Archivio del Tag ‘opposizione’
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Jobs Act e Ttip, francesi in rivolta. E gli italiani? Buonanotte
“Non temere il nemico, che può solo prenderti la vita. Molto meglio che temi i media, poiché quelli ti rubano la verità e l’onore. Quel potere orribile, l’opinione pubblica di una nazione, viene creato da un’orda di ignoranti, compiaciuti sempliciotti che incapaci di zappare o fabbricare scarpe, si sono dati al giornalismo per evitare il Monte di Pietà” (Mark Twain). “Una stampa cinica, mercenaria, demagogica finirà col produrre un popolo altrettanto spregevole” (Joseph Pulitzer). Le fenomenali lotte insurrezionali in Francia, dove si sta applicando la lezione latinoamericana dell’attacco allo Stato capitalista di polizia attravero il blocco dello Stato da parte di tutte le categorie che lo fanno funzionare, meriterebbe un trattamento approfondito e su vasta scala, anche per neutralizzare l’omertà della nostra tremebonda classe politica e dei nostri media asserviti. Omertà con il regime francese che si esprime attraverso l’arma di un silenzio quasi assoluto su quanto da settimane va succedendo in quel paese.Essendo noi quelli dove un prefetto può ridurre d’imperio da 24 a 4 ore uno sciopero dei trasporti, senza che il sindacato sollevi un sopracciglio, sapendo adeguatamente della Francia e dei suoi scioperi ad oltranza, potremmo scoprire che non è detto che i giochi col padrone – che sia Renzi, Boccia, Camusso, Juncker, Draghi, Obama – si debbano sempre fare secondo le regole loro. Ho trovato in rete il documento in calce che fa un interessante confronto tra la nostra situazione e quella francese. Credo che l’autore dello scritto,fidandosi del potenziale di lotta dei lavoratori italiani, pur sottolineando la diserzione dei loro rappresentanti storici, sindacali e politici, trascuri un dato importante: la passivizzazione dei settori sociali che una successione di governi al servizio del grande capitale finanziario transnazionale è riuscita a produrre. Uno degli strumenti più efficaci, dopo la creazione dello Stato della Sorveglianza Totale e della paura, è stato il depistaggio dalla contraddizione principale, quella di classe, quella del rapporto di forza tra padrone e lavoratore, tra sovrano e suddito, tra dipendenza e sovranità, all’obiettivo totalizzante dei – pur validi – diritti civili, unioni di fatto, Glbtq, adozioni.Molto importante è poi un dato storico, metapolitico: in Francia resiste un forte senso patriottico in difesa della sovranità dello Stato, che in passato, a partire da De Gaulle, aveva determinato il rifiuto dell’ingresso nell’apparato militare della Nato e poi aveva prodotto lo straordinario No al referendum sui trattati Ue. In Francia, perciò, mi sembra esserci un terreno più propizio per l’opposizione a provvedimenti di repressione e desertificazione sociale (le 45-50 ore di lavoro settimanali, i contratti aziendali a discapito di quelli nazionali di categoria, la totale flessibilità e il potere assoluto di licenziamento) che la gente percepisce essere la componente francese di un piano transnazionale di trasferimento della ricchezza dal basso in alto, di liquidazione della sovranità popolare e statale, di distruzione progressiva dei diritti e delle libertà democratiche, che hanno per mandanti i tecnocrati non eletti di Bruxelles, Wall Street e la Nato. Cioè forze esterne e prevaricatrici. Fenomeno già riscontrato in tempi recenti quando, facendosi forza della minaccia terroristica, opportunamente coltivata da Charlie Hebdo in poi, Hollande ha tentato di bloccare, con arresti preventivi alla Mussolini, le manifestazioni contro la farsa del Cop21 sul clima. E non gli è riuscito.Schiacciare la società per far passare il Ttip (e la Nato). C’è un’altra considerazione che probabilmente è stata fatta dai dirigenti delle lotte francesi e da gran parte della società. Le misure sociocide ordinate a Hollande e Valls dalle centrali sopra nominate sono il preludio al Ttip, il trattato di libero scambio Ue-Usa, Nato economica, che, come sappiamo e come validi parlamentari del M5S denunciano con forza, è inteso a radere al suolo le costituzioni europee, le salvaguardie di lavoro, ambiente, salute, sovranità, conquistate in decenni di lotte e a sottometterci agli interessi delle multinazionali Usa. Una consapevolezza che in altri paesi europei sembra già più matura, viste le manifestazioni in Germania, 250mila a Berlino, 90mila a Hannover, seguite non malamente da Roma con 30mila. In Francia si è capito che i gravissimi provvedimenti di ordine pubblico – militarizzazione della società, stati d’emergenza, caccia alle streghe per oppositori – adottati con il pretesto degli attentati terroristici (su cui aleggiano ombre nerissime), nelle intenzioni dei loro esecutori e mandanti (esterni) servono proprio a impedire che, contro il dumping sociale e la riduzione della democrazia a mero involucro formale, si possa manifestare una grande e duratura opposizione di massa.Il fatto che questo progetto sia stato messo in crisi in Francia, e addirittura in Belgio, da una vera e propria insurrezione popolare, di tutte le categorie del lavoro e con l’appoggio (Nuit Debout) di altri settori sociali, pur più volatili, ma ugualmente colpiti (prima di tutti quelli dell’lstruzione), potrebbe significare che nè un terrorismo utilizzato come alibi per lo Stato di polizia, nè un concerto mediatico omologato alle strumentalizzazioni e falsificazioni di regime, hanno avuto ancora partita vinta. C’è da augurarsi che questa storia non vada a finire come lo scontro tra i minatori britannici e la Thatcher, Lady di uranio impoverito, antesignana con Reagan di una guerra di sterminio interna e mondiale. Questi formidabili francesi hanno nel Dna il seme del 1989, di Robespierre, della Comune. I britannici del Brexit, dei minatori e, forse, di Oliver Cromwell. E il nostro di seme, quello del ’48, della lotta partigiana, del ‘68, dove s’è nascosto?