formula ipotesi sui mandanti e sul modo in cui è morto Edoardo Agnelli. Ma posso assicurare che si tratta di un evidente caso di “precipitazione”».
    Quindi, sintetizza Moncalvo, «a soli 10 giorni dalla morte, senza aver svolto indagini, Bausone ha già deciso che Edoardo Agnelli si è suicidato». E questo, nonostante il minuzioso rapporto della Polstrada di Cuneo: Edoardo Agnelli avrebbe guidato la sua auto fino a Fossano, ma come un fantasma, senza lasciare tracce. «Sulle superfici lisce della Croma non ci sono impronte. Volante, cambio, autoradio, radiotelefono, sedili, portiere, maniglie. E Edoardo non portava guanti». Senza impronte anche gli oggetti a bordo: una bottiglia d’acqua bevuta a metà, 11 scatole di fiammiferi, 8 confezioni di filtri David Ross, 11 confezioni di panni per la pulitura delle lenti. Non un’impronta neppure sui 5 bloc notes con fogli manoscritti: con scritto cosa, poi? Non lo si sa. Niente tracce sulle 5 cartine geografiche, sulle 2 mappe fotocopiate, sui 4 blocchetti di prelievo materiale. Nessuna impronta digitale sui 2 telecomandi, sulla lampada di emergenza, sullo spolverino, sulle 5 audiocassette. Su quell’auto, Edoardo non aveva mai lasciato un’orma, nemmeno nei giorni precedenti?
    L’assenza di impronte lascia sbalorditi, dice Moncalvo: «Morire che ci sia un poliziotto, un questore, un capo della Digos – ma soprattutto un magistrato – che non rimanga stupefatto come lo siamo rimasti noi». Logica deduzione: «Solo un’organizzazione criminale di altissimo livello arriva a “ripulire” perfettamente da ogni tipo di impronte ogni superficie, interna ed esterna, di un’automobile». Mafia? Servizi segreti? E chi lo sa. Nessuno ha incalzato la scorta, per capire come mai Edoardo fosse stato lasciato libero di allontanarsi. Nessuno ha mai chiesto nemmeno all’autogrill sull’autostrada, dice Moncalvo, se per caso, quel maledetto 15 novembre, qualche automobilista di passaggio non avesse intravisto un uomo alto quasi due metri, praticamente zoppo, arrampicarsi sul parapetto. «Di fronte a un sospetto suicidio – ricorda il giornalista – si indaga per induzione al suicidio: qualcuno potrebbe aver spinto il malcapitato alla disperazione, per qualsiasi motivo (di salute, finanziario, sentimentale), magari comunicandogli notizie false. Si tratta ovviamente di un reato gravissimo».
    Quella fatidica mattina, risulta che Edoardo Agnelli abbia chiamato suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione, restando però in linea solo per dieci secondi. Poi ha chiamato lo zio, Carlo Caracciolo, con cui era sempre stato in ottimi rapporti. Cosa si dissero? Non si sa, dice Moncalvo: nessuno gliel’ha chiesto. «Normalmente, si interrogano le ultime persone con cui la vittima ha parlato, per appurare se trasparisse un suo eventuale stato di angoscia». Invece, in questo caso, «il procuratore Bausone non ha sentito né il padre, né la madre, né lo zio, né la sorella». Alberto Bini, il procuratore di Edoardo, ha detto che quella mattina il figlio dell’Avvocato aveva chiamato il dentista, per disdire un appuntamento: per che motivo? «La polizia – aggiunge Moncalvo – non ha sentito nemmeno il centralinista di casa Agnelli, giusto per verificare se ci fosse stata davvero, quella telefonata al padre. Né sono stati sentiti Gabetti e Grande Stevens». Ufficialmente, infatti, Edoardo lavorava all’Ifi, Istituto Finanziaro Italiano, e quindi era un dipendente di Gabetti, «che avrebbe potuto dire se c’erano preoccupazioni, se Edoardo si trovava bene, o se magari creava problemi».
    In compenso, Margherita Agnelli rivela che, quella stessa mattina, Edoardo aveva telefonato a suo marito, Serge De Pahlen. A suo cognato, Edorado disse: so che sei a Torino, vediamoci più tardi e andiamo a pranzo insieme. «Strano, per uno che sta per suicidarsi». A meno che, appunto, sul viadotto di Fossano non sia mai salito Edoardo Agnelli, ma solo il suo fantasma: un uomo invisibile, capace di guidare senza lasciare impronte. Zoppicante, ma agile come un gatto: lesto ad arrampicarsi – non visto da nessuno – sul parapetto. Per poi finire 78 metri più in basso, coi mocassini ai piedi e gli occhiali ancora al loro posto. Insiste Moncalvo: restiamo ai fatti, tralasciando i complottismi (fioriti inevitabilmente a causa delle troppe reticenze). «L’unica vertà accertata è che Edoardo è morto. Ma parlare ancora di suicidio, dopo 19 anni, è una vergogna». Curiosità: il tragico viadotto di Fossano è dedicato al generale dei carabinieri Franco Romano, morto due anni prima di Edoardo. Cadde in elicottero, «un incidente strano». Dopo una prima tappa in val d’Aosta, sarebbe volato fino al Sestriere per commemorare Giovannino Agnelli. Il generale sfortunato e il figlio dell’Avvocato: due destini di morte, in qualche modo collegati a quel viadotto. E un’unica simbologia, la “precipitazione”: la caduta dall’alto, a troncare la vita di chi contava molto.

    Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.

  • La nostra storia non regge: sta per venircelo a spiegare E.T.

    Scritto il 24/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Non sono certo le mille fregnacce del governo e dell’opposizione a rendermi perplesso, e nemmeno le mille disgrazie economiche: previste, annunciate, poi scorporate, quindi riammesse…nel gran calderone della politica e dell’economia: si sta muovendo qualcosa di serio da tutt’altre parti. La prima notizia è giunta dalla Nasa, poche settimane or sono: d’ora in avanti, non vogliamo più sentir parlare di Oggetti Non Identificati in cielo…beh…consideriamoli come “elementi non censiti nelle aeronautiche terrestri” o qualcosa del genere; insomma, ci sono cose che volano in cielo che non sappiamo cosa siano. E non sono, sia chiaro, palloncini sfuggiti ai bambini al luna park né palloni aerostatici dispersi dai meteorologi: non possiamo dirvi chiaro e tondo che sono extraterrestri – perché, ad onor del vero, non lo sappiamo nemmeno noi (?) – però ‘sta roba può essere pericolosa per il traffico aereo, quindi – cari piloti – state accuorti. La comunicazione della Nasa giunge a proposito, perché – grazie alle mille diavolerie informatiche oggi possibili – nessuno prendeva più troppo sul serio i filmati degli Ufo, giacché il sospetto veniva: questi, tanto per guadagnare contatti su YouTube, macchineranno chissà che cosa. Invece è proprio la Nasa a dirlo: non sono roba nostra e ci sono veramente. Aggiunge anche, a pochi giorni di distanza, che su Marte c’è acqua ed una quantità “interessante” di ossigeno: partiamo?

  • Fiat, vaccini, 5G e Tav: la politica italiana non se ne occupa

    Scritto il 23/11/19 • nella Categoria: idee • (2)

    Il non-governo giallorosso non ha speranze di galleggiare ancora a lungo nell’acqua alta dove nuota lo squaletto Renzi, ma sulla spiaggia opposta non è che splenda il sole: attorno all’ombrellone di Salvini si attarda nonno Silvio, scortato dalla Meloni, senza che il pubblico percepisca la possibilità di un’epocale alternativa al lento e inesorabile sfacelo di cui l’Italia è vittima, in ossequio alla nuova legge di un mondo senza più politica. Tralasciando il pietoso equivoco 5 Stelle, che puzzava d’imbroglio fin dall’inizio (spettacolare manipolazione degli elettori, col pieno concorso dei militanti di base disposti ad avallare qualsiasi diktat), l’impotenza generale di fronte alla desolazione di Venezia o la resa di Taranto ai furbetti globali dell’acciaio non fanno che dimostrare una volta di più l’assenza di idee, dopo l’eutanasia delle ideologie, che siano capaci di generare qualcosa che assomigli a uno straccio di governance del sistema. E intanto continua a piovere sul bagnato: basta dare un’occhiata agli slogan archeologici – Dio, patria e famiglia – con cui il sedicente outsider Diego Fusaro, filosofo mediatico e grillo parlante corteggiato dalle televisioni, tenta di raccontare la sua rivoluzionaria prospettiva politica ottocentesca, o forse medievale, o forse adatta solo a menare il can per l’aia, ridicolizzando volutamente l’idea stessa che possa esistere, un giorno, un’opposizione sistemica.
    Nel vecchio film, quello finito con le nozze mostruose tra Di Maio e il fratello di Montalbano, o meglio tra l’esodato Renzi e l’ex guastatore Grillo insidiato politicamente dall’indagine sul figlio per presunto stupro, a tener banco era stato un totem come il progetto cimiteriale del Tav Torino-Lione, infrastruttura con cantieri mai davvero decollati (forse al 5%) e comunque destinata a trasformarsi in una spettacolare, costosissima cattedrale nel deserto. L’argomento, che – come tanti altri, poi abbandonati – era servito ai 5 Stelle solo per fare il pieno di voti, è stato usato per la rissa finale con Salvini, per poi essere archiviato nel silenzio generale. La notizia, sfuggita ai radar, è che l’Italia spenderà comunque miliardi per una linea ferroviaria virtualmente superveloce ma destinata a trasportare pochissime merci necessariamente lente. Una ferrovia-doppione, completamente inutile benché rischiosa e devastante per l’ambiente, che ci si ostina ad approntare lungo una direttrice commerciale desolatamente abbandonata, lontanissimo dalle rotte mercantili. Un favoloso binario morto, buono solo per il business dei costruttori (pochissimi posti di lavoro, temporanei), e imposto a una popolazione che ha inutilmente dimostrato, in ogni sede, la sciagurata natura di un ecomostro che indurrà migliaia di italiani a prendere in considerazione l’idea di scappare, lasciando le proprie case.
    La non-politica del Belpaese, europeista o sovranista non importa, ha evitato accuratamente di affrontare ogni altro tema vitale per le famiglie, dall’obbligo vaccinale imposto (stile Corea del Nord) senza emergenze sanitarie e senza spiegazioni, e il misteriosissimo avvento del wireless 5G, che avanza in semi-clandestinità abbattendo alberi secolari nelle piazze delle città. Logico che i media, a reti unificate, ignorino il convegno organizzato in Parlamento dai sindaci e dai comitati di cittadini giustamente allarmati per l’introduzione, senza precauzioni, di una tecnologia invasiva di cui non si conosce ancora l’impatto sull’organismo. Quanto ai vaccini polivalenti, che secondo la Regione Puglia hanno causato problemi di salute a 4 bambini su 10, sul tema cala semplicemente il sipario, anche se – per la prima volta nella storia – qualcosa come 130.000 bimbi, nel 2019, non hanno potuto accedere né ai nidi né alle scuole dell’infanzia. In compenso, i riflettori abbagliano l’epica sfida per le regionali in Emilia Romagna, dove la Lega potrebbe strappare al Pd la storica roccaforte, un tempo “rossa”. Accipicchia, questa sì che è una notizia: non come l’insignificante sorte della Fiat, che gli Agnelli-Elkann hanno ceduto ai francesi, nel silenzio generale dei media e dei politici italiani di ogni parrocchia.
    (Giorgio Cattaneo, Libreidee, 23 novembre 2019).

