Archivio del Tag ‘Olanda’
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Il piano segreto di Stanlio & Ollio per (non) salvare i greci
«Se penso che questo è il governo della sinistra radicale, che dovrebbe dare lezioni di democrazia, di un nuovo rapporto fra masse e potere, non so se ridere o piangere». Così il politologo Aldo Giannuli liquida il fantomatico “Piano-B” di cui ora chiacchiera l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: Tsipras ne era al corrente, anzi l’ha espressamente autorizzato, poi ha revocato l’ok fino alle dimissioni del ministro. Ma in ogni caso la Grecia non si è mai attrezzata per uscire dall’euro. E i greci, pur chiamati al referendum contro l’ultima stretta mortale di austerity pretesa dalla Germania, non sono mai stati informati dell’ipotetico “Piano-B”, al punto da lasciar configurare, oggi, l’accusa di alto tradimento a carico di Varoufakis – risvolto peraltro grottesco, in una situazione di catastrofe sociale come quella ellenica: «Deferire per questo Varoufakis all’Alta corte? Ma se non sono stati processati nemmeno quelli che hanno falsificato i bilanci dello Stato per un decennio! Siamo seri».In una conversazione privata durante una conferenza presso l’Omfif (Official Monetary and Financial Institutions Forum), Varoufakis ha detto che quel piano segreto sarebbe servito nel caso i negoziati fossero falliti, per realizzare una nuova moneta greca. L’ex ministro ha spiegato di essere stato autorizzato da Tsipras sin da prima delle elezioni e di aver «lavorato sotto traccia» con un piccolo team guidato dall’economista statunitense James Galbraith, figlio del celebre John Kenneth Galbraith. Il piano supervisionato da Jamie Galbraith prevedeva di dare un codice bancario e fiscale ad ogni contribuente e società per gestire il passaggio alla nuova valuta; poi, in caso di chiusura delle banche, sarebbe scattato un meccanismo di pagamento-ombra, basato sul sito dell’agenzia delle entrate greco che avrebbe permesso, attraverso un pin fornito a chi doveva del denaro, tanto lo Stato che i privati, di trasferire le somme in “formato digitale”, nominalmente in euro. Poi il sistema sarebbe stato esteso agli smartphone con un’app e al momento opportuno sarebbe stato convertito nella nuova dracma, accennando poi anche alla possibilità di arrestare il governatore della banca centrale greca se si fosse opposto.Era una conversazione privata, puntualizza Giannuli nel suo blog, ma poi lo stesso Varoufakis avrebbe autorizzato la messa in rete della registrazione. Sempre l’ex ministro ha poi aggiunto che la difficoltà di tradurre in realtà il piano sarebbe scattata nel momento della realizzazione, che richiedeva una seconda autorizzazione da parte di Alexis Tsipras e che invece non è mai arrivata. Galbraith, poi, ha confermato di aver preso parte al gruppo di lavoro segreto da febbraio ai primi di luglio. Nemmeno 24 ore dopo la messa in rete della conversazione, è scattata la richiesta di deferimento di Varoufakis all’Alta Corte di giustizia per alto tradimento. «La questione, intrecciando aspetti economici, politici, finanziari, costituzionali, penali, è complessa», premette Giannmuli. «Per di più, ha molti punti oscuri e suscita non poche perplessità». Che possibilità di successo avrebbe potuto avere il “Piano-B” di Varoufakis e Galbraith? «A quanto pare, per poterlo attuare si sarebbe dovuti passare attraverso una manovra di hackeraggio per accedere alle posizioni dei singoli cittadini. Il punto non è chiaro, ma fa alzare più di un sopracciglio per l’evidente illegalità della cosa».E poi: come se la sarebbero cavata i possessori di smartphone, magari pensionati? Sarebbero incorsi in manipolazioni, magari gestite dalla malavita? Ma il punto più delicato è un altro: «I greci avrebbero accettato questa moneta?». Senza una accurata preparazione verso il ritorno alla dracma, sarebbe alto il rischio di panico, con impennata dei prezzi, fino al posssibile rifiuto – da parte dei fornitori esteri – di accettare la dracma (in rapida svalutazione) come moneta per i pagamenti; una crisi destinata ad aggravarsi con l’esaurimento delle riserve di merci disponibili. Insomma, ragiona Giannuli, lo Stato sarebbe stato costretto a convertire la sua moneta virtuale in vere dracme. Quindi, il tentativo di Varoufakis «si sarebbe rivelato solo una breve perdita di tempo». Poi ci sono i problemi di ordine politico-istituzionale, e il primo interrogativo è: «Si può cambiare il sistema monetario di un paese con un colpo di mano e senza autorizzazione preventiva del Parlamento?». Qui, continua Giannuli, «c’è anche la slealtà di fondo di Syriza verso l’elettorato, cui era stato promesso il mantenimento dell’euro e la fine dell’austerità. Si può anche pensare che quella fosse la speranza (ahimè quanto infondata) di Tsipras, e che l’altro fosse il piano di riserva; ma è lecito nascondere all’elettorato, non dico il piano nei suoi particolari, ma quantomeno la possibilità di un ritorno alla moneta nazionale?».Alcuni “furbi” diranno che così Syriza avrebbe perso le elezioni? «Può darsi, ma mentire coscientemente all’elettorato è un gesto moralmente più basso che prendere tangenti». C’è chi è sensibile a questi argomenti, e chi invece ritiene questi scrupoli superati: «Tutto dipende da quale sia la concezione che si ha della democrazia: non capisco perché poi la stessissima cosa venga rimproverata a Renzi o Berlusconi». Inoltre, «nascondere il “Piano-B” e dichiarare la volontà di restare nell’euro a tutti i costi, non ammettendo neanche per un momento l’ipotesi di poterne uscire, ha indebolito la Grecia al tavolo negoziale». E inoltre, fino a che punto il team di Varoufakis e Galbraith ha davvero lavorato “sotto traccia”? «Non è certissimo che un qualche servizio segreto (europeo o americano conta poco) abbia avuto sentore di quelle manovre e sia riuscito a scoprirle, ma è realistico prendere in considerazione che ciò possa essere accaduto. Per cui, magari, il risultato è stato quello (peraltro per nulla insolito) un arcana imperii efficace solo verso i cittadini ma non verso i nemici». In ogni caso, l’impressione è pessima: «Una modesta furbata, in sostanza molto ingenua».Al contrario, sostiene Giannuli, «ad un paese come la Grecia sarebbe convenuto di gran lunga giocare a carte scoperte, da un lato chiamando la solidarietà dei popoli europei e degli Stati in condizioni analoghe, e dall’altro giocando sui prezzi che la zona euro avrebbe dovuto pagare per una sua uscita». Obiettivo, «cercare di arrivare ad un’uscita concordata, con minor danno di tutti, Grecia ed Eurozona». Ma per una scelta così lineare, probabilmente, occorrevano ben altri leader: a quanto pare, Tispras era al corrente della cosa da almeno 5 mesi e la approvava. La decisione di andare al referendum «si spiega perfettamente in questa logica, anche se, nella breve campagna referendaria, sia lui che il suo ministro hanno continuato a giurare che non esisteva alternativa all’euro». Poi, nonostante la clamorosa vittoria referenderaria, in due giorni è cambiato tutto: «Mentre a Bruxelles, Francoforte e Berlino si iniziava a fare il conto dei danni del terremoto, Atene si è ripresentata al tavolo delle trattative, ma con una faccia nuova, perché Varoufakis era stato dimissionato. Perché?».Cos’è successo in quelle 48 ore da indurre Tsipras a questa clamorosa svolta a 180 gradi? Perché questa improvvisa, teorica rottura fra i due? E, di conseguenza, perché oggi Varoufakis sente il bisogno di dire candidamente di questo piano che lo mette nei guai? Con un certo ritardo, Tispras ha confermato di aver dato ordine di apprestarlo, ma di non aver mai pensato all’uscita dall’euro. Per cui: o il piano era destinato a scattare se la Grecia fosse stata esclusa dall’euro contro la sua volontà, o serviva solo come deterrente nei confronti degli interlocutori. «Ma un piano segreto, se è davvero tale, non serve come deterrente». Quindi resta solo la prima ipotesi (il ripiego d’emergenza, dopo l’esclusione dal circuito Bce). Ipotesi «evidentemente non condivisa da Varoufakis, che invece sarebbe voluto passare all’attuazione del piano subito dopo il referendum e prima dell’espulsione di Atene dall’Eurozona». Di qui la rottura fra i due e le dimissioni. «Questo però fa capire quanto superficiale fosse l’intesa fra i due: a questo punto, più che una coppia di statisti, sembrano Stanlio ed Ollio».Niente, nella Grecia di Syriza, è davvero convincente: «Riesce davvero poco credibile un deferimento all’Alta corte del ministro senza che lo segua a ruota il presidente del Consiglio: se il reato non c’è perché non si è passati dal progetto all’atto, allora anche Varoufakis non è imputabile; ma se il reato sussiste anche solo per aver ipotizzato il “Piano-B”, allora sul banco degli imputati Varoufakis non può restare solo». Acque torbide: «L’impressione è che a nessuno convenga rimestare troppo in questa storia perché di scheletri nell’armadio ce n’è più d’uno. E non solo ad Atene: credete che Berlino non abbia preparato un suo “Piano-B” in caso di collasso dell’euro o anche solo in caso di uscita di altri? E Parigi, Madrid, l’Aia? Roma no, sono convinto che l’Italia sia l’unica a non averlo fatto». Ad Atene, poi, dilettanti allo sbaraglio: Tispras era giù incline a non uscire dall’euro, «ma è credibile che sin dall’inizio pensasse di fare un referendum-sceneggiata per poi calarsi le braghi in quel modo in 48 ore?».Il fatto che il martedì successivo il neo-ministro delle finanze si sia presentato a Bruxelles senza nessuna proposta «fa capire che non c’era nulla di pronto e che, quindi, la cosa è precipitata in poche ore, prendendo una strada diversa da quella pensata quando il referendum è stato convocato: perché?». La verità, conclude Giannuli, è che se si inizia a scavare su questa storia nessuno, né la Grecia né gli altri, ha da guadagnarci. E pertanto, «sono convinto che la cosa verrà sbrigativamente messa a tacere al massimo con un dibattito parlamentare molto formale». La cosa più triste è proprio l’eclissi di Syriza: fine ingloriosa per l’unico governo di sinistra insediato in Europa. Per giunta, guidato da un leader come Tsipras, presentato in Italia in veste di nuovo alfiere dei diritti, capace di guidare una riscossa anti-austerity pur restando nella moneta unica – un ossimoro palese: nell’euro non esiste benessere possibile, la moneta della Bce è un “mostro” finanziario unico al mondo, destinato esclusivamente a produrre crisi per creare enormi vantaggi speculativi all’élite finanziaria a scapito degli Stati e delle comunità nazionali, famiglie e aziende.«Se penso che questo è il governo della sinistra radicale, che dovrebbe dare lezioni di democrazia, di un nuovo rapporto fra masse e potere, non so se ridere o piangere». Così il politologo Aldo Giannuli liquida il fantomatico “Piano-B” di cui ora chiacchiera l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: Tsipras ne era al corrente, anzi l’ha espressamente autorizzato, poi ha revocato l’ok fino alle dimissioni del ministro. Ma in ogni caso la Grecia non si è mai attrezzata per uscire dall’euro. E i greci, pur chiamati al referendum contro l’ultima stretta mortale di austerity pretesa dalla Germania, non sono mai stati informati dell’ipotetico “Piano-B”, al punto da lasciar configurare, oggi, l’accusa di alto tradimento a carico di Varoufakis – risvolto peraltro grottesco, in una situazione di catastrofe sociale come quella ellenica: «Deferire per questo Varoufakis all’Alta corte? Ma se non sono stati processati nemmeno quelli che hanno falsificato i bilanci dello Stato per un decennio! Siamo seri».