(Fulvio Grimaldi, “Allons enfants!”, dal blog “Mondo Cane” del 2 giugno 2016).“Non temere il nemico, che può solo prenderti la vita. Molto meglio che temi i media, poiché quelli ti rubano la verità e l’onore. Quel potere orribile, l’opinione pubblica di una nazione, viene creato da un’orda di ignoranti, compiaciuti sempliciotti che incapaci di zappare o fabbricare scarpe, si sono dati al giornalismo per evitare il Monte di Pietà” (Mark Twain). “Una stampa cinica, mercenaria, demagogica finirà col produrre un popolo altrettanto spregevole” (Joseph Pulitzer). Le fenomenali lotte insurrezionali in Francia, dove si sta applicando la lezione latinoamericana dell’attacco allo Stato capitalista di polizia attravero il blocco dello Stato da parte di tutte le categorie che lo fanno funzionare, meriterebbe un trattamento approfondito e su vasta scala, anche per neutralizzare l’omertà della nostra tremebonda classe politica e dei nostri media asserviti. Omertà con il regime francese che si esprime attraverso l’arma di un silenzio quasi assoluto su quanto da settimane va succedendo in quel paese.
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In campo solo loro, vinceranno il RefeRenzum col 100%
Piazze e vicoli, radio pubbliche e private, Tv, giornali on line e giornali di carta, volantini di Expert, Trony e Ikea, Università e scuole materne, Facebook, Twitter, Instagram, Badoo, pornohub. E poi ancora: Tg, programmi di approfondimento, rassegne stampa notturne, bugiardini dei medicinali, talk-show, varietà (isole dei famosi comprese): la campagna referendaria per il “Sì” del duo Renzi-Boschi – a quattro mesi e passa dal voto – non risparmia alcun luogo fisico, alcun canale di comunicazione per convincere il popolo sovrano ed elettore che deve votare “Sì” al referendum sulla costituzionalizzazione del bonapartismo. L’attività frenetica dei due non conosce soste, limiti, ostacoli. E’ una marcia trionfale verso la schiacciante vittoria plebisciataria che rade al suolo ogni opposizione. Tutte le occasioni sono buone per ribadire che la riforma costituzionale è necessaria, improcrastinabile e santa e che – oltre a Berlinguer, Ingrao, Pajetta, Togliatti, Gramsci, Bordiga, i partigiani buoni e la Terza Internazionale – questa riforma la vuole pure la casalinga di Voghera.Si parla di immigrazione? La riforma è necessaria per arginare i flussi migratori. Il deficit (qualunque deficit, non importa quale, anche un deficit di intelligenza va bene) è oltre i limiti? La riforma lo farà rientrare entro i limiti. Napolitano ha il mal d’auto? La riforma glielo farà passare. La tua connessione internet salta in continuazione? Niente paura, con la riforma sarà stabile e più veloce di prima. Sei stato licenziato? La riforma produrrà nuovi e più gratificanti posti di lavoro tutti per te. Il buttafuori della discoteca non ti ha fatto entrare e ti ha preso a calci perché eri ubriaco come una scimmia già dalle quattro del pomeriggio? Con la riforma non succederà mai più. Mancano, lo dicevo prima, ancora quattro mesi al referendum e già siamo combinati così.Non so quanti italiani resisteranno a questo bombardamento, a questa guerra totale, a questo incubo, per tutto questo tempo. Già tremo all’idea che la notte di ferragosto aprendo un’anguria in spiaggia al falò con gli amici ci possa trovare dentro un volantino con le ragioni per il “Sì” referendario. Il referendum è senza quorum. Questi due, da qui a ottobre, ci avranno sterminato tutti (pure quelli della loro parte) e andranno a votare solo loro. E vinceranno col 100% dei consensi.(Turi Comito, “Vinceranno il RefeRenzum con il 100%”, da “Megachip” del 26 maggio 2016).Piazze e vicoli, radio pubbliche e private, Tv, giornali on line e giornali di carta, volantini di Expert, Trony e Ikea, Università e scuole materne, Facebook, Twitter, Instagram, Badoo, pornohub. E poi ancora: Tg, programmi di approfondimento, rassegne stampa notturne, bugiardini dei medicinali, talk-show, varietà (isole dei famosi comprese): la campagna referendaria per il “Sì” del duo Renzi-Boschi – a quattro mesi e passa dal voto – non risparmia alcun luogo fisico, alcun canale di comunicazione per convincere il popolo sovrano ed elettore che deve votare “Sì” al referendum sulla costituzionalizzazione del bonapartismo. L’attività frenetica dei due non conosce soste, limiti, ostacoli. E’ una marcia trionfale verso la schiacciante vittoria plebisciataria che rade al suolo ogni opposizione. Tutte le occasioni sono buone per ribadire che la riforma costituzionale è necessaria, improcrastinabile e santa e che – oltre a Berlinguer, Ingrao, Pajetta, Togliatti, Gramsci, Bordiga, i partigiani buoni e la Terza Internazionale – questa riforma la vuole pure la casalinga di Voghera.