    Il non-governo giallorosso non ha speranze di galleggiare ancora a lungo nell’acqua alta dove nuota lo squaletto Renzi, ma sulla spiaggia opposta non è che splenda il sole: attorno all’ombrellone di Salvini si attarda nonno Silvio, scortato dalla Meloni, senza che il pubblico percepisca la possibilità di un’epocale alternativa al lento e inesorabile sfacelo di cui l’Italia è vittima, in ossequio alla nuova legge di un mondo senza più politica. Tralasciando il pietoso equivoco 5 Stelle, che puzzava d’imbroglio fin dall’inizio (spettacolare manipolazione degli elettori, col pieno concorso dei militanti di base disposti ad avallare qualsiasi diktat), l’impotenza generale di fronte alla desolazione di Venezia o la resa di Taranto ai furbetti globali dell’acciaio non fanno che dimostrare una volta di più l’assenza di idee, dopo l’eutanasia delle ideologie, che siano capaci di generare qualcosa che assomigli a uno straccio di governance del sistema. E intanto continua a piovere sul bagnato: basta dare un’occhiata agli slogan archeologici – Dio, patria e famiglia – con cui il sedicente outsider Diego Fusaro, filosofo mediatico e grillo parlante corteggiato dalle televisioni, tenta di raccontare la sua rivoluzionaria prospettiva politica ottocentesca, o forse medievale, o forse adatta solo a menare il can per l’aia, ridicolizzando volutamente l’idea stessa che possa esistere, un giorno, un’opposizione sistemica.

  • Attorno a noi 10.000 pianeti, la Nasa: li stiamo scoprendo

    Scritto il 20/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Attorno a noi, a meno di 50 anni luce, ci sono più di 1.500 stelle. E attorno ad esse, orbitano migliaia di pianeti, molti dei quali con una struttura rocciosa e caratteristiche simili a quelle della Terra. Magari, qualcuno potrebbe persino ospitare la vita. Al momento non sappiamo neppure se esistono davvero: il 99% di questi “esopianeti” relativamente vicini non è ancora stato scoperto. Ma tutto starebbe per cambiare grazie a Tess, il telescopio spaziale della Nasa da poco in orbita sopra le nostre teste. A parlarne è un articolo pubblicato online dalla rivista “The Conversation” e scritto da due astrofisici, Daniel Apai (Università dell’Arizona) e Benjamin Rackham (Mit di Boston), entrambi convinti che nel giro di pochi anni il “Transiting Exoplanet Survey Satellite”, insieme agli altri telescopi da terra, riuscirà a scovare migliaia di mondi per ora ignoti. Lo spiega la giornalista Sabrina Pieragostini sul blog “Extremamente”: «Non solo gli studiosi avranno una comprensione migliore dei pianeti alieni che ci circondano, ma avranno anche dei precisi obiettivi sui quali puntare la loro attenzione (e le loro strumentazioni di ultima generazione) alla ricerca di segni di vita».
    In poco più di un anno, Tess ha già identificato oltre 1.200 potenziali corpi planetari: di questi, 29 sono già stati confermati. «Considerando l’eccezionale capacità del telescopio spaziale di analizzare in contemporanea decine di migliaia di stelle, gli scienziati pensano che entro la fine della missione il “cacciatore” della Nasa dovrebbe essere in grado di scovare almeno 10.000 nuovi mondi». Secondo Apai e Rackham, «questi sono tempi entusiasmanti, per gli astronomi e soprattutto per coloro che indagano sugli esopianeti». Scopo della ricerca: scovare mondi extrasolari, «per capire le loro proprietà e il loro potenziale per ospitare la vita». Tra le ultime scoperte c’è Proxima B, un pianeta che orbita attorno a Proxima Centauri (una piccola nana rossa, invisibile a occhio nudo: una degli oltre 100 miliardi di stelle della Via Lattea). Eppure, Proxima Centauri è importantissima per i ricercatori, perché è la più vicina al nostro Sole e sopratutto perché, come scoperto nel 2016, illumina e riscalda un mondo misterioso e affascinante, di cui gli scienziati conoscono ancora pochissimo.
    Proxima B non è mai stato visto da un telescopio. «Ma sappiamo che esiste – dicono gli astrofisici – a causa della sua attrazione gravitazionale sulla stella ospite, che la fa oscillare leggermente». Primi indizi: «Proxima B ha molto probabilmente una composizione rocciosa simile a quella terrestre, ma di massa superiore. Riceve circa la stessa quantità di calore che la Terra riceve dal Sole. E questo è ciò che rende questo pianeta così eccitante: si trova nella zona “abitabile” e potrebbe avere proprietà simili a quelle della Terra, come una superficie, acqua liquida e – chi lo sa? – forse anche un’atmosfera che porta i segni chimici rivelatori della vita». A dircelo potrebbe essere proprio Tess, che scandaglia lo spazio usando il metodo del transito: rileva i minimi cali di luminosità di una stella al passaggio di un pianeta. «Con questo sistema, a differenza di quello basato sull’oscillazione stellare, gli astronomi riescono a calcolare anche la dimensione del corpo in orbita, che può essere ulteriormente studiato per determinarne la densità e le composizioni atmosferiche, tutte informazioni preziose per stabilire la compatibilità con la vita».
    I candidati preferiti dai ricercatori sono i piccoli esopianeti in orbita attorno alle nane rosse, stelle con masse pari a circa la metà di quella del Sole. «Ognuno di questi sistemi è unico», spiegano Apai e Rackham. «Ad esempio, LP 791-18 è una nana rossa a 86 anni luce dalla Terra attorno alla quale Tess ha trovato due mondi. Il primo è una “super-Terra”, un pianeta più grande del nostro, ma probabilmente ancora per lo più roccioso, e il secondo è un “mini-Nettuno”, un pianeta più piccolo di Nettuno ma ricco di gas e ghiaccio. Nessuno di questi pianeti ha equivalenti nel nostro sistema solare». Finora il telescopio non ha trovato delle repliche perfette della Terra. Uno dei favoriti degli astronomi, LHS 3884B, si è rivelato un mondo infernale: dai dati di Hubble, risulta privo di atmosfera e con temperature che passano da 700 °C a mezzogiorno fino allo zero assoluto (-460 Fahrenheit) a mezzanotte. Probabilmente, i gemelli terrestri si nascondono vicino alle stelle più fredde, quelle con temperature di circa 2700 °C. Ma proprio l’estrema debolezza di questi astri rende la ricerca complicata, soprattutto per Tess e per i suoi piccoli quattro obiettivi con un diametro di 10 centimetri.
    Dove fallisce il telescopio spaziale, però, spesso hanno successo quelli terrestri, dotati di ottica e lenti molto più potenti». E’ il caso del sistema solare Trappist-1, scoperto dall’omonimo telescopio posizionato a La Silla, nel deserto cileno di Atacama. «Scansionando le più flebili tra le nane rosse alla ricerca di infinitesimali cali di luminosità – spiega Pieragostini – lo strumento utilizzato da un’équipe di astronomi belgi ha individuato il passaggio di ben sette pianeti di dimensioni più o meno simili a quella della Terra attorno a questa stella ultra-fredda a circa 40 anni luce da noi. Sulla scorta di questo precedente, ora una serie di telescopi posizionati in diversi paesi (uno anche in Italia), coordinati dai progetti Eden e Speculoos, come tanti occhi elettronici sempre puntati al cielo osservano continuamente le nane rosse alla ricerca dei mondi di dimensioni terrestri che transitano davanti ad esse». Attenzione: nel prossimo decennio, le scoperte dovrebbero moltiplicarsi: entro il 2025, si presume che Tess troverà tra i 5 e i 10.000 potenziali esopianeti. Entro il 2030, poi, i ricercatori ne prevedono 20-35.000 dalle missioni Gaia e Plato dell’Esa. «Molti di questi mondi possono essere studiati nei minimi dettagli, inclusa la ricerca di segni di vita», concludono Apai e Rackham.

    Attorno a noi, a meno di 50 anni luce, ci sono più di 1.500 stelle. E attorno ad esse, orbitano migliaia di pianeti, molti dei quali con una struttura rocciosa e caratteristiche simili a quelle della Terra. Magari, qualcuno potrebbe persino ospitare la vita. Al momento non sappiamo neppure se esistono davvero: il 99% di questi “esopianeti” relativamente vicini non è ancora stato scoperto. Ma tutto starebbe per cambiare grazie a Tess, il telescopio spaziale della Nasa da poco in orbita sopra le nostre teste. A parlarne è un articolo pubblicato online dalla rivista “The Conversation” e scritto da due astrofisici, Daniel Apai (Università dell’Arizona) e Benjamin Rackham (Mit di Boston), entrambi convinti che nel giro di pochi anni il “Transiting Exoplanet Survey Satellite”, insieme agli altri telescopi da terra, riuscirà a scovare migliaia di mondi per ora ignoti. Lo spiega la giornalista Sabrina Pieragostini sul blog “Extremamente“: «Non solo gli studiosi avranno una comprensione migliore dei pianeti alieni che ci circondano, ma avranno anche dei precisi obiettivi sui quali puntare la loro attenzione (e le loro strumentazioni di ultima generazione) alla ricerca di segni di vita».