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Germania, il boia che fa la vittima (e mente ai tedeschi)
Uno dei più frequenti e stupefacenti fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: «Vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell’insicurezza, vittime dell’ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell’invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere». Vittime, scrive Marco d’Eramo, si sentono i tedeschi delle “sanguisughe greche” che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. «Perché non c’è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l’alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell’Europa del nord».E’ quasi surreale la rabbia che traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene, scrive d’Eramo su “Micromega”: «In un paese che è costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti». Il vittimismo tedesco? «E’ forse l’aspetto più preoccupante nell’attuale vicenda europea». Dopo 70 anni si ripropone in Europa una questione che sembrava essere stata risolta per sempre: «Forse gli storici ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la questione tedesca, dove l’aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco, la classe dominante tedesca». Grazie alle loro dimensioni schiaccianti, gli Stati Uniti «avevano costretto sia le élites francesi, sia quelle tedesche a rendersi conto di “non fare il peso”, di essere gattini in un mondo di elefanti, e avevano così liberato noi europei dall’insopportabile prospettiva di altri tre secoli di guerre franco-tedesche».D’Eramo ricorda che la Germania unita è una costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione, nel 1866, la Germania ha posto all’Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l’Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una guerra ogni 19 anni; solo lo Stato d’Israele (anch’esso una creazione recentissima) si sta dando da fare per battere questo record, con cinque guerre e varie guerricciole in 66 anni: a confronto, gli Usa stanno a 11-12 guerre in 241 anni, un conflitto ogni ventennio. Che la Germania rappresentasse ben altro problema, lo riassume la battuta attribuita allo scrittore francese François Mauriac: «Amo talmente tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due».Quasi a confermare le parole di Mauriac, aggiunge d’Eramo, appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto e la fretta nell’annettere all’Unione Europea i paesi dell’Est. «Una fretta che ha provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica», nonché «una certa megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale», segnali spesso scambiati per «prodotti da un’euforia che si sperava transitoria». Inutile sperare nella memoria collettiva, continua d’Eramo: nonostante Hiroshima e Nagasaki, più della metà dei giovani nipponici ignora che vi sia mai stato un conflitto tra Giappone e Stati Uniti. E il modo in cui gli stessi italiani trattano gli immigrati «è totalmente immemore delle umiliazioni, discriminazioni, persino dei linciaggi subiti dagli immigrati italiani nell’ultimo secolo e mezzo (e sono stati complessivamente decine di milioni)». Per non parlare del modo in cui «gli israeliani abusano del proprio potere militare», un fatto letteralmente «incompatibile con la memoria delle angherie subite per millenni dal popolo ebraico».Perciò quando si parla di questione tedesca, «non è in gioco un ipotetico, improbabile carattere etnico collettivo di supposta “teutonica” arroganza autoritaria, bensì di un atteggiamento proprio della classe dominante che sembra discendere in linea diretta dagli Junker prussiani perché, come loro, accompagna con una violenta svolta conservatrice ogni sua spinta espansionistica». Tralasciando il paragone con il Terzo Reich, «perché proprio l’enormità delle devastazioni prodotte dal nazismo, e dunque proprio l’improponibilità del confronto, in un certo senso “assolve” la Germania attuale da ogni responsabilità», è più utile ricordare la Germania bismarkiana e guglielmina, «innanzitutto perché proprio quell’esperienza ha plasmato la nascita dell’euro». Una moneta unica europea (prima lo Sme, poi l’Ecu, infine l’euro) «fu la condizione che il presidente francese François Mitterrand impose per acconsentire alla riunificazione tedesca, come strumento per imbrigliare lo strapotere prevedibile di una Germania unita».L’euro, continua d’Eramo, fu quindi vissuto dalla classe dominante tedesca come l’ultimo diktat esercitato dalle potenze vincitrici mezzo secolo dopo la disfatta della Seconda Guerra Mondiale. Ancora tre anni fa, l’ex socialdemocratico ed ex membro del direttorio della Deutsche Bundesbank, Thilo Sarrazin, scriveva un libro dal titolo significativo: “L’Europa non ha bisogno dell’euro: come i nostri pii desideri politici ci hanno condotto alla crisi”. Sarrazin scriveva esplicitamente che la Germania si è lasciata trascinare «nell’euro e nell’unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale» (in tedesco, “colpa” e “debito” sono espressi dallo stesso vocabolo: “die Schuld”). «I fautori (dell’euro e degli eurobonds) sono spinti dal riflesso squisitamente tedesco per cui la penitenza per l’Olocausto e la guerra mondiale è davvero conclusa solo quando noi affidiamo tutti i nostri averi e il nostro denaro in mani europee», scriveva Sarrazin. Quindi, osserva d’Eramo, «viene descritto come strumento dell’oppressione e umiliazione subite dai tedeschi quell’euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione».È l’euro, infatti, che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo «dal perseguimento di una Germania europea all’instaurazione (destinata al fallimento) di un’Europa tedesca». Intanto, perché «nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha preso a ricalcare in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedesca nel XIX secolo: primo passo un’unione doganale col mercato comune europeo, sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con diritto di veto». Poi, una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli Stati membri non avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 paesi della Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un Parlamento comune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli Stati. «Per continuare il paragone, il Consiglio federale era l’equivalente della Commissione Europea, mentre il Reichstag corrispondeva all’Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispetto all’Unione europea dei 27 membri».La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata nell’impero tedesco. «Ma in realtà non finisce qui – sottolinea d’Eramo – perché in Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell’unificazione della Germania». Naturalmente la deriva antidemocratica e autoritaria del progetto euro non può essere ascritta alla sola Germania: «La sua data d’inizio va cercata nel referendum sulla Costituzione europea bocciato nel 2005 dai francesi e dagli olandesi. Fu a partire da allora che si allontanò la prospettiva di un’unione politica e quindi di un possibile controllo democratico sulle scelte di Bruxelles». Ovvio, poi, che ciascuno cerchi di sfruttare a proprio vantaggio le circostanze: così, la crisi economica è stata vista «come un’opportunità (e usata come tale) per perseguire i propri scopi politici e finanziari». I poteri finanziari di tutto il pianeta «hanno sfruttato (con successo) la crisi per sottrarre ai lavoratori conquiste che avevano richiesto secoli di lotta per essere ottenute».La stessa Cina ha sfruttato la recessione atlantica per affermare definitivamente il proprio status di officina del mondo. E la Germania «ha usato la crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta di sovranità nazionale, con l’ironico risultato che l’euro pensato per imbrigliare Berlino ha finito per imprigionare Parigi», al punto che «in questo scontro, la Grecia è solo un birillo sul tavolo da biliardo». Dalla riunificazione in poi, «la classe dominante tedesca ha pensato sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini di Germania». Tanto che, a tutt’oggi, come scrive sul “Financial Times” Wolfgang Münchau, l’euro ha funzionato bene praticamente per la sola Germania (in misura minore per l’Austria e l’Olanda, anche se adesso l’Olanda è in crisi). Ma l’euro è stato disastroso per l’Italia e sta rivelandosi letale per la stessa Francia; intanto la Finlandia è in piena recessione, Spagna e Portogallo sono più poveri di sette anni fa, mentre della Grecia non è nemmeno il caso di parlare. Eppure, «ancora una volta la narrazione prevalente in Germania è il contrario della realtà: l’euro viene visto come un regime di cui Berlino deve sopportare tutti i costi, da buona formica nordica che paga per tutte le cicale meridionali».La verità è opposta: è proprio l’euro ad aver garantito «la possibilità di esportate i prodotti tedeschi nell’Eurozona: un ritorno al marco, e la sua conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo». Ed è questa, insiste d’Eramo, la maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: «Quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti». Per cui «assistiamo a una commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice costretta a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica che questa stessa classe dominante ha plasmato nello stampo più reazionario; che è costretta a esercitare una dittatura del capitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti perderebbe il consenso popolare». Il risultato è «l’evoluzione della Spd tedesca che, dopo aver cacciato Sarrazin, adotta oggi con il socialdemocratico vicepremier Sigmar Gabriel tutta la visione del mondo di Sarrazin, con tutte le sue conseguenze politiche».Quanto sia distante la narrazione che la Germania racconta a se stessa della crisi greca e della gestione da parte della Troika, secondo d’Eramo risulta lampante dalla folle vicenda dei panettieri greci, costretti a cambiare il sistema di vendita del pane. «A prima vista può sembrare ridicolo che in un disastro economico come quello greco, i paesi creditori si ostinino a esigere misure urgenti come la liberalizzazione della vendita del pane non solo presso i fornai ma perché no anche nei saloni di bellezza, e che considerino l’equiparazione dell’Iva sul pane nelle panetterie e nei supermercati (che finora pagavano di più per salvaguardare il piccolo commercio). Ma il ridicolo si trasforma in grottesco quando la Troika impone in modo ultimativo il diktat sul peso delle pagnotte: finora nei negozi greci si vendevano forme o da un chilo o da mezzo. Ora sarà obbligatorio venderne in pezzature diverse e graduali». Ma che gliene può fregare ai creditori del peso della pagnotta greca? Quattro anni fa, d’Eramo aveva iniziato un editoriale del “Manifesto” con una frase che gli provocò indignate reazioni da parte dei suoi amici tedeschi: “Dove non era giunta la Wehrmacht, è arrivata la Bundesbank” (si riferiva per esempio a Lisbona e a Madrid). «Rispetto ad allora, c’è da aggiungere che neanche i generali prussiani si sarebbero mai sognati di legiferare sulla pezzatura delle pagnotte in terra d’occupazione».Uno dei più frequenti e stupefacenti fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: «Vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell’insicurezza, vittime dell’ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell’invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere». Vittime, scrive Marco d’Eramo, si sentono i tedeschi delle “sanguisughe greche” che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. «Perché non c’è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l’alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell’Europa del nord».
