Archivio del Tag ‘neoclassicismo’
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Sapelli: solo gli Usa ci salvano dalla catastrofe euro-tedesca
Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».Sapelli ricorda il novembre del 1975, quando a Rambouillet, sotto l’attenta regia di Valéry Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G6, ossia la riunione di capi di Stato e di governo di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia. «Erano anni difficili, seguiti alla Guerra del Kippur dell’agosto 1973 con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del greggio di ben quattro volte in sei mesi, e soprattutto con l’avvento di quella che allora si chiamava “stagflazione”, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi». Giscard si accordò con Helmut Schmidt, «il più grande cancelliere tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale», per coordinare le maggiori cinque potenze dell’Occidente, più i nipponici. «La preoccupazione era immensa. I “trent’anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva dovessero terminare. E questo colse tutti di sorpresa». Ma attenzione: furono proprio gli Stati Uniti, ricorda Sapelli, a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet. «Solo la perseveranza di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e del ministro degli esteri Mariano Rumor, consentirono all’Italia di partecipare a quel summit», aggirando l’Eliseo.«Quel vertice fu decisivo per il nostro paese – scrive Sapelli – perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali in cui si decideva l’avvenire del mondo». Da quella riunione «scaturirono degli obiettivi profondamente diversi da quelli di oggi», cioè obiettivi «fondati su un impegno di cooperazione, tutti incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per far fronte all’aumento dei prezzi». Oggi, tutto è cambiato. Innanzitutto, come si è visto nel G7 svoltosi in Giappone, «il problema non è più l’inflazione, ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare». Ecco perché il pemier Shinzo Abe propone una politica di “deficit spending”, «rifiutando di aumentare le tasse nel suo paese», per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante, da un trentennio, alla non-crescita.E poi, continua Sapelli, è cambiato anche il contesto europeo: «L’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata, che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo a tutte le altre nazioni, attraverso le regole dei trattati europei, un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa, così da realizzare i magnifici surplus di esportazione». Quarantotto anni dopo Rambouillet, osserva Sapelli, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa. «Ma hanno tuttavia ancora un disegno imperiale mondiale, anche se le divisioni profonde nel gruppo di comando delle disgregate élite nordamericane non lo rendono visibile come si dovrebbe, come tutto il mondo meriterebbe». Sapelli si attende dagli Stati Uniti «ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni or sono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale». Ed è proprio questa perseveranza transatlantica, secondo Sapelli, la migliore risposta all’avvento della Brexit. «Di questo sono pochissimi in Italia ad avere contezza, a cominciare dagli imprenditori». Eppure, «comprendere tutto ciò è decisivo, perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale».Secondo l’economista, si addensano infatti le nubi e si alzano le maree di uno tsunami «molto più grande di quello del 2008». La causa? Sta «nella tendenza alla deflazione europea, che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco». Ed evidenzia «l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi». L’eccesso di finanza “perversa” (derivati, collateralizzazione del debito), non si sconfigge «con l’eccesso di emissione di moneta, come fa la Bce». Mario Draghi? «E’ prigioniero della sua formazione neoclassica». La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che sollecita le “riforme strutturali” dei governi, ma – per Sapelli – qui sta l’inganno: «Le riforme che sollecita favoriscono la crisi». In cosa consistono? «Alte tasse, riduzione dei debiti tout court, senza distinguere tra il debito che fa bene (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario, ma creazione di sana occupazione». In compenso, la Bce – che non muove un dito per gli Stati – annuncia di voler salvare grandi imprese, nei guai a causa delle loro spericolate speculazioni finanziarie.Se queste politiche verranno ancora una volta attuate, conclude Sapelli, non faranno altro che «aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta». Sarebbe bello, dice, poter tornare a Rambouillet, «gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa e devastante, e dell’Europa fondata sulla deflazione che non condivide sovranità ma la sottrae, in una guerra infinita tra le potenze continentali». È ora di tornare all’età della ragione, scandisce Sapelli: sarebbe la miglior risposta alla Brexit. A farci paura, aggiunge, dev’essere «la non consapevolezza della tragedia imminente», e non invece «il ritorno della storia al suo posto», ossia la fuoriuscita del Regno Unito «da un’Europa a cui quell’impero non ha mai guardato se non con preoccupazione per le potenze via via dominanti che potevano nei secoli minacciare il suo potere mondiale: la Spagna, la Francia e infine, ieri come oggi, la Germania». Aggiunge Sapelli: «Solo la pressione Usa protesa alla sconfitta dell’Urss costrinse il Regno Unito ad abbandonare l’Efta nel 1976 e a entrare con una clausola opzionale fondata sulla non adozione dell’euro all’Europa Unita. Ora l’Urss è crollata e la bomba atomica inglese non serve più in funzione antisovietica». La storia riprende il suo corso, «nonostante la gabbia artificiale e drammaticamente catastrofica della politica istituzionale e della politica economica europea».Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».