  • Mes: grazie a Conte, l’Europa farà fuori le nostre banche

    Scritto il 19/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Si chiama Mes, normalmente viene detto fondo salva-Stati, l’acronimo sta per Meccanismo Europeo di Stabilità. Ed è improvvisamente tornato sotto i riflettori dopo che in un seminario Bankitalia-Omfif il governatore Visco ha lanciato l’allarme. «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default», ha detto il governatore. Proprio così: enorme rischio. Federico Ferraù, sul “Sussidiario”, ne ha parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano?». Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui conti pubblici presieduto da Cottarelli, lo ha spiegato in una audizione alla Camera: «Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori». Il Mes è un fondo comune di credito che ricapitalizza Stati e banche in difficoltà. Un benefattore europeo? Tutt’altro: il Mes non elargisce a costo zero. Lo fa alle sue condizioni: totale controllo sulle politiche di bilancio dello Stato richiedente. Anche a costo di impoverire tutti.
    Sulla riforma del Mes, ricorda Ferraù, hanno richiamato l’attenzione Alberto Bagnai e Claudio Borghi fin da quando la Lega era al governo. Allarme inascoltato, fino alle attuali parole di Visco. «Era già tutto scritto», afferma il professor Mangia. Per stare nel Mes «abbiamo pagato molto, negli anni – cifre dell’ordine di qualche decina di miliardi – e solo adesso ci si accorge di che cosa sia». Ovvero? «Il Mes è il figlio di una stagione di crisi, è stato generato da una crisi, e adesso vuole consolidarsi fino a diventare parte integrante del diritto dell’Unione. Fino ad oggi è un Trattato internazionale che ha dato origine a quello che, asetticamente, si definisce un “veicolo finanziario”». In realtà, spiega Alessandro Mangia, il Mes è un soggetto di diritto internazionale «che esercita attività bancaria avvalendosi, però, dello statuto e delle garanzie di un soggetto sovrano». Quindi può rifinanziare singoli Stati o singoli sistemi bancari, però sotto “stretta condizionalità”. «Non so se ci si rende conto delle implicazioni politiche dell’adozione di meccanismi propri del diritto commerciale e bancario a regolare i rapporti fra Stati: si è un po’ in ritardo se ci si preoccupa adesso di cosa sia il Mes».
    Che Bankitalia (non certo antieuropeista) abbia manifestato profonde preoccupazioni al riguardo dovrebbe dirla lunga. «Il punto è che probabilmente i buoi sono già usciti dalla stalla anni fa, e solo adesso ci si accorge che la stalla è vuota». In altre parole: «Si vuole far diventare il Mes un Fondo Monetario Europeo, che integri il ruolo della Bce sul versante dell’essere “prestatore di ultima istanza”». La Bce non può esserlo, ricorda Mangia: quelle funzioni sono state surrogate dal programma Omt (Outright monetary transactions) di Draghi, su cui c’è stato contenzioso presso la Corte di Giustizia. «E adesso, in una fase di crisi bancaria incipiente – si pensi solo all’esposizione di Deutsche Bank sul mercato dei derivati, pari a 20 volte il Pil tedesco – si ha fretta di chiudere il cerchio, creando un prestatore di ultima istanza. Intanto si riforma il Mes, poi si penserà al suo inserimento nell’intelaiatura istituzionale dell’Unione». Secondo Mangia, «Bankitalia ha capito che rischi corre con l’approvazione delle modifiche che due anni fa chiedeva Schäuble, e che sono state oggetto di una dichiarazione congiunta franco-tedesca nel giugno 2018. A stretto giro quella dichiarazione è stata ripresa – sempre in giugno – dall’Eurogruppo, che è un altro organo misterioso e non previsto dai Trattati, e da un Eurosummit cui ha partecipato il governo italiano, nella sua versione Conte-1».
    Del Mes ha parlato anche Salvini su Facebook: «Pare che, nei mesi scorsi, Conte o qualcuno abbia firmato di notte e di nascosto un accordo in Europa per cambiare il Mes, ossia l’autorizzazione a piallare il risparmio degli italiani. Non lo lasceremo passare. Sarebbe alto tradimento, se qualcuno – senza interpellare il Parlamento – avesse trasformato il fondo salva-Stati in un fondo ammazza-Stati». Insomma, abbiamo dormito? Avverte Mangia: «Il caso del Mes è stato totalmente sottovalutato dalla stampa, nonostante Borghi e Bagnai si siano spesi fin da allora per portarlo all’attenzione dei media». La verità è che «la gente non sa cos’è il Mes e a cosa serve». Accusano ora Bagnai e Borghi: «Abbiamo sempre denunciato il sospetto segreto con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e l’ex ministro dell’economia Giovanni Tria, hanno condotto le trattative senza mai informare il Parlamento, pur essendone obbligati per legge. La loro reticenza ci aveva indotto persino ad interrogazioni parlamentari addirittura quando eravamo parte della stessa maggioranza».
    Se ci si stupisce di questo, ribatte Mangia, vuol dire che non si è letto o non si è capito l’attuale Trattato Mes e le clamorose anomalie che conteneva fin dall’inizio. «Il Mes e i suoi funzionari godono di piena e perfetta immunità da ogni giurisdizione. Non possono essere oggetto di perquisizioni, ispezioni o altro da chicchessia. I suoi documenti sono secretati. Gli organi di vertice non sono perseguibili per gli atti adottati nell’esercizio delle loro funzioni. I governatori – e cioè i ministri economici degli Stati aderenti al trattato: in poche parole Tria o chi per lui – sono tenuti (ripeto, tenuti) – al segreto professionale nel momento in cui operano all’interno del Mes, tanto durante quanto dopo l’esercizio delle loro funzioni (articolo 34). Questa è legge dello Stato, non è aria fritta». Una norma simile, dice Mangia, ha perfettamente senso dentro una banca. Cosa succede se invece la logica del segreto professionale la si colloca nel rapporto tra governo e Parlamento? «Ci sta o non ci sta che un ministro debba tacere di fronte al Parlamento? Ci si rende conto di cosa si è fatto approvando una norma del genere nel 2012? E di quanto si è alterato il meccanismo di responsabilità politica disegnato in Costituzione tra ministro e Parlamento?».
    Se a questo si aggiunge che l’esercizio di potere estero sfugge, per sua natura, al controllo delle Camere, tranne che in certi casi tassativamente indicati dall’articolo 80, si capisce quanto fantasiose siano certe rappresentazioni del lavoro parlamentare. Basti pensare ai trattati segreti o ai trattati adottati in forma semplificata. «Si dice che non tutti i cammelli possono passare per la cruna dell’ago. In realtà ci si dimentica di dire che certi cammelli non hanno neanche bisogno di passarci, per la cruna dell’ago». Il testo della riforma, aggiunge Mangia, è arrivato prima su Internet che in Commissione: «Diciamo che Conte e Tria sono stati tutt’altro che solerti nell’informare le Camere dell’esito di quegli incontri». Possono essere accusati di alto tradimento, come ha ipotizzato Salvini? Assolutamente no, visto in carattere più che anomalo del trattato: l’articolo 34 del Mes «è fatto per interrompere gli obblighi di comunicazione e responsabilità tra Parlamenti nazionali e ministri», spiega Mangia. «Certo, nel caso di Tria non si applica l’articolo 34 sul segreto professionale, ma quello è il principio. Che pone un enorme problema costituzionale di ministri legittimati a mentire o a tacere di fronte alle Camere».
    Secondo Mangia, è assolutamente «ridicolo», oggi, parlare di legittimazione democratica del Mes, come fa Giampaolo Galli: «È come parlare di legittimazione democratica di una banca, perché la legge la legittima a fare la banca. Sarebbe tutto molto divertente, non fosse che rischia di essere tragico per le sue conseguenze». E cioè? «Per le stesse ragioni messe in chiaro da Galli nel suo intervento, e che hanno fatto muovere Bankitalia». Mangia sottolinea la marginalizzazione del ruolo della Commissione Europea nel valutare l’opportunità di rilasciare finanziamenti ai singoli Stati in caso di bisogno: «La Commissione viene ritenuta ormai un organo troppo “politico” già nella burocrazia di Bruxelles, che rivendica un suo ruolo contro la Commissione», rispetto a molti obiettivi: la scelta di condizionare il rilascio di finanziamenti a una ristrutturazione preventiva del debito, ma anche l’inclusione di clausole di azione collettiva nelle emissioni di debito pubblico dal 2022 in poi, costruite per facilitare quelle operazioni di ristrutturazione del debito che sembrano essere il cuore di questa riforma.
    Sintetizza Mangia: «Se un bel giorno si arrivasse ad una situazione di crisi dello spread, tale da precludere l’accesso dell’Italia al finanziamento dei mercati, e si dovesse chiedere l’intervento del Mes – del quale saremmo comunque i terzi contributori – sarebbe il Mes, e non la Commissione, a valutare sulla base di meccanismi automatici l’opportunità di chiedere una ristrutturazione del debito pubblico». In altre parole «sarebbe il Mes a determinare le “condizionalità” – e cioè le politiche economiche “lacrime e sangue” da praticare – per ottenere questo finanziamento». E sarebbe sempre il Mes, alla fine, a determinare il contenuto di questa ristrutturazione. «Peccato che il debito pubblico italiano sia detenuto per il 70% da banche nazionali». E quindi? «Vuol dire che una ristrutturazione di quel debito inciderebbe in modo pesantissimo sui bilanci di banche che hanno comunque sostenuto – oggi assai più che in passato – il debito pubblico nazionale», conclude Mangia. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano? E perché si parli di questa riforma come di una pistola puntata alla tempia dei risparmiatori italiani?».

    Si chiama Mes, normalmente viene detto fondo salva-Stati, l’acronimo sta per Meccanismo Europeo di Stabilità. Ed è improvvisamente tornato sotto i riflettori dopo che in un seminario Bankitalia-Omfif il governatore Visco ha lanciato l’allarme. «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default», ha detto il governatore. Proprio così: enorme rischio. Federico Ferraù, sul “Sussidiario“, ne ha parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano?». Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui conti pubblici presieduto da Cottarelli, lo ha spiegato in una audizione alla Camera: «Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori». Il Mes è un fondo comune di credito che ricapitalizza Stati e banche in difficoltà. Un benefattore europeo? Tutt’altro: il Mes non elargisce a costo zero. Lo fa alle sue condizioni: totale controllo sulle politiche di bilancio dello Stato richiedente. Anche a costo di impoverire tutti.

  • Cina: primi ibridi scimmia-uomo, Ogm. La storia si ripete?