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Colpi di mano e tradimenti, nell’ascesa di Renzi (e di Hitler)
Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità. Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno. Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.Entrambi vengono terzi e ultimi di una serie di premier (il primo dopo Von Papen e Von Schleicher, il secondo dopo Monti e Letta) che sono “premier del presidente” (rispettivamente, del vecchio presidente Von Hindenburg e del vecchio presidente Napolitano), dove “premier del presidente” significa “capo del governo scelto e sostenuto dal capo dello Stato” che gli firma i decreti legge anche al di fuori dei presupposti costituzionali per la loro emissione e che assicura loro il voto del Parlamento (forzando i partiti a collaborare e minacciando i parlamentari di scioglierlo se gli vota la sfiducia, così da far loro perdere seggio e vitalizio). E qui segnalo una differenza tra Hitler e Renzi: Von Hindenburg era stato eletto dal popolo a maggioranza assoluta, mentre Napolitano da una maggioranza parlamentare frutto di una legge poi dichiarata incostituzionale, cioè del Porcellum, che è la medesima maggioranza con cui Renzi ha fatto votare la sua Costituzione. Quindi il percorso di Renzi verso il potere è meno democraticamente legittimato e meno formalmente “legalitario” di quello di Hitler.Torniamo alle analogie. Entrambi epurarono l’ala sociale del loro partito (rappresentate rispettivamente, diciamo, da Strasser e da Fassina) per assicurarsi l’appoggio e le sovvenzioni del grande capitale. Hitler divenne premier pugnalando alle spalle Von Schleicher, Renzi pugnalando alle spalle Enrico Letta. Entrambi rassicurarono la vittima prima di colpirla. Hitler fece uccidere Von Schleicher il 30giugno 1934. Ambedue hanno cercato invano di ottenere la maggioranza assoluta alla elezioni generali, e hanno conseguito il potere sfruttando le divisioni e la miopia dell’insieme delle altre forze politiche. Ambedue hanno sfiorato il 40% dei suffragi popolari, per poi iniziare a perdere consensi, ma hanno continuato nondimeno la scalata al potere e le rispettive riforme, fino a conseguirle, nonostante il declino della fiducia popolare. Una volta divenuti premier, entrambi hanno preteso e ottenuto di modificare la Costituzione in modo da accentrare nelle proprie mani le fila di tutti i poteri dello Stato, eliminando i controlli indipendenti di garanzia e la possibilità di una reale opposizione parlamentare.Entrambi hanno usato il governo, il potere esecutivo, per promuovere queste riforme costituzionali. Entrambi hanno chiamato il popolo a un referendum confermativo del nuovo ordine – Hitler nell’agosto 1934, Renzi nell’ottobre 2016 – presentando il referendum come un plebiscito per legittimare politicamente la propria persona senza sottoporsi ad elezioni generali, e per legare alla propria persona il nuovo ordine costituzionale. Entrambi hanno fatto riforme che limitano sostanzialmente la partecipazione e la scelta politica popolari in favore delle liste bloccate redatte dal capo del partito. Inoltre entrambi hanno preteso e ottenuto di sopprimere le autonomie federali, imponendo ai governi e i parlamenti regionali il principio di supremazia del governo centrale.Ancora, entrambi hanno soppiantato la figura del presidente, dopo averla usata per scalare il potere: Hitler assorbendone le funzioni alla morte di Von Hindenburg, Renzi, alle dimissioni di Napolitano, scegliendosi in proprio una persona assecondante, senza spicco né autonomia, come poi avverrà automaticamente sotto la sua Costituzione, con effetto analogo a quello ottenuto da Hitler quando riunì alla propria carica di premier quella di presidente. Entrambi, prima delle votazioni decisive, si sono assicurati appoggio e visibilità da parte dei principali mezzi di informazione di massa, sostituendo i direttori delle testate con uomini di loro fiducia: Hitler prevalentemente con la forza, Renzi prevalentemente con le sovvenzioni, il canone in bolletta e soprattutto occupando la direzione della Rai. Entrambi hanno saputo comperare, fino all’ultimo, il sostegno dei cattolici centristi. Hitler li scaricò non appena possibile. Entrambi, infine e naturalmente, hanno agito per il dominio della Germania sull’Europa.(Marco Della Luna, “Hitler e Renzi, analogie di metodo”, dal blog di Della Luna del 15 maggio 2016).Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità. Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno. Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
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Dopo Kissinger, ecco Hillary: è la dea della prossima guerra
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».Tracciando un abile collegamento tra l’11 Settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). “Continueremo a cercare missioni” dovrebbe essere decrittografato come “altre guerre” e implica, senza – mai – ammetterlo che la Libia e la Siria sono stati notevoli disastri nella politica estera degli Usa. In effetti, Hillary si spinge persino oltre, affermando di non aver finito con il Medio Oriente e di essere pronta a continuare la sua “missione” di imporre la democrazia con qualsiasi mezzo necessario, dai droni alla R2P (“responsibility to protect” [responsabilità di proteggere])… grazioso eufemismo per imperialismo umanitario. È inutile che i cittadini europei manifestino choc e timore reverenziale; in fin dei conti, hanno a che fare con un falco della guerra che è arrivato ad ammettere, ufficialmente, per