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Barnard: Atene ha in pugno la Bce, finge di non saperlo?
C’è una nota di ancora maggior devastante tristezza nella buffonata ignobile chiamata governo Tsipras-Varoufakis. Non lo sanno, o hanno fatto finta di non saperlo, ma la Grecia in realtà tiene tutta l’Eurozona per le palle, e poteva asfaltarli tutti al muro. Basta leggere i rapporti interni della Banca Centrale Europea (Bce). Non sto scherzando: se li leggete, anche solo i primi capitoli, capite che la Bce è letteralmente TERRORIZZATA terrorizzata all’idea che la Grecia scoppi, salti in aria, che le banche greche facciano il botto, perché la Bce con Draghi sa benissimo che il botto finale della Grecia è l’olocausto dell’euro (ma non lo sanno i soliti cefali politici/giornalistici). Ed ecco che Draghi riunisce il Consiglio dei Governatori e glielo dice in faccia. Tsipras è un eunuco? Non ha sostegno neppure in un negozio di kebab? Le banche greche sono stra-fallite? Non c’è nessuna speranza che Atene faccia le riforme della Troika-Schaeuble? Sì tutto vero. Ma, merda, non possiamo farli fallire, se no andiamo tutti a casa con la pensione, dice Draghi ai banchieri centrali.Ironico eh? La Grecia in realtà tiene la Ue per le palle e non lo sanno, sti dementi. O sti falsari di ‘Tsipraroufakis’. Oggi, dice “Bloomberg”, i tecnocrati di punta della Bce, con Draghi, si collegheranno via telefono per decidere cosa fare. Dovete ricordare che le banche greche sono tutte appese come pesci all’amo dell’Ela, cioè al “Programma di assistenza per la liquidità d’emergenza” della Bce, che ora per forza va ampliato (cioè la Bce gli deve prestare di più), mentre prima la Bce solennemente giurava che non l’avrebbe mai fatto. Oggi calano le mutande, Draghi l’ha già detto. Poi vi ho già raccontato che Mario Draghi, quando si sentiva un galletto sicuro del suo potere sulla Grecia, decise nel 2014 di escludere Atene (e non gli altri paesi euro) dal programma Qe, cioè di non comprargli titoli di Stato così da far scendere gli interessi e dare ossigeno al governo greco. Sapete che se qualcuno ti compra molti titoli di Stato, gli interessi che tu paghi su di essi scendono molto. Draghi decise appunto di comprare titoli italiani, spagnoli, olandesi, francesi ecc,, (il Qe) facendo scendere gli interessi che paghiamo su quei titoli (facendoci risparmiare, come nazioni, miliardi), ma NON non volle includere la Grecia in quel programma salva-vita. Ma ora…… ora che gli ellenici stanno per saltare in aria e per portarsi tutta l’Eurozona nella tomba, Draghi si è fatto la popò nelle mutande. Ops! La mesta scommessa di Mario è che la Grecia, almeno di facciata, faccia quelle due o tre riforme di base per poter poi annunciare al mondo, SENZA PERDERCI LA FACCIA senza perderci la faccia, che la Bce torna ad aiutare la Grecia sia coi prestiti (Ela) che col Qe. Ma dietro a queste decorose dichiarazioni, come detto, c’è terrore e pannoloni sporchi dei tecnocrati Bce che il gioco sadico con la Grecia sia andato oltre i limiti, e che ora con l’olocausto ellenico salti in aria tutto il sistema. Ecco come Mario Draghi ha posto la questione salvando la faccia della più importante banca centrale del mondo: «Certo, ci sono sempre questioni relative alla capacità e alla volontà greca di fare le riforme… Ma pensate che sia legittimo che la Bce prenda le sue decisioni basandosi su dubbi su un governo? No, non siamo fatti di quella pasta».Tradotto… “fanculo se Atene farà o no le riforme della Troika, noi la salviamo e basta, se no, ripeto, andiamo tutti in pensione (e in fondo al pozzo)”. Cristo, ma Gesù Maria, se queste cose le dice Mario Draghi, alla faccia di Schaeuble et Merkel, possibile che quei minorati mentali di Tsipras e di Varoufakis non le capissero? O… fingono di non capirle? GRECI! SIETE VOI A TENERE L’EUROZONA PER LE PALLE? SVEGLIAAAAAAA! Greci! Siete voi a tenere l’Eurozona per le palle? Svegliaaa!(Paolo Barnard, “E pensare che la Grecia li tiene per le palle e non lo sa (o finge di non saperlo), dal blog di Barnard del 21 luglio 2015).C’è una nota di ancora maggior devastante tristezza nella buffonata ignobile chiamata governo Tsipras-Varoufakis. Non lo sanno, o hanno fatto finta di non saperlo, ma la Grecia in realtà tiene tutta l’Eurozona per le palle, e poteva asfaltarli tutti al muro. Basta leggere i rapporti interni della Banca Centrale Europea (Bce). Non sto scherzando: se li leggete, anche solo i primi capitoli, capite che la Bce è letteralmente terrorizzata all’idea che la Grecia scoppi, salti in aria, che le banche greche facciano il botto, perché la Bce con Draghi sa benissimo che il botto finale della Grecia è l’olocausto dell’euro (ma non lo sanno i soliti cefali politici/giornalistici). Ed ecco che Draghi riunisce il Consiglio dei Governatori e glielo dice in faccia. Tsipras è un eunuco? Non ha sostegno neppure in un negozio di kebab? Le banche greche sono stra-fallite? Non c’è nessuna speranza che Atene faccia le riforme della Troika-Schaeuble? Sì tutto vero. Ma, merda, non possiamo farli fallire, se no andiamo tutti a casa con la pensione, dice Draghi ai banchieri centrali.