    Scritto il 17/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    La Cina esibisce scimmie modificate con geni umani: macachi super-intelligenti. La storia si ripete? Secondo i sumeri, i misteriosi Anunnaki venuti dallo spazio ottennero l’homo sapiens clonando gli ominidi. La tesi, avanzata da Zecharia Zitchin, è stata richiamata dal biblista Mauro Biglino, secondo cui la Genesi svela che gli altrettanto misteriosi Elohim, come Yahwè (trasformati poi nel Dio unico del monoteismo) fabbricarono gli Adamiti geneticamente, impiantando sugli uomini primitivi il loro Tselem (Dna). Si sarebbe trattato, in sostanza, di una potente “accelerazione evolutiva”, oggi ritenuta teoricamente possibile da biologi molecolari come Pietro Buffa, già in forza al King’s College di Londra. A far discutere è un nuovo esperimento, che la “Stampa” definisce «ben oltre i limiti dell’etica, tanto per cambiare effettuato in Cina». I ricercatori del Kunming Institute of Zoology hanno annunciato di aver ottenuto delle scimmie transgeniche, nel cui Dna sono stati trasferiti geni che controllano lo sviluppo del cervello umano. Gli animali, riporta la rivista del “Mit Technology Review”, hanno riportato risultati brillanti in alcuni test. L’esperimento, che ha già suscitato diversi dubbi etici, è stato descritto sulla rivista cinese “National Science Review” e sui media locali. Secondo i ricercatori cinesi, i macachi modificati hanno eseguito test cognitivi di memoria con risultati superiori alla media delle scimmie non transgeniche.
    I loro cervelli si sono sviluppati in tempi più lunghi, raggiungendo però le stesse dimensioni delle scimmie non-Ogm, contrariamente alle previsioni dei ricercatori che pensavano che sarebbero stati più grandi. Per il genetista che ha eseguito l’esperimento, il dottor Bing Su, «questo è stato il primo tentativo di capire l’evoluzione della cognizione umana con un modello di scimmia transgenica». Lo studio è stato però criticato in Occidente, dove gli esperimenti sui primati sono sempre più difficili da condurre per motivi etici. «L’uso di scimmie transgeniche per studiare i geni umani è una strada rischiosa da prendere: è la classica china scivolosa», afferma il genetista James Sikela, dell’Università del Colorado. Attualmente – ricorda sempre la “Stampa” – solo la Cina ha ottenuto scimmie transgeniche, utilizzando la tecnica Crispr che “copia e incolla” il Dna. Lo scorso gennaio un altro istituto cinese aveva annunciato di aver prodotto alcuni cloni di scimmia con un gene che nell’uomo è legato all’autismo. Questi esperimenti, sottolinea Carlo Alberto Redi, genetista dell’Università di Pavia, sono vietati in tutto il mondo occidentale. Redi li considera «esperimenti che qui sono inaccettabili dal punto di vista etico», visto che «non si possono umanizzare i primati». E se invece la scienza occidentale usasse proprio la Cina per aggirare le nostre barriere etiche?
    E’ quello che hanno fatto scienziati spagnoli: hanno confermato di avere collaborato alla creazione in un laboratorio cinese del primo ibrido umano-scimmia, nell’ambito di una ricerca il cui scopo è quello di realizzare organi umani adatti al trapianto. Lo scrive, sempre sulla “Stampa”, Vittorio Sabadin. «Gli scienziati guidati dal professor Juan Carlos Izpisúa hanno disattivato da embrioni di scimmia i geni essenziali per la formazione di organi, iniettandovi poi cellule staminali umane in grado di creare qualsiasi tipo di tessuto». L’esperimento, promosso dalla Universidad Catòlica San Antonio de Murcia, è nato «da una collaborazione tra il Salk Institute americano», ed è stato condotto in Cina «per evitare complicazioni legali». I risultati sono molto promettenti, ha detto a “El Pais” Estrella Núñez, biologa che ha partecipato alla ricerca, senza fornire altri dettagli in attesa della pubblicazione del lavoro su una rivista scientifica internazionale. «Nell’Ucam e al Salk Institute stiamo provando non solo a sperimentare l’unione di cellule umane con cellule di roditori e suini, ma anche con primati non umani», ha aggiunto Izpisúa. «Il nostro paese è un pioniere e un leader mondiale in queste indagini».
    Già nel 2017 – ricorda Sabadin – il team di Izpisúa aveva condotto un esperimento per la creazione di “chimere” umane e suine che non aveva avuto successo. Con i primati, il cui Dna è molto più vicino a quello degli esseri umani, l’innesto sembra invece riuscito.
    La creazione di chimere uomo-animale pone problemi etici sui quali la comunità scientifica si interroga da tempo. «Cosa succede se le cellule staminali sfuggono al controllo e formano neuroni umani nel cervello dell’animale?», si domanda Ángel Raya, direttore del Centro di medicina rigenerativa di Barcellona: «L’animale avrebbe coscienza? E cosa succede se queste cellule staminali si trasformano in spermatozoi»? Estrella Núñez assicura che il team di ricerca di Izpisuá ha creato meccanismi di controllo tali che, se le cellule umane migrano nel cervello, si autodistruggono. «L’embrione cinese sarebbe stato comunque soppresso – scrive “La Stampa” – seguendo la regola imposta dalla comunità scientifica che nessuna chimera può sopravvivere per più di 14 giorni, il tempo necessario a sviluppare un primo sistema nervoso». Il timore di molti scienziati, osserva Sabadin, è che invece queste regole «non vengano seguite in laboratori situati in paesi che sfuggono a ogni controllo, come ad esempio quelli della Cina e della Corea del Nord».
    La Chimera, ricorda Sabadin, era un animale mitologico presente nella tradizione di molte civiltà, da quella greca e romana a quella hittita, etrusca ed egizia. Nell’Iliade, Omero la descrive in questo modo: “Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco”. «Gli uomini ne avevano terrore, e ora che hanno imparato a crearla – chiosa Sabadin – dovrebbero temerla ancora di più». E se fossimo noi, in realtà, la prima “chimera” apparsa sul pianeta? Secondo alcuni traduttori dei testi antichi, il sapiens potrebbe essere a sua volta una specie di Ogm, un organismo geneticamente modificato. Magari ottenuto clonando ominidi come l’homo habilis, evolutivamente assai progredito, apparso nel Pleistocene quasi due milioni e mezzo di anni fa. Se in Germania è stato appena scoperto lo scheletro del Danuvius Guggenmosi, ipotetico uomo-scimmia forse progenitore dei primissimi ominidi come l’australopiteco, il vero “salto quantico” (il famoso “missing link”) si sarebbe verificato successivamente: a causa di un intervento esterno, e magari non terrestre? E nel caso, operato da chi?
    Suggestioni: la Us Navy ha appena ammesso l’esistenza degli Uap, Unidentified Aerial Phenomena. Ma attenzione, i “fenomeni aerei non identificati” sono sempre loro, i cari vecchi Ufo, Unidentified Flying Objects. Curiosità: il Vaticano ha da poco aggiornato il suo vocabolario latino introducendo un curioso neologismo, Rex Inxeplicata Volans. Secondo l’astrofisico Josè Gabriel Funes, gesuita argentino come Papa Francesco, è sciocco pensare di essere soli, nello spazio. Per anni, padre Funes ha diretto la Specola Vaticana, avveniristico osservatorio astronomico sul Mount Grahanm, in Arizona, vocato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita extraterrestre. Il suo successore, Guy Consolmagno, ha dichiarato che troverebbe perfettamente normale veder “battezzare”, un giorno, eventuali “fratelli dello spazio”. Quelli che oggi il neo-latino ecclesiastico chiama “oggetti volanti inesplicati”, lo storico greco-romano Giuseppe Flavio li definiva “carri celesti”, esattamente come nell’Antico Testamento il Libro di Ezechiele. Giuseppe Flavio descrive il cielo di Gerusalemme affollato di “carri volanti” quando in Palestina irruppero le truppe del generale Tito, di lì a poco imperatore. E Plino il Vecchio parla di una “battaglia di carri volanti” nei cieli dell’Umbria. Chi c’era, a bordo di quegli Uap-Ufo-Rev? Gli antenati dei misteriosi personaggi che fecero allora quello che oggi si tenta di ripetere in Cina, tra la riprovazione dell’Occidente, salvo quella degli scienziati occidentali che usano proprio la Cina per i loro esperimenti?

    La Cina esibisce scimmie modificate con geni umani: macachi super-intelligenti. La storia si ripete? Secondo i sumeri, i misteriosi Anunnaki venuti dallo spazio ottennero l’homo sapiens clonando gli ominidi. La tesi, avanzata da Zecharia Zitchin, è stata richiamata dal biblista Mauro Biglino, secondo cui la Genesi svela che gli altrettanto misteriosi Elohim, come Yahwè (trasformati poi nel Dio unico del monoteismo) fabbricarono gli Adamiti geneticamente, impiantando sugli uomini primitivi il loro Tselem (Dna). Si sarebbe trattato, in sostanza, di una potente “accelerazione evolutiva”, oggi ritenuta teoricamente possibile da biologi molecolari come Pietro Buffa, già in forza al King’s College di Londra. A far discutere è un nuovo esperimento, che la “Stampa” definisce «ben oltre i limiti dell’etica, tanto per cambiare effettuato in Cina». I ricercatori del Kunming Institute of Zoology hanno annunciato di aver ottenuto delle scimmie transgeniche, nel cui Dna sono stati trasferiti geni che controllano lo sviluppo del cervello umano. Gli animali, riporta la rivista del “Mit Technology Review”, hanno riportato risultati brillanti in alcuni test. L’esperimento, che ha già suscitato diversi dubbi etici, è stato descritto sulla rivista cinese “National Science Review” e sui media locali. Secondo i ricercatori cinesi, i macachi modificati hanno eseguito test cognitivi di memoria con risultati superiori alla media delle scimmie non transgeniche.