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Bagnai: cretini di sinistra, l’immigrazionismo è colonialismo
«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».Una scelta, avverte Bagnai, nella quale «la sovranità popolare non è stata coinvolta, venendo completamente sovrastata da quella di organizzazioni ormai chiaramente individuabili come braccio operativo di un progetto esogeno al nostro paese». Naturalmente, aggiunge l’economista, «gli iussolisti scemi erano praticamente tutti europeisti». Eppure, aggiunge, «non ce n’era nemmeno uno che notasse come da questo dibattito l’Europa fosse totalmente assente». Di fatto, «per lo iussolista scemo l’Italia è merda», e comunque è “normale” che l’Europa sia inesistente, nella gestione del problema migranti. «C’è questa strana caratteristica dell’immigrazionismo, che più di essere un’ideologia è una religione (con tanto di pensiero magico)», scrive Bagnai. «In quanto religione, ha una sua terra promessa, che però è una e una sola: l’Italia – che fra l’altro è esattamente quella dove molti di quelli che arrivano non vorrebero restare». E chi se ne importa: «Ogni religione vuole sacrifici, e le vittime dell’immigrazionismo sono, naturalmente: gli immigrati». Del resto, «un processo così complesso non dovrebbe essere affidato alla carità pelosa di organizzazioni arroganti e non trasparenti, che tanta parte hanno avuto nel generare il traffico (e quindi le vittime)».Poi c’è un problema di fondo, strutturale: «L’immigrazionismo, con buona pace dei tanti razzisti che pure circolano e che non hanno la mia simpatia, altro non è, da parte delle ex potenze coloniali, che una fase ulteriore di appropriazione delle risorse delle ex colonie». Sostiene Bagnai: «Dopo averle depredate delle loro risorse naturali, le deprediamo delle loro risorse umane». C’è chi disprezza la qualità umana dei migranti? «Se pure quelle che vediamo per strada fossero solo braccia rubate all’agricoltura», secondo Bagnai «sarebbero, appunto, braccia rubate all’agricoltura di paesi nei quali l’autosufficienza alimentare non è un dato banale». La forza lavoro è una risorsa, è un fattore produttivo. «E la libera mobilità dei fattori produttivi è benefica e equilibrante solo nei modelli neoclassici, cioè nell’ossatura ideologica del liberismo oltranzista». Qui in Europa, abbiamo visto che «la mobilità del lavoro è particolarmente destabilizzante, perché tende ad amplificare il divario fra paese di provenienza e di destinazione». Nel modello neoclassico, aggiunge Bagnai, «ogni bracciante che parte dal Niger contribuisce a far aumentare il salario di quelli che restano. Nel mondo reale, contribuisce a impoverire il paese».Questa situazione, continua Bagnai, è la stessa che «i vescovi africani vedono e stigmatizzano, perché vale, su scala minore, quello che vale per noi». E cioè: «Anni e risorse spesi per istruire persone che poi vanno altrove, creando un danno al paese di origine. Ma questo, agli immigrazionisti non interessa». Cosa gliene importa, davvero, della vita in Burkina Faso o in Sierra Leone? «Ben contenti e soddisfatti di essere nati dalla parte giusta del mondo», in un preciso spettro ideologico, «a loro interessa solo che qualcuno venga qui a “pakarglilapensione”, perché così gli hanno detto che succederà i giornali dei padroni, cui loro, da buoni imbecilli di sinistra, credono, perché Gramsci per loro se va bene è un liceo, se va male una strada, e nella maggior parte dei casi non è niente». Infierisce, Bagnai: «Questa è la feccia con la quale dovremo ricostruire questo cazzo di paese, non so se è chiaro: una torma di imbecilli sottoproletarizzati da decenni di propaganda a reti unificate, pronti a sollevarsi (sotto l’egida di ogni e qualsiasi organizzazione imperialistica i loro caporioni gli propongano in base alle loro logiche elettoralistiche) per difendere progetti la cui matrice ultraliberista (quindi fallimentare e fascista) dovrebbe essere immediatamente leggibile da chiunque avesse delle minime basi di storia del pensiero, ma anche di mero buon senso».«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».
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Keynes: piena occupazione, senza valori niente crescita
L’asse portante della teoria macroeconomica dell’economista inglese degli anni Trenta John Maynard Keynes, tornato al centro del dibattito politico-economico nel pieno dell’attuale crisi economica e sociale prodotta dalla finanza internazionale libera da ogni vincolo e regola, è eliminare l’instabilità del mercato e le diseguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”. Il suo pensiero, basato sul rifiuto di una crescita economica priva di valori umani, della sostenibilità sociale e ambientale, lo portò a dire: «Noi economisti abbiamo la responsabilità non per la civiltà stessa ma per creare le possibilità che una civiltà possa realizzarsi». Ammonimento «accolto da un nucleo ristretto di eretici della sinistra» e poi «debitamente oscurato, quando non stravolto e opportunamente manipolato, da una sinistra attratta dalle sirene del pensiero unico neoliberista, linfa vitale della finanza internazionale», scrive Carlo Patrignani sull’“Huffington Post”, presentando l’ultimo volume che riassume il pensiero del grande economista inglese, archiviato dall’oligarchia planetaria.A fare chiarezza sull’opera e la persona di Keynes, «la cui fama e importanza nel XX secolo è stata pari a quella di Carlo Marx nel XIX», è ora Jesper Jesperson, economista dell’università danese di Roskilde, che toglie Keynes «dall’uso contraffatto agito dai tutori del pensiero unico neoliberista». Un libro scorrevole e chiaro, “John Maynard Keynes. Un manifesto per la buona vita e la buona società”, edito da Castelvecchi e curato dall’economista Bruno Amoroso, amico e allievo di Federico Caffè, «uno degli eretici più autorevoli delle sacche di resistenza che negli anni ‘70 con il loro agire, di fatto, si opposero alla manipolazione e occultamento di Keynes nelle università come nei ministeri europei delle finanze e in particolare oggi di Berlino, Londra, Roma, Copenaghen e Bruxelles». Fautore della piena occupazione, «che non coincide con la crescita economica illimitata ma con l’equa ripartizione del lavoro e dei redditi», Keynes è stato ridotto – dice Amoroso – all’assunto che la causa della disoccupazione risiede nella rigidità dei salari monetari.«Al contrario è l’assenza e imprevedibilità della domanda, sostiene Keynes, a causare l’instabilità del mercato, il che è in diretta opposizione alla tesi degli economisti neoclassici secondo cui l’offerta genera la sua domanda e il sistema di mercato si autoregola». Per Keynes, la disoccupazione non è solo dovuta alla mancanza di posti di lavoro – per cui, seguendo il suo insegnamento, «è possibile invertire la congiuntura negativa con il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri dell’Ue per creare 20 milioni di posti di lavoro che mancano». Ma i veri valori della società umana «non si ottengono con lunghe ore di lavoro e neanche con gli acquisti di prodotti superflui e di facile invecchiamento», scrive Patrignani. E di fronte alle sfide che l’Europa si trova ad affrontare oggi, Jespersen la vede così: «La filosofia sociale di Keynes, ispirata alla costruzione di un sistema economico internazionale che coniuga regolamentazione del mercato dei capitali e libero commercio, può costituire uno straordinario contributo nella direzione di una politica coordinata e solidale che rispetti le diversità e le situazioni dei singoli paesi».(Il libro: Jesper Jesperson, “John Maynard Keynes. Un manifesto per la buona vita e la buona società”, Castelvecchi, 156 pagine, euro 17,50).L’asse portante della teoria macroeconomica dell’economista inglese degli anni Trenta John Maynard Keynes, tornato al centro del dibattito politico-economico nel pieno dell’attuale crisi economica e sociale prodotta dalla finanza internazionale libera da ogni vincolo e regola, è eliminare l’instabilità del mercato e le diseguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”. Il suo pensiero, basato sul rifiuto di una crescita economica priva di valori umani, della sostenibilità sociale e ambientale, lo portò a dire: «Noi economisti abbiamo la responsabilità non per la civiltà stessa ma per creare le possibilità che una civiltà possa realizzarsi». Ammonimento «accolto da un nucleo ristretto di eretici della sinistra» e poi «debitamente oscurato, quando non stravolto e opportunamente manipolato, da una sinistra attratta dalle sirene del pensiero unico neoliberista, linfa vitale della finanza internazionale», scrive Carlo Patrignani sull’“Huffington Post”, presentando l’ultimo volume che riassume il pensiero del grande economista inglese, archiviato dall’oligarchia planetaria.