la prima volta durante la sua campagna presidenziale, di essere realmente un falco della guerra. Per quanto riguarda la “nazione indispensabile” (copyright del mentore di Hillary, Madeleine Albright), sarà come al solito un affare… come la ricerca di guerre senza fine. Quindi, basta con l’immagine, coltivata con cura dai pr, di una gentile, innocua, vecchia nonnina: qui abbiamo piuttosto Hillary che apre l’argine al Kissinger che ha dentro di sé.Il consolato americano di Bengasi era essenzialmente la copertura di una linea clandestina usata dalla Cia per contrabbandare armi ai “ribelli moderati” che si battevano contro Damasco. Seymour Hersh è stato tra coloro che lo hanno rivelato: «L’amministrazione di Obama non ha mai ammesso pubblicamente il proprio ruolo nella creazione di quella che la Cia chiama la “linea dei ratti“, un canale clandestino che portava dritto in Siria. La “linea dei ratti”, autorizzata agli inizi del 2012, era usata per convogliare armi e munizioni all’opposizione partendo dalla Libia e passando per la Turchia fino ad attraversare il confine con la Siria. Molti dei siriani che alla fine ricevevano le armi erano jihadisti, alcuni dei quali collegati ad al-Qaeda». Ora, immaginate il segretario di Stato Hillary Clinton che agevola la spedizione di missili antiaerei terra/aria Sa-7 e di granate a propulsione missilistica a dei jihadisti collegati ad al-Qaeda. È decisamente qualcosa che non si può volere nel proprio curriculum, soprattutto nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Hillary sta già combattendo una battaglia per la credibilità per quanto riguarda il suo server sotterraneo di e-mail. Celate nella sua crociata personale per la privatizzazione di dati dal Dipartimento di Stato degli Usa, ci potrebbero essere almeno tre gravissime infrazioni: distruzione, alterazione, o falsificazione di documenti; convertire a proprio uso proprietà di un Dipartmento degli Usa; raccogliere, trasmettere o perdere dati relativi alla difesa. L’intera nazione attende di sapere se il procuratore generale degli Usa, Loretta Lynch, che risponde al suo capo, il presidente Obama, deciderà di perseguire l’ex segretario di Stato a causa di tali infrazioni. Come se la suspense non bastasse, l’ex capo della Cia, Robert Gates, fonte credibile e in buona fede, ha messo in discussione, pubblicamente, il “buon senso” di Hillary e la sua mancanza di investigazione e approfondimento dei dati nel disastro della Libia, praticamente dichiarando che Hillary è una mina vagante.Gates ha rivelato quello che nell’ambiente governativo è un segreto di Pulcinella: che Hillary era completamente concentrata su un cambiamento di regime in Libia: «Il presidente mi ha detto che si è trattato di una delle decisioni più difficili che si sia mai trovato a prendere, una specie di 51 a 49, e sono certo che non avrebbe preso quella decisione se il segretario di Stato Clinton non l’avesse sostenuta». Gates più tardi ha ricordato la domanda di Obama: «Posso portare a termine le due guerre in cui sono già coinvolto prima che voi ne andiate a cercare una terza?». Gates ha aggiunto che il colonnello Gheddafi «non rappresentava affatto una minaccia per noi. Rappresentava una minaccia per il suo popolo, tutto qui». Nemmeno essere il principale architetto di una Libia “liberata”, che si è trasformata in un covo di terrorismo aperto a tutti è una descrizione del proprio operato che si possa volere nel proprio Cv nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Le affermazioni di Gates riguardano fatti in qualche modo già trapelati nel marzo 2011: il famoso incontro notturno a Parigi tra Hillary e il “ribelle” libico Mahmoud Jibril. Uomo decisamente ammaliante, istruito negli Usa, Jibril aveva messo nel sacco Hillary dicendo «tutte le cose giuste sul fatto di sostenere la democrazia e l’inclusività e di creare istituzioni libiche, alimentando una certa speranza sul fatto che saremmo stati in grado di farcela», stando a Philip H. Gordon, uno degli aiutosegretari della Clinton. «Ci hanno detto quello che volevamo sentire. E si tende a voler credere». Ed ecco il punto conclusivo: si tratta di quello che un’amministrazione degli Usa “vuole credere”. Hillary ne era stata immediatamente convinta, senza minimamente far seguire la retorica a una stima, così come deve essere fatta secondo l’Abc dei servizi segreti americani.Questa versione, in quanto catalizzatore decisivo del cambiamento di regime in Libia, è più pertinente del fantasioso racconto francese sul fatto che il piccolo Napoleone Nicolas Sarkozy abbia preso il comando incitato da un patetico filosofo con l’immancabile camicia bianca aperta sul suo microscopico plesso solare. Così la Libia è diventata la guerra di Hillary, proprio come quella dell’Iraq nel 2003 era stata la guerra del regime neo-conservatore di Cheney. Obama, come presidente, incitato dal suo segretario di Stato, si è addentrato in Libia senza un piano B, senza un piano di azioni da intraprendere successivamente, senza nessuna meta strategica di politica estera a lunga scadenza. Eppure nessuno in Europa si dovrebbe aspettare che la dea della guerra spieghi le proprie mete strategiche… che siano portate avanti con l’uso di droni, sovversione, sanzioni, bombardamenti con fini liberatori o R2P. Che siano in Libia, o facciano parte di tutte queste “missioni” una volta che lei diventerà presidente.(Pepe Escobar, “Hillary Clinton, della della guerra”, da “Occhi della guerra” del 2 maggio 2016).In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».