  • Il Seti: scienziati in ascolto, pronti a parlare con gli alieni

    Scritto il 16/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Riusciremo a parlare con gli alieni? «Sappiamo che le possibilità che esistano altre forme di vita sono letteralmente incommensurabili. E non abbiamo ancora iniziato a guardare, abbiamo ancora tanti posti da visitare». Inizia così un lungo servizio di “Bloomberg” dedicato a uno dei grandi interrogativi della nostra stessa esistenza: siamo soli? Esistono gli alieni o comunque altre forme di intelligenza con cui, prima o dopo, saremo in grado di metterci in contatto? O meglio: di capirci. C’è un gruppo di esperti, noto come Seti – Search for Extraterrestrial Intelligence – che da decenni punta dei potenti telescopi verso stelle o galassie “vicine” cercando degli specifici segnali radio che si crede possano essere prodotti solo da una qualche forma di tecnologia. D’altronde lo aveva ripetuto molto spesso anche Stephen Hawking, il grande cosmologo scomparso nel marzo dello scorso anno e pioniere degli studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo: «È il momento di impegnarci a cercare le risposte sulla vita oltre la Terra. Siamo vivi, siamo intelligenti, dobbiamo sapere», disse l’astrofisico di Oxford.
    Così questo gruppo di esperti ha deciso di mettersi davvero al lavoro, «invece di fare quel che abbiamo fatto per millenni, cioè chiedere ai preti e ai filosofi», come spiega nel doc l’astronoma Jill Tarter, presidente emerita dell’organizzazione scientifica. Una ricercatrice che ha dedicato la vita a questa missione e, curiosità, è anche l’esperta che ha ispirato il personaggio interpretato da Jodie Foster nel film “Contact” del 1997, diretto da Robert Zemeckis e basato sul libro di Carl Sagan pubblicato 12 anni prima che descrive appunto un ipotetico primo contatto fra esseri umani e alieni. Ma qual è esattamente il lavoro? Questo team internazionale è impegnato nella ricerca di radiazioni elettromagnetiche diverse dai segnali radio che otteniamo dagli oggetti naturali come stelle, galassie e quasar (i nuclei galattici attivi dalla natura controversa) e in qualche maniera corrispondenti a radiazioni emesse da strumentazioni tecnologiche. All’università di Berkeley, per esempio, una squadra guidata da Andrew Siemion è impegnata in un progetto decennale finanziato da privati per 100 milioni di dollari.
    «Le sorgenti tecnologiche hanno proprietà molto interessanti, possono cioè comprimere l’energia elettromagnetica nel tempo o nella frequenza – spiega Siemion – in questo modo si può ottenere molta energia in un singolo segnale: sono effetti che in natura tendono a non verificarsi». Sarebbe insomma la traccia di un qualche possibile contatto, anzi di un messaggio, tanto per rimanere dalle parti delle suggestioni cinematografiche. Anziché affidarsi a radiotelescopi, spesso pubblici o comunque appartenenti a governi e istituzioni, Seti ha deciso qualche tempo fa che occorreva un quartier generale, che alla fine è stato costruito a 280 miglia a nord-est di San Francisco. Il complesso si chiama Allen Telescope ed è di fatto un sistema di diversi tipi di strumentazioni più piccole che lavorano in collegamento fra loro e sono così in grado di osservare un’ampia porzione di spazio in contemporanea. L’Allen Telescope è ora dedicato quasi esclusivamente alle ricerche dell’organizzazione e a questo ascolto dell’ignoto.
    Una volta completato, queste parabole da sei metri di diametro dovranno essere 350. Al momento sono 42 e «la quantità di dati prodotta è impressionante», aggiungono gli esperti ai microfoni di “Bloomberg”. Una mole esplorata con l’aiuto di algoritmi alla ricerca di segnali, addestrati anche tramite tecniche di machine learning e intelligenza artificiale in grado di setacciare le informazioni significative e degne di approfondimento. «Quando mi sono laureata conoscevamo solo nove pianeti, quelli del nostro sistema solare – spiega Tarter – nulla sapevamo sui pianeti intorno ad altre stelle. Oggi invece sappiamo che ci sono più pianeti che stelle, perché ogni stella ha in media un pianeta e anche di più» che ruota intorno a essa. Questo è il punto centrale intorno al quale gira la ricerca del Seti: il fatto cioè che l’universo sia apparso nel corso dei più recenti decenni di ricerche sempre più come potenzialmente accogliente per altre forme vita.
    D’altronde, «nell’universo esistono più stelle che granelli di sabbia su tutte le spiagge del mondo, e se si guarda un solo granello e si assume che sia il Sole, e il terzo granello intorno a lui sia abitabile, e poi si torna a guardare alla spiaggia, ci si domanda perché dovrebbe accadere in un granello di sabbia e non anche in altri?», si domanda l’astrofisico Laurance Doyle. Il problema, insomma, siamo noi: non saremmo ancora in grado di riconoscere e decodificare complessi messaggi che sicuramente già sono stati trasmessi, spiega il principale responsabile della ricerca di Seti, già al lavoro con la Nasa sul telescopio spaziale Kepler. La missione dell’agenzia Usa punta proprio alla ricerca di pianeti simili alla Terra in orbita attorno a stelle diverse dal Sole. «Tutto comunica. Tutti gli animali e anche le piante comunicano. Si tratta solo di capire quanto sia complessa questa comunicazione», aggiunge Doyle. Per questo è tornato a volgere lo sguardo alla Terra e alle sue creature.
    Per approfondire i diversi metodi di comunicazione naturali – come quelli dei delfini, delle misteriose megattere, i cetacei dalle grandi pinne pettorali, o delle scimmie scoiattolo – per costruire qualcosa di simile a un filtro, cioè a un sistema per comprendere le regole dell’intelligenza, la sua sintassi, cogliere almeno ciò che ci perdiamo per strada e lavorare sull’assenza. I segnali delle scimmie scoiattolo toccano il secondo ordine di entropia, magari quelli extraterrestri potrebbero toccare un livello di entropia del ventesimo ordine: «Ma se lo scoprissimo, almeno sapremmo che la nostra posizione rispetto a quei segnali è come il nostro linguaggio visto dalla prospettiva di una scimmia scoiattolo», dice Doyle. Una sfida impossibile da decodificare, per adesso, ma non per il futuro. «Siamo collegati a questo cosmo gigantesco – conclude Jill Tarter – e vogliamo sapere cosa altro sia successo lì fuori». Di sicuro sappiamo che l’universo per molte volte ha dato vita a certi tipi di organismi come noi. Organismi che pensano e si fanno domande sullo stesso universo. Adesso è il momento di cercare di capirci, visto che la domanda è quasi sicuramente la stessa.
    (Simone Cosimi, “Il team di scienziati che sta cercando di parlare con gli alieni”, da “Esquire” del 12 novembre 2012).

    Riusciremo a parlare con gli alieni? «Sappiamo che le possibilità che esistano altre forme di vita sono letteralmente incommensurabili. E non abbiamo ancora iniziato a guardare, abbiamo ancora tanti posti da visitare». Inizia così un lungo servizio di “Bloomberg” dedicato a uno dei grandi interrogativi della nostra stessa esistenza: siamo soli? Esistono gli alieni o comunque altre forme di intelligenza con cui, prima o dopo, saremo in grado di metterci in contatto? O meglio: di capirci. C’è un gruppo di esperti, noto come Seti – Search for Extraterrestrial Intelligence – che da decenni punta dei potenti telescopi verso stelle o galassie “vicine” cercando degli specifici segnali radio che si crede possano essere prodotti solo da una qualche forma di tecnologia. D’altronde lo aveva ripetuto molto spesso anche Stephen Hawking, il grande cosmologo scomparso nel marzo dello scorso anno e pioniere degli studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo: «È il momento di impegnarci a cercare le risposte sulla vita oltre la Terra. Siamo vivi, siamo intelligenti, dobbiamo sapere», disse l’astrofisico di Oxford.

  • Moncalvo: silenzio assordante sulla fuga della Fiat in Francia

    Scritto il 15/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    «Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?
    Categoria alla quale peraltro appartiene lo stesso Moncalvo, cronista di rango, già attivo su alcune tra le maggiori testate italiane (collaboratore di Maurizio Costanzo, Piero Ottone e Guglielmo Zucconi) nonché giornalista sulle reti Mediaset e infine dirigente Rai. Negli ultimi anni, con esplosivi libri-inchiesta (”I lupi e gli Agnelli”, “Agnelli segreti”, spariti dalle librerie ma disponibili attraverso il sito dell’autore), Moncalvo si è concentrato nello scavare tra “ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”. Fino a scoprire cosa? Questo: che un potere-ombra, finanziario e anglosassone, si sarebbe impossessato del controllo politico della Fiat già dal dopoguerra, fino poi a “imporre” che l’eredità di Gianni Agnelli finisse a John Elkann, il quale – giovanissimo – alla scomparsa dell’Avvocato mise l’impero Fiat nelle mani del manager finanziario Sergio Marchionne, campione del neoliberismo americano. Moncalvo evoca anche «rabbini francesi e grembiulini» nell’orbita di John Elkann, alludendo al ruolo del padre, il giornalista e scrittore Alain Elkann, membro del potentissimo Jewish Institute e figlio del banchiere, industriale e rabbino francese Jean-Paul Elkann. Dietro alla “real casa” torinese, attraverso il ramo Elkann oggi al comando, aleggia il potere del B’nai B’rith, elusiva massoneria sionista?
    Ne parlò il saggista e massone Gianfranco Carpeoro, a proposito della strana fine di Edoardo Agnelli nel 2000: il figlio “ribelle” dell’Avvocato, che in un’intervista al “Manifesto” aveva annunciato l’intenzione di volersi occupare del destino della Fiat, si sarebbe convertito all’Islam, e addirittura alla confraternita mistica dei Sufi. Una foto lo ritrae a Teheran in una sessione di preghiera guidata dall’ayatollah Alì Khamenei, guida suprema della ierocrazia sciita. Fu proprio l’Iran ad accusare il Mossad, il servizio segreto israeliano, della morte di Edoardo Agnelli, precipitato da un viadotto autostradale in circostanze mai del tutto chiarite. Forse per motivi di pura propaganda politica anti-sionista, Teheran accusò la “lobby ebraica” di aver sostanzialmente propiziato l’eliminazione di Edoardo Agnelli (caso archiviato come suicidio) per poter poi mettere completamente le mani sull’impero Fiat dopo la morte di Gianni Agnelli. Dietrologie, semplici illazioni, addirittura insinuazioni senza fondamento? Dal lavoro di Moncalvo, incentrato per lo più sulla imbarazzante “guerra” familiare per l’eredità dell’Avvocato (seguita dall’ancora più imbarazzante silenzio dei media), emerge in sostanza l’impenetrabilità della governance Fiat, retta da logiche che ricordano quelle delle antiche monarchie.
    Carte giudiziarie alla mano, Moncalvo ha scoperto che il grosso del “tesoro” degli Agnelli è depositato all’estero, lontano dall’Agenzia delle Entrate (a Panama e in un caveau dell’aeroporto di Ginevra), e che i due uomini-ombra dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, manovrarono – insieme ai notai, e d’intesa con la vedova Agnelli, Marella Caracciolo – per favorire in modo esclusivo l’allora giovanissimo John Elkann, entrato nel board Fiat a soli 21 anni. Oggi, ragiona Moncalvo, la Exxor (finanziaria di famiglia) è stata stra-premiata con un “bonus” di oltre 5 miliardi dai futuri partner francesi, che in cambio però prenotano il controllo del colosso Fca-Psa, che verrebbe affidato a Carlos Tavares, l’uomo-Peugeot. Una maxi-buonuscita agli Elkann per lasciare il timone alla Francia, il cui governo oltretutto controlla il 13% del gruppo che include Peugeot, Citroen e Opel? Secondo “Money.it”, Fca porta in dote 102 stabilimenti e un fatturato da oltre 110 miliardi, con marchi come Fiat e Jeep, Lancia, Abarth, Alfa Romeo, Maserati, Chrysler, Dodge, Fiat Professional e Ram. Da canto suo, Psa (che possiede anche Ds Automobiles e Vauxhall) mette sul piatto appena 45 stabilimenti e un giro d’affari da 74 miliardi, inferiore quindi a quello dell’ex Fiat.
    In sostanza: i francesi offrirebbero di meno ma otterrebbero di più, dopo aver “premiato” a suon di miliardi i torinesi, forse ansiosi – da tempo – di disimpegnarsi dal settore auto? Se è presto per trarre conclusioni, visto che ogni giorno emergono precisazioni sullo sviluppo dell’accordo, ancora in corso nella sua definizione, è sconcertante – rileva Moncalvo – il silenzio assordante del sistema-Italia, di fronte a una notizia di questa portata. Gli stessi sindacati si limitato a mormorare: forse, auspica Landini, la fusione rafforzerà il comparto industriale. Certezze, nessuna: quand’era a capo della Fiom, Landini si vide beffare dall’inesistente Fabbrica Italia, il piano di rilancio solo vagheggiato da Marchionne. Ma ancora più clamoroso è il silenzio dei media nazionali e della stessa politica, evidenziato dall’assenza totale – nella vicenda – del governo Conte. E se chiuderanno gli stabilimenti del centro-sud? Visto che a decidere saranno i francesi, come possono dormire sonni tranquilli gli operai di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese? Nessuno sembra domandarselo: silenzio di tomba. Muti i giornali, zitti i partiti, non pervenuto Palazzo Chigi. Purtroppo, la cosa non stupisce: solo in Italia, ricorda Moncalvo con amarezza, nel 1991 – per timore di dispiacere ai signori della Fiat – fu tradotto col titolo “Il silenzio degli innocenti” il film-kolossal di Jonathan Demme, con Jodie Foster e Anthony Hopkins. Nel resto del mondo, il titolo originale (”The silence of the lambs”) fu tradotto correttamente: il silenzio degli agnelli.

    «Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda“, ripreso anche su YouTube: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?