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Cambiare economia, o addio a 60 milioni di posti di lavoro
Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare. La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni.Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei Pc – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella Ue e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.(Luciano Gallino, estratto da “Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica”, intervento pubblicato sul sito della Fiom-Cgil il 21 luglio 2015).Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).
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Giulietto Chiesa: via dall’Unione Europea, è un branco di lupi
Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e storiche conquiste. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto chi comanda è lo Stato. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese può ottenere solo con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili oligarchi potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austeriy europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, lo fanno apposta: retrocedere i popoli, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte al “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea, prospettiva che ormai sfiora l’Austria e nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.
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Occidente incerto, come la gallina con la zampa sollevata
Come l’osservazione insegna, le galline, sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. E in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale, inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato quanto più i lampi si ripetono. Forse questo esempio ci fa capire che sta succedendo ai piani alti del sistema occidentale. I decisori (statisti, finanzieri, militari) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate e a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando è iniziata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino e alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo, su cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano.Le tre cose insieme segnalarono il tramonto dell’ordine mondiale monopolare che, con la caduta dell’Urss, si era immaginato dovesse imporsi per un’intera epoca storica. In questo contesto Obama era eletto come primo presidente dell’epoca post-monopolare. Da quel momento i “decisori” occidentali (tanto in sede politica quanto in sede finanziaria) hanno iniziato ad essere via via meno sicuri. Prima hanno cercato di negare la crisi, dopo l’hanno data per destinata a risolversi in breve, dopo hanno cercato di trattare i diversi casi finanziari e politici come se si trattasse di fenomeni separati e non interdipendenti. Gli sviluppi successivi (seconda caduta della crisi nel 2011-12, primavere arabe, guerra di Libia, ritiro americano da Afghanistan e Iraq, ondata “populista” in Europa, crisi del Califfato) sono stati alti lampi che hanno ulteriormente “accecato” i decisori, riducendone molto l’effettiva operatività: di fatto, di fronte alla crisi finanziaria, l’unica decisione che sono stati capaci di assumere sono state le continue iniezioni di liquidità, mentre nessuno dei tentativi di riforma del settore è andata a buon fine.In questa paralisi dell’azione dei decisori pesa grandemente l’incapacità degli intellettuali di reagire sviluppando una critica adeguata al sistema. Ma pesano anche altri fattori, come l’autoinganno ideologico del pensiero neoliberista. La scelta fatta trenta anni fa è stata quella di delegittimare ogni altro pensiero economico, che non fosse quello neoclassico, ed ogni pensiero politico che non fosse quello liberal-conservatore. Nel tritacarne sono finiti non solo i marxisti ma anche i keynesiani, i cattolico-sociali, i socialdemocratici e persino i liberali di sinistra o, comunque, non conservatori. La manovra è a lungo riuscita, ma oggi la cultura politica ed economica dell’Occidente si è enormemente impoverita e non c’è una classe politica di ricambio (come abbiamo detto in un pezzo precedente), come sempre accade quando tace il dibattito politico e culturale. Oggi ne paghiamo tutti il prezzo con una classe di decisori politici e finanziari che non sanno dove andare e restano a guardare immobili con la zampa alzata.(Aldo Giannuli, “Shock da globalizzazione, la sindrome della gallina con la zampa alzata”, dal blog di Giannuli del 1° aprile 2015).Come l’osservazione insegna, le galline, sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. E in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale, inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato quanto più i lampi si ripetono. Forse questo esempio ci fa capire che sta succedendo ai piani alti del sistema occidentale. I decisori (statisti, finanzieri, militari) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate e a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando è iniziata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino e alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo, su cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano.
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Zero disoccupazione: via l’euro, e 2 milioni di assunzioni
Disoccupazione zero. Uno slogan politico, che riassume il programma di piena occupazione messo a punto per l’Italia dai sostenitori della Mmt, Moderm Money Theory, partendo da un presupposto imprescindibile: il controllo pubblico e sovrano della moneta, senza il quale ogni sforzo è vano perché, eliminato lo Stato, a dominare sono i mercati finanziari, i poteri forti mondiali. Padre fondatore di questa impostazione è John Maynard Keynes, cervello del boom economico occidentale del ‘900: il sistema funziona e produce benessere solo se, a monte, il potere pubblico investe denaro creato dal nulla, attraverso il deficit positivo. Per un altro colosso dell’economia democratica, Hyman Minsky, la missione dello Stato è quella di diventare “datore di lavoro di ultima istanza”. Concetti lunari, se riletti oggi in pieno neoliberismo terminale globalizzato, con in più il guinzaglio mortale dell’euro che, come prima missione, elimina dalla scena proprio l’attore fondamentale del processo democratico macroeconomico, lo Stato, costretto a dipendere dal sistema bancario. Una farsa le immissioni di liquidità pilotate dalla Bce, perché sono destinate alle banche, ai loro buchi di bilancio e alla loro speculazione finanziaria, anziché al credito per l’economia reale.Nel regime dell’euro, caso unico al mondo – moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, dunque