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Questa sinistra che obbedisce agli atroci macellai tedeschi
«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”». Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro». Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia». Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».Se la Germania è «una guida disastrosa per l’Europa», come afferma l’economista Philippe Legrain, già redattore di “Foreign Policy”, «per uno strano scherzo del destino, la sinistra ha lasciato che essa stessa diventasse il gendarme di una struttura economica che ha portato a livelli di disoccupazione una volta impensabili per un governo social-democratico, dotato di una propria moneta e di tutti gli strumenti sovrani». La sinistra europea, continua Evans-Pritchard, «ha trovato il modo per giustificare un tasso di disoccupazione giovanile che, nonostante l’emigrazione di massa, è ancora al 42% in Italia, al 49% in Spagna e al 50% in Grecia, e ha accettato la “Lunga Depressione” degli ultimi sei anni, più profonda di quella del 1929-1935. Ha infine docilmente approvato il “Fiscal Compact” dell’Ue, sapendo che esso obbliga i paesi dell’Eurozona a ridurre drasticamente il loro debito pubblico, ogni anno, del 1,5% del Pil in Francia, del 2% in Spagna e del 3,5% in Italia ed in Portogallo, per i prossimi due decenni. Una formula per la depressione permanente, che vieta qualsiasi politica economica di tipo keynesiano», violando anche «i principi dell’economia classica».Questo, continua Evans-Pritchard, «è ciò che la sinistra prima ha concordato e poi difeso, seppur a malincuore, perché non ha osato mettere in discussione, almeno fino ad ora, la sacralità dell’unione monetaria». E così, quello che una volta era il potente “Partito Laburista Olandese”, è ormai ridotto ad una specie di pietosa reliquia del passato. Anche il Pasok è stato letteralmente cancellato, in Grecia, mentre il “Partito Socialista Spagnolo” ha perso la sua ala sinistra in favore del movimento ribelle “Podemos”, da poco vittorioso a Barcellona. Il leader socialista francese François Hollande, infine, raggiunge a stento, nei sondaggi, il 24%, dopo che la classe operaia francese si è spostata in direzione del “Front National”. Owen Jones, sul “Guardian”, scrive giustamente che «i progressisti dovrebbero essere sconvolti dalla rovina della Grecia per mano dell’Unione Europea. E’ giunto il momento di appoggiare la causa degli euroscettici».Gli esponenti della sinistra sono a disagio, continua Jones: «Il loro istinto è quello di contrastare tutto ciò che l’Ukip rappresenta», ma ora «la crudeltà mostrata sia da Bruxelles che da Berlino ha surclassato tutto il resto». Per George Monbiot, «il “tutto va bene” (con l’Ue) è in ritirata, mentre il “tutto va male” avanza come una furia». E un’altra giornalista britannica, Suzanne Moore, si domanda: «Come può la sinistra aver dato il proprio supporto a tutto quello che è stato fatto?». Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida». Dibattiti di questo tenore stanno prendendo piede in tutta Europa, conferma Evans-Pritchard, citando l’economista Luigi Zingales, consigliere di Renzi, convertitosi all’euroscetticismo. Il giorno in cui la Grecia ha capitolato ha scritto: «Questo progetto europeo è morto per sempre. Se l’Europa è nient’altro che la versione cattiva del Fmi, che cosa resta del progetto d’integrazione europea?».In Grecia, “Syriza” è stata «semplicemente costretta ad abbandonare le sue promesse elettorali, per mezzo della coercizione finanziaria», scrive Evans-Pritchard. La colpa? «Una responsabilità collettiva dei creditori, delle élites dell’Unione Monetaria, dell’oligarchia greca e infine di un immaturo Alexis Tsipras». Il bail-out (salvataggio esterno) effettuato dalla Troika nel 2010 «aveva lo scopo di salvare l’euro e le banche europee (visto che non c’erano difese contro il contagio), non quello di salvare la Grecia che, al contrario, è stata deliberatamente sacrificata». In più, i paesi creditori (Germania in primis) «non hanno mai riconosciuto la propria colpevolezza», inoltre «non hanno mai tentato di negoziare onestamente con Syriza». Si sono limitati a chidere che i termini del memorandum 2010 fossero applicati alla lettera, «indipendentemente dal fatto che avessero o meno un senso economico», e lo hanno fatto in modo feroce e ipocrita, «nascondendosi dietro a farisaici discorsi sulle regole». Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle finanze, ha ripetuto che i creditori volevano una vera e propria “sottomissione rituale”, «ed è così che gli eventi sono decisamente sembrati ad un gran numero di persone in tutt’Europa».I paesi creditori hanno quindi forzato la situazione «attraverso l’infame trattativa» cui è stato sottoposto Tsipras, «senza peraltro offrire alcuna chiara riduzione del debito, anche se già sapevano che il Fmi riteneva che la Grecia avesse bisogno sia di una moratoria di 30 anni sulle scadenze del debito». La durezza dell’Ue a gida tedesca allarma Simon Tilford, del “Centre for European Reform”: «Quello che trovo preoccupante è che sono così pochi i politici tedeschi che sembrano turbati dallo spettacolo di una Grecia umiliata fino a questo punto. I tedeschi hanno sviluppato un racconto di fantasia riguardo la crisi. Hanno trasformato il paesaggio intorno a loro e pensano che siano essi ad essere le vittime». Secondo Tilford, è devastante l’assenza politica della sinistra: in Italia, Spagna e Francia, la sinistra è da anni aggrappata all’illusione che la Germania avrebbe infine accettato di alleviare l’austerità e di cambiare l’unione monetaria. «Questo pensiero è stato totalmente screditato dagli eventi dello scorso fine settimana. Tutti possono vedere, in effetti, a quali brutali livelli si trovi la disoccupazione. Se le regole dell’Eurozona non possono essere rispettate, prima si va in quarantena e poi si viene buttati fuori».Non dimentichiamo, aggiunge Evans-Pritchard, che la Bce di Mario Draghi «ha portato la Grecia fin quasi al crollo finale, conseguenza del congelamento della liquidità d’emergenza (Ela) per le banche greche, costringendo Syriza a chiudere le porte ai creditori, ad imporre controlli sui capitali e infine a fermare le importazioni». Tutto questo, aggiunge Pritchard, «viola i principi dell’”Unione Bancaria Europea”, che dovrebbero separare i destini delle banche private dai travagli degli Stati sovrani. E’ stata una decisione politica, probabilmente illegale, condita da una forte aggressività tecnica. E’ in ogni caso molto difficile da conciliare con il dovere della Bce, che è quello di sostenere la stabilità finanziaria». In realtà, «sappiamo tutti cosa c’era in gioco». Ovvero: «La Germania e i suoi alleati erano determinati a fare di Syriza un esempio, per scoraggiare gli elettori di qualsiasi altro paese a voler invertire il sistema». Evans-Pritchard pensa che, alla fine, gli oligarchi perderanno il braccio di ferro: i paesi europei riusciranno a ribellarsi. In Spagna, “Podemos” ha accusato le istituzioni dell’Ue e il governo spagnolo di aver commesso un “atto di terrorismo”, in violazione del codice penale spagnolo.Per Costas Lapavitsas, deputato di Syriza, il messaggio saliente degli ultimi cinque mesi è che nessun governo radicale può perseguire delle politiche sovrane, fintanto che è in balia di una banca centrale in grado di tagliare in qualsiasi momento la liquidità: «Adesso è perfettamente chiaro che l’unica via d’uscita è quella di liberarsi dell’unione monetaria». Kevin O’Rourke, economista di Oxford, prevede che il prossimo partito di sinistra che andrà a sfidare l’unione monetaria «non sarà irresponsabile come Syriza, e non contratterà più da una posizione di tale abietta debolezza». La lezione che può essere tratta da questa débacle? Semplice: «Negoziare con la Germania è una perdita di tempo. Ma, se si vuol farlo, si deve essere disposti ad agire con decisione e unilateralmente; si deve disporre di un piano per il raggiungimento di un avanzo primario (se non è già stato raggiunto); si devono avere in tasca le opzioni sia per un duro default unilaterale che per la fuoriuscita dall’euro, ed essere disposti ad usarle al primo segno di fastidio da parte della Bce».Quanto alla trucida Germania, che altro dire? «E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” decisero di spazzar via la metà delle passività esterne della Germania, nell’ambito dell’accordo sul debito raggiunto a Londra nel febbraio del 1953?». Quell’atto di saggezza politica arrivò a meno di otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista della Grecia, quando le immagini degli orrori erano ancora fresche nella mente di tutti. «La riduzione del debito ha avuto un certo costo per la Gran Bretagna, che era il più grande creditore nel periodo precedente la guerra», spiega Evans-Pritchard. «La riduzione fu convenuta nel rispetto dell’interesse collettivo e della scienza economica, e fu volutamente inquadrata nell’ambito di una “trattativa tra eguali”, per sgomberare la nebbia costituita dai giudizi morali. Il risultato fu il Wirtschaftswunder (miracolo economico) tedesco e gli anni di gloria della ricostruzione post-guerra». Quindi, «qualunque cosa si possa pensare del comportamento della Grecia – che non ha fatto del male a nessuno – non possiamo usare giusto un minimo di buon senso?».«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”». Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro». Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia». Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».
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Giannuli: tamarri al potere, il Pd è una vergogna nazionale
«A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».«Sino a quando una norma c’è, si rispetta e non si aggira, magari con la compiacenza di un governo e di un Parlamento di “amichetti”», scrive Giannuli nel suo blog. «Ma la concezione di De Luca è quella dell’asso pigliatutto: chi vince, per fas et nefas poco importa, governa, anzi “comanda” (come insegna il suo capo, Renzi: “un uomo solo al comando”). E’ la stessa concezione della democrazia di Berlusconi, per la quale chi vince le elezioni è “l’Unto del Signore”. Una concezione predatoria che include anche le leggi ad hoc o ad personam, lo smembramento della Costituzione, l’assalto alle alte cariche dello Stato, il diritto di saccheggio». Una concezione che «non concepisce i limiti opposti al potere dalle norme dello Stato di Diritto, dalla divisione dei poteri, dal ruolo dell’opinione pubblica. Una idea da caudillo latinoamericano». Questa, continua Giannuli, è l’ idea del potere che ha anche Renzi, mirabilmente espressa nella sua legge elettorale, per la quale una forza politica che magari rappresenta il 12,5% dell’elettorato totale (ad esempio il 25% del 50% di quanti vanno a votare) si aggiudica il 54% dei seggi dell’unica Camera e ha un’ottima base di partenza per cambiare la Costituzione a piacimento.E questo perché “gli italiani devono sapere dalla sera delle votazioni chi governerà”, anzi: “comanderà”, perché «il tanghero fiorentino confonde il governo con il Potere nella sua interezza: ma il governo, in uno Stato di diritto, è solo una delle articolazioni del potere, non l’unica». In Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Austria, Olanda ci sono sistemi elettorali che non garantiscono affatto di sapere chi governerà nei 5 anni successivi, eppure quei paesi non vanno in crisi. Perché in Italia dovrebbe essere diverso? «Ma De Luca e Renzi non sono uomini da sofisticatezze intellettuali, cose che lasciano agli oziosi», loro sono uomini d’azione, non di cultura «e ci tengono a rimarcarlo in ogni occasione, facendo sfoggio del loro spirito praticone e del fastidio per ogni dibattito, soprattutto quando assuma vaghe sfumature culturali». E se qualcuno riesce a fare un’obiezione, la risposta non è mai nel merito: è sempre colpa di “personaggetti”, “disfattisti”, “rosiconi”, “gufi”. «Un cocktail di arroganza, aggressività, cafoneria, invadenza, prevaricazione, spudoratezza. E’ il Renzi’s tamarro style che ormai non appartiene solo a lui ma è la cifra di una intera classe politica».Da Orfini, che zittisce Gomez sullo scandalo di Mafia Capitale, a Enrico Carbone che la sera della disfatta alle regionali tenta di imporsi sul concorrente vendoliano: «Al povero senatore Stefàno di Sel, che è pugliese ed obiettava che in Puglia nelle civiche c’era proprio di tutto, Carbone rispondeva “Tu pensa a Sel che in Puglia è andata male”. Appunto: perfetto Renzi’s Tamarro Style». Questo stile, conclude Giannuli, è la spia di una concezione autoritaria della democrazia. «Il fatto è che i renziani sono antropologicamente estranei alla civiltà delle buone maniere che, guarda caso, quantomeno storicamente, è la premessa di quella della democrazia. E allora, venite ancora a dirmi che ad essere impresentabile è il solo De Luca? Impresentabile è il Pd in quanto tale. E ho una domanda agli ex militanti del Pci, ancora numerosi, nonostante tutto, nelle file del Pd: ma come fate a non vergognarvi di stare in una cloaca del genere?».«A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».
