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Lockdown in Costituzione: il prezzo per uscire dal Covid
Pronti per il lockdown climatico, dopo quello sanitario? Tira brutta aria, dalle parti della Costituzione: la strana modifica dell’articolo 9 (attuata quasi sotto silenzio) mette il governo nelle condizioni di imporre le peggiori restrizioni, senza che il cittadino abbia più nemmeno la protezione del paracadute costituzionale. Che significa? L’establishment teme di dover pagare un prezzo per i recenti abusi di potere, e quindi prova a renderli conformi alla Carta? No, la situazione è peggiore: secondo Matt Martini, si stanno ponendo le premesse per rendere “eterna” la dominazione sperimentata negli ultimi due anni. Dal canto suo, Nicola Bizzi offre una precisa spiegazione politica: la manomissione della Costituzione può esser stata pretesa dai poteri dominanti (Davos, Bruxelles) in cambio della concessione – finalmente – degli allentamenti sul Covid, visto anche che la narrazione pandemica si è fatta ormai insostenibile. E quindi: liberi tutti – riguardo al virus – ma a patto che, prima ancora, l’Italia si predisponga a subire altre, eventuali costrizioni: magari quelle raccomandate dall’élite che utilizza, come spaventapasseri, la piccola Greta Thunberg.«Trovo pericolosa la riforma dell’articolo 9 della Costituzione, con l’introduzione del riferimento alla tutela dell’ambiente, insieme a quello che viene definito “l’interesse delle future generazioni”», premette Martini, nella trasmissione “Nexus Reloaded” con Tom Bosco e lo stesso Bizzi. «A prima vista può sembrare un fatto positivo, ma in realtà la tutela dell’ambiente è uno dei cardini pseudo-ecologisti e malthusiani del pensiero del Club di Roma, che poi ha originato il Forum di Davos, causa di tutti i nostri mali». In sostanza si introducono nuovi obiettivi, all’interno del sistema giuridico italiano: e questo permetterà di giustificare i lockdown e tutte le restrizioni che venissero introdotte. «Se prima avevamo lo strumento giuridico per far decadere tutto, in questo modo avranno il dispositivo potenziale per far decadere (anche retroattivamente) l’annullamento e la condanna di tutte le malaugurate norme introdotte da Conte e poi confermate da Draghi».Aggiunge Martini: in un altro passaggio dell’articolo che è stato appena riformato, senza che il Parlamento battesse ciglio, si prevede che l’iniziativa economica individuale debba essere compatibile con l’utilità ambientale e la difesa della salute. «In questo modo, quindi, c’è la giustificazione del fatto che, domani, io possa chiudere la tua attività produttiva per ragioni di ordine ambientale o sanitario». Dunque: «Si sono messi in cassaforte i presupposti giuridici per agire in maniera autoritaria contro la libertà economica individuale, quindi anche contro la libertà d’impresa». Per Matteo Martini, co-autore del saggio “Operazione Corona”, è un assegno in bianco: che il governo potrà compilare con quello che vuole. «Chi lo stabilisce, infatti, qual è il citato “interesse delle generazioni future”? Il diritto alla salute, lo abbiamo già visto, è stato considerato prioritario rispetto a tutti gli altri (alla libertà personale, al diritto al lavoro)». Di fatto, «si agisce d’arbitrio, nel modificare la giurisprudenza: e se domani stabiliscono che “l’interesse delle future generazioni” è prioritario, rispetto a tutti gli altri diritti, compreso il diritto alla vita?».Insiste l’analista: «In nuce, vedo l’introduzione di un principio insidioso: sono tutte spallate verso una deriva molto pericolosa. Questo è un ulteriore chiodo nella bara dell’Italia». Martini è molto pessimista, sul futuro della situazione italiana: «Anche quando dovesse finire tutta questa pagliacciata del Covid (che prima o poi finirà), e anche se la situazione economica dovesse temporaneamente riprendersi, noi a questo punto abbiamo sulla testa una spada di Damocle». E cioè: «Ulteriori lockdown e ulteriori restrizioni, per qualsiasi eventuale futura emergenza, visto che qui ormai lavorano contro di noi in termini di “shock economy”». L’orizzonte resta buio, a quanto pare: «Questa è una situazione molto pericolosa, adesso inserita addirittura in Costituzione. A mio avviso, per l’Italia la situazione è veramente preoccupante: parlo del futuro, dei prossimi 5-10 anni». Lo stesso Martini ammette di esser stato colto in contropiede: «Purtroppo non mi aspettavo una situazione di questo tipo: ci ha sorpreso tutti».Ancora più drastico Nicola Bizzi, che di “Operazione Corona” è l’editore. «Questo è un attentato alla democrazia e alla Costituzione», scandisce. E spiega: probabilmente è il frutto di un tacito patto. Uno scambio: vi concediamo di uscire dall’incubo narrativo Covid, ma voi vi lasciate legare le mani anche per il futuro. Il blitz sulla Costituzione, secondo Bizzi, sarebbe stato anticipato: in realtà, era in programma più avanti. «Lo hanno anticipato ora, appena dopo la riconferma di Mattarella, sfumata la possibilità che al Quirinale salisse Draghi: in quel caso, la riforma dell’articolo 9 sarebbe probabilmente slittata dopo l’estate, o forse addirittura a fine legislatura». E perché a Draghi è stato negato il Colle? «A parte il fatto che era “bruciato” a livello internazionale, agli occhi di vari potentati economici e finanziari, in realtà è stato “impallinato” peché la politica italiana ha iniziato il fuggi-fuggi, il “si salvi chi può”», sostiene Bizzi, che spiega: «Se finora il sistema ha favorito l’affondamento dell’Italia dal punto di vista umano, demografico, economico e sociale, provocando una vera e propria devastazione, i politici ora pensano: “Se il sistema affonda troppo, poi affondiamo anche noi. Se cade il sistema, l’ordine costituito, magari ci aspettano sotto casa con i forconi”».Hanno davvero paura che cada il sistema, insiste Bizzi: per questo la politica italiana si è blindata. «Nel suo discorso di insediamento, Mattarella ha pronunciato 18 volte la parola “dignità”: si riferiva alla dignità della politica, della partitocrazia. Come a dire: il sistema-Italia ha pur sempre una sua dignità; quindi non è giusto che affondi, deve salvare se stesso. E allora hanno deciso di intraprendere una linea di de-escalation». Per ora, Mario Draghi resta al governo, ma secondo Bizzi si dimetterà entro marzo: «Approderà a qualche organismo internazione (Banca Mondiale, Fmi) perché non vede l’ora di allontarsi da qui». A sostituirlo, probabilmente, «sarà sempre un governo farlocco (un governo tecnico, non elettorale) che porterà avanti la de-escalation, visto che ormai siamo arrivati ai “tempi supplementari”, riguardo alla narriva Covid». Ed ecco il punto: «Questa riforma costituzionale l’hanno voluta e attuata proprio ora, perché è stata una sorta di “conditio sine qua non”, da parte dei poteri di Davos e della Commissione Europea, come a dire: intanto attuate questa riforma, poi potrete fare tutta la de-escalation che vorrete».E’ uno scambio, dice Bizzi: chiudere la storia-Covid, ma in compenso tenere aperta la porta per nuove emergenze. «Diamo un’occhiata in casa altrui: a parte la Gran Bretagna, che è fuori dall’Ue e quindi fa quello che crede, nei limiti del possibile, osserviamo quei paesi che hanno preceduto l’Italia negli allentamenti delle restrizioni, mettendo fine alla farsa pandemica». Danimarca e Norvegia, Olanda, Spagna, nazioni dell’Est Europa: cosa hanno patteggiato, con Bruxelles, in cambio di queste riaperture? «Molto probabilmente hanno accettato la prossima adozione di misure “green”: e se vedremo che avranno intenzione, anche loro, di effettuare riforme costituzionali vincolanti, dal punto di vista pseudo-ambientalista, nel segno della “decarbonizzazione” – quindi, misure malthusiane a lunga scadenza – sarà la conferma che questo è stato uno scambio, un patto. Perché questi non mollano, vogliono andare avanti a oltranza: chiusa la narrazione Covid, voglio aprire la narrazione climatico-ambientale».Attenzione: «La nuova narrazione – continua Bizzi – adesso la vogliono aprire ufficialmente, visto che finora è stata aperta solo a parole: cioè con dichiarazioni e proclami, inclusa la recente farsa del gas (che in realtà non è mai mancato) e quella dei blackout (che finora non sono avvenuti, e ormai l’inverno è quasi alle spalle)». L’élite vorrebbe comunque portare avanti l’Agenda 2030, secondo altre direttive, visto che l’Operazione Corona ormai è finita. Certo – aggiunge Bizzi – l’Italia sarà uno degli ultimi paesi, a chiuderla, «perché ci mangiano sopra in troppi: è il classico mangia-mangia all’italiana, e non è facile smantellarlo rapidamente». Afferma l’editore di “Aurora Boreale”: «Ci sono resistenze, da parte della politica: ci mangiano i sindaci, i governatori delle Regioni e i personaggi attorno alla politica, che vivono di appalti e subappalti, razzie, favori e clientelismi». Domenico Arcuri? «Era solo la vetta dell’iceberg: c’è un sistema che sta mangiando, ancora, sulla farsa pandemica. E vorrebbe continuare a mangiare».Pronti per il lockdown climatico, dopo quello sanitario? Tira brutta aria, dalle parti della Costituzione: la strana modifica dell’articolo 9 (attuata quasi sotto silenzio) mette il governo nelle condizioni di imporre le peggiori restrizioni, senza che il cittadino abbia più nemmeno la protezione del paracadute costituzionale. Che significa? L’establishment teme di dover pagare un prezzo per i recenti abusi di potere, e quindi prova a renderli conformi alla Carta? No, la situazione è peggiore: secondo Matt Martini, si stanno ponendo le premesse per rendere “eterna” la dominazione sperimentata negli ultimi due anni. Dal canto suo, Nicola Bizzi offre una precisa spiegazione politica: la manomissione della Costituzione può esser stata pretesa dai poteri dominanti (Davos, Bruxelles) in cambio della concessione – finalmente – degli allentamenti sul Covid, visto anche che la narrazione pandemica si è fatta ormai insostenibile. E quindi: liberi tutti – riguardo al virus – ma a patto che, prima ancora, l’Italia si predisponga a subire altre, eventuali costrizioni: magari quelle raccomandate dall’élite che utilizza, come spaventapasseri, la piccola Greta Thunberg.