ostaggio delle banche – si saldano due pulsioni egemoniche negative, quella “imperiale” atlantica (che proprio con l’euro ha azzoppato l’Europa, partner potenziale della Russia dopo la caduta dell’Urss), e quella neoconservatrice europea incarnata dall’élite post-coloniale franco-tedesca, fondata sul mercantilismo del super-export (lavoro a basso costo, salari da fame) e sul neoclassicismo, che pretende di estendere allo Stato l’antica dottrina di David Ricardo, risalente all’epoca napoleonica: prima di poter investire, anche lo Stato deve “risparmiare”, come se fosse un’azienda qualsiasi anziché l’unica istituzione democratica abilitata a emettere moneta a costo zero, in regime di monopolio. Di qui la politica di rigore preparata per decenni, a partire dal divorzio tra Tesoro e banche centrali, e culminata oggi nella catastrofe dell’Eurozona a guida tedesca, con un paese come l’Italia retrocesso oltre le prime 20 posizioni nella graduatoria dei redditi Ocse, e alle prese con una disoccupazione spaventosa.Con l’euro, risalire la china è materialmente impossibile: l’intera costruzione della non-moneta europea è stata concepita in base al preciso scopo politico di impedire allo Stato di continuare a sostenere l’economia nazionale, mettendola in crisi e ripristinando condizioni di dominio neo-feudale. Oggi infatti sono i pesi massimi del business euroatlantico a speculare sul disastro, anche con le privatizzazioni, acquisendo a prezzi stracciati beni, aziende, servizi e infrastrutture, cioè il patrimonio sviluppato nei “decenni del benessere” in regime di sovranità monetaria, prima della grande globalizzazione americana. Lo Stato piange perché non può più reggere i conti in rosso – non avendo più il debito pubblico denominato in moneta propria – e quindi non può fare altro che tagliare i servizi e aumentare le tasse, fino a provocare il progressivo collasso dell’economia. Non potendo più svalutare la moneta, né immetterla liberamente nel sistema, né tantomeno utilizzarla come in passato per investimenti strategici, nel regime padronale dell’Eurozona non resta che svalutare il lavoro, seppellendo in questo modo qualsiasi residuo fondamento dell’economia marxista e riducendo il lavoratore ad automa sempre meno pagato, intercambiabile al ribasso sul nuovo mercato dei migranti precari globalizzati.Per questo ha carattere apertamente rivoluzionario la proposta sovranista sviluppata da Warren Mosler e diffusa in Italia da Paolo Barnard: restituire la moneta allo Stato, cioè alla generalità dei cittadini, significa sottrarla al monopolio abusivo del sistema finanziario, che ha “sequestrato” la fondamentale leva monetaria agli Stati europei proprio quando la Russia cessava di essere un avversario formale della Nato. Inaffidabili, per il super-potere di Wall Street, le democrazie europee col loro welfare e le loro tutele sindacali. Un modello funzionante, pericolosamente prossimo alle nuove frontiere dell’Est Europa, da mettere in crisi – con il “golpe” monetario – prima ancora che la crisi della crescita e la finanziarizzazione dell’economia esplodessero in modo dirompente e palese. Secondo il “programma di piena occupazione” della Mmt, il semplice recupero sovrano della moneta può dare ossigeno a un singolo sistema-paese, a prescindere dal contesto internazionale, posto che esistano ovviamente le condizioni politiche per sfidare i poteri forti al punto da “restituire” ai cittadini, insieme alla moneta, un assetto economico funzionale e sociale: il denaro a disposizione del lavoro, e non viceversa. Si tratta dunque di un programma tecnico, in attesa di adozione. Primo punto: tamponare la voragine e dare un lavoro a tutti, subito. Come? Pagando uno stipendio a qualsiasi disoccupato disposto a lavorare e produrre l’equivalente del reddito ricevuto.Il salario sarebbe leggermente inferiore al compenso garantito dai contratti del settore privato. E sarebbe transitorio, cioè assicurato soltanto fino al momento in cui il disoccupato non viene assunto da un’impresa privata. Si tratterebbe in ogni caso un impiego produttivo, ma in campi che non creano concorrenza al settore privato (esempio: la tutela idrogeologica). Dotato nuovamente di moneta propria, lo Stato potrebbe ampliare la base monetaria nazionale, aumentando subito il deficit: dall’attuale 3% del Pil si passerebbe immediatamente all’8-10%. Prima conseguenza: taglio immediato della pressione fiscale, ridotta di almeno il 5%, agendo sull’Iva e sulle tasse sul lavoro. Valore della manovra: 75 miliardi, pari a 2 milioni di posti di lavoro. In parallelo, investimenti annuali da 30-40 miliardi per pilotare una riconversione sostenibile dell’economia: e quindi istruzione, risparmio energetico, sicurezza idrogeologica, ambiente e salute, con ricadute a cascata sul sistema delle aziende e sull’occupazione. Detassazione e investimento pubblico: con moneta sovrana (e politici onesti e capaci) si può fare. Senza moneta sovrana, la missione sarebbe fuori della portata del miglior politico. All’orizzonte, in ogni caso, non se ne vedono. Il che induce ormai molti economisti a ipotizzare che l’uscita dall’euro, giudicata inevitabile e prossima, avverrebbe attraverso un crollo del sistema, con conseguenze disastrose, non esistendo una struttura politica capace di sostenere un piano di salvezza nazionale come quello tracciato dalla Mmt di Mosler.Disoccupazione zero. Uno slogan politico, che riassume il programma di piena occupazione messo a punto per l’Italia dai sostenitori della Mmt, Moderm Money Theory, partendo da un presupposto imprescindibile: il controllo pubblico e sovrano della moneta, senza il quale ogni sforzo è vano perché, eliminato lo Stato, a dominare sono i mercati finanziari, i poteri forti mondiali. Padre fondatore di questa impostazione è John Maynard Keynes, cervello del boom economico occidentale del ‘900: il sistema funziona e produce benessere solo se, a monte, il potere pubblico investe denaro creato dal nulla, attraverso il deficit positivo. Per un altro colosso dell’economia democratica, Hyman Minsky, la missione dello Stato è quella di diventare “datore di lavoro di ultima istanza”. Concetti lunari, se riletti oggi in pieno neoliberismo terminale globalizzato, con in più il guinzaglio mortale dell’euro che, come prima missione, elimina dalla scena proprio l’attore fondamentale del processo democratico macroeconomico, lo Stato, costretto a dipendere dal sistema bancario. Una farsa le immissioni di liquidità pilotate dalla Bce, perché sono destinate alle banche, ai loro buchi di bilancio e alla loro speculazione finanziaria, anziché al credito per l’economia reale.