  • Ratto: noi idioti, posseduti dalla tecnologia nostra padrona

    Scritto il 10/11/19 • nella Categoria: idee • (3)

    È assolutamente essenziale che, in una società che si voglia dire veramente libera e composta da uomini e non da manichini, venga sempre mantenuta da chi governa la possibilità, per tutti i cittadini, di poter delinquere e infrangere le leggi. Forse gli idioti che gestiscono il sistema non lo hanno capito. O forse, invece, lo hanno capito benissimo. E a essere idioti son tutti gli altri. Fatto sta che è così. È assolutamente così. Dopo aver perso il controllo su di noi, sul nostro corpo, sulle nostre passioni, sulle nostre reazioni, ora stiamo via via perdendo anche il controllo sui nostri mezzi. Le macchine circolano da sole, posteggiano da sole, frenano da sole. La casa è gestita da una mignotta elettronica, che di nome fa la coniugazione al femminile del computer di “2001 Odissea nello Spazio”, e che ci accende le luci, ci spegne la caldaia, ci prepara il caffè, ascolta quel che diciamo al vicino e poi informa Google circa le prossime pubblicità da spedirci via mail. Tutto ciò che ci circonda è “smart”, nel senso che ci assicura la comodità di non preoccuparci di parecchi dettagli a cui, invece, provvedono direttamente i nostri stessi aggeggi. Dettagli da poco, per carità.. Questioni che, banalmente, hanno a che fare con tutte le piccole scelte quotidiane che, finora, facevamo da soli. E a cui, adesso, pensano direttamente le mille cose che acquistiamo, credendo illusoriamente di possederle.
    E proprio come diceva quel deficiente durante una pubblicità di non so più quale compagnia telefonica, la “libertà” che possiamo meritarci sta ormai consistendo, sempre più, nel “non dover scegliere”. In nome di una criminale, liberticida “sicurezza”, in un mondo in cui le cose ci spiano e ci possiedono, esultiamo ebeti di fronte alle automobili che rispettano da sole i limiti di velocità, impedendoci di trasgredirli. Di fronte alle telecamere che scoraggiano qualsiasi illegalità, facendo leva sul deterrente del controllo a distanza. Alle transazioni di denaro e ai conti in banca sistematicamente “monitorati” da Equitalia, per impedir qualsiasi tentazione di evasione fiscale. Noi esultiamo, sì. Diciamo: io mica ho niente da nascondere. Diciamo: è più sicuro. È più comodo..! E il processo va avanti; e andrà avanti così. Le cose ci si scaraventeranno contro. Al prossimo giro i cruscotti delle nostre automobili ci stamperanno in faccia le multe ad ogni nostra infrazione. Poi, semplicemente, si arresteranno a ogni rosso. O si metteranno d’accordo tra loro, su chi di volta in volta abbia la precedenza all’incrocio… E noi saremo liberi! Liberi di chattare anche durante il viaggio. Di postare foto del cazzo mentre la macchina ci porta in ufficio, eccetera eccetera.
    C’è solo un particolare. Un piccolissimo particolare. Idioti come dei secchi vuoti, privi di memoria (perché a ricordare ci penserà già l’agenda elettronica), totalmente incapaci di ragionare (perché a ciò provvederà già il computer), derubati dell’imbarazzo angosciante del dover scegliere (perché le nostre macchine, ormai, lo faranno per noi), sprovvisti definitivamente di qualsiasi controllo sulle nostre pulsioni e di qualunque capacità di rispettar le regole (perché milioni di impedimenti elettronici avranno provveduto a prevenire a monte qualsiasi illegittimità), noi saremo definitivamente trasformati in oggetti. In quegli stupidi strumenti che, un tempo, eravamo noi a controllare. E a quel punto, o il controllo elettronico su di noi saprà essere perfetto, assoluto, totalizzante, capace di determinare qualsiasi nostra azione e prevenir qualunque irregolarità, oppure, al primo baco nel sistema, ci scaglieremo addosso gli uni contro gli altri. Sbranandoci ferocemente, senza pietà.
    (Pietro Ratto, “L’essenziale possibilità di delinquere”, dal blog “Bosco Ceduo” del 30 maggio 2019. Scrittore, saggista, filosofo, insegnante e musicista, Ratto ha fondato il sito “In-contro/storia”. Accanto a romanzi come “Il treno” e “Senet”, ha pubblicato apprezzati saggi di storia e attualità, indagando risvolti scomodi come quello sulla Papessa Giovanna nel volume “Le pagine strappate”, ora edito con Youcanprint. Tra i libri più letti si segnala “L’Honda anomala” (Bibliotheka Edizioni) sul rapimento Moro, insieme a “I Rothschild e gli altri. Dal governo del mondo all’indebitamento delle nazioni, i segreti delle famiglie più potenti del mondo”, edito da Arianna come “Rockefeller e Warburg. I grandi alleati dei Rothschild. Le famiglie più potenti della terra”. Per l’editrce Dissensi, Ratto ha scritto “La storia dei vincitori e i suoi miti”, sottotitolo: “Da Giovanna d’Arco al delitto Moro, da Cristoforo Colombo ai Rothschild, mille anni tutti da riscrivere”).

    È assolutamente essenziale che, in una società che si voglia dire veramente libera e composta da uomini e non da manichini, venga sempre mantenuta da chi governa la possibilità, per tutti i cittadini, di poter delinquere e infrangere le leggi. Forse gli idioti che gestiscono il sistema non lo hanno capito. O forse, invece, lo hanno capito benissimo. E a essere idioti son tutti gli altri. Fatto sta che è così. È assolutamente così. Dopo aver perso il controllo su di noi, sul nostro corpo, sulle nostre passioni, sulle nostre reazioni, ora stiamo via via perdendo anche il controllo sui nostri mezzi. Le macchine circolano da sole, posteggiano da sole, frenano da sole. La casa è gestita da una mignotta elettronica, che di nome fa la coniugazione al femminile del computer di “2001 Odissea nello Spazio”, e che ci accende le luci, ci spegne la caldaia, ci prepara il caffè, ascolta quel che diciamo al vicino e poi informa Google circa le prossime pubblicità da spedirci via mail. Tutto ciò che ci circonda è “smart”, nel senso che ci assicura la comodità di non preoccuparci di parecchi dettagli a cui, invece, provvedono direttamente i nostri stessi aggeggi. Dettagli da poco, per carità.. Questioni che, banalmente, hanno a che fare con tutte le piccole scelte quotidiane che, finora, facevamo da soli. E a cui, adesso, pensano direttamente le mille cose che acquistiamo, credendo illusoriamente di possederle.

  • Moncalvo: perché Salvini continua a tacere su Moscopoli?

    Scritto il 02/11/19 • nella Categoria: idee • (2)

    «Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.
    Secondo Moncalvo, Salvini – con le vele gonfiate dai sondaggi e ora anche dall’esito delle regionali in Umbria – potrebbe sempre dichiararsi vittima di un’ingiusta persecuzione, da parte delle toghe, nel caso in cui “Moscopoli” dovesse esplodere, carte giudiziarie alla mano, alla vigilia delle prossime elezioni politiche. Pietra dello scandalo, a livello televisivo, il servizio realizzato da Giorgio Mottola per “Report”, in cui – fra l’altro – si evidenzia il legame tra Salvini e l’oligarca russo Konstantin Valeryevič Malofeev, ultra-tradizionalista, a capo di un vero e proprio impero editoriale. Malofeev è impegnato in una crociata contro i gay, definiti «sodomiti, pederasti», letteralmente. «La paura sbianca il volto di Salvini quando, a Pontida, Mottola gli domanda se conosce Malofeev». Risultato: scena muta. «Ma Salvini – prosegue Moncalvo – si è rifiutato di parlare con “Report” anche in seguito: Mottola infatti aveva chiesto per ben tre volte, alla sua segreteria, di organizzare un incontro per consentire al leader della Lega di replicare, dandogli l’opportunità di offrire la sua versione su ogni aspetto del servizio televisivo trasmesso da RaiTre il 21 ottobre».
    Le polemiche della Lega indurranno “Report” a trasmettere altro materiale sul tema, aggiunge Moncalvo, che rivela che il servizio fu realizzato già a luglio, quando Salvini era ancora ministro dell’interno e vicepremier. Moncalvo mette in relazione “Moscopoli” con la repentina scelta di Salvini di staccare la spina al governo gialloverde, sorprendendo lo stesso Giancarlo Giorgetti. «Salvini ha deciso tutto da solo, e neppure Giorgetti conosceva il motivo di quella decisione», dice Moncalvo, che nel servizio di “Report” svolge un ruolo di primo piano: ricorda di quand’era direttore de “La Padania” e tentò inutilmente di allontanare Salvini. «Pur essendo giornalista – afferma Moncalvo – Salvini non ha mai scritto un articolo in vita sua». Lo tratteggia come un opportunista sfrontato e ambizioso. All’epoca – ha raccontato lo stesso Moncalvo di fronte alle telecamere di “Report” – ebbe ripetuti scontri con Salvini, definito assenteista e pronto a che a gonfiare la sua nota spese. Un giorno, l’allora leader dei giovani leghisti affrontò il direttore della “Padania” con queste parole: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente».
    Che ci siano vecchie ruggini, tra Moncalvo e Salvini, appare evidente. Altrettanto palese, per contro – come sottolinea il giornalista – è l’impenetrabile silenzio del leader leghista su “Moscopoli”. Reticenza? «Alle domande – insiste Moncalvo – Salvini non ha mai voluto rispondere, in nessuna sede». Spesso, Salvini è ricorso all’umorismo, o se l’è cavata con la formula: «Se ne sta occupando la magistratura». Giornalisti e avversari insistono: che ci faceva, Savoini, a Mosca? A che titolo avrebbe trattato una sorta di maxi-tangente su una fornitura di idrocarburi? A monte, è nota la difficoltosa situazione finanziaria della Lega, costretta – dalla magistratura genovese – a consegnare allo Stato 49 milioni di euro, a causa di vecchie irregolarità imputate alla gestione Bossi. Attenzione, avverte Luca Telese: non si tratta di soldi “rubati” dalla Lega. Di fronte all’originario ammanco accertato (un paio di milioni, forse meno), il partito è stato dichiarato – a posteriori – non idoneo a percepire finanziamenti. Diversi giuristi hanno trovato insolita la condanna: per colpa del mini-buco della Lega Nord di Bossi, alla nuova Lega di Salvini si è chiesto di “restituire” altri soldi, quelli ricevuti successivamente (e regolarmente spesi per l’ordinaria gestione politica, gli stipendi dei funzionari e le spese elettorali). Questo – si domanda qualcuno – potrebbe aver spinto Salvini a spedire Savoini a Mosca in cerca di finanziamenti russi in vista delle europee?
    Quello su cui invece “Report” evita accuratamente di indagare è la fonte del presunto scandalo: quale servizio segreto avrebbe intercettato Savoini, per poi far pervenire gli audio del Metropol alla magistratura milanese? Servizi russi? Americani? Italiani, addirittura, su ordine di Conte? La domanda è di importanza capitale, perché permette di mettere a fuoco la regia di quella che appare come una classsica “imboscata”, dunque il movente politico e i relativi mandanti. In attesa che la questione si chiarisca, Moncalvo ribadisce: il silenzio di Salvini è imbarazzante e inaccettabile, qualunque cosa sia avvenuta a Mosca. Sempre Moncalvo, nel servizio di “Report”, traccia un profilo non entusiasiamente del rapporto tra Salvini e il fido Savoini, descritto come animato da simpatie per l’iconografia nazista e a lungo frequentatore dell’estremista di destra Maurizio Murelli. Per Moncalvo, addirittura, fu proprio Savoini a “plasmare”, letteralmente, il giovane Salvini, dando una sorta di formazione politico-culturale a quello che allora era poco più che un semplice militante, con scarsa dimestichezza con i libri. In ogni caso, sostiene Moncalvo, Salvini farebbe meglio a parlare, fornendo finalmente agli italiani la sua versione sulla storia del Metropol.
    (Gigi Moncalvo è un giornalista di lungo corso: ha lavorato al “Corriere della Sera”, a “L’Occhio” e al “Giorno”, collaborando con Piero Ottone, Maurizio Costanzo e Guglielmo Zucconi (la sua direzione della “Padania” è relativa al periodo 2002-2004). A lungo impegnato nelle reti berlusconiane, è poi approdato in Rai (fino al 2008 è stato dirigente, capostruttura dell’informazione di RaiDue). Letteralmente esplosivi i saggi pubblicati a partire dal 2009 da Vallecchi: “I lupi e gli Agnelli: ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia, “Agnelli segreti” e “I Caracciolo: storie, misteri e figli segreti di una grande dinastia italiana”. Libri stranamente scomparsi dalle librerie poco dopo l’uscita, specie quelli sulla “real casa” torinese: pagine in cui Moncalvo racconta come John Elkann sia stato aiutato ad acquisire l’eredità di Gianni Agnelli, in una Fiat sostanzialmente in mano alla finanza Usa, dal primissimo dopoguerra all’imposizione di Marchionne. Nel mirino di Moncalvo, ora, è finito Salvini).