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Mosca non teme la Nato, e il vero sconfitto sarà l’Europa
Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti – prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».Il Pentagono, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, sa benissimo che la Russia «ridurrebbe le forze della Nato in frantumi in poche ore». Poi «arriverebbe la scelta decisiva di Washington: accettare la bruciante sconfitta o passare alle armi tattiche nucleari». Il Pentagono sa che la Russia «ha le capacità difensive, aeree e missilistiche, per controbattere qualsiasi arma», incluse quelle del programma “Prompt Global Strike” statunitense (Pgs). Secondo il generale Kirill Makarov, numero due delle forze di difesa aerospaziali russe, l’attuale infrastruttura militare della Nato è la maggiore minaccia alla sicurezza di Mosca, che però avrebbe «un paio di generazioni di vantaggio» nei propri armamenti difensivi. Spiegazione: «Mentre il Pentagono era impegolato nei suoi problemi in Afghanistan e Iraq, si è completamente perso il salto in avanti tecnologico compiuto dalla Russia», scrive Escobar. «Lo stesso vale per la capacità cinese di colpire i satelliti statunitensi e quindi polverizzare il sistema di guida satellitare degli Icbm statunitensi», cioè i missili balistici intercontinentali.«Lo scenario corrente – continua Escobar – è che la Russia guadagna tempo fino a che non avrà completamente protetto il proprio spazio aereo dagli Icbm statunitensi, aerei stealth e missili cruise, con il sistema S-500». Ciò non è sfuggito all’attenzione del “British Joint Intelligence Committee” (Jic), che aveva simulato tempo fa l’eventualità di un primo attacco di Washington ai danni della Russia. Secondo il Jic, Washington potrebbe avere seri problemi in tre casi: se un governo “estremista” dovesse prendere il potere negli Usa, se ci fosse una crescente caduta di fiducia negli Usa e nei loro alleati occidentali a causa di sviluppi politici nelle nazioni stesse, e se ci fosse qualche repentino avanzamento nella sfera degli armamenti statunitensi, tanto che l’impazienza possa prendere il sopravvento. Smontata l’ipotesi che gli Usa possano sferrare il “primo colpo” per abbattere la capacità difensiva di Mosca, resta una pesante incognita: cosa accadrebbe se domani gli Stati Uniti disponessero di una tranquillità strategica come quella di cui oggi gode la Russia?Tutto il gioco, continua Escobar, ruotava attorno a chi controllava il mare – il regalo geopolitico che gli Usa hanno ereditato dal Regno Unito. «Controllare i mari significa ereditare cinque imperi: Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Tutti quei natanti statunitensi che pattugliano i mari per garantire “libero mercato” – come sostiene la macchina della propaganda – potrebbero essere usati di colpo contro la Cina. È un meccanismo simile all’operazione finanziaria “governare da dietro” attentamente architettata per contemporaneamente distruggere il rublo e lanciare una guerra del petrolio per ridurre alla sottomissione la Russia». Il piano principale di Washington, aggiunge Escobar, resta semplicissimo: «“Neutralizzare” la Cina dal Giappone e la Russia dalla Germania, con gli Stati Uniti a fare da spalla ai due puntelli. La Russia è de facto l’unico paese dei Brics ad opporsi». Questa era la situazione fino a che Pechino non ha lanciato le nuove “vie della seta”, ovvero il progetto di unire tutta l’Eurasia sul piano economico e commerciale su binari ad alta velocità, trasferendo tonnellate di merci dal trasporto marittimo a quello terrestre. Mentre Washington continua a demonizzare la Russia per colpire la partnership sino-russa, in un futuro non remoto Germania, Russia e Cina avranno «ciò che serve per diventare i pilastri di un’Eurasia totalmente integrata».Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti – prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».
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Mai successo prima: Bot a zero (in attesa del grande botto)
La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l’altra faccia della medaglia. Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell’Economia) ha collocato Bot a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta. L’Italia non è l’unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell’euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%. Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).Anche la spiegazione tecnica resta semplice: tutto merito della Bce, che da due mesi ha messo in moto il quantitative easing, cominciando ad acquistare sui mercati titoli di Stato dei paesi europei (ma non della Grecia, che invece non può rifinanziarsi perché altrimenti dovrebbe pagare interessi al di sopra del 20%). La domanda che apre la porta sul “lato oscuro” è altrettanto semplice: perché un investitore (una banca, un fondo di investimento, o persino un normale cittadino con qualche risparmio da parte) accetta di prestare i propri soldi sapendo in anticipo che non ci guadagnerà nulla o addirittura ci rimetterà qualcosina? Qui il lettore ci deve perdonare, ma siamo obbligati – come tutti quelli che cercano la risposta a questa domanda – ad addentrarci nei “massimi sistemi”. Non lo facciamo per motivi ideologici o passione teorica, ma per le identiche ragioni addotte da uno degli editorialisti di punta de “Il Sole 24 Ore”, Alessadro Plateroti: «Per gli economisti della scuola classica, il fenomeno è scioccante: non solo è definitivamente tramontato il cosiddetto “Lzb”, o Level Zero Boundary, il livello di supporto dei tassi che si pensava non sarebbe mai stato raggiunto e infranto, ma si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche».«“Nella storia d’Europa – ha commentato Ambrose Evans Pritchard, noto commentatore economico inglese – dobbiamo tornare al Quattordicesimo secolo, quando il depauperamento delle miniere d’argento provocò una lenta contrazione monetaria, seguita dal default di Edoardo III sul debito contratto con le banche italiane e dall’epidemia della Morte Nera, innescando un devastante processo deflazionistico”. Frasi da apocalisse, certamente esagerate nei toni e negli obiettivi, ma anche suggestive e soprattutto indicative della confusione che regna sui mercati, dei timori sui rischi generati dalle “bolle” (ecco l’analogia con la peste in Europa…) e soprattutto della difficoltà di prevedere gli effetti collaterali della manovra della Bce». Il “livello zero” di rendimento del denaro, in regime capitalistico, è un limite concettuale, una sorta di assioma che non necessita di dimostrazione, anzi serve ad argomentare le dimostrazioni. E le esibizioni di “competenza professionale” di pupazzi come il capo dell’Eurogruppo, Dijsselbloem. Chiunque presti soldi si attende un guadagno da questo impiego, no? Siamo nel capitalismo e dunque può funzionare solo così… O no?Cosa significa? Che nessuno ha studiato cosa possa avvenire quando questo evento impossibile si verifica. Non è avvenuto sul piano teorico (perché era impossibile), tantomeno su quello empirico (non era mai avvenuto, se non nel Trecento, ma era il Medioevo, mica la modernità capitalistica…). Lo stesso sconcerto provato da Plateroti è stato descritto dal più autorevole Martin Wolf, nientepopodimeno che sulla bibbia del liberismo anglosassone, il “Financial Times”, con un titolo che molti avrebbero definito catastrofista se scelto da un marxista: “Ecco perché l’economia globale non brillerà più”. Senza se e senza ma. Renzi e Padoan non lo hanno letto, altrimenti non ciancerebbero di “ripresa in atto” («ma solo dello zero virgola»). Wolf, in particolare, indica come «stranezza incomprensibile» – oltre ai tassi di interesse sottozero – anche il fatto che la produzione reale sia mantenuta al suo livello potenziale solo al prezzo di un indebitamento finanziario crescente. Più precisamente: «La produzione è finanziariamente sostenibile quando i modelli di spesa e la distribuzione del reddito sono tali che il frutto dell’attività economica può essere assorbito senza creare pericolosi squilibri nel sistema finanziario. È insostenibile quando per generare abbastanza domanda da assorbire la produzione dell’economia si deve ricorrere una dose eccessiva di indebitamento, o quando i tassi di interesse reali sono molto al di sotto dello zero, oppure entrambe le cose».Possiamo anche dire che il mercato non riesce più ad allocare in modo ottimale risorse. Ovvero un altro assioma del liberismo teorico (ideologico?) che salta come un birillo davanti a una realtà impossibile. La finanza lavora per conto proprio, indipendentemente dall’andamento dell’economia reale, da molti decenni. Certamente dalla fine degli anni ‘90, quando Bill Clinton abolì il Glass-Streagall Act, ossia il divieto di cumulare nella stessa banca le normali attività di raccolta dei risparmi/prestiti a famiglie e imprese con quelle tipicamente speculative della “banca d’affari”. Era una legge degli anni ‘30, immaginata per limitare ed evitare il ripetersi del grande crack del 1929. Ma ora la realtà della produzione – ferma, non a caso – riprende il volatile per le zampe e lo tira giù. Il capitalismo non funziona più. I fenomeni considerati impossibii avvengono sotto i nostri occhi. I “professionisti” dell’accumulazione sono costretti ad accontentarsi di non guadagnare nulla o di rimetterci solo poco. Per quanto può durare? Non lo sa nessuno, perché si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche. Allacciate le cinture…(Claudio Conti, “Bot a zero, in attesa del grande botto”, da “Contropiano” del 29 aprile 2015).La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l’altra faccia della medaglia. Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell’Economia) ha collocato Bot a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta. L’Italia non è l’unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell’euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%. Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
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“Migranti parassiti, peccato ne crepino ancora troppo pochi”
Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi e cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.«Non mi interessa se affondano, basta che non entrino», scrive Marco. «Sempre troppo pochi», sintetizza Giorgio. Crepino pure in fondo al mare, non sono che «700 terroristi in pastura», ovvero «pappa per gli squali», «mangime per i pesci», chiariscono Lorenzo, Giulio e Sergio. «Peccato… così pochi», scrive Silvia. «Peccato che ci sono dei superstiti», dice Moreno. In fondo, sono «700 parassiti in meno da mantenere», aggiunge Franco: «Affondasse anche il Parlamento con tutto il governo e avremmo fatto bingo». Più ne muoiono e meglio è, sostiene Luca. Che aggiunge: «Questi crepano e io bevo felicemente un costoso vino per festeggiare. Olè!». Maria si preoccupa della religione dei migranti annegati: «Speriamo siano tutti musulmani». E comunque, chiosa Claudio: «Pochi, sempre troppo pochi». Che dire, di fronte a questo? «In un mondo più giusto – scrive Martini, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – queste persone andrebbero messe su un apposito barcone e lasciate alla deriva. Nel mondo in cui realmente viviamo, queste persone votano. Ed è proprio questa la ragione principale dell’impossibilità di risolvere il problema dell’immigrazione». L’apartheid, il segregazionismo Usa e i vari fascismi conobbero un sostegno di massa: «Così è anche per la mattanza dei migranti africani».Per risolvere il problema, avverte Martini, ci sono due vie, alternative tra loro. La prima è quella del blocco navale, «naturalmente sponsorizzata dai Nazisti dell’Illinois, ma anche da Renzi, il quale, ricordiamolo, è responsabile del passaggio da “Mare Nostrum” a “Triton”, ovvero del taglio dei due terzi delle risorse destinate al soccorso in mare dei migranti». Questa proposta, ovviamente, «non può aver alcun riflesso pratico finché non si è disposti a sparare sulle imbarcazioni dei migranti, per la banale ragione che quelli non si fermano». Occorrerebbe pertanto un pattugliamento costante (e costoso) delle coste libiche e tunisine, composto da unità pronte ad annientare le imbarcazioni che tentano di forzare il blocco. «Al decimo affondamento è presumibile che i migranti si scoraggino, e che smettano di tentare la fortuna sui barconi». Naturalmente, aggiunge Martini, questa via è del tutto impercorribile: «Nessun politico, militare o funzionario si assumerebbe mai la responsabilità di simili crimini contro l’umanità. Tali crimini sono però l’elemento che darebbe effettività al blocco navale. In ultima analisi, non ci sarà alcun blocco navale: chi ve ne parla spacciandolo per soluzione è un cialtrone e/o un ipocrita».L’altra soluzione è quella di approntare una linea di traghetti tra le coste libiche e un qualche porto siciliano. Questa proposta, «assai meno paradossale di quel che appare», è stata avanzata da alcuni studiosi seri del fenomeno, e implicherebbe numerosi vantaggi: impedirebbe le stragi, stroncherebbe le organizzazioni criminali (i migranti pagherebbero alla linea di traghetti il biglietto che ora pagano agli scafisti), farebbe risparmiare fior di quattrini alla marina militare, e permetterebbe un controllo preventivo, anche sotto il profilo sanitario, delle persone che intendono migrare in Italia. «In una battuta: se la Tirrenia avesse cominciato a fare questo tipo di operazioni dieci anni fa, oggi non avrebbe i conti in rosso, e si sarebbero salvate molte migliaia di vite umane». Questa soluzione, tuttavia, implica altre iniziative, di notevolissima portata. L’afflusso di immigrati andrebbe regolato, gestito, organizzato. Al netto dei richiedenti asilo, andrebbe preparato un programma di avviamento al lavoro, vincolato al buon comportamento del soggetto e dotato di un termine: ad esempio, si potrebbe prevedere di concedere all’immigrato una permanenza, e un impiego, della durata di 5 o 10 anni. Si tratterebbe pertanto di un programma di lavoro garantito. Il programma, tuttavia, non potrebbe includere solo gli immigrati, ma anche i cittadini italiani, pena un’intollerabile disparità di trattamento.Anche così facendo, comunque, occorrerebbe cercare di limitare i numeri degli arrivi. «Per farlo, sarebbe necessario prendere sul serio il leit-motiv di tutti gli xenofobi, aiutare gli stranieri a casa loro». Ma cosa può significare questa espressione? «Se vogliamo darvi un senso – scrive Martini – gli Stati europei dovrebbero investire alcune decine di miliardi di euro l’anno nell’indutrializzazione (possibilmente compatibile con l’ecosistema) dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Gli impieghi sarebbero innumerevoli: dall’introduzione di metodi moderni e meccanizzati per l’irrigazione dei suoli, all’introduzione di reti di servizi efficienti negli agglomerati urbani, all’installazione di centrali di produzione di energia rinnovabile (si pensi al solare); il tutto realizzabile da una forza lavoro retribuibile in misura trascurabile (per gli standard occidentali, non per quelli sub-sahariani: si pensi a stipendi da 100 euro al mese in Mali)». Come è evidente, le soluzioni sarebbero molteplici, ma «il problema è che non sono praticabili». Chi mai potrebbe varare un piano così giusto e intelligente?«La Lega Nord, e tutti i partiti consimili, sarebbero favorevoli a che l’Europa investisse alcuni decimali del suo Pil nei paesi da cui provengono gli immigrati? La risposta è prevedibile: un rotondo no. “Aiutarli a casa loro” va bene come slogan per evitare di affrontare il problema, non come soluzione pratica». La verità, conclude Martini, è che possiamo inventarci tutte le soluzioni più variopinte, ma «verranno tutte invariabilmente affondate dal feroce egoismo dei commentatori di cui sopra, che sono massa elettorale per soddisfare la quale si prodigano Salvini e Renzi, Berlusconi e Grillo (e Sarkozy, Merkel, Farage, Le Pen, Cameron, Rutte)». Non è una questione che si possa «pensare di affrontare gratis, senza concedere qualcosa, senza fare alcun sacrificio (ampiamente ripagato nel lungo termine)». Impossibile risolvere nulla, senza «mettere tra le premesse del problema la necessità di rispettare la dignità dei migranti, anche a costo di togliervi il principio della conservazione del quattrino con ogni mezzo». E quindi tanti saluti e arrivederci, «al prossimo affondamento».Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi a cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.
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Il volo Germanwings abbattuto per errore dal laser Hellads
L’aereo della Germanwings schiantatosi il 24 marzo sulle Alpi francesi (volo 9525) non è stato “dirottato dal co-pilota suicida”, come raccontato dalle fonti ufficiali e quindi dai media, né abbattuto da jet francesi nel timore di un attacco kamikaze contro grandi città. Secondo un rapporto del ministero della difesa di Mosca, ripreso da “ReteNews24”, il velivolo è esploso in volo, prima ancora di finire contro le montagne. In pratica, un replay del caso Ustica. A far scoppiare l’aereo, con i suoi 150 passeggeri, sarebbe stato un errore fatale nell’uso del laser “Hellads”, in forza alla Us Air Force, che proprio in quelle ore lo stava testando. L’aereo tedesco, che ha perso quota in modo anomalo prima di essere distrutto, sarebbe finito nella traiettoria della nuova arma. Un laser ancora molto impreciso, peraltro, al punto da causare – appena tre giorni dopo – lo strano black-out che ha colpito l’Olanda, inclusa Amsterdam. Sempre secondo Mosca, la Nato avrebbe ugualmente replicato il test, a soli a tre giorni dal disastro francese, per rispondere tempestivamente all’esperimento (riuscito) del lancio del nuovissimo missile balistico russo Rs-26 Rubeszh.Causa della tragedia nei cieli francesi a poche miglia dal confine italiano, secondo la difesa russa, sarebbe il cosiddetto “High Energy Liquid Laser Area Defense System” (Hellads), un sistema d’arma ancora sperimentale, a laser liquido ad alta energia, in fase di sviluppo da parte della Darpa, la divisione del Pentagono che cura progetti avanzati. Il sistema “Hellads” è basato sull’impiego di un raggio laser ad alto potenziale, 150 chilowatt, progettato per abbattere missili, razzi e proiettili d’artiglieria. I russi riferiscono che lo stesso “Hellads” sarebbe stato responsabile, già il 22 maggio 2013, del quasi-incidente ai danni del volo Lh-1172 della Lufthansa, che perse improvvisamente quota. Il laser, in quel caso, avrebbe dovuto intercettare in volo un bersaglio lanciato dalla base aera di Vandenberg, in California. Sulle Alpi francesi, invece, lo scorso 24 marzo era stato sparato un missile balistico intercontinentale Icbm, modello “Lgm-30G-Minuteman III”, e poi un “Amarv” (“Advanced Maneuverable Reentry Vehicle”, destinato all’orbita polare per poi pecipitare nell’Oceano Pacifico». Era il bersaglio del laser, che invece avrebbe colpito l’aereo di linea.L’“Amarv”, spiegano i russi, simula le testate nucleari multiple e viene quindi preso di mira dal laser ad alta energia, nel tentativo di distruggerlo. Causa del fallimento di “Hellads”, secondo il rapporto di Mosca, è l’utilizzo – come piattaforma di lancio – del bombardiere B-1, «usato in tutti i test precedenti» e «noto per i continui fallimenti». Per questo, secondo i russi, agli occidentali non viene rivelata la verità su “Hellads”, la nuova super-arma della Nato, vera causa dell’abbattimento del volo 9525 della Germanwings. Così sarebbe stata inventata di sana pianta la storia del co-pilota “impazzito”. Secondo il ministero della difesa di Mosca, la stessa traccia audio della scatola nera «dimostra chiaramente il contrario di ciò che la propaganda occidentale ha indicato parlando di “urla dei passeggeri” sentite all’inizio per poi zittirsi, e seguite da “scricchiolio metallico”, allarme della cabina di pilotaggio e indecifrabili chiacchiere via radio prima del silenzio». Tutte indicazioni che rivelerebbero che «l’aereo aveva subito un guasto catastrofico uccidendo passeggeri ed equipaggio con l’esplosione in volo», come peraltro «i rottami sparsi dimostrano».L’aereo della Germanwings schiantatosi il 24 marzo sulle Alpi francesi (volo 9525) non è stato “dirottato dal co-pilota suicida”, come raccontato dalle fonti ufficiali e quindi dai media, né abbattuto da jet francesi nel timore di un attacco kamikaze contro grandi città. Secondo un rapporto del ministero della difesa di Mosca, ripreso da “ReteNews24”, il velivolo è esploso in volo, prima ancora di finire contro le montagne. In pratica, un replay del caso Ustica. A far scoppiare l’aereo, con i suoi 150 passeggeri, sarebbe stato un errore fatale nell’uso del laser “Hellads”, in forza alla Us Air Force, che proprio in quelle ore lo stava testando. L’aereo tedesco, che ha perso quota in modo anomalo prima di essere distrutto, sarebbe finito nella traiettoria della nuova arma. Un laser ancora molto impreciso, peraltro, al punto da causare – appena tre giorni dopo – lo strano black-out che ha colpito l’Olanda, inclusa Amsterdam. Sempre secondo Mosca, la Nato avrebbe ugualmente replicato il test, a soli tre giorni dal disastro francese, per rispondere tempestivamente all’esperimento (riuscito) del lancio del nuovissimo missile balistico russo Rs-26 Rubeszh.