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Barnard: niente più soldi dalle banche, grazie all’euro
E’ il 29esimo mese consecutivo (“Bloomberg”) che le banche europee non prestano alle piccole medie aziende in quantità sufficiente per sopravvivere. Imprenditori, per PIETA’ pietà capite le basi! Una banca presta a X solo se il tasso d’interesse che può ricavarne è migliore del prestito a Y. Se la Borsa o i titoli di Stato gli danno interessi migliori delle aziende, ovviamente scelgono i primi. Lo diceva un mostro universale dell’economia nel capitolo 17 della “General Theory”, cioè John Maynard Keynes. Ora, le banche sono delle merde. Lo sono per nascita e definizione. Se non potessero rubare non esisterebbero. Ma… Ma è anche vero che purtroppo nell’economia aziendale le banche hanno anche dei limiti severi. Si chiamano “limitazione di capitale”. Cioè: non hanno grossi problemi a fottere i 12 euro al mese al cliente comune, ma quando vanno a prestare alle aziende i limiti li hanno (troppo complessi da spiegare qui). Allora, se è vero che le banche sono oggi affogate di liquidità (per volontà della Bce), perché non prestano a chi lavora?Ripeto: perché oggi l’ECONOMIA DELLE AUSTERITA’ VOLUTA DALLA GENERAZIONE NEOCLASSICA DI ECONOMISTI DOMINANTI l’economia delle austerità voluta dalla generazione neoclassica di economisti dominanti (Serra, Taddei renziani inclusi) ha talmente devastato l’ECONOMIA REALE economia reale che le banche non sanno dove girarsi. I titoli di Stato? Danno interessi da far ridere i polli. La Borsa? Le banche Usa non possono possedere titoli di Borsa, le altre li guardano e li vedono crollare un giorno sì e l’altro sì. I Corporate bonds, cioè i titoli emessi da aziende che chiedono soldi in prestito? Valgono oggi, nella catastrofe europea, come un cecio nella spazzatura del circo. Prestare alle aziende? Nell’inferno dell’Eurozona non si fidano. Lo hanno fatto e si sono trovate in Europa con 1.500 miliardi di euro di prestiti che non riavranno mai più, A CAUSA DELLE AUSTERITA’ VOLUTE DALLA MERKEL a causa delle austerità volute dalla Merkel. La banche non sanno dove girarsi. E vanno a drogarsi al limite della Galassia finanziaria giocando coi mostri del pianeta Vega: i Derivati.Ed ecco che le banche, ladre, bastarde finché volete, hanno però anche dei conti da fare, e nell’olocausto economico dell’euro/Merkel non ci si mettono. Anche perché, come da me detto e spiegato, sono di fatto tutte tecnicamente fallite. Imprenditori, per pietà, (mi fotto di voi che comunque la Bmw da 60.000 euro l’avete – ciao Tanari – ma dei vostri operai), capite cosa sta succedendo? Non esisterà mai più crescita se non si disintegra dalla faccia della terra il più catastrofico progetto monetario dai tempi di Ramses II d’Egitto: l’Eurozona, che impoverisce interi paesi per favorire Berlino e solo Berlino, mettendo le banche nel circolo vizioso descritto sopra. E non esisterà mai più crescita se le banche non vengono messe sotto strettissimo controllo dei Parlamenti nazionali, con un ampio aiuto pubblico all’economia REALE reale, così che le banche tornino a prestare a voi, piccoli, medi, imprenditori, guadagnandoci. E se non si torna a John Maynard Keynes, interpretato nei tempi moderni da Warren Mosler, della Mosler Economics.(Paolo Barnard, “29esimo mese di stretta di credito a chi lavora: imprenditori, sveglia!”, dal blog di Barnard del 30 ottobre 2014).E’ il 29esimo mese consecutivo (“Bloomberg”) che le banche europee non prestano alle piccole medie aziende in quantità sufficiente per sopravvivere. Imprenditori, per pietà capite le basi! Una banca presta a X solo se il tasso d’interesse che può ricavarne è migliore del prestito a Y. Se la Borsa o i titoli di Stato gli danno interessi migliori delle aziende, ovviamente scelgono i primi. Lo diceva un mostro universale dell’economia nel capitolo 17 della “General Theory”, cioè John Maynard Keynes. Ora, le banche sono delle merde. Lo sono per nascita e definizione. Se non potessero rubare non esisterebbero. Ma… Ma è anche vero che purtroppo nell’economia aziendale le banche hanno anche dei limiti severi. Si chiamano “limitazione di capitale”. Cioè: non hanno grossi problemi a fottere i 12 euro al mese al cliente comune, ma quando vanno a prestare alle aziende i limiti li hanno (troppo complessi da spiegare qui). Allora, se è vero che le banche sono oggi affogate di liquidità (per volontà della Bce), perché non prestano a chi lavora?
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Gros: scordatevi la ripresa, la Germania la impedirà
Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannamdo il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».Non sarà mai sconfessata «la linea della Germania, di contrasto alla crisi del debito», prende nota il blog di Gad Lerner commentando l’intervista a “Repubblica” concessa da Gros all’indomani del vertice dell’Ecofin e dell’Eurogruppo a Milano il 13 settembre, riunioni caratterizzate dal duello tra il premier italiano e Katainen, vicepresidente in pectore della Commissone Europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, nominato dalla Merkel. L’incontro di Milano sarà da ricordare, dice Gros, perchè «probabilmente rappresenta la fine delle speranze dell’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». La prova, secondo Daniel Gros, è la nuova manovra di bilancio approntata da Berlino: la grande coalizione tra Angela Merkel e i socialdemocratici dell’Spd ha ridotto gli investimenti pubblici per realizzare una finanziaria senza nuovi debiti, «un obiettivo condiviso praticamente da tutti i partiti tedeschi presenti al Bundestag, con l’eccezione della sinistra radicale», la Linke. Una manovra che «spegne le richieste di chi chiedeva a Berlino la maggior mobilitazione di risorse pubbliche al fine di stimolare la crescita nell’Eurozona».«Da questa posizione di ortodosso rispetto del rigore la Germania non si muoverà», osserva Lerner, e secondo Daniel Gros la composizione della nuova Commissione Juncker evidenzia come non è possibile attendersi alcuna svolta. «I toni concilianti dell’Ecofin sono poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane», dice il tecnocrate tedesco. «Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che forse preoccupa anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca». L’Italia ha un debito pubblico al 136%? «Non so come faccia a poter spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità”». Quanto al ricatto delle “riforme” neoliberiste, ispirate dal mercantilismo neoclassicista dell’export – massima competitività derivante dalla compressione salariale per tagliare i costi di produzione, sacrificando alla legge dell’export i consumi interni e il benessere sociale della nazione – per il dottor Gros si tratta di una speranza vana, perché il “no” della Germania non cambierebbe. «Non credo che la risposta di Berlino sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un paese che ha il 25% di disoccupazione, solo per un paio di riforme fatte».Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannando il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».
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Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa
Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.(Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.