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La farsa Covid sta per finire, solo l’Italia resta nell’incubo
Le imminenti elezioni amministrative (valore, da uno a cento: zero) avrebbero in compenso l’effetto di conferire una parvenza di normalità democratica al nuovo stile di vita imposto dal regime di Mario Draghi? Il conto alla rovescia verso l’orwelliano 15 ottobre sembra lastricato di intoppi e di franose retromarce: parla da sola la cessione a “paesi del terzo mondo” di qualcosa come 45 milioni di dosi geniche (“vaccinali”, le chiamano), mentre la stessa Aifa ha convalidato le terapie a base di anticorpi monoclonali. Fa notizia il permesso – restituito ai genitori – di entrare liberamente nelle scuole, senza “lasciapassare”. E non può sfuggire il vistoso ridimensionamento delle sanzioni ricattatorie ai danni dei lavoratori sprovvisti di Green Pass; non possono più essere sospesi, come ricorda Nicola Bizzi a “L’Orizzonte degli Eventi”: «Rischiano al massimo di restare senza stipendio, ma solo per venti giorni; poi hanno il diritto di vederselo restituire con gli interessi». Tutto dice che la Grande Paura potrebbe avere i mesi contati: è evidente che si va facendo sempre più insostenibile, la narrazione della “pandemia politica” del secolo, viste anche le crepe che si stanno aprendo, destinate a diventare voragini.«Ricorda a tutti, sempre, che uniti vinceremo: perché l’amore è verità, e trionfa sempre». Queste le parole che Nunzia Alessandra Schilirò ha rivolto a Michele Giovagnoli, protagonista di uno straordinario tour (“Agorà d’Amore”) nelle piazze italiane. «Rendetevi conto del coraggio di quella donna, che è vicequestore di Roma: un grado equiparabile a quello di tenente colonnello dei carabinieri». Lo ricorda Matt Martini sempre a “L’Orizzonte degli Eventi”: ormai la verità sta per diventare una valanga, se è vero che persino il mainstream (da Freccero a Giletti, passando per Mieli e Travaglio, Mario Giordano, Barbara Palombelli e tanti altri) sta aprendo finalmente le finestre per far entrare l’aria pulita della realtà, dopo quasi due anni di asfissia “infodemica”. Guai a chi accusa queste voci di fare “gatekeeping”, avvertono Bizzi e Martini: la paranoia del peggior complottismo acceca chi non riesce a vedere cosa sta davvero accadendo. E cioè: anche l’Italia – ultima ruota del carro, in Occidente – si sta preparando a uscire dall’incubo, nonostante le potenti forze che hanno deciso di cacciarcela, con Conte, e che ora vorrebbero tenercela fino a chissà quando, con il “lasciapassare” introdotto dallo sconcertante Draghi.«Si sono accorti di aver fatto il passo più lungo della gamba, imponendo restrizioni che rischiano di far collassare il paese». Lo sostengono gli osservatori de “L’Orizzonte degli Eventi”: «Si è arrivati addirittura a spegnere le telecamere di sicurezza, sulle autostrade, per evitare di mostrare gli ingorghi (documentatissimi) provocati dalla protesta silenziosa dei camionisti». E’ Matt Mattini (co-autore di “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale ed elogiato da Freccero in un’intervista a “La Verità”) a mettere a fuoco il punto di svolta: quasi tutta l’Europa si sta preparando a salutare la stagione degli spaventapasseri, in Italia incarnata dall’infelice figura del bis-ministro Speranza, ventriloquo di D’Alema (legato alla Cina, come Prodi) nonché esponente della Fabian Society. Se da noi tengono ancora banco le supercazzole dei virologi televisivi e dei tromboni del Cts, il resto d’Europa ha messo la freccia, imboccando la corsia di sorpasso. Nemmeno la Francia di Macron – lieta di esportare la Roma la “Porta dell’Inferno” di Rodin, da inaugurare proprio il 15 ottobre alle Scuderie del Quirinale – ha avuto il coraggio di imporre un Green Pass così severo, come ha ricordato “Nandra” Schilirò dal palco di piazza San Giovanni.L’ultimissima notizia – segnala Martini – riguarda il Portogallo: il paese ha appena decretato la fine di ogni restrizione Covid. Un gesto clamoroso, che fa seguito alla retromarcia (per via giudiziaria) della Spagna e alla storica fermezza del Nord Europa, dove Danimarca e Norvegia hanno imboccato la direzione tracciata dalla Svezia (niente lockdown, niente “lasciapassare” medievali), grazie all’impegno della casa regnante di Stoccolma e, pare, dell’influente massoneria svedese. La Germania? «Potrebbe accodarsi, magari nel giro di un mese». Quanto all’Est Europa, è come sfondare una porta aperta: i paesi del Gruppo di Visegrad non vogliono saperne, di Green Pass, e il presidente della Croazia (come ricordato da Pino Cabras) ha manifestato il proprio sgomento per l’incredibile posizione dell’Italia. Come in alto, così in basso: Martini invita a osservare l’atteggiamento “schizofrenico” della Gran Bretagna, che si è lasciata alle spalle ogni autoritarismo all’italiana. Merito di Boris Johnson, che ha invertito la rotta “rigorista”, ma non solo. Di mezzo, a quanto pare, ci sarebbe anche una famiglia dal cognome importante: Rothschild.Se da una parte il ramo inglese della dinastia è dominato da Evelyn Rothschild, collegata a Bill Gates tramite l’Imperial College nel segno della “dittatura sanitaria”, osserva Martini, dall’altra – sempre tra le ramificazioni britanniche del potente casato – si segnala la diserzione dichiarata dalla filiera di Jacob Rothschild, impegnata a supportare la fuoriuscita del Regno Unito dall’incubo fabbricato nel 2020 a partire da Wuhan. Una fuga in avanti distopica, apertamente invocata a Davos e magistralmente interpretata, attraverso l’Oms, dal sistema-Cina e dal Deep State americano che fa capo ai democratici, fino ad arrivare all’Italia di Conte e di Draghi, passando per il Vaticano. Cartina di tornasole della farsa: la disparità che investe l’Australia, dove le peggiori misure restrittive vessano gli abitanti dello Stato di Melbourne (le cui autorità poliche sono vicinissime a Pechino) mentre il resto dell’immenso paese frequenta bar e ristoranti senza più nemmeno le mascherine. «Il fatto stesso che la Norvegia abbia declassato ufficialmente il Covid, ora considerato una semplice “influenza” – chiosa Martini – fa capire l’entità della frode scientifica che ci è stata propinata». Una storia che tiene ancora banco quasi solo nel Draghistan italiano, dove però la popolazione – grazie anche ai medici-coraggio – sta dando segni quotidiani di risveglio.Le imminenti elezioni amministrative (valore, da uno a cento: zero) avrebbero in compenso l’effetto di conferire una parvenza di normalità democratica al nuovo stile di vita imposto dal regime di Mario Draghi? Il conto alla rovescia verso l’orwelliano 15 ottobre sembra lastricato di intoppi e di franose retromarce: parla da sola la cessione a “paesi del terzo mondo” di qualcosa come 45 milioni di dosi geniche (“vaccinali”, le chiamano), mentre la stessa Aifa ha convalidato le terapie a base di anticorpi monoclonali. Fa notizia il permesso – restituito ai genitori – di entrare liberamente nelle scuole, senza “lasciapassare”. E non può sfuggire il vistoso ridimensionamento delle sanzioni ricattatorie ai danni dei lavoratori sprovvisti di Green Pass; non possono più essere sospesi, come ricorda Nicola Bizzi a “L’Orizzonte degli Eventi”: «Rischiano al massimo di restare senza stipendio, ma solo per venti giorni; poi hanno il diritto di vederselo restituire con gli interessi». Tutto dice che la Grande Paura potrebbe avere i mesi contati: è evidente che si va facendo sempre più insostenibile, la narrazione della “pandemia politica” del secolo, viste anche le crepe che si stanno aprendo, destinate a diventare voragini.