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Luciano Canfora: attacco alla Costituzione, una lunga storia
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo. Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati». L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il “Corriere della Sera” pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ‘45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.(Luciano Canfora, “Attacco alla Costituzione, una lunga storia”, da “Il Manifesto” del 24 aprile 2015).L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
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No all’Ucraina nell’Ue, dall’Olanda uno schiaffo a Bruxelles
Ancora una volta l’Olanda, anzi il popolo olandese, ha detto di no all’Unione Europea. Lo disse in occasione della Costituzione europea e l’ha ripetuto ieri, opponendosi all’accordo di associazione tra Unione Europa ed Ucraina. L’argomento è tecnico e non stupisce che si stato dibattuto poco sui media internazionali, ma politicamente ha un peso notevole, perché rappresenta la scorciatoia per far entrare Kiev nella Ue, sottraendola così definitivamente all’influenza della Russia. Gli olandesi si sono opposti a questo disegno e con percentuali che non lasciano adito a dubbi: il 61,1% ha votato no. E siccome è poco probabile che raffinate disquisizioni di geostrategia, pro o contro il Cremlino, abbiano avuto un ruolo determinante nella campagna, il risultato va interpretato come un forte segnale di protesta contro l’Unione Europa e contro l’ulteriore apertura dei suoi confini. Un voto di sfiducia verso le istituzioni europee (Commissione Europea ma anche Banca centrale europea) e le loro politiche economiche, incentrate su un’austerity insensata che ha finito per erodere il benessere anche di un paese come l’Olanda, che un tempo risplendeva di benessere e che da qualche tempo mostra segnali di cedimento.Nulla di paragonabile alla Grecia o al Portogallo, sia chiaro, e nemmeno alla Spagna e all’Italia. Ma gli olandesi non stanno più bene come una volta e sentono di non poter più determinare liberamente il proprio destino, che invece dipende da un’entità impalpabile eppure estremamente invasiva e priva del necessario consenso popolare. Gli olandesi non si sentono a loro agio, temono per il proprio futuro e non si fidano di questa Europa. Per questo hanno votato no in modo tanto chiaro, sempre che la loro volontà non venga ignorata, come è avvenuto in passato ogni volta che un popolo ha bocciato un progetto europeo. Il voto di ieri ha superato il quorum, fissato al 30%, ma tecnicamente non era vincolante per il governo olandese, che potrebbe anche decidere di ignorarne l’esito; potrebbe, insomma, decidere di suicidarsi politicamente per “salvare l’Europa”. Oppure è possibile che Bruxelles escogiti qualche stratagemma per far approvare comunque l’intesa, magari solo attraverso una semplice cosmesi o cambiando nome all’accordo, come era avvenuto in occasione del voto sulla Costituzione europea, riproposta quasi tale e quale sotto le vesti del Trattato di Lisbona. Insomma, aggirando la volontà degli olandesi. Sempre che ce ne sia il tempo.I fronti caldi si moltiplicano e il volto dell’Unione europea appare improvvisamente invecchiato. La vicenda dei migranti sta esasperando le popolazioni in tutta Europa, la Polonia e l’Ungheria si sono già ribellate, i paesi scandinavi in parte, mentre l’economia continentale non decolla, la disoccupazione non migliora e il benessere degli europei, zavorrati da tasse insensate, continua a erodersi. Se poi il referendum del 23 giugno in Gran Bretagna dovesse concludersi con l’uscita dalla Ue, il quadro europeo potrebbe cambiare drasticamente e molto più velocemente di quanto immaginino quei commentatori che in queste ore liquidano come un fatto marginale e di scarso interesse, il voto in Olanda. Un voto che invece rappresenta un sonoro e forse profetico schiaffo a Bruxelles.(Marcello Foa, “Dall’Olanda un sonoro schiaffo all’Ue, è l’inizio di una nuova era?”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 7 aprile 2016).Ancora una volta l’Olanda, anzi il popolo olandese, ha detto di no all’Unione Europea. Lo disse in occasione della Costituzione europea e l’ha ripetuto ieri, opponendosi all’accordo di associazione tra Unione Europa ed Ucraina. L’argomento è tecnico e non stupisce che si stato dibattuto poco sui media internazionali, ma politicamente ha un peso notevole, perché rappresenta la scorciatoia per far entrare Kiev nella Ue, sottraendola così definitivamente all’influenza della Russia. Gli olandesi si sono opposti a questo disegno e con percentuali che non lasciano adito a dubbi: il 61,1% ha votato no. E siccome è poco probabile che raffinate disquisizioni di geostrategia, pro o contro il Cremlino, abbiano avuto un ruolo determinante nella campagna, il risultato va interpretato come un forte segnale di protesta contro l’Unione Europa e contro l’ulteriore apertura dei suoi confini. Un voto di sfiducia verso le istituzioni europee (Commissione Europea ma anche Banca centrale europea) e le loro politiche economiche, incentrate su un’austerity insensata che ha finito per erodere il benessere anche di un paese come l’Olanda, che un tempo risplendeva di benessere e che da qualche tempo mostra segnali di cedimento.