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Barnard: ci fanno a pezzi, e poi lo chiamano successo
Jean-Claude Juncker ha accolto il proclama di Matteo Renzi («Decido io le riforme») con un sommovimento leggero del colon ascendente. Poi fine proclama Renzi. E fine di tutto ciò che c’è da commentare sul governo italiano. Le cose interessanti accadono in Europa e nel mondo. Siccome io e la Mmt diciamo da tempo che ’sta farsa che si chiama economia Neoclassica (quella che domina il tuo governo e quelli di quasi tutto il mondo, quella di Renzi, Hollande, Merkel, Abe, Obama ecc.) non funziona, anzi, devasta democrazie e cittadini, ecco alcune grandiose tappe dell’economia Neoclassica (che fra l’altro le sotto-scimmie-cani del Pd hanno votato ultimamente). Il “Wall Street Journal” annuncia che la Grecia sta recuperando! Ok? Attenzione: che significa che recupera? Significa che invece di morire al ritmo di dieci rantoli al minuto sta morendo al ritmo di 5 rantoli al minuto. Un SUCCESSO!L’economia greca, ci dice il “Wsj”, si è impoverita SOLO dello 0,2% nell’ultimo quarto, ed è… ATTENZIONE ALLA GOOD NEWS!… la contrazione più piccola dal 2008! Cavoli! Che fantastico risultato, che successo! Nobel dell’Economia alla Troika che 6 anni fa scrisse le ricette per la gran riscossa dell’economia greca. Fantastico! La Grecia rantola un po’ meno e non ci dà più così tanto fastidio sentirla morire, perché fa meno rumore. Questa sì che è economia. Ok, ma non finisce qui. Nel secondo quarto del 2014 l’economia francese registra un successo da farsi delle se… (finisce per ghe). Crescita nazionale a zero, 0, nulla, morta. E qui la cosa si fa interessante per chi, come noi poveri emarginati della Mmt, sostiene il valore dei bilanci settoriali (cioè se il “gov” mette 10 nel settore privato ma gli toglie 20, il settore privato va in rosso di 10). Hollande ha fatto un taglio alle tasse di 41 miliardi di euro, poi ha approvato un taglio di spesa pubblica di 50 miliardi.Allora, bambini della seconda elementare: se ti regalo 41 ma poi ti tolgo 50, voi ci guadagnate? No! Ci perdete, vero bimbi? Infatti. Francia a crescita zero e sfora il deficit di bilancio (limite 3%) con un 3.8%, e ha una disoccupazione record più una caterva di dati disastrosi nell’economia reale (mentre Renzi per fare bella figura con i suoi padroni non lo sfora, il 3%! – poi noi crepiamo, ma almeno facciamo bella figura). Oh! Ma andiamo lontano da questa Eurozona ormai lago di pus senza rimedio. La Banca del Giappone ha fatto quello che vuole fare Draghi oggi qui da noi, e che facevano gli Usa fino a poco fa (sapete, noi europei arriviamo sempre dopo la puzza rispetto a Usa e Giappone, ma mica mai che impariamo un xxxx). Ok, la Banca del Giappone ha inondato le banche giapponesi di soldi a costo quasi zero (comprando valanghe di titoli di Stato più altri trucchi), ha svalutato lo Yen, tutto nella convinzione che la POLITICA MONETARIA possa sostituire la POLITICA ECONOMICA DEI VERI POSTI DI LAVORO E DEGLI INVESTIMENTI (CIOE’ LA SPESA PUBBLICA PER IL SETTORE PRIVATO).Insomma, Abe a Tokyo ha fatto la solita puttanata che ha fatto la Fed a Washington, chiamata Quantitative Easing (Qe), senza una cippa di risultato in America. E infatti… il Giappone oggi registra il suo peggior crollo dal 2011, uno stupefacente meno 6,8%! Ma come è accaduto? Chissà come? Non è solo che il Qe non serve a un xxxx. Be’, qui ci vuole una piccola premessa. Noi della Mmt diciamo da decenni che l’Iva, ma SOPRATTUTTO GLI AUMENTI IVA, sono il cancro terminale dell’economia. Non esiste una tassa più devastante per un’economia pensata dall’umanità dai tempi dei Sumeri. Ok. Il Giappone di Abe cosa ha fatto? Ma siiii! Ha aumentato l’Iva come un pazzo, ha quindi tirato una fucilata in piena testa ai consumatori e al commercio giapponesi, e guarda che caso, ma guarda che caso!, il Giappone crolla come crescita, vedi sopra, ma anche come export, che oggi tocca il suo punto più basso da 29 anni. Da VEN-TI-NO-VE anni. Ok. Domani Peter Gomez vi dirà il resto sul “Fatto Quotidiano” (Peter, ma quanto sei forte?).(Paolo Barnard, “Grecia, Francia, Giappone – e dopo la puzza, Renzi”, dal blog di Barnard del 14 agosto 2014).Jean-Claude Juncker ha accolto il proclama di Matteo Renzi («Decido io le riforme») con un sommovimento leggero del colon ascendente. Poi fine proclama Renzi. E fine di tutto ciò che c’è da commentare sul governo italiano. Le cose interessanti accadono in Europa e nel mondo. Siccome io e la Mmt diciamo da tempo che ’sta farsa che si chiama economia Neoclassica (quella che domina il tuo governo e quelli di quasi tutto il mondo, quella di Renzi, Hollande, Merkel, Abe, Obama ecc.) non funziona, anzi, devasta democrazie e cittadini, ecco alcune grandiose tappe dell’economia Neoclassica (che fra l’altro le sotto-scimmie-cani del Pd hanno votato ultimamente). Il “Wall Street Journal” annuncia che la Grecia sta recuperando! Ok? Attenzione: che significa che recupera? Significa che invece di morire al ritmo di dieci rantoli al minuto sta morendo al ritmo di 5 rantoli al minuto. Un successo!