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Linee di sangue: dominano da 2000 anni, sempre loro
Finì nelle mani dell’“odinico” Ataulfo, cognato di Alarico e sposato con una donna di origine giudaica, il tesoro che il romanizzato capo dei Visigoti aveva sottratto ai forzieri di Roma? E in quell’immane bottino (tonnellate di oro di argento, ufficialmente sparite nel nulla) c’era anche il tesoro del Tempio di Gerusalemme, che l’ebreo Giuseppe Flavio aveva ceduto a Vespasiano? E in cambio di cosa? Di un ruolo di leadership nell’impero che, più tardi, sarebbe diventato cristiano per volere di Costantino e di Teodosio, a loro volta imparentati con le “famiglie farisee” che avevano fondato a tavolino la nuova religione basata sul peccato originale, quindi sul senso di colpa, a scopo di sottomissione. Quello che pochi raccontano – rivela Nicola Bizzi – è la comune origine delle dinastie reali europee: normanni e scandinavi, inglesi e russi, casati come gli Asburgo e i Lorena, e prima ancora Merovingi e Carolingi. «Hanno retto il potere per secoli, vantando la loro discendenza (vera o presunta) con la famiglia di Cristo. E questi signori sono al timone ancora oggi».«Cosa lega tanti personaggi che tuttora reggono le redini del pianeta? Sono poche famiglie, sempre le stesse, da secoli. Sono unite da legami di sangue, ed esercitano il potere sostenendo di discendere direttamente da Gesù Cristo, o comunque dalla stirpe davidica. Ne emerge una realtà insospettabile, imbarazzante. Ne hanno trattato autori come Diego Marin e Riccardo Tristano Tuis, cogliendo alcuni aspetti essenziali. E ne ha parlato anche Paolo Rumor nel libro “L’altra Europa”, scritto con Giorgio Galli e Loris Bagnara. Secondo un dossier rimasto segreto per decenni, un’unica entità di potere – la Struttura – reggerebbe il mondo da qualcosa come 12.000 anni, attraverso imperi, Stati e religioni. La data non è casuale: corrisponde alle recenti acquisizioni della geofisica, secondo cui la Terra sarebbe stata sconvolta da una “pioggia cometaria” attorno al 10800 avanti Cristo; la seconda ondata, nel 9600, avrebbe provocato immani cataclismi e l’innalzamento degli oceani di 150 metri, fino a ridisegnare la geografia terrestre.L’importanza delle civiltà preesistenti viene regolarmente omessa, nella storiografia ufficiale, ormai messa in crisi da scoperte archeologiche come quella di Göbekli Tepe, in Turchia: un enorme complesso cerimoniale, prediliviano, interrato in prossimità della catastrofe, il Grande Diluvio. E’ lecito supporre che fu proprio l’immane calamità a spingere i pochissimi sopravvissuti a riunirsi: e i primi a farlo devono esser stati i Re-Sacerdoti, depositari della vera conoscenza, ereditata dal sistema precedente. Da loro sono convinto che derivi il ruolo delle fratellanze esoteriche, comprese quelle giunte fino ai giorni nostri, tutte riconducibili alle antiche confraternite prediluviane. Un sapere da mettere in cassaforte, all’ombra del potere che poi sarebbe stato esercitato da certe grandi famiglie? Sempre le medesime, peraltro: e tutte convinte delle loro origini giudaiche (vere o presunte). Ma quelle famiglie sono sempre state segretamente contrastate, lungo i millenni, da altre famiglie, a loro volta provenienti da un’ascendenza altrettanto antica: per esempio quella eleusina, cioè titanico-atlantidea.Si tratta di famiglie rivali, rispetto a quelle al potere. Famiglie di cui nessuno parla mai. Sono convinte di discendere dalle 8 tribù sacerdotali di Eleusi, che la tradizione descrive come investite direttamente dalla dea Demetra, di origine titanica, comparsa a Eleusi (alle porte di Atene) nel 1216 avanti Cristo. Da lì sarebbero nate le origini di molte nobili famiglie dell’aristocrazia europea, che hanno conteso il potere (e continuano a farlo tutt’oggi) alle linee di sangue dominanti. Intendiamoci: non si capisce una cosa se non si conosce l’altra, visto che si tratta di due aspetti complementari. Certo, gli antagonisti vengono regolarmente oscurati: perché considerati molto scomodi. Ma, tralasciando per il momento Eleusi e quindi la filiera antagonista, rispetto alle famiglie al potere negli ultimi due millenni, è proprio di quelle che parla Diego Marin in libri come “Il segreto degli illuminati” e “Il sangue degli illuminati”. Sintetizzando molto, il ricercatore cita le famiglie Odiniche, Olvunghe, Pseudo-Despósine, Farisaiche, Machiriche e Chionite. In altre parole: tutti i regnanti europei saliti al trono dalla fine dell’Impero Romano a oggi, più le famiglie di potere collaterali che hanno nominato Papi e cardinali, tenendo le redini economico-politiche di tutte le nazioni europee.Le Famiglie Farisaiche, in particolare, sarebbero originarie dell’area siro-palestinese (Giudea, Galilea): un ceppo arrivò a Roma al tempo delle guerre giudaiche, sotto Nerone. Le Famiglie Odiniche – in parte, secondo una loro diramazione – sarebbero riconducibili al sacerdozio del dio nordico Odino; una linea parallela le collegherebbe anche al Vicino Oriente: sta lì, infatti, la chiave di comprensione della maggior parte del problema. Erano “odinici” i Visigoti, e anche gli anglosassoni (di cui non c’è bisogno di sottolineare l’importanza). In maniera un po’ mitologica, gli alberi genealogici “odinici” vengono fatti convergere su un certo Rohes, che alcuni testi identificano come un Re-Sacerdote di Odino che sarebbe vissuto in Danimarca nel IV secolo dopo Cristo. All’epoca l’Impero Romano era in crisi terminale, tra le feroci persecuzioni che i cristiani infliggevano ai seguaci degli altri culti. Rohes era il padre di Cattarico, a sua volta padre del condottiero Marcomero.Attenzione al ramo femminile: la compagna di Marcomero sarebbe stata Frothmund, figlia di Fridholin. E soprattutto: Frothmund sarebbe stata discendente di quel pesonaggio passato alla storia come Giacomo il Giusto, fratello di Gesù Cristo. Vero o no? Questo è relativo: perché, proprio fregiandosi di questa genealogia (vera o presunta), queste famiglie – poi convertitesi formalmente al cristianesimo – hanno esercitato il loro dominio. Della storicità di Cristo parlano alcune pagine di Giuseppe Flavio, ma probabilmente sono interpolazioni, semplici aggiunte operate da monaci cristiani nel V-VI secolo per tentare di dimostrare la consistenza storica di una figura che, se è esistita, era probabilmente molto diversa da come è poi stata presentata dalla religione costruita a tavolino da personaggi come San Paolo, Giuseppe Flavio e il filosofo Seneca. Quello che conta è che quelle famiglie dominanti hanno costruito il loro potere sulla presunta discendenza dalla famiglia del Cristo o dalla Stirpe di Davide.C’è poi un altro ramo: Diego Marin le chiama Famiglie Olvunghe (a cui avrebbe appartenuto, per esempio, Guglielmo il Conquistatore). Sarebbero una diramazione delle Famiglie Odiniche, fiorita quando si proclamò Re dei Visigoti il celebre Ataulfo (letteralmente “Nobile Lupo”: proveniva da un clan totemico). Ataulfo originario delle steppe degli Unni. Era cognato di quel criminale di Alarico, autore del sacco di Roma e dalla distruzione di Eleusi. Proprio in Alarico sta la chiave del potere di certe famiglie, assimilate agli Olvunghi di Ataulfo. Di nuovo, attenzione al ramo femminile: la moglie di Ataulfo, Maria degli Elkasaiti, vantava una discendenza diretta dalla casa reale di David (Giudea). Secondo l’umanista Giusto Giuseppe Scaligero (visstito nel 5-600), gli Elkasaiti non sarebbero altro che i discendenti diretti di Cristo e della Maddalena.Su questo mito della discendenza di Cristo e della Maddalena (non vedo come altrimenti classificarlo) si è fondata buona parte della storia medievale europea. Da lì nacquero importantissimi ordini religiosi. In parte vi affondava anche l’ideologia dei Catari. Su quel mito nacquero gli stessi Templari. E nasce il cristianesimo “giovannita”, a lungo contrapposto al cristianesimo “paolino” (romano, vaticano). Sempre su questo mito sono state combattute le peggiori guerre, sia visibili – fra eserciti – sia sotterranee, clandestine, fra ordini iniziatici, che non hanno certo fatto meno vittime delle prime. Ora, gli Elkasaiti vengono chiamati anche Despósini: a farlo è lo stesso storico Sesto Giulio Africano. Per intenderci: sono i personaggi della storia narrataci da Dan Brown nei suoi romanzi.Cristo e la Maddalena? Lo sbarco in Provenza è solo leggendario, senza nessuna prova a supporto. Ma il mito interseca anche la figura della dea Iside: le tante Madonne nere presenti in Francia sono riconducibili a un antico culto isiaco, anche se ufficialmente vengono ricondotte alla Maddalena. Maria di Magdala, peraltro, doveva essere una sacerdotessa di alto rango, appartenente a una nobile famiglia, forse di sangue addirittura regale. In ogni caso, per secoli, in Europa il potere politico, militare ed economico è stato fondato proprio sulla presunta discendenza dalla linea di sangue del Cristo, che sarebbe sbarcata in Europa attraverso il sud della Francia. Nella realtà, invece, il cristianesimo divenne addirittura obbligatorio nel 380, con l’Editto di Tessalonica firmato da Teodosio: la più grande aberrazione giudirica che la storia ricordi, visto che l’85% della popolazione non era cristiana e, da un giorno all’altro, di vide privare di ogni diritto civile, se non si fosse forzatamentre convertita.Teodosio – ancora oggi incredibilmente celebrato come “il Grande” – fece uccidere decine di migliaia di persone. Il suo editto fu emanato proprio a Salonicco (Tessalonica), città che non lo amava affatto. L’imperatore offrì alla popolazione giochi circensi, poi fece circondare l’area dai soldati e fece e sterminare tutti gli spettatori. L’altro spietato devastatore dell’epoca, Alarico, era in combutta coi vescovi e al soldo di Teodosio. Compì il famoso sacco di Roma: dai forzieri dell’impero fece sparire tonnellate d’oro e centinaia di tonnellate d’argento (incluso probabilmente il tesoro del Tempio di Gerusalemme, quello che era stato sottratto da Vespasiano). Secondo la leggenda Alarico poi puntò verso il Nordafrica, ma in Calabria (nei pressi di Cosenza) fu colpito da febbri, forse malariche, e morì. Ufficialmente, quell’immenso tesoro non è mai più stato trovato. Ebbene: proprio questa storia poi si interseca con quella dei Templari. O meglio: con la storia di alcuni monaci calabresi (di un monastero nei pressi della presunta sepoltura di Alarico) che sarebbero stati all’origine della vera fondazione dei Templari.Le tracce di quelle strane presenze (i Visigoti e le donne di origine palestinese) non si esaurisce certo in Calabria, e neppure con la moglie di Ataulfo, di nascita giudaica. Nel VI secolo, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, l’ascendenza davidica viene utilizzata – sempre per legittimare il potere dalla principessa danese Burghilde e dal sovrano burgundo Sigismondo, trisnipote di Ataulfo. Da quel matrimonio scaturisce una geneaologia sbalorditiva, nell’arco di appena 5 secoli, che include tutte le famiglie reali dei maggiori paesi europei: Danimarca, Norvegia, Svezia, Russia, Inghilterra, Normandia e Italia meridionale. Tutte famiglie di origine normanna, che si glorificano della diretta discendenza da questa stirpe, la quale – a sua volta – si fregiava di una sua ipotetica discendenza dalla presunta linea di sangue del Cristo.I Normanni regnarono su Sicilia, Campania e Calabria. In Scandinavia le dinastie reali sono ancora lì: sempre gli stessi. In Russia il potere della famiglia imperiale è stato interrotto dalla Rivoluzione d’Ottobre, ma in realtà prosegue sotto altre forme, con i suoi eredi. Poi c’è quella che, per secoli, è stata la stirpe regnante sul trono inglese. E oltre alle Famiglie Olvunghe (o Despósine), emerge un sottogruppo altrettanto importante: le famiglie che vengono definite pseudo-Despósine: cioè i Merovingi, a lungo regnanti in Francia (poi sostituiti dai Carolingi, loro maggiordomi di palazzo), nonché potentati di rango continentale come quelli degli Asburgo e dei Lorena, e i loro rami colletareli, alcuni dei quali divenuti potentissimi nel Rinascimento.Tutte famiglie, quelle, ricondotte alla figura di Meroveo, terzo re dei Franchi (popolo di ceppo germanico), poi inglobati e federati all’ecumene di Roma. I Merovingi avevano sempre vantato la loro discendenza diretta da Cristo, quindi dalla casa reale di Davide: si consideravano della stessa stirpe di sangue. Il capostipite Meroveo aveva sangue romano, perché suo padre era il senatore noto come Quintus Tarus. Ma pare che Quintus Tarus fosse un giudeo: vantava una vera e propria discendenza da Giuda di Gamala, che secondo le Scritture era il prozio del Cristo, nonché fratello di Giacobbe (il padre di Giuseppe il carpentiere, quello