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Sapir: aprite gli occhi, l’euro sta portando l’Europa in guerra
Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.«La Francia – scrive Sapir, in un post ripreso da “Vox Populi” – resta il solo paese in cui l’omertà dell’Ump e del Ps ha strozzato il dibattito», fondamentale per il futuro dell’Europa, «le cui tinte stanno diventando sempre più fosche a causa dell’esistenza dell’euro». Non è solo una questione economica o finanziaria, continua Sapir: non si sono mai viste né un’ampia unione di trasferimenti, né un’unione fiscale e men che meno un’unione sociale, «che avrebbero dovuto essere realizzate se si fosse voluto che l’euro avesse successo». Di tutto questo, «tutti i popoli dell’Unione economica e monetaria ne stanno ora pagando il prezzo». Ma quella dell’euro è anche e soprattutto una questione politica: «Avendo preteso – certamente a torto – che l’euro rappresentasse il completamento dell’Unione Europea, ora le classi dirigenti dei paesi membri sono terrorizzate dalla prospettiva di un suo fallimento, di cui perfino i più cocciuti tra loro iniziano a rendersi conto, e dalle conseguenze politiche che ne deriveranno».Credono che la fine dell’euro significherebbe la fine dell’Europa? «Non si rendono conto che è l’esistenza stessa dell’euro a sollevare un popolo contro l’altro, a far rivivere i vecchi antagonismi, ad aver fatto della guerra economica tra i paesi membri la normalità quotidiana, finché il conflitto militare, cosa che oggi è da temere, non arrivi a sostituirsi a questo conflitto economico». L’euro, continua Sapir, «distrugge i singoli paesi membri anche mettendo i lavoratori contro altri lavoratori, inventando nuove divisioni tra chi si avvantaggia dell’euro (in realtà una piccola minoranza) e chi invece vede la sua vita e il suo lavoro distrutti dall’euro, ed è questa ormai la realtà quotidiana per una maggioranza». Apriamo gli occhi, insiste Sapir: «La realtà è che l’euro ha distrutto l’Europa: non solamente le sue strutture istituzionali, che sarebbe dopotutto il male minore, ma anche le sue radici politiche e culturali. L’euro è la guerra. Ed è per questo che la dissoluzione dell’Eurozona non è solamente un obiettivo economico desiderabile, ma anche un’urgenza politica del nostro tempo».Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.
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Ma il povero renziano Baricco non può capire Houllebecq
Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.Per fortuna, invece, Houellebecq ha scritto “Sottomissione”, che rinvia sin dal titolo al film del regista olandese Theo van Gogh, assassinato da un islamista nel 2004: roba forte, dunque, anche senza il successivo macello di “Charlie Hebdo”. La traduzione italiana, uscita a tambur battente, ha esaurito subito la prima edizione, e la stroncatura di Baricco, intitolata “L’inutile lezione del professore”, è uscita su “Repubblica” il 20 gennaio, quand’era già tardi per impedire il successo del libro, per giunta perfidamente accostata alla recensione di un libro di Giuliano Amato. È inutile girarci attorno: di “Sottomissione”, Baricco non ha capito nulla. Del resto, potrebbe mai un intellettuale da salotto capire quel che passa per la testa di un predatore? L’esordio è solenne: «Se ancora esiste una pratica che si chiama letteratura – scandisce Baricco – non sono poi molti gli scrittori che vi si dedicano con risultati memorabili: per quel che ne capisco io, uno è Houellebecq». Con queste poche righe trasudanti ammirazione, però, l’inventore di “Holden – Scuola di Storytelling & Performing Arts”, il più costoso Dams italiano – prende due granchi con una sola frase.Primo granchio: c’è un fottio di buona letteratura in giro, persino i libri di Baricco non sono poi così male, a parte titoli come “Castelli di rabbia” (1991) che produrrebbe rabbia vera se non producesse costernazione. Ma la gran parte è letteratura d’intrattenimento, questo è il problema, e Houllebecq è tutt’altra cosa. Secondo granchio: Baricco pensa ancora alla Letteratura con la elle maiuscola, al Grande Romanzo Ottocentesco. Subito dopo, infatti, scrive che “Sottomissione” non attinge a quei livelli, limitandosi a cucire insieme «un romanzetto di fantapolitica, un racconto dedicato al mesto declino umano di un accademico parigino e un saggio su J. K Huysmans». Ora, come spiegare a uno scrittore d’intrattenimento che la letteratura più viva di quest’inizio millennio è proprio quella à la Houellebecq, che contamina romanzo, saggistica, reportage, dossier scientifico, e molte altre cose ancora? È, per citare i primi due titoli che mi vengono in mente, “Limonov” (2012) di Emmanuel Carrère, o il “Progetto Kraus” (2014) di Jonathan Franzen.Lo stesso Baricco, in “Castelli di rabbia”, cerca di fare qualcosa del genere, senza riuscirci. “Sottomissione”, invece, ci riesce perfettamente, direi con disinvoltura: vogliamo trattarlo come un «romanzetto di fantapolitica» solo per questo? Il terzo granchio è aver perso completamente di vista, a differenza dei critici d’Oltralpe, il tono satirico, paradossale, di tutta l’operazione. Come può essere sfuggito a uno scrittore, benché da salotto, che “Sottomissione” è un capolavoro dell’humour nero, nel solco di André Breton, autore che oltretutto cita? Come si fa a non capire che tutta la storia dell’islamizzazione della Francia, lungi dall’essere «una boutade buona per ravvivare una cena con dei colleghi», come crede Baricco, è un apologo sulla perdita d’identità francese ed europea, perdita che rende disponibili a votare il “Front National” o a convertirsi all’islamismo, indifferentemente, pur di ridarsi un’anima conservando il confort? Lo scrive Philippe Lançon su “Libération” del 3-4 gennaio: «L’humour è buona educazione per disperati – o maleducazione, come più vi piace».Nel libro c’è una tale quantità di battute politicamente scorrette, soprattutto sulle donne, che mi limito a citarne una, quasi inevitabile, sul presidente francese in carica. A proposito di François Hollande, “Sottomissione” si esprime con la seguente tranquilla ferocia: «Alla fine di due quinquennati catastrofici, con una rielezione dovuta solo alla strategia miserabile di favorire l’ascesa del Fronte nazionale, il presidente uscente aveva praticamente rinunciato a esprimersi, e la maggior parte dei media sembrava averne addirittura dimenticato l’esistenza. Quando, sulla soglia dell’Eliseo, davanti a una sparuta dozzina di giornalisti, si presentò come “l’ultimo baluardo dell’ordine repubblicano”, ci fu qualche risata, breve ma inequivocabile» (p. 101). Ve l’immaginate Baricco che scrive una cosa così, non dico del suo idolo Renzi, ma di Graziano Delrio?Houellebecq qualifica il politico francese di centrosinistra François Bayrou come «l’uomo politico ideale per incarnare l’umanesimo», incontrando «una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia» (p. 131). A proposito di umanesimo, la sua bestia nera, Houellebecq scrive che la sola parola «mi metteva una leggera voglia di vomitare» (p. 213). Ora, cosa può capire di tutto questo Baricco, che confonde l’ironia con la propria, finta, trasandatezza subalpina, a base di «robe», «quella cosa lì», «per quel che ne capisco io»? Ma sì, quella specie di understatement che tanto impressiona gli aspiranti romanzieri di “Holden”, lasciandogli credere che il loro guru, da un momento all’altro, potrebbe stupirli con effetti speciali. Io ho consultato persino Wikiquote, e mi permetto di disilluderli: gli effetti speciali non arrivano mai.Il quarto granchio di Baricco, sul quale il titolista di “Repubblica” ha fatto il titolo, riguarda «quello che sembra essere […] il vero nervo centrale del libro e in definitiva la sua ragion d’essere: il racconto dello strisciante declino, grottesco e rancoroso, di un cattedratico di mezza età». Senza accorgersi che il protagonista si chiama François, come se uno, in Italia, si chiamasse Italiano, lo stroncatore conclude che «difficilmente [un protagonista del genere] può assurgere a personaggio memorabile». Il granchio è condiviso con Bifo Berardi, il quale però, in una lunga recensione pubblicata online, molto più acutamente suggerisce: «Il dolore di cui [Houllebecq] parla in tutti i suoi romanzi non è solo il suo personale dolore, ma la chiave attraverso cui raccontare un’epoca». Ovvio: i traumi esibiti, la depressione, la paura della morte, sono solo le lenti attraverso cui Houellebecq guarda il meticoloso naufragio di una civiltà.Quinto e ultimo granchio – per ora: ma si attendono repliche – la totale ignoranza da parte di Baricco della metafisica di Houellebecq: che è poi ciò che rende i suoi libri così spiazzanti, così sgradevoli per le anime belle, ma anche così contagiosamente umoristici. Sulla base delle proprie esperienze personali, chirurgicamente raccontate nel suo libro migliore, “Le particelle elementari” (1998), Houellebecq ritiene questo nostro universo, retto dalle leggi darwiniane della selezione naturale, lo scherzo di un creatore malvagio, o mostruosamente stupido: una di quelle divinità dementi che affollano gli incubi di Howard Philip Lovecraft, uno dei suoi autori di culto. La vita degli umani segue le leggi dettate da questo semidio gnostico: soffrire, riprodursi e, appunto, sottomettersi alla necessità.Di sottomissione Houllebecq parla già in una delle pagine più hard delle “Particelle elementari”, dove descrive le