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Il giudice: l’euro condanna a morte l’Italia antifascista
Il trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».Una volta attuate, dichiara Barra Caracciolo ad “Abruzzo Web”, le democrazie costituzionali contemporanee portano a una crescita incrementata programmaticamente da un intervento pubblico «che è, prima di tutto, correttivo dell’assetto di forze che il capitalismo tende a creare». Un assetto «redistributivo verso la parte più debole, e largamente maggioritaria, della comunità sociale». L’effetto di questa correzione statale è che «tutti stanno meglio», perché la priorità indiscutibile è «la soddisfazione dei bisogni collettivi, non certo la stabilità finanziaria intesa come garanzia della intangibilità dei profitti del capitalismo finanziario». La democrazia moderna quindi “aiuta” la maggioranza, non i privilegiati, e questo «non sta bene a chi sta in cima alla piramide», anche perché la crescita del benessere diffuso «comporta una crescita culturale della massa e fa sì che questa abbia maggiore peso politico», contrastando le élite che tendono invece a condizionare i governi dall’alto del loro potere economico. Ed ecco spiegata l’attuale Ue con la sua Eurozona: sbaraccare lo Stato democratico e restituire il potere all’oligarchia, secondo uno schema pre-moderno, neofeudale.Certo, chi è a favore dell’euro spara a zero contro l’Italia, considerata incapace di intercettare al meglio i fondi europei. Errore, interviene il magistrato: i fondi europei sono nel bilancio dell’Ue ma non dell’unione monetaria, «che è stata deliberatamente creata senza un bilancio fiscale federale: i trattati non offrono strumenti compensativi degli squilibri interni all’area euro, e le dimensioni dei cosiddetti fondi Ue sono assolutamente inadeguate al Pil europeo». Ogni altro sistema federale al mondo – Usa, Canada, la stessa Germania – dispone di ben altro budget. Dato il peso economico dell’Europa, secondo l’economista francese Jacques Sapir servirebbe un bilancio federale europeo paragonabile a quello degli Stati Uniti. «Ma di questo bilancio, la Germania dovrebbe sopportare un peso pari a 8-9 punti del proprio prodotto interno lordo: un risultato semplicemente impensabile, e certamente respinto senza equivoci dalla stessa Germania».Dall’Unione Europea (non dall’area euro) si ripete che agli Stati come l’Italia viene semplicemente “restituita”, in parte, una somma che gli Stati hanno già versato. Per effettuare questa contribuzione netta, dati i vincoli di bilancio (drastica limitazione del deficit, fino all’attuale vincolo al pareggio di bilancio), «dobbiamo sostanzialmente rinunciare ai programmi pubblici previsti dalla nostra Costituzione» dice Caracciolo. «L’Unione Europea, in pratica, ne vieta la piena attuazione nei livelli solidaristici da essa previsti, non si scappa. Insomma, diamo dei soldi e ne riceviamo di meno, il meccanismo è questo. Le priorità, poi, vengono pianificate a livello eurocentrico, secondo finalità settoriali, ben diverse da quelle previste dalla nostra Costituzione». Cifre: ogni anno, secondo la Corte dei Conti, sono oltre 6 miliardi in meno che riceviamo rispetto alla nostra contribuzione. Inoltre, per la stabilizzazione della moneta unica – cioè degli squilibri creati dall’euro – solo negli ultimi tre anni abbiamo dovuto pagare, a vario titolo ed emettendo debito pubblico aggiuntivo (che ci viene poi rimproverato come “colpa”, costringendoci a ulteriori dosi di austerità) oltre 53 miliardi, tra cui i 10 miliardi di soccorsi bilaterali concessi a Spagna e Grecia.Ma anche spendendo per sostenere i paesi più deboli, l’Unione Europea non fa la cosa giusta, nel modo giusto: «I fondi accumulati per tenere su i sistemi bancari greci o spagnoli non sono stati usati per incrementare i bilanci di intervento sull’economia reale di quei paesi, ma vengono direttamente dati in pagamento alla Bce», che compra – da Francia e Germania – i titoli di Stato spagnoli e greci Parigi e Berlino avevano acquisito. Oppure, gli “aiuti” vengono immediatamente girati dagli Stati debitori al sistema bancario dei paesi creditori, quello tedesco in primis. In ogni caso, data la sua esiguità, per un vero “salvataggio” non sarebbe sufficiente neppure il fondo del Mes, il meccanismo europeo di stabilità. E così, nel frattempo le tasse aumentano: «Dall’assetto giuridico attuale non possiamo attenderci che una continua progressione della pressione fiscale», dice Barra Caracciolo. Una super-tassazione, «spesso artificiosa e contraria alla Costituzione», realizzata sia attraverso la moltiplicazione del tipo di imposte, sia attraverso «il continuo allargamento normativo delle basi imponibili», che però tendono a contrarsi dato che siamo in recessione.Uno dei drammi italiani è proprio il crollo della domanda interna di consumi, che aggrava il debito perché riduce il gettito fiscale e compromette il futuro: «Se non c’è più domanda interna, non c’è incentivo alcuno a fare nuovi investimenti in Italia. Chi vorrebbe produrre non lo fa perché non ci sono prospettive di vendere il prodotto, e il carico fiscale rende difficile immaginare anche la convenienza dell’esportazione». Per il magistrato, «siamo nel pieno della visione neoclassica dell’economia», quella della destra economica. «Siamo praticamente in stagnazione dal 1992». Già all’epoca del Trattato di Maastricht «era evidente che non si potesse tollerare un vincolo di cambio e di bilancio fiscale del genere e mantenerlo insieme alla crescita». L’euro – moneta rigida e non sovrana – non può che deprimere l’economia, tagliando le gambe all’unico possibile volano risolutivo, l’intervento statale: in una situazione di crisi, senza investimenti pubblici il settore privato crolla.«In un’economia liberista come quella dell’area euro, fondata sulla lotta all’inflazione e sulla limitazione dell’intervento pubblico, si finisce nella trappola della liquidità», spiega Luciano Barra Caracciolo. «Anche se i tassi praticati dalla banca centrale sono vicini allo zero, i soldi rimangono là, fermi. E i risparmi fermi non si trasformano in investimenti». Questo viene regolarmente imputato «alla mancanza di produttività del lavoro, che viene ulteriormente compresso nel salario: ciò che chiamano “riforme strutturali”», dalla riforma Fornero al Jobs Act di Renzi, dopo il pacchetto Treu del primo governo Prodi e poi la legge Biagi. Secondo Giulio Sapelli, siamo sull’orlo di una guerra. In realtà, la competizione tra Stati è già esplosa: avremmo dovuto cooperare, ma è lo stesso Trattato di Maastricht a parlare di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, prefigurando quindi «una competizione tra Stati per la supremazia sul mercato unico».Eccoci qua: «Privi di governo federale e di sovranità monetaria, stretti da vincoli di bilancio che escludono ogni autonoma politica economica e industriale nazionale, gli Stati non hanno più la parte essenziale della sovranità. Ma quella sovranità, sottrattagli ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione per consentire di aderire a un’organizzazione internazionale, non è poi esercitata da nessuno, in termini di politiche di interesse generale dei popoli. È come se ci fosse un buco nero in cui la sovranità si disperde». Gli Stati della nuova Europa? «Devono competere tra loro, altre vie non vengono indicate». Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia, tutto questo non porta sviluppo: si può anche vincere sulle esportazioni, ma nessuno vince se si vuole realizzare questo obbietivo tutti insieme simultaneamente. Risultato: zero crescita comune, proprio grazie alla perduta sovranità “dispersa nel nulla”. L’export in ogni caso non è la soluzione: «Le esportazioni si mandano avanti comprimendo domanda interna e salari: quindi, negli effetti sociali, siamo in guerra», sottolinea Caracciolo. «Chi perde si trova di fronte a perdite epocali e a un impoverimento che diviene irreversibile».Apriamo gli occhi, aggiunge il magistrato: «Non è l’euro ad aver garantito la pace: semmai è uscire dall’euro che porterebbe finalmente a una “pace”, intesa come armonizzazione cooperativa sul piano commerciale e industriale, che oggi non c’è perché è appunto incentivata una guerra commerciale-finanziaria dalla stessa struttura istituzionale della non-politica monetaria accentrata nella Bce». A questa analisi, la propaganda comune – e i mezzi di informazione di massa – replicano nel solito modo, cioè puntando il dito contro i presunti vizi italiani: non abbiamo mai saputo governarci bene, quindi non cresceremmo nemmeno in caso di uscita dall’euro. Il che è falso, puntualizza il giudice: «L’Italia se la cavava benissimo, riuscendo a stare almeno alla pari di Francia e Inghilterra, con una struttura industriale più dinamica». Fino all’irruzione dello Sme, il sistema monetario europeo e quindi il “vincolo esterno” alla spesa pubblica, «la realtà economico-industriale italiana non era affatto quella mostruosità che è stata dipinta ad arte da chi voleva “ridimensionare” l’Italia». Cifre alla mano, Bara Caracciolo smentisce i pro-euro: tra gli anni ‘70 e gli ‘80 l’Italia aveva una bassa spesa pubblica, inferiore di 10 punti alla spesa tedesca.C’era un deficit strutturale, certo, «ma il deficit non è un in sé un elemento negativo per il prodotto interno lordo», visto che corrisponde «all’immissione pubblica di moneta nel sistema», cosa che da noi «ha generato un grande risparmio privato», il primo d’Europa: gli italiani, in altre parole, si sono arricchiti anche grazie all’azione strategica dello Stato, che ha “speso a deficit per i cittadini”, aziende e famiglie, permettendo al sistema-paese di svilupparsi nel modo che abbiamo visto. Il debito pubblico? Altra mistificazione: nel 1981, al momento del divorzio fra Tesoro (Andreatta) e Banca d’Italia (Ciampi), il debito era appena al 58%, sottolinea Barra Caracciolo. Poi è esploso, quando è stato affidato ai titoli di Stato sul mercato finanziario privato, imbrigliando lo Stato prima con lo Sme – tassi di cambio a oscillazione limitata – e infine con l’euro, moneta iper-rigida che ci vincola «a realtà economiche come la Germania, strutturalmente inconciliabili con la nostra». Morale: «Sottraendo deficit e debito dalle mani dello Stato sovrano, si è avuta un’esplosione degli interessi». Non a caso, naturalmente: «Già in quel momento hanno cominciato ad arricchirsi minoranze di privati che sono diventati i sottoscrittori privilegiati di questo debito a interessi superiori al livello dell’inflazione, determinandosi un trasferimento a loro favore dei soldi dei contribuenti».Uno dei refrain del centrosinistra – da Prodi a Renzi – è la necessità di tagliare la spesa pubblica. E’ solo «una scusa», replica Luciano Barra Caracciolo. «In termini assoluti la spesa italiana non è mai stata alta, era sotto controllo: il problema del deficit era in realtà dovuto alla pressione fiscale relativamente bassa rispetto agli altri paesi europei come Francia e Germania», con in più una vasta evasione fiscale. Con Maastricht, si è cercato di “rimediare” aumentando la pressione fiscale su tutte le categorie produttive. Questo, insieme al cambio sfavorevole (l’euro troppo “forte”) e al venir meno del sostegno pubblico (il taglio del deficit) ha provocato «il blocco dello sviluppo industriale», cioè la grande crisi italiana, sottoposta allo choc improvviso della moneta unica, del rigore fiscale e della fine del sostegno pubblico. Il problema dunque non è l’Italia, ma questa Unione Europea. Il famoso malgoverno italiano? «Non era peggiore di altri ordinamenti in competizione, come Francia e Germania», e in ogni caso gli illustri tangentocrati del passato non hanno certo impedito al paese di svilupparsi rapidamente, arricchendo famiglie e aziende. «Capiamoci bene», insietre Caracciolo: «Con le attuali politiche fiscali, e specialmente col pareggio di bilancio, si azzererà il risparmio privato delle famiglie».«È un fatto di contabilità nazionale, non si può non capire un concetto così elementare», continua il magistrato. «Se devo tenere il deficit sotto un certo limite, si deve comprimere la domanda fino a provocare la recessione». Ma attenzione: il deficit non è un problema. Al contrario: «E’ il risparmio del settore privato». Sono soldi che lo Stato spende per cittadini e aziende. Se invece si taglia, e quindi si comprime la domanda interna di beni e servizi, il saldo arriva allo zero. Pareggio di bilancio, appunto. Così, l’onere degli interessi viene trasferito «nelle mani di chi detiene il debito pubblico», cioè «non certo le famiglie, ormai marginalizzate». Peggio ancora: «Col pareggio di bilancio si arriverà addirittura a un risparmio negativo: per fronteggiare la vita e le tasse, i cittadini dovranno vendere i propri beni patrimoniali, intaccando lo stock di risparmio. Questi beni andranno in sovraofferta, e i prezzi caleranno drammaticamente. Guardate i prezzi degli immobili, già in aperta flessione. In vent’anni di Fiscal Compact i valori reali saranno ridotti almeno a un terzo rispetto ai picchi della metà degli anni 2000. Alla fine del processo saremo tutti più poveri».E mentre il Pd continua a chiedere “più Europa”, proponendo il tedesco Martin Schulz alla guida dell’Ue, «si sta deindustrializzando l’Italia: la Germania su tutte vuole controllarla, in quanto sua principale concorrente industriale nell’area euro». Obiettivo: fare del nostro paese «una gigantesca fabbrica-cacciavite, a bassi salari, progressivamente decrescenti». Insiste il giudice: «La Germania non vuole un’Italia viva e vitale, proprio perché è il principale concorrente sul mercato unico. Fingendo di non volerci – come confermano le posizioni di Helmut Kohl durante la trattativa finale per l’introduzione dell’euro – costrinse l’Italia a entrare nella moneta unica, sapendo di poterla neutralizzare definitivamente nella sua competitività grazie al livello di cambio impostoci per sempre». Certo, televisioni e giornali non hanno certo aiutato gli italiani a capire quello che stava accadendo: «Gli editoriali italiani degli ultimi trent’anni sui più importanti quotidiani ci hanno detto enormi bugie, falsificando il senso economico del deficit e della spesa pubblica. Un lavoro ben orchestrato dai padroni finanziari. Colpevolizzando gli italiani e l’Italia spendacciona siamo arrivati alla povertà: dovevamo espiare i peccati e rinunciare a tutti i nostri diritti sociali. In Europa funziona così». Alla Bce è vietato espressamente di sostenere gli Stati e l’occupazione. «Se non cambiamo è la fine: di tutti».I trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».