che la tradizione indica come il padre putativo di Gesù). Nel 6-7 dopo Cristo, proprio Giuda di Gamala aveva organizzato a più riprese imponenti rivolte anti-romane. Lo stesso Giuseppe non era “falegname”: se è esistito era probabilmente un costruttore, detentore di segrete conoscenze costruttorie, muratorie: e su questa presunta discendenza alcune fratellanze iniziatiche hanno fondato il loro potere.La stessa famiglia di Giuseppe, quindi, a sua volta viene fatta discendere dalla casa reale di Giudea. E tutte le famiglie, anche quelle poi chiamate Olvunghe-Despósine (più le pseudo-Despósine, più quella di Guisa) si sono sempre richiamate, nella loro mitologia familiare, alla Stirpe di David, linea di sangue che riconduce al mitico Re David. E’ vero, tutto questo? Non è vero? Poco importa: quel che conta è che ci credono. E in nome di questa convinzione hanno sempre dominato il mondo allora conosciuto, cioè l’Europa, e continuano tuttora a farlo. Poi ci sono altri ceppi, ad esse intersecati: per esempio le Famiglie Farisaiche. Il loro arrivo in Europa risale a Giuseppe Flavio, nato Josef Ben Matityahu. Era un sacerdote ebraico di altissimo rango, nomché comandante militare nelle guerre giudaiche scatenate da Nerone per tentare di sedare le continue sommosse in Palestina. Nerone si illudeva di risolvere la cosa in pochi anni, coi soldati: invece venne ucciso nell’ambito di congiure relative a quelle guerre, poi vinte da un generale, Tito Flavio Vespasiano, futuro imperatore (appartenente alla Gens Flavia).Alla fine, Vespasiano riuscì a conquistare Gerusalemme, distruggendo il Tempio e portandone il tesoro a Roma. In una delle ultime roccaforti ebraiche resisteva Josef Ben Matityahu (non ancora ribattezzato Giuseppe Flavio), che chiese di conferire a porte chiuse con il generale Tito-Vespasiano. Giuseppe Flavio si arrese a Roma e venne inspiegabilmente adottato dalla Gens Flavia: venne adottato da Vespasiano come un figlio. In cambio di cosa? Di un enorme quantitativo di oro, probabolmente una parte del tesoro di Gerusalemme (messa in salvo da alcuni sacerdoti prima dell’irruzione dei romani). A Vespasiano, l’oro interessava per comprarsi l’elezione a imperatore: si trattava di ottenere non solo i favori delle legioni, ma anche quello del Senato, che avrebbe legittimato il suo avvento al soglio imperiale. Così, insieme a Giuseppe Flavio arrivarono a Roma altre famiglie sacerdotali, sempre provenienti dalla Giudea.Questi leader ebraici facevano parte dell’accordo: non solo si garantirono la salvezza (dal carcere, dalla crocifissione), ma si guadagnarono anche la fiducia della casa imperiale, l’adozione da parte del casato dei Flavii e la concessione di grandi ricchezze (ville, enormi poderi). Ebbero anche una discendenza: assunsero nomi romani, da cui poi discesero personaggi come Costantino e Teodosio. Si erano fatti adottare con una precisa missione politica: mettere le mani sull’Impero Romano. E lo hanno fatto. Come? Creando a tavolino la nuova religione. Lo fecero con la complicità di una rete molto estesa, che poi si riconduce alla Struttura citata da Paolo Rumor. Diego Marin riporta per esteso la lista completa dei documenti di Rumor. E dimostra che il personaggio che i testi storici identificano come il padre di Paolo di Tarso è indicato come appartenente alla Struttura.Cittadino romano di religione ebraica, proveniente da Tarsus in Cilicia (Anatolia), poi convertitosi ufficialmente al cristianesimo, Paolo creò quello che poi divenne il cristianesimo politico. Era molto diverso dal cristianesimo delle origini, giovannita, che si riconduce al Catari, ai Templari, a quelle linee di sangue. Ebbene, le Famiglie Farisaiche svilupparono proprio il cristianesimo “paolino”. Si badi: Paolo agiva in sintonia con Giuseppe Flavio. Quando Paolo (vero nome, Saulo) venne arrestato dai romani, chiese di essere processato a Roma: gli spettava di diritto, essendo cittadino imperiale. Così, chiese udienza all’imperatore. Giuseppe Flavio (che era già stato adottato, ma in quel momento si trovava in Palestina) tornò immediatamente a Roma per perorare la causa dell’amico Paolo di Tarso. E ruscì a farlo liberare, prosciolto da ogni accusa.Paolo era anche in combutta con il filosofo Seneca: tra i due esiste un carteggio, che incredibilmente gli storici considerano apocrifo. Dimostra come Seneca e Paolo fossero in piena sintonia, da anni, per pianificare una religione finalizzata al dominio delle masse, quindi fondata sul peccato originale (dunque sull’asservimento, sul senso di colpa). Di fatto, la nuova religione ha decretato la fine dell’Impero Romano d’Occidente e il controllo, per un altro millennio, del Medio Oriente. E’ il vettore che ha portato all’affermazione diretta delle linee di sangue che discendono dai Flavii. Gli stessi Carolingi, regnanti dopo la morte di Dagoberto II, ultimo dei Merovingi, vengono ricondotti alle Famiglie Farisaiche, discendenti di quel ramo della Gens Flavia originato da Giuseppe Flavio. Infine, si segnalano le Famiglie Machiriche e Chionite, da cui discendono direttamente i Rockefeller e i Rothschild. In sostanza: tutto il potere al comando in Europa, dall’Impero Romano fino ad oggi, è basato su un esiguo ceppo di famiglie che hanno sempre vantato una discendenza diretta dalla ipotetica linea di sangue del Cristo o comunque dalla stirpe reale di Davide.(Nicola Bizzi, estratti dalla trasmissione “Il Sentiero di Atlantide”, dal 5 settembre 2021 disponibile sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti).Finì nelle mani dell’“odinico” Ataulfo, cognato di Alarico e sposato con una donna di origine giudaica, il tesoro che il romanizzato capo dei Visigoti aveva sottratto ai forzieri di Roma? E in quell’immane bottino (tonnellate di oro di argento, ufficialmente sparite nel nulla) c’era anche il tesoro del Tempio di Gerusalemme, che l’ebreo Giuseppe Flavio aveva ceduto a Vespasiano? E in cambio di cosa? Di un ruolo di leadership nell’impero che, più tardi, sarebbe diventato cristiano per volere di Costantino e di Teodosio, a loro volta imparentati con le “famiglie farisee” che avevano fondato a tavolino la nuova religione basata sul peccato originale, quindi sul senso di colpa, a scopo di sottomissione. Quello che pochi raccontano – rivela Nicola Bizzi – è la comune origine delle dinastie reali europee: normanni e scandinavi, inglesi e russi, casati come gli Asburgo e i Lorena, e prima ancora Merovingi e Carolingi. «Hanno retto il potere per secoli, vantando la loro discendenza (vera o presunta) con la famiglia di Cristo. E questi signori sono al timone ancora oggi».
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La Francia: virus “sfuggito” a Wuhan. Ma i media tacciono
Cina e Oms tornano a collaborare, almeno sulla carta, per capire le origini del Covid-19. Una collaborazione che doveva partire già lo scorso maggio, ma il governo cinese si oppose perché temeva una «estrema politicizzazione» e «indagini fondate sulla presunzione di colpevolezza». La Cina aveva paura di essere incolpata: «Una responsabilità che ormai tutti denunciano, anche enti del tutto non politicizzati e assolutamente non complottisti», spiega il sociologo Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Cesnur, intervistato da Paolo Vites per il “Sussidiario”. A puntare il dito su Wuhan è il Centro nazionale delle ricerche scientifiche francese, «considerato dagli stessi cinesi il secondo più autorevole al mondo». Secondo il Cnrs, il coronavirus sarebbe stato creato in laboratorio per studi sul salto genetico, producendo virus alterati: qualcosa di legittimo, fatto anche dai francesi stessi, ma sfuggito per le scarse capacità di sicurezza dei cinesi. «Qualcosa che la Cina non ammetterà mai, visto che la notizia non è stata riportata praticamente da nessuno», dice Introvigne, sottolineando la denuncia francese: «Non dicono che il virus sia stato portato fuori appositamente, ma che un incidente è possibile in un laboratorio che produce virus alterati per studiarne il salto».I francesi chiedono una moratoria su questi esperimenti, e hanno smesso di collaborare con Wuhan proprio perché non ci sarebbero le necessarie condizioni di sicurezza. «Questo rapporto sarebbe stato una bomba mediatica, ma – come si dice – è finito in cavalleria», accusa Introvigne: «Senza la collaborazione cinese ci saranno molte illazioni, ma poche parole». Si sa da tempo – osserva Vites – che l’Oms è gravemente compromessa con la Cina, che annovera molti suoi uomini all’interno della struttura. Che senso ha questo nuovo annuncio di collaborazione? «Potranno portare avanti la nuova favola complottista che li discolpa, come avevano già fatto con il salmone norvegese importato in Cina». A cosa si attaccano adesso? «Hanno ideato una nuova favola, appunto, portata avanti con molta più convinzione, tanto che ne hanno parlato in una conferenza stampa il viceministro degli esteri e tutti i quotidiani del partito comunista: il Covid sarebbe giunto in Cina tramite cibo congelato proveniente da non si sa quale paese occidentale». La cosa interessante, aggiunge Introvigne, è che ricercatori dell’Ue “specializzati in fake news” hanno identificato “Sputnik”, rete televisiva russa, come il soggetto che lanciato la notizia, subito ripresa dai cinesi.«La cosa più grave è che un funzionario dell’Oms ha rilasciato interviste in Cina dicendo che è una storia credibile e che indagheranno su di essa», sottolinea Introvigne. Russi e cinesi starebbero lavorando insieme per produrre false informazioni sul virus? «Esatto. C’è stato recentemente un incontro tra ministri della propaganda russo e cinese in cui è stata messa a punto questa strategia». Nel frattempo, si domanda Paolo Vites, l’Oms continua quindi a recitare una sorta di commedia? «Molte attenzioni sono da tempo concentrate sul segretario etiope Ghebreyesus, amico della Cina». Ma prima di lui, aggiunge Introvigne, bisogna ricordare che – per due mandati – l’Oms ha avuto una segretaria generale cinese: «Molti dei funzionari sono persone assunte durante quel periodo». Dopo quei due mandati, «la Cina ha poi manovrato perché ci fosse comunque un amico, come l’attuale segretario». Sempre secondo Introvigne, se gli Usa saranno guidati da Joe Biden faranno bene, come annunciato, a rientrare nell’Oms, proprio per condizionarla e “correggerla” dall’interno. Quanto all’Italia, le cose si complicano: a quanto pare, la Penisola è sempre più al centro delle mire cinesi.Una relazione approvata dal Copasir – ricorda Vites – sostiene che, da quando è cominciata la pandemia, la penetrazione commerciale e finanziaria cinese in Italia è aumentata moltissimo: e questo grazie al Movimento 5 Stelle, da sempre filo-cinese. «È un problema molto grave – conferma Introvigne – ma va al di là dei Cinquestelle». Attraverso il Cesnur, Introvigne si occupa anche di rifugiati cinesi che chiedono asilo politico in Italia, e su questo tema «ci sono sentenze eccellenti». Di recente, però, sarebbe stata emessa «una sentenza palesemente costruita», in favore del governo di Pechino. Sempre secondo Introvigne, l’episodio «dimostra che sull’Italia c’è uno sforzo capillare, da parte della Cina: su giornali di seconda fila, si leggono spesso articoli che sembrano veline dell’ambasciata cinese». E i 5 Stelle? «Sono stati richiamati all’ordine e Di Maio un po’ si è moderato, ma esiste un capillare lavoro cinese nel mandare veline ai giornali».Cina e Oms tornano a collaborare, almeno sulla carta, per capire le origini del Covid-19. Una collaborazione che doveva partire già lo scorso maggio, ma il governo cinese si oppose perché temeva una «estrema politicizzazione» e «indagini fondate sulla presunzione di colpevolezza». La Cina aveva paura di essere incolpata: «Una responsabilità che ormai tutti denunciano, anche enti del tutto non politicizzati e assolutamente non complottisti», spiega il sociologo Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Cesnur, intervistato da Paolo Vites per il “Sussidiario“. A puntare il dito su Wuhan è il Centro nazionale delle ricerche scientifiche francese, «considerato dagli stessi cinesi il secondo più autorevole al mondo». Secondo il Cnrs, il coronavirus sarebbe stato creato in laboratorio per studi sul salto genetico, producendo virus alterati: qualcosa di legittimo, fatto anche dai francesi stessi, ma sfuggito per le scarse capacità di sicurezza dei cinesi. «Qualcosa che la Cina non ammetterà mai, visto che la notizia non è stata riportata praticamente da nessuno», dice Introvigne, sottolineando la denuncia francese: «Non dicono che il virus sia stato portato fuori appositamente, ma che un incidente è possibile in un laboratorio che produce virus alterati per studiarne il salto».