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Referendum, Renzi si sgonfia: ha contro 13 milioni di italiani
«C’è chi dice che Renzi guarda a quella massa fra i 10 ed i 15 milioni di voti che gli è irriducibilmente ostile con preoccupazione. Fa bene». Per Aldo Giannuli, il referendum sulle trivelle – quorum mancato, votanti appena sopra il 30% – resta soprattutto un possibile preavviso di sfratto da Palazzo Chigi, o almeno il segnale che, per il premier, d’ora in avanti sarà tutto più difficile. Il dato più significativo, scrive il politologo dell’ateneo milanese, sono quei quasi 13 milioni e mezzo di voti raccolti dal Sì, che «indicano l’area di resistenza antirenziana più decisa», in massima parte attribuibili al M5S e alla sinistra. Un nucleo duro, che giocherà il suo ruolo tanto alle amministrative di giugno quanto al referendum cruciale sulla “rottamazione” della Costituzione. «Ricordiamoci degli imbrogli che Renzi ha fatto per vincere questo referendum (dalla disinformazione alla decisione di separare referendum e voto amministrativo per far mancare il quoziente), ricordiamoci dei comitati d’affari che lo scandalo potentino ha rivelato», aggiunge Giannuli. «Ricordiamocene, soprattutto il 19 giugno, quando voteremo per i ballottaggi e in nessun caso occorrerà dare un voto in più ai candidati del Pd».Il quesito sulle trivelle ha avuto pochissima attenzione (soprattutto televisiva) sino a dieci giorni prima del voto, ricorda Giannuli nel suo blog. Campagna referendaria inesistente, poi l’impegno del Pd per il boicottaggio del voto, con l’appoggio di Forza Italia e la diserzione assoluta della Lega. Dove il tema era più sentito – Puglia e Basilicata – l’adesione è stata altissima: «Quindi, nel referendum istituzionale (che avrà ben alto impatto) le cose non andranno tanto lisce per Renzi, anche perché è presumibile che, in quel caso, la destra sarà contro Renzi». Poi c’è Michele Emiliano: il presidente della Puglia, protagonista di questo scontro, «ha acquisito una prima notorietà nazionale e ha un partito che lo segue nella sua regione». Un osso duro, non certo «uno degli stoccafissi surgelati della “sinistra” bersaniana». Si impegnerà contro Renzi, sia al referendum istituzionale che in una battaglia congressuale nel Pd, magari insieme a personaggi come Chiamparino e Zanda.Altri campanelli d’allarme, per Renzi, dalle città più importanti fra quelle prossime al voto: Torino, dove la partecipazione è stata del 36,5%, cioè 4 punti oltre la media, e Bologna (36,8%), città che non avevano alcuna particolare ragione (come invece quelle sulla costa adriatica) per votare più di altre. E c’è anche un gruppo di province, di cui alcune “rosse”, dove la partecipazione è stata oltre la media: Modena, Reggio Emilia, Oristano, Padova, Chieti. In prospettiva, ora, incombono i referendum costituzionali, scrive Antonio Signorini sul “Giornale”: «Sembravano quasi un plebiscito, quando lo stesso Renzi ha annunciato che al voto confermativo sulle riforme legherà la sorte del suo governo. Oggi lo sono molto meno». Non ci sarà bisogno di quorum. «Se ci sarà un’astensione sarà solo quella di chi è completamente disinteressato all’assetto delle istituzioni nazionali, ma anche alla politica. In campo ci saranno i pro-Renzi e gli anti-Renzi. Tra questi, i tanti elettori moderati che ieri non sono andati a votare solo perché volevano salvare le trivelle. Ma che se potessero, non salverebbero il governo e il premier Renzi».«C’è chi dice che Renzi guarda a quella massa fra i 10 ed i 15 milioni di voti che gli è irriducibilmente ostile con preoccupazione. Fa bene». Per Aldo Giannuli, il referendum sulle trivelle – quorum mancato, votanti appena sopra il 30% – resta soprattutto un possibile preavviso di sfratto da Palazzo Chigi, o almeno il segnale che, per il premier, d’ora in avanti sarà tutto più difficile. Il dato più significativo, scrive il politologo dell’ateneo milanese, sono quei quasi 13 milioni e mezzo di voti raccolti dal Sì, che «indicano l’area di resistenza antirenziana più decisa», in massima parte attribuibili al M5S e alla sinistra. Un nucleo duro, che giocherà il suo ruolo tanto alle amministrative di giugno quanto al referendum cruciale sulla “rottamazione” della Costituzione. «Ricordiamoci degli imbrogli che Renzi ha fatto per vincere questo referendum (dalla disinformazione alla decisione di separare referendum e voto amministrativo per far mancare il quoziente), ricordiamoci dei comitati d’affari che lo scandalo potentino ha rivelato», aggiunge Giannuli. «Ricordiamocene, soprattutto il 19 giugno, quando voteremo per i ballottaggi e in nessun caso occorrerà dare un voto in più ai candidati del Pd».