    «Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.

  • Toghe e 007: perché condizionano l’agenda politica italiana

    Scritto il 26/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).
    Richiedere a un partito 49 milioni di euro, oggi, significa esporlo al rischio di non poter più svolgere l’attività politica (restringendo in tal modo la libertà costituzionale relativa all’offerta democratica garantita dalle elezioni). Ad Agrigento invece il pm sembra aver trattato Salvini – contrario agli sbarchi  – alla stregua un bandito dell’anonima sarda, imputandogli addirittura l’ipotetico “sequestro di persona” a danno dei migranti, come se i profughi fossero stati tenuti prigionieri della nave che li aveva raccolti (e non fossero invece liberissimi di salpare, per poi sbarcare altrove). Ma il colpo più duro, alla Lega, lo hanno assestato i servizi segreti – non si sa di quale paese – che hanno intercettato e registrato a Mosca il famoso colloquio tra l’esponente leghista Gianluca Savoini e alcuni emissari di secondo piano del potere russo. Tema della conversazione: una ipotetica fornitura di petrolio e gas, sulla quale – hanno riferito giornali come “L’Espresso” – lo stesso Savoini (a che titolo, non si sa) avrebbe discusso la possibilità ipotetica di ricevere una percentuale sull’eventuale affare, peraltro non andato in porto e mai neppure avviato. Salvini si è difeso dichiarandosi più che tranquillo, evitando però di rispondere nel merito: del caso si sta occupando la magistratura milanese, a cui qualcuno (chi?) ha inviato l’audio della conversazione all’Hotel Metropol.
    Infastidito per l’insistenza dei giornalisti italiani che hanno seguito la vicenda (testate che contro l’ex Carroccio hanno condotto una vera e propria crociata politica), il leader lehista è apparso evasivo: ha detto di non essere stato messo al corrente di quell’incontro. In ogni caso, Savoini non rappresentava in alcun modo il governo italiano (all’epoca, ottobre 2018, Salvini era vicepremier, oltre che ministro dell’interno). Peraltro è noto a tutti che la Lega, alla luce del sole, ha sempre avuto ottimi rapporti politici con Mosca e col partito “Russia Unita”, fondato da Putin. Salvini giudica l’uomo del Cremlino uno statista di prima grandezza, e ritiene che l’Italia possa e debba riavvicinare la Russia all’orbita Nato, per ragioni geopolitiche e commerciali, dato anche il valore dell’export italiano verso Mosca. Non solo: dai tempi di Bossi, il Carroccio non è mai stato pregiudiziale nei confronti del mondo slavo. Durante la guerra civile nei Balcani, la Lega Nord fu l’unico partito italiano ad allacciare un dialogo anche con la Serbia filo-russa di Milosevic, bombardata dalla Nato e criminalizzata dalla disinformazione occidentale come unico “cattivo soggetto” dell’area balcanica. Una regione devastata dagli opposti nazionalismi e dal cinismo dei vari leader, come svelato nel memorabile saggio “Maschere per un massacro”, di Paolo Rumiz. Sullo sfondo, il ruolo occulto delle potenze egemoni (Occidente cristiano e Turchia islamica) nella “guerra per procura”, dopo la caduta dell’Urss, contro la residua influenza russa, attraverso il regime serbo, ai confini occidentali dell’Europa.
    Tornando a Salvini, è evidente lo stato di imbarazzo generato – a torto o a ragione – dal cosiddetto Russiagate. E’ pensabile che l’incidente non abbia inciso, nella scelta di “staccare la spina” dal governo gialloverde nel fatidico agosto 2018? Certo, a Bruxelles la Lega aveva appena incassato il “tradimento” di Conte e dei 5 Stelle, decisivi per l’elezione alla guida della Commissione Europea di Ursula von der Leyen, simbolo del rigore più estremo, di marca tedesca. Un vero e proprio affronto, per l’alleato leghista dichiaratamente impegnato (come un tempo anche i grillini) a pretendere un cambio di paradigma nella governance europea. Va aggiunto che Salvini aveva più di una ragione per pretendere il divorzio dai pentastellati: Conte, il misterioso premier indicato dai grillini ma teoricamente “venuto dal nulla”, aveva sostanzialmente insabbiato i referendum di Lombardia e Veneto per le autonomie regionali differenziate. Ma era stato ancora una volta uno dei consueti player istituzionali (la magistratura, in questo caso) a speronare indirettamente il progetto di Flat Tax, facendo piovere un avviso di garanzia sul suo ispiratore, il sottosegretario leghista Armando Siri. Effetti politici collaterali, certo. Ma intanto, una volta di più, è stato un soggetto terzo – non elettivo – a condizionare l’agenda politica italiana, esattamente come ai tempi di Mani Pulite e poi di Berlusconi.
    Se qualche potere sovrastante, non istituzionale, ha voluto provare a “togliere di mezzo” Salvini pensando di “utilizzare” apparati statali magari per fare un favore a Conte, oggi è lo stesso premier ad essere costretto (da altri poteri sovrastanti?) a rendere conto del suo operato, presso analoghi organi statali, in merito alla vicenda dell’ipotetico impegno “irrituale” dei servizi segreti italiani in favore di settori dell’intelligence statunitense. Si sospetta cioè che Conte, in modo indebito, abbia messo i servizi italiani a disposizione di quelli di Trump, a sua volta impegnato a difendersi dai vari Russiagate che gli sono stati addebitati: in questo caso, la Casa Bianca avrebbe richiesto l’aiuto italiano per “incastrare” il rivale Joe Biden, accusato di malversazioni in Ucraina. Qualcosa del genere aveva coinvolto anche Renzi: quando era primo ministro, Barack Obama gli avrebbe chiesto di mobilitare gli 007 italiani per aiutare Hillary Clinton ad azzoppare Trump, sempre attraverso indiscrezioni provenienti dalla sfera russa. In attesa che i fatti possano eventualmente chiarirsi (dopo le prime vaghe rassicurazioni rese dal premier al Copasir, ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi) resta il fatto che Conte oggi è al governo proprio con Renzi, mentre a Salvini non resta che fare da spettatore.
    Sarebbe il colmo se lo stesso Conte, domani, fosse costretto a farsi da parte proprio a causa del suo ruolo nella gestione dell’intelligence, che stranamente ha voluto tenere per sé. Per coincidenza, negli ultimi giorni si rincorrono voci di corridoio proprio sull’eventuale sfratto dell’inquilino di Palazzo Chigi. Non durerà a lungo, profetizza Paolo Mieli. Potrebbe venir sostituito da Draghi, ipotizza Augusto Minzolini, interpretando i desiderata del redivivo Renzi. Secondo il saggista Gianfranco Carpeoro, a Renzi i “sovragestori” avevano dato un’ultima chance: rientrare in gioco, se fosse riuscito a silurare Salvini. Detto fatto: d’intesa con Grillo, il fiorentino è stato capace di digerire all’istante persino gli odiati 5 Stelle. In cambio di cosa? Il premio, pare, sarebbe il sospirato accesso al gotha supermassonico, quello da cui proviene il Draghi che oggi prova a dipingere se stesso come una specie di Robin Hood (evocando il ritorno alla sovranità monetaria) dopo aver interpretato per decenni il ruolo spietato dello Sceriffo di Nottingham.
    A Palazzo Chigi sta davvero per arrivare Super-Mario, che in realtà sarebbe propenso a puntare direttamente al Quirinale evitando la fatale impopolarità che attende chiunque si metta alla guida di un governo? Difficile dirlo. Certo, è impossibile non osservare il basso profilo ora adottato da Salvini: cauto e attendista, più moderato nei toni, concentrato sull’agevole partita tattica delle regionali. Come se sapesse che, a monte, restano da sciogliere nodi assai più grandi della Lega, fuori dalla portata dei comuni elettori. Svolte, scossoni e colpi di scena verranno, ancora una volta, da poteri non elettivi e organi istituzionali non politici? Un certo complottismo indiscriminato tende a mettere in cattiva luce sia i magistrati che gli 007, accusando gli uni di faziosità e gli altri di doppiogiochismo, come se non si trattasse di organismi che (salvo eccezioni) fanno semplicemente rispettare le leggi e vigilano sulla sicurezza del sistema-paese. Semmai, la lente andrebbe puntata su poteri elusivi e superiori, non solo italiani, che ne sfruttassero le prerogative per deviarne l’azione su obiettivi contingenti, condizionando – di fatto – l’agenda nazionale e le sue dinamiche politiche, al di sopra della volontà popolare espressa dai risultati elettorali.
    Secondo lo stesso Carpeoro, questa particolare fragilità italica ha radici antiche: già in epoca medievale e rinascimentale, Comuni e signorie ricorrevano regolarmente all’aiuto straniero (pagandone poi il prezzo in termini “coloniali”) per sbarazzarsi dei vicini di casa. L’Italia non è riuscita a proteggere né Enrico Mattei dai suoi sicari, né Adriano Olivetti dalla concorrenza industriale, di marca Fiat e statunitense. Travolta giudiziariamente la leadership dei vari Craxi e Andreotti, e scomparso un politico della caratura di Enrico Berlinguer, il Belpaese si è sorbito Berlusconi, Prodi, Grillo e Renzi. Così, Germania e Francia hanno fatto quello che hanno voluto, nella Penisola: Macron ha persino reclutato un esponente del Pd, Sandro Gozi, per farne una sorta di alfiere anti-italiano in sede europea, quand’era ancora in carica il governo gialloverde. Del resto, ormai, da noi vota solo un elettore su due. E quelli che tornano alle urne – nella maggior parte dei casi – lo fanno per votare contro qualcuno, più che per qualcosa. Se questo è il quadro, il meno che ci si possa aspettare è che poteri esterni cerchino di sfruttare le nostre istituzioni, con ogni mezzo, per insediare a Roma il governo più comodo per loro, non certo progettato per il benessere degli italiani. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se fossero ancora le sentenze, gli avvisi di garanzia e le imprese degli 007 a scegliere tempi, modi e personaggi della politica italiana.

    Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).

  • Moscopoli: ‘Report’ evita l’unica domanda che conti davvero

    Scritto il 24/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    L’unica notizia, nel lenzuolone televisivo “La fabbrica della paura” firmato da Giorgio Mottola sul caso Moscopoli, è il ritrattino poco edificante che di Salvini e Savoini fornisce un veterano del giornalismo come Gigi Moncalvo, allora direttore della “Padania”: il giovanissimo Salvini era assenteista e falsificava le note spese, mentre Savoini (suo mentore occulto) venerava icone naziste, afferma l’autore di libri scomodi come “Agnelli segreti”. Moncalvo è esplicito: quando chiese l’allontanamento di Salvini dal giornale leghista, il giovane Matteo lo sfidò: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente». A parte questo, “Report” si limita – in un’ora di televisione – a imporre ai telespettatori, il 21 ottobre, una tesi a senso unico: Salvini è un mascalzone pericoloso. Le “prove” a carico: esponenti del Carroccio entrarono in contatto con neofascisti come Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso un poliziotto. Così la Lega ha finito col trovarsi al centro di una “internazionale nera”, estesa da Washington a Mosca, basata sul recupero politico del tradizionalismo religioso, familista e nazionalista. Una rete che finanzia progetti teoricamente eversivi e mirati a far implodere l’attuale Ue (che per “Report”, evidentemente, è sacra). Unico appiglio offerto: la famosa intercettazione di Savoini a Mosca, un anno fa. Chi la effettuò? Mistero.
    Per “Report”, comunque, va bene così: basta che i telespettatori disprezzino la Lega, senza neppure sapere chi avrebbe cercato di “incastrarla”. Seriamente: anche in seguito a quel polverone il governo italiano è caduto, ma a “Report” non interessa provare a spiegare chi ha spinto i gialloverdi alle dimissioni, e perché. Lo stile della trasmissione, ora condotta da Sigfrido Ranucci, eredita il marchio fuorviante impresso da Milena Gabanelli: fragorosi depistaggi. Mai una vera indagine sul potere (dopo la dipartita di Paolo Barnard) e inchieste aggressive solo nei toni, in apparenza “contro”, ma in realtà perfettamente allineate ai voleri dell’establishment: vedi l’improvvisa liquidazione del populista Antonio Di Pietro, di colpo presentato come gestore inaffidabile dei finanziamenti pubblici del suo partito, nel momento in cui “serviva” travasare l’elettorato dell’Italia dei Valori nell’esordiente Movimento 5 Stelle (altro fumo negli occhi destinato agli elettori “arrabbiati”). L’infaticabile Mottola ha messo insieme una notevole mole di dati, tutti però di secondo piano. Ha acceso i riflettori su un mondo sommerso – il greve retrobottega anche affaristico del fondamentalismo cristiano russo e americano, insospettabilmente interconnesso – ma senza mai collocare le notizie all’interno di un’analisi capace di fornire deduzioni decisive per leggere l’attualità, depurandola dal foklore.
    Salvini? Avvicinato (quasi molestato) solo e sempre a margine di comizi, tra nugoli di fan in coda per i selfie di rito: in quei momenti, in mezzo alla folla, all’odiato “capitano” è stato chiesto di parlare dei suoi eventuali legami con remoti oligarchi russi. L’unico scopo evidente degli spettacolari “agguati”, in stile “Le Iene”, era trasmettere il seguente messaggio: lo spregevole Salvini evita di rispondere perché sa di essere colpevole e teme la verità. E quale sarebbe, per “Report”, la verità? Con l’aria di inoltrarsi tra le SS di Himmler nel tenebroso maniero di Wewelsburg, le telecamere incalzano i seguaci di Steve Bannon nella Certosa di Trisulti, in Ciociaria, che secondo i piani doveva diventare il Vaticano del “sovranismo” europeo. Da Frosinone a Mosca, stessa musica: si delizia, “Report”, nel cogliere l’apprezzamento di Salvini nelle parole del filosofo neo-conservatore Alexandr Dugin, ideologo presentato come ispiratore di Putin (e in Italia, esaltato da Diego Fusaro). Dio, patria e famiglia? Ricetta specularmente opposta e complementare, rispetto alla teologia globale neoliberista che dice di voler contrastare.
    Rifugiandosi nel mitico buon tempo antico, magari quello dello zarismo che spediva in Siberia qualsiasi dissidente, l’attuale sovranismo sembra il binario morto costruito apposta per non democratizzarla mai, la globalizzazione in atto. Mondialismo neoliberale e neo-sovranismo: due facce della stessa medaglia, interpretate da soggetti che in realtà giocano nella stessa squadra e con lo stesso obiettivo, addormentare le coscienze politiche o al massimo deviarle verso falsi bersagli, comodamente sbaraccabili al momento giusto (Di Pietro docet) quando non serviranno più a infervorare gli elettori più sprovveduti. Ma questi probabilmente sono spunti impensabili, per “Report”, che sembra trattare gli spettatori come bambini dell’asilo. Nella fiaba di giornata, il cattivo è Putin. Gli oligarchi euro-atlantici, invece, sono mammolette? Nel fanta-mondo di “Report”, se lo Zar del Cremlino è il Dio del misterioso Savoini (anima nera del bieco Salvini), il capo della Lega è una sorta di enigma: chi è davvero l’Uomo Nero di Pontida? E’ il classico utile idiota, accecato dall’ambizione e quindi comodamente sfruttato dalla micidiale Spectre sovranista, oppure è una specie di genio del male pronto a distruggere la meravigliosa armonia democratica dell’Unione Europea, modello mondiale di felicità?
    Avvilente il bilancio giornalistico del servizio televisivo: un’ora di speculazione elettorale contro il salvinismo, senza mai neppure domandarsi – nemmeno per sbaglio – chi ha intercettato Savoini a Mosca, e perché, mentre parlava coi petrolieri russi ipotizzando transazioni milionarie (mai avvenute). La prova del nove la fornisce l’impareggiabile Fabio Fazio, lo zerbino di Macron pagato dagli italiani con il canone Rai: com’è possibile, si domanda, che il dossier di “Report” rimanga senza conseguenze? Ma se Fazio fa solo avanspettacolo, sia pure politicamente scorretto perché tendenzioso, in teoria “Report” dovrebbe sentire il dovere di informarli, i cittadini, e quindi farsi l’unica domanda utile per inseguire la notizia: chi ha intercettato Savoini? Sono stati i servizi di Trump, per sbarazzarsi del deludente carrozzone gialloverde? Quelli di Conte, per liberarsi di Salvini? Quelli di Putin, che potrebbe aver “venduto” l’amico Salvini in cambio di qualcos’altro, sullo scacchiere geopolitico? C’è stata una concertazione internazionale incrociata per ottenere il cambio di governo a Roma? La notizia starebbe proprio qui: e invece “Report” galoppa dalla parte opposta, portando a spasso i telespettatori lontanissimo dall’accaduto. Qualcuno ha passato gli audio del Metropol al sito americano “BuzzFeed”. Già, ma chi? E quindi: perché? Inoltre: chi è “BuzzFeed”? Con chi parla? Con chi lavora? Qualcuno lo finanzia?
    Tra i nuovi fenomeni web, nel confine ambiguo tra giornalismo e intelligence, si è imposto recentemente il “Site” di Rita Katz, un tempo considerata vicina al Mossad israeliano, sempre prontissima a divulgare – in esclusiva – le imprese dell’Isis. Nella famosa serata moscovita in quello che è conosciuto anche come “l’albergo delle spie”, c’era un russo la cui identità non è ancora nota. Al Metropol, si dice, anche i muri hanno orecchie. Chi ha deciso, il 18 ottobre 2018, che la corsa italiana della Lega andava fermata con un possibile ricatto? Se gli italiani si aspettano risposte da “Report”, buonanotte. La polpetta avvelenata proviene ovviamente da qualche 007. Lo scopo: indurre i giornali a colpire, nella direzione indicata. Compito che “Report” esegue pedestremente, obbedendo e facendosi usare senza porsi domande. Non stupisce, peraltro: Barnard, co-fondatore della trasmissione, mise in difficoltà la redazione (allora scomoda, per la Rai) con inchieste taglienti. Memorabili le amnesie di Fassino sulle malefatte della globalizzazione, o la sconcertante confessione di Prodi quand’era a capo della Commissione Ue. Testualmente: come faccio a sapere quali e quante direttive emaniano? Fulminato, Barnard, per un’inchiesta sugli abusi di Big Pharma censurata dalla Gabanelli: se la trasmettiamo, gli disse, ci chiudono. Benissimo, rispose Barnard: lo facciano, daremo battaglia. A finire fuori, invece, fu lui. “Report” ovviamente è rimasto, ma abdicando al suo ruolo originario: l’antica grinta ribelle oggi serve solo a raccontare favole innocue per il potere, e magari – come in questo caso – confezionate direttamente da misteriosi servizi segreti.
    (Giorgio Cattaneo, “Moscopoli, la fabbrica della paura creata dagli 007: da Report nessuna risposta sul caso montato da chi voleva far cadere il governo italiano”, dal blog del Movimento Roosevelt del 24 ottobre 2019).

    L’unica notizia, nel lenzuolone televisivo “La fabbrica della paura” firmato da Giorgio Mottola sul caso Moscopoli, è il ritrattino poco edificante che di Salvini e Savoini fornisce un veterano del giornalismo come Gigi Moncalvo, allora direttore della “Padania”: il giovanissimo Salvini era assenteista e falsificava le note spese, mentre Savoini (suo mentore occulto) venerava icone naziste, afferma l’autore di libri scomodi come “Agnelli segreti”. Moncalvo è esplicito: quando chiese l’allontanamento di Salvini dal giornale leghista, il giovane Matteo lo sfidò: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente». A parte questo, “Report” si limita – in un’ora di televisione – a imporre ai telespettatori, il 21 ottobre, una tesi a senso unico: Salvini è un mascalzone pericoloso. Le “prove” a carico: esponenti del Carroccio entrarono in contatto con neofascisti come Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso un poliziotto. Così la Lega ha finito col trovarsi al centro di una “internazionale nera”, estesa da Washington a Mosca, basata sul recupero politico del tradizionalismo religioso, familista e nazionalista. Una rete che finanzia progetti teoricamente eversivi e mirati a far implodere l’attuale Ue (che per “Report”, evidentemente, è sacra). Unico appiglio offerto: la famosa intercettazione di Savoini a Mosca, un anno fa. Chi la effettuò? Mistero.

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