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Usa, brogli informatici: milioni di voti taroccati da Dominion
«Le evidenze stanno arrivando così velocemente che non riesco neanche a processarle: non posso rivelarvi cosa so, ma non farei mai affermazioni che non posso provare». Lo afferma l’avvocato Sidney Powell il 15 novembre: la donna fa parte dello staff legale di Trump, che sta analizzando i volumi (impensabili: 3,8 milioni di voti) della frode elettorale che sarebbe stata commessa per via elettronica. «Trump ha vinto con milioni di voti in più rispetto a Biden», dice l’avvocatessa, in una dichiarazione ripresa da “Fox News” e rimbalzata su Facebook. Parla dei voti che «sono stato spostati a Biden grazie al software Dominion, che era stato concepito esattamente per quello scopo». Aggiunge Powell: «Abbiamo prove che risalgono anche al 2016, che ci stanno arrivando come fossero sparate con un idrante. Ho un sacco di prove per dimostrarvi questo, ma non posso dirle sulla Tv nazionale. Vi dico solo che potevano prendere tutti i voti di Trump e, con quel software buttarli, essenzialmente nel cestino». Precisa la donna: «Abbiamo identificato matematicamente l’algoritmo esatto per modificare i voti. Più “backdoor”, “patch usb”, monitoraggio di Internet e anche tangenti ai funzionari corrotti per l’adozione del software Dominion. Tutto comincia a sembrare un “Major Cyber Attack” contro gli Stati Uniti».
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“Science”: liberi di tornare a scuola, più benefici che rischi
E se la chiusura delle scuole facesse più male che bene? Se lo chiedono pediatri ed educatori del Regno Unito che, in una lettera aperta firmata da più di 1.500 membri del Royal College of Paediatrics and Child Health, scrivono: «Continuare a tenere chiuse le scuole lascerebbe segni indelebili a un’intera generazione». Certo c’è l’educazione virtuale, ma è ben lontana da quella vera – dicono – e costringe molti genitori a lasciare il lavoro per prendersi cura dei bambini. Così in 20 paesi le scuole le hanno riaperte ai primi di giugno: altri, invece (Taiwan, Nicaragua e Svezia) non le hanno chiuse mai: bambini liberi di giocare, con le mascherine o senza. “Science” ha voluto vederci chiaro, studiando le riaperture di Sudafrica, Finlandia e Israele. «È venuto fuori che i bambini più piccoli raramente contraggono l’infezione e si contagiano l’un l’altro, ed è ancora più raro che si portino il virus a casa al punto da infettare i familiari», scrive Giuseppe Remuzzi sul “Corriere della Sera“. Assicura Otto Helve, infettivologo e pediatra finlandese: «Tutti quelli che hanno riaperto hanno potuto constatare che i benefici sono molto maggiori dei rischi».
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Gli Usa fuori dall’Oms: Trump sfida la mafia del coronavirus
Se qualcuno non l’avesse ancora capito, siamo in guerra: lo chiarisce nel modo più drastico Donald Trump, che ha ritirato formalmente gli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In primavera, il gelo era sceso con il primo annuncio statunitense: stop alla contribuzione annuale da parte degli Usa, mezzo miliardo di dollari nel 2019. Poi le critiche sempre più accese alla gestione dell’organismo Onu, accusato di colpevole negligenza durante lo scoppio dell’epidemia di coronavirus in Cina. Infine, il 6 luglio, la decisione ufficiale comunicata al Congresso e alle Nazioni Unite: gli Usa sono ufficialmente fuori dall’Oms. La mossa di Donald Trump accende inevitabilmente i riflettori su quelli che ora sono i primi finanziatori dell’organizzazione: la Cina, poco trasparente al momento dell’esplosione pandemica, e un privato come il miliardario Bill Gates, patron della Microsoft e oggi trasformatosi nel maggior propagandista mondiale dell’obbligo vaccinale. Il figlio di Bob Kennedy, l’avvocato Robert Kennedy Jr., gli rivolge accuse terribili: Bill Gates foraggia l’Oms ma in cambio intasca molto più denaro, grazie ai vaccini che fanno capo alla sua holding, prescritti in vari paesi dai programmi vaccinali raccomandati dalla stessa Oms (recentemente esplusa dall’India con l’accusa di aver rovinato quasi mezzo milione di bambini, attraverso vaccini pericolosi per la salute).Ombre cinesi si allungano da tempo sullo stesso direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, che deve a Pechino buona parte della sua carriera politica in un paese come l’Etiopia, strategica porta d’ingresso della Cina verso il continente africano. «Nel mese di maggio – ricorda il “Giornale” – l’Oms era stata accusata dalla stampa Usa e da testate come il “Wall Street Journal” di essere asservita all’influenza di Pechino, che fece sentire il proprio peso geopolitico nell’elezione dello stesso Ghebreyesus nel maggio 2017». Secondo il “Financial Times”, l’Oms è «un’istituzione compromessa», proprio perché «manca di indipendenza dai suoi paesi membri, e “non solo dalla Cina». Le sfide per la salute globale, infatti, «richiedono che l’Oms superi tali interessi parrocchiali», perché «un’istituzione internazionale indipendente e obiettiva» può servire al meglio «anche gli interessi nazionali». Il problema non sono solo i ritardi e la malagestione del Covid-19 ma anche, per esempio, nel 2009, la sua gestione “opaca” dell’epidemia di H1N1, comunemente nota come influenza suina. Il vero problema è che, attualmente, l’80% del bilancio dell’Oms proviene da contributi volontari.Come lo stesso Trump ha più volte sottolineato nelle scorse settimane, l’organizzazione ha sbagliato «ripetutamente» difendendo Pechino dalle accuse di scarsa trasparenza all’inizio della diffusione del Covid. «Quegli errori reiterati – sottolinea Trump – sono stati estremamente gravosi per il mondo». Secondo il presidente Usa, «molte vite avrebbero potuto essere salvate» se l’attuale direttore «avesse seguito l’esempio» di uno dei suoi predecessori alla guida dell’Oms, la norvegese Harlem Brundtland, che nel 2003 riuscì a bloccare la diffusione della Sars. Quello che Trump non può dire apertamente, ma che invece da più parti si sospetta, è che l’attuale gestione dell’Oms – di concerto con la Cina – abbia deliberamente lasciato esplodere il problema Covid, per paralizzare l’Occidente e mettere Trump in difficoltà alla vigilia delle presidenziali americane. Una sorta di rappresaglia, dopo la decisione di Trump di frenare l’egemonia economica cinese, imponendo dazi sulle esportazioni di Pechino. Quello che l’Italia ha già pagato, sulla sua pelle, è intanto l’imposizione del “modello Wuhan” raccomandato proprio dall’Oms: un blocco severissimo ma tardivo, che ha provocato un vero e proprio disastro economico. Ad aggravare la situazione, la decisione italiana di attenersi alle erronee disposizioni – sempre dell’Oms – per contenere il contagio e curare i pazienti.Ora gli italiani fanno i conti con il lockdown “cinese” consigliato dall’Oms: il 50% della popolazione, secondo Bankitalia, è alle prese con difficoltà economiche. Nel frattempo, medici e magistrati denunciano il governo per aver ignorato cure salva-vita, insistendo nell’imporre terapie addirittura deleterie, come l’ossigenazione forzata: quelle, e non il virus, avrebbero provocato migliaia di vittime. Sullo sfondo, si delinea uno scontro geopolitico paragonabile a una nuova guerra fredda. La sfida di Trump ha per bersaglio un’organizzazione, l’Oms, che è stata usata come “arma letale” dall’oligarchia internazionale, anche occidentale e statunitense, che ha permesso alla Cina di realizzare il suo boom economico (con regole truccate) per far trionfare un modello da esportare poi in un Occidente non più democratico. In altre parole: colpendo l’Oms, Trump si scaglia contro il potere apolide, neoliberista, che ha permesso alla Cina di fare concorrenza sleale ai lavoratori e alle imprese occidentali, con prodotti a basso costo grazie a condizioni di lavoro prive di tutele, in un sistema senza democrazia e senza leggi a salvaguardia dell’ambiente. Ecco perché oggi Trump si sfila dall’Oms “cinese”, che probabilmente ha manipolato la stessa pandemia, trasformando il coronavirus in un’arma contro la libertà e la democrazia.Se qualcuno non l’avesse ancora capito, siamo in guerra: lo chiarisce nel modo più drastico Donald Trump, che ha ritirato formalmente gli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In primavera, il gelo era sceso con il primo annuncio statunitense: stop alla contribuzione annuale da parte degli Usa, mezzo miliardo di dollari nel 2019. Poi le critiche sempre più accese alla gestione dell’organismo Onu, accusato di colpevole negligenza durante lo scoppio dell’epidemia di coronavirus in Cina. Infine, il 6 luglio, la decisione ufficiale comunicata al Congresso e alle Nazioni Unite: gli Usa sono ufficialmente fuori dall’Oms. La mossa di Donald Trump accende inevitabilmente i riflettori su quelli che ora sono i primi finanziatori dell’organizzazione: la Cina, poco trasparente al momento dell’esplosione pandemica, e un privato come il miliardario Bill Gates, patron della Microsoft e oggi trasformatosi nel maggior propagandista mondiale dell’obbligo vaccinale. Il figlio di Bob Kennedy, l’avvocato Robert Kennedy Jr., gli rivolge accuse terribili: Bill Gates foraggia l’Oms ma in cambio intasca molto più denaro, grazie ai vaccini che fanno capo alla sua holding, prescritti in vari paesi dai programmi vaccinali raccomandati dalla stessa Oms (recentemente espulsa dall’India con l’accusa di aver rovinato quasi mezzo milione di bambini, attraverso vaccini pericolosi per la salute).