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Migranti in cambio di petrolio, patto segreto Italia-Malta
Mentre la crisi dei rifugiati siriani è arrivata a un’impasse, sia in termine di sicurezza europea sia di diritti umani dei rifugiati, Bruxelles si trova a dover negare accuse di un patto segreto tra Malta e l’Italia per scambiare rifugiati con diritti di esplorazione petrolifera. Il leader dell’opposizione maltese sostiene che Malta e l’Italia hanno stretto un accordo segreto in cui l’isola rinuncia ai diritti di esplorazione petrolifera su un’area offshore oggetto di disputa con l’Italia, in cambio dell’assegnazione all’Italia della quota di migranti recuperati in mare che spetterebbe a Malta. La Commissione Europea è stata costretta a rispondere a queste accuse, negandole, ma la situazione resta complessa, scrive “Zero Hedge” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”, che segnala l’offensiva dell’esponente politico maltese Simon Busuttil, del Partito Nazionalista, europarlamentare dal 2013, secondo cui il suo governo ha permesso a Roma di trivellare i fondali marini in acque maltesi, nell’ambito di uno scambio poco pulito tra petrolio e migranti.Le sue accuse sono state amplificate dal “Giornale”: Matteo Renzi avrebbe concluso quell’accordo con il premier maltese Joseph Muscat. Ne aveva già parlato lo scorso settembre il ministro dell’interno Carmelo Abela, accennando a un “accordo informale” con l’Italia. Dal canto suo, Malta ha ammesso la collaborazione stretta, ma i funzionari del piccolo paese mediterraneo sostengono che non c’è un vincolo che lega il discorso migranti alle esplorazioni petrolifere. Malta è il membro dell’Ue più vicino alle coste libiche, sottolinea “Zero Hedge”: considerato questo, il parlamentare italiano Elisabetta Gardini (centrodestra) ha recentemente chiesto alla Commissione Europea di spiegare come mai ci sono così pochi arrivi di migranti a Malta. Una domanda impegnativa: dal 2015, delle 142.000 persone che hanno lasciato le loro case per dirigersi in Europa lasciando le coste nordafricane, solo un centinaio sono arrivate a Malta. E’ un dato molto strano, nel mezzo di un’acuta crisi di rifugiati.Nel 2013, continua “Zero Hedge”, gli ufficiali maltesi avevano registrato 2.008 sbarchi. Nello stesso periodo, l’Italia aveva accolto 150.000 rifugiati. «L’ipotesi che non esista alcun accordo suggerirebbe che i rifugiati semplicemente non desiderano provare a raggiungere Malta». A fine 2015, l’Ue ha finalmente risposto alle accuse: il commissario europeo agli affari interni e alla migrazione Dimitris Avramopoulos ha detto di «non essere al corrente di alcun accordo bilaterale tra le autorità italiane e maltesi riguardo le operazioni di “Search and Rescue” (Sar) nel mare Mediterraneo». Il fatto di “non essere al corrente” non risolve la questione, osserva “Zero Hedge”. Secondo l’“Independent”, la stessa Commissione Europea ha notato che, guardacaso, l’area di esplorazione petrolifera in questione si sovrappone alle aree di recupero dei migranti. «Di cosa stiamo parlando, in termini petroliferi? Di un grosso affare, potenzialmente», aggiunge il blog. «Secondo una fonte indipendente, Malta dispone di un potenziale di 260 milioni di barili. Ma Malta e l’Italia sono bloccate dalla disputa sulle zone di esplorazione offshore e sulle zone di recupero migranti».Il nocciolo della questione è una legge italiana del 2012 che di fatto raddoppiava la zona marittima italiana in direzione sud-est rispetto alla Sicilia e verso la costa libica. Malta aveva protestato per la sovrapposizione con aree che ritiene sue. Alla fine del 2015, Malta e l’Italia hanno raggiunto un accordo informale di sospensione delle trivellazioni esplorative in quell’area. Altra domanda aperta: l’accordo Ue-Turchia, che vedrà la Turchia riprendersi i rifugiati sbarcati in Grecia (in cambio di qualche favore da parte della Ue e qualche aiuto finanziario) essenzialmente eliminerà la rotta dei migranti attraverso il Mar Egeo. «Questo potrebbe risvegliare l’interesse dei migranti nella rotta attraverso la Libia. E se Malta si è davvero liberata della sua zona di recupero, significa grossi problemi per l’Italia, che dovrà accollarseli tutti».Mentre la crisi dei rifugiati siriani è arrivata a un’impasse, sia in termine di sicurezza europea sia di diritti umani dei rifugiati, Bruxelles si trova a dover negare accuse di un patto segreto tra Malta e l’Italia per scambiare rifugiati con diritti di esplorazione petrolifera. Il leader dell’opposizione maltese sostiene che Malta e l’Italia hanno stretto un accordo segreto in cui l’isola rinuncia ai diritti di esplorazione petrolifera su un’area offshore oggetto di disputa con l’Italia, in cambio dell’assegnazione all’Italia della quota di migranti recuperati in mare che spetterebbe a Malta. La Commissione Europea è stata costretta a rispondere a queste accuse, negandole, ma la situazione resta complessa, scrive “Zero Hedge” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”, che segnala l’offensiva dell’esponente politico maltese Simon Busuttil, del Partito Nazionalista, europarlamentare dal 2013, secondo cui il suo governo ha permesso a Roma di trivellare i fondali marini in acque maltesi, nell’ambito di uno scambio poco pulito tra petrolio e migranti.