angherie subite da ragazzo nel collegio, o piuttosto nella fossa dei serpenti, dove lo avevano parcheggiato i genitori dopo la loro separazione. Tutte le società animali, scriveva allora, compresa la società umana, «si reggono su un sistema di dominazione basato sulla forza relativa dei loro membri». Nel suo solito modo puntuale e disturbante, dunque, Houllebecq concludeva già allora che «l’animale più debole ha la possibilità di evitare il combattimento adottando una posizione di sottomissione (assunzione di stazione supina, esposizione dell’ano)» (p. 47 della trad. it., corsivo nel testo).Bene, anzi male, ma fatto sta che “Sottomissione” applica questa metafisica, desolante però esatta, alla situazione odierna della Francia, ma si potrebbe pure dire, contraddicendo anche qui Baricco, dell’Europa, se non della cultura occidentale in genere. Perché non ditemi che l’Italia è messa meglio della Francia, o che la nostra università pubblica non rischia, prima o poi, di essere rasa al suolo come quella francese nella finzione letteraria, o che le nostre povere vite sono molto più esaltanti della vita dell’accademico François. Chiaro che il protagonista di “Sottomissione”, alla fine, sia ridotto a convertirsi all’Islam: e neppure per ridare senso alla propria vita – espressione che a Houllebecq non produrrebbe neppure un sorriso di compatimento, ma il vomito, direttamente – bensì per avere una moglie, anzi tre, che finalmente lo accudiscano, come non avrebbe mai fatto, a credergli, la sua mamma snaturata.Ma tutto questo potrebbe sembrare semplicemente penoso, o palloso, come direbbe lo stesso Houllebecq, e non renderebbe giustizia all’assoluta godibilità del libro: che fa proprio ridere, da scompisciarsi, se solo uno sa coglierne l’ironia paradossale, e qua e là abissale, come sarebbe stato troppo pretendere dal malcapitato Baricco. Già che ci sono, anzi, mi permetto di rinviare al capolavoro di Houellebecq, “Le particelle elementari”, per suggerire un’interpretazione psicologica, sociologica, oserei dire antropologica, dell’incomprensione di Baricco. Il libro del 1998, come ho già detto, ha pagine autobiografiche tremende, che se fossero scritte da un altro lo farebbero semplicemente chiudere per non riaprirlo mai più. Eppure, o forse proprio per questo – se vi siete annotati la definizione dell’humour come buona o cattiva educazione per disperati – ha anche, nel capitolo terzo della parte seconda, alcune delle pagine più esilaranti della letteratura contemporanea.Succede che il co-protagonista delle “Particelle elementari”, Bruno, praticamente un maniaco sessuale, fa una disperata vacanza in un campeggio alternativo, sempre con il chiodo fisso di rimorchiare, ma con l’alibi, fornito dai sagaci gestori, di fare esperienze culturali estreme, dal massaggio erotico a tutte le varianti dello yoga sino alle più sofisticate forme di misticismo. In questa sorta di Disneyland dell’immaginario tipico della sinistra anni Settanta, che ha in realtà sdoganato l’individualismo e l’edonismo reaganiano degli Ottanta, per non parlare degli sputtanamenti ancora successivi, il nostro co-protagonista sceglie, fra i tanti a disposizione, anche un corso di scrittura creativa, tipo “Holden”. Solo che, trattandosi pur sempre di un alter ego di Houellebecq, non riesce a resistere dallo sfornare, su richiesta, questo distico indimenticabile: “I tassisti sono proprio dei froci / non ce n’è uno che si fermi agli incroci”.Ora, ditemi pure che Houellebecq e io, indifferentemente, siamo degli irresponsabili, dei goliardi, degli psicolabili: ma io non riesco a smettere di ridere, convulsamente, da quando ho letto questi versi la prima volta. E siccome penso che il riso, come ci hanno insegnato quelli di “Charlie Hebdo”, sia la sola religione per la quale vale la pena di vivere, e persino di morire, aggiungo solo una minuscola considerazione conclusiva. Altro che scrittura creativa e letteratura d’intrattenimento: se finalmente la gente si abitua alla buona letteratura, quella che fa semplicemente ridere e piangere, una risata le seppellirà.(Mauro Barberis, “Massacro preventivo, su Baricco critico di Houllebecq”, da “Micromega” dell’11 febbraio 2015. Il libro: Michel Houllebecq, “Sottomissione”, Bompiani, 252 pagine, euro 17,50).Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.
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Europa, la democrazia è finita: Draghi lo ricorda a Tsipras
Non chiamatele pressioni, sono ricatti. Non parlate di separazione di poteri, al vertice dell’Unione Europea non esistono. Sto parlando, ovviamente, del trattamento che “l’Europa” sta riservando alla Grecia. Quando la Banca centrale europea annuncia che non accetterà più i titoli pubblici greci a garanzia dei prestiti bancari, compie un gesto politico, dalla forza dirompente, paragonabile a un atto militare. Di fatto priva le banche di liquidità, ed è come se si riducesse l’ossigeno a un paziente reduce da una lunga malattia. Gli spin doctor della Bce hanno presentato la decisione alla stregua di “pressioni” sul governo greco; in realtà è una forma di ricatto, che dimostra, ancora una volta, come in questa Europa la democrazia sia più formale che sostanziale e come la volontà popolare non abbia possibilità di affermazione non appena contrasta con gli interessi e i piani delle élite europee. Fuor di metafora: Draghi ha messo Tsipras con le spalle al muro: se persiste sulla strada della rinegoziazione del debito, le banche greche, nel giro di poche settimane o forse di pochi giorni, si troveranno senza fondi, alcune chiuderanno, la gente assalirà, inutilmente, bancomat e sportelli, l’economia si fermerà.A quel punto Tsipras avrà di fronte a sé due alternative: rompere definitivamente e uscire dall’euro o chinare la testa. Secondo voi come finirà? L’effetto, se questo scenario dovesse realizzarsi, sarebbe disastroso per la nostra democrazia: dimostrerebbe che i vari Syriza, Podemos, eccetera non hanno alcuna possibilità di realizzare le proprie promesse elettorali e che ai popoli europei non resta in realtà che una scelta: applicare i diktat della Troika con un premier di centrosinistra o applicare i diktat della Troika con un premier di centrodestra. Cambia l’etichetta, non la sostanza. Nell’Europa di oggi, chi controlla la moneta, ovvero l’euro, di fatto rappresenta il potere più forte, condizionante in quanto ostativo, di tutte le istituzioni nazionali ed europee. Un potere che è assoluto. A chi risponde la Bce? A nessuno. Qual è il contropotere della Bce? Non esiste. Chi può giudicare la Bce? Nessun tribunale, la Banca centrale beneficia di fatto di un’immunità assoluta. Ma, vien da pensare, concetti che pensavamo sacri come la tripartizione dei poteri, la sovranità popolare? Spariti in un colpo.Non contano più, perché con la pretesa di proteggere la banca dalle interferenze dei politici, si è di fatto creato un feudo senza precedenti che ha potere di vita, di sofferenza (tanta sofferenza) e di morte su tutti i cittadini europei. Con la consueta dose di ipocrisia: all’indomani del voto in Grecia il presidente della Bce Mario Draghi, della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, del Consiglio Donald Tusk e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem si sono riuniti per esaminare la situazione e coordinare la risposta. Scusate, sarò un po’ tonto: ma se la Banca centrale europea deve essere immune dall’influenza dei politici, perché deve coordinarsi con istituzioni politiche? Draghi non dovrebbe immischiarsi di questioni politiche e men che meno partecipare a decisioni che, in una vera democrazia, spetterebbero ai rappresentanti del popolo. E invece l’indipendenza vale solo verso i politici nazionali, non ai vertici dell’Unione Europea e non solo perché essi non hanno piena legittimità popolare. I leader politici, economici, monetari dell’Unione Europea condividono un disegno, un progetto, un metodo di gestione del potere. A quei livelli le barriere non contano. Bisogna mantenere la rotta. E dimostrare a tutti i cittadini europei che il destino è segnato.(Marcello Foa, “Grecia e Bce, avete capito o no chi governa davvero?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 febbraio 2015).Non chiamatele pressioni, sono ricatti. Non parlate di separazione di poteri, al vertice dell’Unione Europea non esistono. Sto parlando, ovviamente, del trattamento che “l’Europa” sta riservando alla Grecia. Quando la Banca centrale europea annuncia che non accetterà più i titoli pubblici greci a garanzia dei prestiti bancari, compie un gesto politico, dalla forza dirompente, paragonabile a un atto militare. Di fatto priva le banche di liquidità, ed è come se si riducesse l’ossigeno a un paziente reduce da una lunga malattia. Gli spin doctor della Bce hanno presentato la decisione alla stregua di “pressioni” sul governo greco; in realtà è una forma di ricatto, che dimostra, ancora una volta, come in questa Europa la democrazia sia più formale che sostanziale e come la volontà popolare non abbia possibilità di affermazione non appena contrasta con gli interessi e i piani delle élite europee. Fuor di metafora: Draghi ha messo Tsipras con le spalle al muro: se persiste sulla strada della rinegoziazione del debito, le banche greche, nel giro di poche settimane o forse di pochi giorni, si troveranno senza fondi, alcune chiuderanno, la gente assalirà, inutilmente, bancomat e sportelli, l’economia si fermerà.