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Bifarini: senza soldi, Italia in trappola. Disastro inevitabile
Al netto della propaganda e dei toni enfatici con cui è stato annunciato da politici e media, il Recovery Fund al momento non rappresenta nulla di compiuto. Le trattative sono ancora in corso e c’è una forte resistenza da parte dei cosiddetti paesi frugali a che vengano concessi finanziamenti a “fondo perduto” a quegli Stati, come il nostro, che hanno risentito più di altri dei danni economici legati al coronavirus. Di fatto poi si è parlato di un ammontare di 173 miliardi destinati all’Italia, ma in realtà oltre la metà (92 miliardi) sarebbero prestiti da restituire. Per i restanti 81 si tratta di fondi legati al bilancio europeo e, considerato il contributo dell’Italia, al netto si tratterebbe di una cifra tra i 20 e i 30 miliardi. Inoltre, sempre che l’accordo venga raggiunto, saranno disponibili dal prossimo anno, mentre la nostra economia ha un bisogno urgente di liquidità, e la loro erogazione verrà scaglionata in un piano pluriennale. Insomma, l’entusiasmo dei media va molto ridimensionato. Recentemente ho paragonato gli Stati Generali a quanto avvenne nel 1992 sul panfilo Britannia. Stiamo per svendere altri pezzi del nostro paese? Gli Stati Generali sono un consesso a porte chiuse e senza telecamere, contravvenendo a ogni principio di trasparenza e democrazia, intesa come coinvolgimento dell’elettorato.È piuttosto incoerente che, nel perdurare dell’allarme pandemico e dell’esortazione alla popolazione a mantenere il distanziamento sociale, politici, industriali e altri rappresentati sociali si trovino in un tavolo gomito a gomito. Ma, al di là delle modalità, la loro ragione d’essere sarebbe la decisione su come spendere i soldi del Recovery Fund che, come abbiamo detto, sono pochi e non certi. Dunque, per realizzare i tanti obiettivi e progetti presentati con il piano Colao, che parla di investimenti ma non di fondi, non rimane che la strategia di vendita di beni nazionali, come è già successo in passato. D’altronde è il principio dell’austerity, caposaldo dell’Unione Europea e dell’attuale paradigma economico in generale: dove non si arriva aumentando la tassazione (da noi già alle stelle) e tagliando la spesa pubblica, si procede con la privatizzazione e la vendita di asset pubblici. Il Mes? Ammonta a 37 miliardi: nulla, rispetto alle perdite subite dall’economia reale del paese e dal suo tessuto produttivo. Questo fondo potrà essere utilizzato unicamente per spese sanitarie legate al Covid-19, cercando di recuperare quindi i danni fatti dalla scure dell’austerity sul nostro sistema sanitario, vera causa dell’emergenza e del conseguente disastro legato al coronavirus.Come sappiamo, il panico è nato da una carenza di posti in terapia intensiva, diminuiti a seguito dei tagli imposti negli ultimi anni. È il motivo per cui paesi come la Germania, che ha 6 volte il numero delle nostre terapie intensive, ha potuto gestire la situazione con più lucidità e buonsenso. Nel mentre, si è intervenuto – attraverso anche donazioni private – a sopperire almeno parzialmente a tali mancanze. Di fatto, oggi non esiste più tale emergenza, e la minaccia del Covid-19 sembra che stia rientrando definitivamente. Il Mes invece prevede come condizione di supportare la spesa sanitaria per cure e prevenzione relative al Covid-19. Un po’ come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. È possibile quindi che parte dei fondi venga utilizzato per acquistare il vaccino, anche se non è ancora chiaro nel mondo scientifico quanto si rivelerà efficace e necessario. L’Italia si è contraddistinta in questa emergenza sanitaria per aver adottato in modo rigoroso misure coercitive che hanno limitato fortemente i diritti democratici ed economici. Il paese è stato trasformato in uno Stato di polizia, con le forze dell’ordine che davano la caccia al runner untore e offrendo scene davvero grottesche, come inseguimenti in spiaggia e controlli tramite droni.Questo clima di odio e terrore ha danneggiato il tessuto sociale in un momento in cui era necessario mantenere lucidità e ragionevolezza da parte di tutti. I media, attraverso una comunicazione sensazionalistica basata sull’emotività, hanno sovraeccitato gli animi: e anziché placare le paure, le hanno amplificate. È stata messa in scena una sorta di dittatura paternalistica supportata dai virologi, presenti ovunque e a tutte le ore in Tv, dalle cui labbra pendeva una popolazione in preda al panico. Sarebbe stato preferibile adottare un approccio da democrazia matura, capace di informare e responsabilizzare i propri cittadini e non trattarli come infanti. Purtroppo, l’Italia ha avuto la sventura di essere stato il primo paese occidentale a essere colpito dall’epidemia, o almeno a denunciarne i casi. Ciò ha comportato l’adozione del lockdown prima di altri, l’essere stati considerati dall’opinione pubblica internazionale una sorta di lazzeretto e la scelta da parte del governo, colto comprensibilmente dall’impreparazione di fronte a un virus e una situazione inediti, di un comportamento di esemplare rigore.L’economia non poteva che presentare il conto. Finito il lunghissimo lockdown, molte imprese e attività commerciali, che per oltre due mesi non hanno registrato entrate ma solo uscite, non hanno retto il colpo e sono rimaste chiuse per sempre. Quelle che hanno riaperto si ritrovano una clientela ridotta e nessuna prospettiva immediata di tornare alla “normalità”. Il nostro paese, più di altri, ha un tessuto industriale fatto di Pmi, che più di tutte hanno risentito della chiusura forzata, e dipende per il 13% dal turismo, che alimenta un floridissimo indotto. Proprio ieri è stata diffusa la notizia della perdita di 31 milioni di turisti stranieri, con uno scenario per gli anni a venire piuttosto cupo. Si prevede un ritorno agli standard pre-Covid solo nel 2023, sempre che nel mentre non venga annunciata un’altra pandemia o un colpo di coda di quella attuale. Speriamo di no, ma ad ogni modo tornare ai livelli di benessere precedenti sarà davvero difficile: la perdita stimata per il nostro Pil supera il 10% ed è tra le più alte al mondo. Poi rimane la questione del debito pubblico, che presto tornerà centrale. Insomma, previsioni poco rosee. Se ho scaricato l’App Immuni? Me ne guardo bene. D’altronde, sono in molti a sollevare questioni sulla violazione della privacy e sulla reale utilità. La Norvegia ad esempio ha sospeso la propria app di tracciamento.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Pietro Martino per l’intervista “Stati Generali e crisi economica: ecco cosa ci aspetta”, trasmessa da “Oltre Tv” e ripresa sul blog della Bifarini il 22 giugno 2020).Al netto della propaganda e dei toni enfatici con cui è stato annunciato da politici e media, il Recovery Fund al momento non rappresenta nulla di compiuto. Le trattative sono ancora in corso e c’è una forte resistenza da parte dei cosiddetti paesi frugali a che vengano concessi finanziamenti a “fondo perduto” a quegli Stati, come il nostro, che hanno risentito più di altri dei danni economici legati al coronavirus. Di fatto poi si è parlato di un ammontare di 173 miliardi destinati all’Italia, ma in realtà oltre la metà (92 miliardi) sarebbero prestiti da restituire. Per i restanti 81 si tratta di fondi legati al bilancio europeo e, considerato il contributo dell’Italia, al netto si tratterebbe di una cifra tra i 20 e i 30 miliardi. Inoltre, sempre che l’accordo venga raggiunto, saranno disponibili dal prossimo anno, mentre la nostra economia ha un bisogno urgente di liquidità, e la loro erogazione verrà scaglionata in un piano pluriennale. Insomma, l’entusiasmo dei media va molto ridimensionato. Recentemente ho paragonato gli Stati Generali a quanto avvenne nel 1992 sul panfilo Britannia. Stiamo per svendere altri pezzi del nostro paese? Gli Stati Generali sono un consesso a porte chiuse e senza telecamere, contravvenendo a ogni principio di trasparenza e democrazia, intesa come coinvolgimento dell’elettorato.
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Nord Europa: scuole riaperte, e i contagi non aumentano
L’Italia è rimasta chiusa in casa per mesi, con i bambini senza scuola e i genitori alle prese con le videolezioni. Eppure in classe si poteva (e doveva tornare). Anche perché – indovinate un po’ – i paesi europei che hanno riaperto le scuole tra aprile e l’inizio di maggio, come Danimarca, Austria e Germania, non hanno registrato un incremento significativo dei contagi da coronavirus o comunque tale da poter essere ricollegato alla decisione di far tornare gli studenti in classe. E secondo gli esperti interpellati da “Politico.eu”, alla luce dei dati a disposizione c’è un cauto ottimismo che ritornare sui banchi sia relativamente sicuro. Prendiamo per esempio la Danimarca, dove i bambini sono rientrati a scuola già a metà aprile, quando si contavano circa 200 infezioni al giorno. Dati alla mano, la decisione di riaprire le scuole non ha avuto un impatto sull’aumento dei nuovi casi, che all’8 giugno erano 14. Certo, si potrà obiettare che i danesi sono molti di meno degli italiani e che hanno più spazio per il distanziamento sociale e più soldi da investire per le misure di sicurezza, ma qui si sta parlando di quanto la riapertura delle scuole abbia inciso sulla curva dei contagi. Si chiama proporzione, che è valida a prescindere dalla grandezza dei numeri.Ebbene, il responsabile del settore di virologia sperimentale alla facoltà di medicina dell’università di Copenhagen, Allan Randrup Thomsen, pur titubante sulla decisione presa dal governo, riconosce che con la riapertura «non ci sono stati effetti che abbiamo potuto rilevare». Stesso discorso vale per l’Austria. «Ad ogni passo c’è stato un monitoraggio per essere sicuri che il numero delle nuove infezioni non crescesse e che non ci fossero effetti negativi», ha spiegato Eva Schernhammer, dell’università medica di Vienna. I modelli statistici utilizzati per prendere la decisione sulla ripresa delle lezioni, infatti, prevedevano aumenti dei contagi superiori a quelli attualmente osservati per il professore di virologia Soren Riis Paludan della Aarhus University. Risultato: «Aprire le scuole non si è tradotto in alcun aumento dei numeri di trasmissione». In Austria, gli studenti delle superiori sono rientrati in classe all’inizio di maggio, quando i casi giornalieri si attestavano intorno ai 50, a giugno le nuove infezioni si attestano tra due e 66 al giorno. In Norvegia, dove le scuole sono state riaperte il 20 aprile, l’epidemia ha continuato a rallentare nonostante siano stati fatti più test della fase precedente.Dati simili sono stati riscontrati anche in Austria, dove si ritiene anche che i bambini non contraggano il virus così facilmente come gli adulti, ha spiegato sempre la Schernhammer. L’esperta peraltro sottolinea che contemporaneamente sono state allentate anche altre misure del lockdown, a parte la distanza di sicurezza e l’uso della mascherina nei luoghi pubblici. Anche la Germania è stata cauta nella riapertura, graduale e con monitoraggio continuo. Per Ralf Reintjes, professore di epidemiologia all’università di Scienze applicate di Amburgo, «è presto per parlare dell’effetto». Sebbene i numeri attuali sull’epidemia sembrino «abbastanza promettenti» e riconoscendo che l’approccio in Germania non è stato finora «troppo male», l’esperto sostiene però che la pandemia è «più complicata». Spiega che «ci sono molti fattori che la influenzano». Anche se, a quanto pare, tornare a scuola non è uno dei fattori scatenanti di un incremento dei contagi. In Italia però – grazie ai nostri “espertoni” che hanno deciso al posto di Conte e del governo – gli studenti ormai non torneranno a scuola prima di settembre.(Adolfo Spezzaferro, “Indovinate un po’? Tornare a scuola non aumenta i contagi. I dati di Danimarca, Austria e Germania”, da “Il Primato Nazionale” dell’11 giugno 2020).L’Italia è rimasta chiusa in casa per mesi, con i bambini senza scuola e i genitori alle prese con le videolezioni. Eppure in classe si poteva (e doveva tornare). Anche perché – indovinate un po’ – i paesi europei che hanno riaperto le scuole tra aprile e l’inizio di maggio, come Danimarca, Austria e Germania, non hanno registrato un incremento significativo dei contagi da coronavirus o comunque tale da poter essere ricollegato alla decisione di far tornare gli studenti in classe. E secondo gli esperti interpellati da “Politico.eu”, alla luce dei dati a disposizione c’è un cauto ottimismo che ritornare sui banchi sia relativamente sicuro. Prendiamo per esempio la Danimarca, dove i bambini sono rientrati a scuola già a metà aprile, quando si contavano circa 200 infezioni al giorno. Dati alla mano, la decisione di riaprire le scuole non ha avuto un impatto sull’aumento dei nuovi casi, che all’8 giugno erano 14. Certo, si potrà obiettare che i danesi sono molti di meno degli italiani e che hanno più spazio per il distanziamento sociale e più soldi da investire per le misure di sicurezza, ma qui si sta parlando di quanto la riapertura delle scuole abbia inciso sulla curva dei contagi. Si chiama proporzione, che è valida a prescindere dalla grandezza dei numeri.
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Big Pharma ringrazia il coronavirus, “previsto” da Bill Gates
Chi guadagna dalla diffusione della paura da contagio? I colossi farmaceutici privati quotati in Borsa. Per appurarlo basta osservare gli andamenti borsistici. Chi aveva puntato i propri investimenti, per fare un esempio, su trasporti aerei o aziende che fondano la propria attività sul turismo (migliaia i voli cancellati), è indotto a venderle e comprare azioni di istituti che mostrano di impegnarsi nel settore della ricerca di vaccini contro il virus. Le azioni di Vir Biotechnologies, ad esempio, fondata nel 2016, che sviluppa trattamenti per le malattie infettive, dall’inizo del 2020 ha visto il valore delle proprie azioni crescere del 97%, con conseguente impennata della capitalizzazione dell’azienda che è arrivata a ben 3 miliardi di dollari. L’offerta di azioni Vir è guidata da Goldman Sachs, Jp Morgan Chase, Cowen e Barclays. Le azioni sono negoziate su Nasdaq Global Select Market venerdì con il simbolo Vir. Come Vir, Inovio Pharmaceuticals, Moderna e Novavax. Quest’ultima ha registrato un rialzo del 113%. La Coalizione for Epidemic Preparedness Innovations, ente non profit pubblico-privato con sede in Norvegia, ha donato 11 milioni di dollari in finanziamenti alle prime due per incentivarle a sviluppare vaccini contro il coronavirus. Il Pirbright Institute per la prevenzione e il controllo delle malattie virali ha ricevuto cospicui finanziamenti dalla Bill & Melinda Gates Foundation.
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Guerra ai cavi sottomarini: lì c’è il 97% delle informazioni
Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Nulla di più sbagliato: il 95-97% delle informazioni scorre attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%. Fondale oceanico strategico, e non da oggi: nel 1971, gli Usa riuscirono a intercettare le informazioni di un cavo nel Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, tra la Kamchatka (con installazioni militari sovietiche segrete tra cui la base navale di Petropavlovsk) e Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico. Nel 2015, al largo di Cuba, gli Usa rilevarono un’anomala presenza di sottomarini russi attorno alla nave-spia Yantar: obiettivo della Yantar, monitorare i cavi oceanici che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Lo racconta Paolo Mauri, nell’inserto “InsideOver” del “Giornale”. Tema: quei misteriosi cavi sommersi. «La prossima guerra sarà per il fondale degli oceani: il primo colpo sarà inferto ai cavi sottomarini». Invisibili, ma decisivi: «Questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale, supportato da una pioggia di dollari».Nel solo 2017, scrive Mauri, la domanda globale di larghezza di banda dei cablaggi sottomarini è aumentata del 57%. Si è aperto così un mercato – quello della posa di nuovi cavi – in cui le industrie del web si sono gettate a capofitto con miliardi di investimenti. «Storicamente i cavi sono di proprietà di compagnie private, di solito telefoniche, che affittavano l’utilizzo degli stessi a Google, Microsoft e alle altre società di Internet. Ora sono proprio i colossi di Internet a costruire e posare i cablaggi: a partire dal 2016 c’è stato un vero e proprio boom di posa di cavi da parte di Google, Facebook, Amazon e Microsoft». A farla da padrone, aggiunge Mauri, è proprio il motore di ricerca più famoso del mondo: Google ha posato 100.000 chilometri di cavi, seguito da Facebook (91.000), Amazon (30.000) e Microsoft (6.000). «Solo cinque anni fa, queste aziende del web, insieme, arrivavano a malapena al 5% delle quote di mercato nella zona dell’Atlantico del Nord, dove si ha il maggior volume di traffico essendo la via che collega l’Europa all’America. Ma entro 3 o 4 anni, stante gli attuali investimenti, arriveranno al 90%». Le grandi compagnie americane, però, non sono più le sole a gestire la rete dei cablaggi intercontinentali: anche in questo campo sta facendo il suo preponderante ingresso la Cina.Attraverso Huawei, continua “InsideOver”, Pechino sta lavorando per cercare di contrastare il monopolio americano, spesso consorziandosi anche con le stesse aziende Usa. Ma attualmente si trova in difficoltà proprio a causa della politica di Trump: Huawei Submarine Systems era stata messa in lista nera dall’amministrazione Usa prima di aver ceduto la propria attività nel settore ad un altro gruppo, la Hengtong. «Del resto – annota sempre Mauri – i progetti di sviluppo, come gli investimenti, sono enormi: Facebook e Google hanno in costruzione, insieme a China Mobile, il Pacific Light Cable Network che collegherà Los Angeles a Hong Kong, mentre sempre Facebook e Microsoft sono consociate per Marea, il cavo che connetterà gli Stati Uniti all’Europa attraverso due stazioni in Virginia e a Bilbao, in Spagna». Attraverso la sua divisione Marine Network and Co, Huawei ha in cantiere anche il gigantesco progetto Peace, acronimo di Pakistan and East Africa Connecting Europe: «Una rete di cablaggi che collegherà l’Asia all’Europa passando per l’Africa: una manifestazione “informatica” della Nuova Via della Seta fortemente voluta dal presidente Xi Jinping».La politica dei giganti mondiali, sottolinea Mauri, passa attraverso la gestione del traffico dei dati che percorrono i cablaggi sottomarini: stante la mole di dati finanziari, personali e militari che viaggia attraverso questi mezzi, «è impensabile che i governi delle tre grandi potenze mondiali (Usa, Russia e Cina) non abbiano in essere un qualche piano strategico che ne preveda non solo la gestione, ma anche la possibilità di minarli e sabotarli in caso di conflitto». L’attività di sabotaggio, infatti, è molto più semplice e meno dispendiosa rispetto all’attività di spionaggio: «La rete di cavi, sebbene sia posata mediamente a elevata profondità, è comunque vulnerabile grazie alla possibilità di venire raggiunta in modo discreto da un qualsiasi sottomarino o batiscafo, e soprattutto perché la mappatura dei cablaggi è di pubblico dominio». Certo, una singola interruzione potrebbe essere aggirata dall’ampiezza della rete, ormai estesa, «ma un attacco contemporaneo su vasta scala metterebbe in ginocchio la rete di un paese e potrebbe addirittura escluderlo dalla possibilità di contattare tempestivamente i suoi comandi più periferici o quelli dislocati in altri continenti».Secondo Mauri, basterebbe disporre sui cavi dei dispositivi di disturbo, o addirittura delle cariche esplosive azionabili a comando. E se le cariche venissero poste sulla maggior parte dei cavi, o sulla totalità di cavi che, ad esempio, collegano il Nord America all’Europa? Se venissero azionate nello stesso momento, «ci sarebbe il caos immediato dai due lati dell’Atlantico, con le reti aeree e satellitari che, a causa della ridotta larghezza di banda, collasserebbero in poco tempo, provocando probabilmente l’isolamento dei comandi militari e il panico nei mercati finanziari». Allo scopo, non servirebbero chissà quali strumenti fantascientifici: «Le marine militari di Russia, Stati Uniti, e forse anche quella cinese, hanno già in servizio sottomarini particolari che, tra gli altri compiti, hanno anche quello del sabotaggio e dello spionaggio dei cablaggi sottomarini». Nell’Us Navy c’è in servizio il Jimmy Carter, della classe Seawolf, un vascello per operazioni speciali come sorveglianza, intelligence e ricognizione. E’ in grado di gestiore mini-batiscafi a pilotaggio remoto, utilizzabili per missioni rivolte verso i cablaggi oceanici. Idem per la Voenno Morskoj-flot, la Flotta Russa: «Esistono diverse unità in grado di operare ad elevata profondità o comunque in grado di fungere da “nave madre” per batiscafi più piccoli».Uno di questi è passato alla ribalta delle cronache recentemente, ricorda Mauri, a causa di un incidente mortale che ha subito durante una missione effettuata nelle acque del Mare di Barents: si tratta del batiscafo As-12 Losharik, in grado di raggiungere i 6.000 metri di profondità. Inquadrato nella Flotta del Nord, dipende però dal Gru (il servizio informazioni militari russo). «Secondo le fonti ufficiali russe – scrive “InsideOver” – al momento dell’incidente l’unità stava effettuando rilevamenti batimetrici, ma la zona di operazioni era particolarmente vicina a dei cavi sottomarini che dalla Norvegia arrivano alle isole Svalbard, recentemente giunte alla ribalta delle cronache per essere al centro dell’attenzione della Nato in chiave del contenimento della Russia e del controllo di quella importante parte dell’Artico». Secondo Mauri, quindi, appare evidente «come sia diventato fondamentale non solamente il controllo del mercato dei cablaggi, la gestione degli stessi, o anche l’attività di sorveglianza e spionaggio, ma soprattutto l’attività di sabotaggio e distruzione di quelli del nemico: «In caso di conflitto sarebbero tra i primissimi obiettivi di un primo colpo, anche precedente ad un primo attacco nucleare».Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Nulla di più sbagliato: il 95-97% delle informazioni scorre attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%. Fondale oceanico strategico, e non da oggi: nel 1971, gli Usa riuscirono a intercettare le informazioni di un cavo nel Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, tra la Kamchatka (con installazioni militari sovietiche segrete tra cui la base navale di Petropavlovsk) e Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico. Nel 2015, al largo di Cuba, gli Usa rilevarono un’anomala presenza di sottomarini russi attorno alla nave-spia Yantar: obiettivo della Yantar, monitorare i cavi oceanici che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Lo racconta Paolo Mauri, nell’inserto “InsideOver” del “Giornale“. Tema: quei misteriosi cavi sommersi. «La prossima guerra sarà per il fondale degli oceani: il primo colpo sarà inferto ai cavi sottomarini». Invisibili, ma decisivi: «Questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale, supportato da una pioggia di dollari».
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Gli eroi di Stalingrado: vinsero la Seconda Guerra Mondiale
Il 2 febbraio di quest’anno è stato il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.“Al di là del Volga non c’è niente!”, era il grido di battaglia sovietico, e non c’era veramente nulla. Ancora oggi, guardando ad est dall’alto della collina di Mamayev Kurgan, è inquietante vedere che, dall’altra parte del grande Volga, l’incarnazione dell’anima russa, non c’è letteralmente niente. Mamayev Kurgan è un monumento ai caduti come nessun altro sulla Terra, perchè è dominato da una dea irata. La statua più gigantesca, impressionante ed inquietante del mondo, Rodina-Mat, la dea madre della Russia, si eleva per quasi 50 metri senza piedistallo, 6 metri più in alto della Statua della Libertà. Pesa 1.000 tonnellate, oltre 15 volte la Statua della Libertà. Ma questo è il meno. A New York, Lady Liberty è tranquilla e serena, ma Rodina-Mat è dinamica e furiosa. Il suo viso bellissimo e sorprendentemente giovanile trasmette shock, rabbia e una furia da incubo. Il braccio di Rodina-Mat non è rilassato e disteso e non porta una torcia come quello di Lady Liberty. È sollevato e regge una spada lunga più di 20 metri, e la alza così in alto nel cielo che sulla punta hanno dovuto installare una luce di navigazione rossa per allertare gli aerei che volano a bassa quota.Visto da lontano, lo spettacolo è ancora più impressionante, persino terrificante. Perché Rodina-Mat è nel punto più alto delle alture che dominano la città, il luogo dove si era combattuto con più accanimento. La si può vedere da qualunque parte lungo le principali arterie nord-sud che costeggiano il Volga. Sembra sempre in movimento, viva, pronta a calare sugli invasori la sua incredibile spada. È come se Atena o Afrodite fossero uscite dalle pagine dell’Iliade di Omero e, attraverso il tempo, dai campi di battaglia di Troia, o come se un gigantesco dio-astronauta idealizzato da Erich von Daniken fosse nuovamente giunto sulla Terra. Nei 200 giorni della Battaglia di Stalingrado, a Mamayev Kurgan si era combattuto per 130. Oggi è il luogo dove riposano 35.000 soldati sovietici. Gli storici militari occidentali riconoscono che nella battaglia di Stalingrado erano morti 1,1 milioni di soldati sovietici, e questo calcolo non include almeno 100.000 civili (e forse il triplo) massacrati dai bombardamenti aerei indiscriminati della Luftwaffe.Nella prima settimana di incursioni aeree a Stalingrado erano morti il doppio dei civili rispetto ai bombardamenti alleati di Dresda. Quando gli interrogatori sovietici avevano chiesto al maresciallo di campo Friedrich Paulus, il comandante catturato della Sesta Armata, perché avesse autorizzato un massacro così inutile, aveva risposto che stava solo eseguendo gli ordini. Anche le perdite naziste erano state colossali. Secondo le stime russe, 1,5 milioni di soldati tedeschi e dell’Asse avevano perso la vita durante l’intera campagna, più di cinque volte i morti in combattimento degli Stati Uniti durante tutta la guerra, e più del doppio dei morti combinati dell’Unione e dei Confederati nella Guerra Civile Americana. Neanche uno dei resti dei soldati dell’Asse, trovati e identificati, sono sepolti all’interno della città. È terreno sacro per il popolo russo. Solo gli eroici difensori di Stalingrado e della patria, o Rodina, hanno il massimo onore di riposarvi.L’intera Sesta Armata tedesca, 300.000 uomini, all’epoca considerata la forza militare più invincibile della Terra, era stata distrutta a Stalingrado. Solo 90.000 di loro erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri quando Paulus si era arreso. Il quartier generale di Paulus, nel seminterrato dell’Univermag, il grande magazzino nel centro della città, è stato trasformato in museo, uno dei più strani al mondo e in sorprendente contrasto con l’imponenza primordiale, eroica, epica della statua e dei monumenti di Mamayev Kurgan. Nel 2005, quando l’avevo visitato l’ultima volta, Univermag era ancora un grande magazzino, molto simile a quelli che si trovano nel cuore degli Stati Uniti, in luoghi come Sioux City o Iowa City, costruiti negli anni ’20 e che avevano prosperato fino a quando Wal-Mart non li aveva inghiottiti tutti. Si entra nell’Univermag di Volgograd attraverso l’ingresso principale, si passa accanto ai giocattoli per bambini, si gira a sinistra, oltre i pigiami per signora e gli oggetti in vetro e, senza alcun preavviso, si è lì.Il seminterrato è pieno di ricostruzioni dell’ultima resistenza della Sesta Armata. Dietro una porta, i manichini di due soldati tedeschi morenti giacciono in quella che sembra veramente una sala operatoria di emergenza. Dietro un’altra porta, un robotico Paulus continua ad alzarsi dalla sua scrivania per ascoltare da un altro ufficiale le ultime notizie della catastrofe. Dappertutto, il lamento dell’impietoso vento invernale della steppa e lo spietato sibilo delle Katyushe sovietiche, i lanciarazzi “Caterina,” fanno da accompagnamento. Ilya Ehrenburg, il più grande di tutti i corrispondenti di guerra, aveva scritto che i soldati arroccati nei seminterrati e fra le macerie e che resistevano sulle rive del Volga a pochi metri dall’acqua, adoravano quei lanciarazzi. Ed era ancora vero nel 2005: i volti dei veterani ottantenni e superdecorati si erano illuminati di entusiasmo e di gioia fanciullesca quando avevo chiesto loro quale fosse stata la loro arma preferita dell’intera guerra. “Katyusha!” avevano gridato quei meravigliosi vecchietti, saltando su e giù, mentre gli anni sparivano come per magia. “Katyusha!”.Settantacinque anni dopo la resa di Paulus e dopo più di settant’anni dalla sconfitta del Terzo Reich, i ricordi e le cicatrici di quella lotta fanno ancora parte della Russia moderna. Il comunismo è morto. Ma il patriottismo russo no. Ed è per questo che, in questa era di crescenti differenze e alienazione tra la Russia e l’Occidente, lo straordinario eroismo e il sacrificio di tutti quei soldati dell’Armata Rossa e il prezzo terribile che avevano pagato per salvare il mondo devono essere ricordati dai vecchi alleati della Russia. Le emozioni selvagge, feroci ma assolutamente autentiche che appaiono sullo straordinario volto di Rodina-Mat testimoniano gli incredibili sacrifici che si erano consumati sulle rive del Volga per distruggere il male estremo. I leader e i popoli occidentali devono ricordare, ancora una volta, coloro avevano distrutto quel male, il prezzo terribile che avevano pagato e la gratitudine che ancora dobbiamo loro.(Martin Sieff, “Gli eroi di Stalingrado e il debito che abbiamo con loro”, da “Strategic Culture” del 31 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Analista geopolitico e reporter per testate come “Washington Times” e “The Globalist”, Sieff è stato dirigente della United Press International e tre volte candidato al Premio Pulitzer).Il 2 febbraio di quest’anno sarà il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.