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Rodotà: contro il regime, ci resta l’arma dei referendum
Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.I referendum possono essere inutili, si aggirano, si ignorano? Ma non è certo colpa dei cittadini. È il governo, e il Parlamento, che dovrebbero lavorare per dare attuazione a quanto indicato dalle consultazioni. Ma non succede, con effetti pericolosi: e non solo per lo strumento referendario. Perché il ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica. Quello sull’acqua pubblica è un referendum che ha bloccato un processo di privatizzazione ma che si sta cercando di tradire. Senza peraltro preoccuparsi di farlo in maniera smaccata. Scandaloso, ad esempio, è l’articolo 25 del decreto Madia sui servizi pubblici che prevede “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, usando esattamente le parole cancellate dal voto sul secondo quesito referendario. È palese l’illegalità costituzionale. Nel 2012 la Corte Costituzionale aveva già dichiarato illegittime le norme che riproducono norme abrogate con il referendum.Oggi si dice con superficialità: il voto non ha escluso la via di una gestione privata. Ma quello che il voto ha stabilito è però che quella privata non può essere la via preferenziale, come stabiliva il decreto Ronchi, con Berlusconi, e come vuole stabilire nuovamente il governo Renzi, sempre con il decreto Madia e con l’emendamento che ha riscritto la legge in discussione in Parlamento, che originariamente riprendeva quella di iniziativa popolare. L’indicazione che si fa finta di non vedere è che la gestione dell’acqua deve essere in via prioritaria pubblica, pur nelle forme variamente partecipate, e slegata da logiche di mercato. L’argomento del governo è che il pubblico produce inefficienza e non ha le risorse per i necessari investimenti sulla rete? Ancora una volta è la dimostrazione che si vuole ignorare l’esito referendario: l’argomentazione usata è la stessa di cinque anni fa, come se non ci fosse stato il dibattito.E, esattamente come quando si discusse all’epoca, si dice che la gestione pubblica è giocoforza pessima, rimuovendo che i luoghi dove la gestione dell’acqua è migliore sono invece Milano e Napoli, dove è completamente pubblica. Il dialogo è ritenuto pericoloso. Ma il discorso sui beni comuni si sta svolgendo in tutto il mondo ed è un percorso opposto a quello che si vorrebbe imporre in Italia, dove le multiutility vogliono impedire che si avvii. Se si leggessero i libri, se ne troverebbero di scritti con particolare attenzione alle modalità di gestione, senza inconsapevolezza né ideologia. Anche l’uso plebiscitario del prossimo referendum costituzionale sembra indicare una crisi dello strumento. Indica invece l’uso congiunturale che si è ormai soliti fare delle istituzioni. Il referendum viene usato quando fa comodo, quando può essere utilizzato per misurare il consenso del leader, mentre nelle altre occasioni se ne parla male. Invece il referendum – così come lo ha voluto il costituente, che ha escluso i plebisciti perché consapevole dei rischi – è proprio quello dal basso, promosso dai cittadini o da almeno cinque regioni. Ed è quello che rivitalizza la democrazia e la politica.Intorno ai referendum si determina una ricomposizione sociale, di cui c’è molto bisogno, visto che ultimamente è stata favorita invece la frammentazione sociale, considerando superflui, ad esempio, i corpi intermedi. La scelta di invitare a disertare le urne referendarie fa il paio con le riforme costituzionali ed elettorali volute da Matteo Renzi? Mi pare evidente. Anche se a voler legger bene la riforma Boschi c’è persino una contraddizione rispetto a quello che è l’atteggiamento di Renzi, che invita all’astensione scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum, con una furbizia che prima di lui hanno usato in tanti, dalla Chiesa a Craxi. La riforma invece modifica i requisiti per la validità dei referendum proprio per scoraggiare il gioco dell’astensione. C’è più modernità nei referendum, in questo sulle trivelle e in quelli che avremo nel prossimo anno, per cui si stanno raccogliendo le firme, dal Jobs Act alla scuola, che in tutta la riforma Boschi. Che è anzi una riforma conservatrice, che accentra il potere. Innumerevoli politologi hanno studiato il progressivo accrescimento del potere esecutivo e si sono chiesti come ricostruire gli equilibri costituzionali, come organizzare la politica e le istituzioni nell’era della sfiducia. Una delle principali risposte è quella dei referendum, che riportano il potere nelle mani del cittadino, fosse anche come legislatore negativo.(Stefano Rodotà, dichiarazioni rilasciate a Luca Sappino per l’intervista “Referendum, che fastidio i cittadini”, pubblicata da “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 30 marzo 2016).Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.
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Alta finanza massonica, lo strano caso del dottor Di Maio
Quanto sono lontani i tempi in cui Beppe Grillo, in maniera sibillina, spiegava come il governo Letta fosse condizionato fin dalla nascita da “manine straniere”. E come sono lontani i tempi in cui il M5S – da bravo scolaretto – si limitava a recitare il ruolo di “sfogatoio” buono per assorbire e paralizzare il dissenso delle tante vittime di un sistema politico tradizionale violento, nazistoide e perverso. Oggi le cose sono cambiate. E come insegna il manuale dell’ipocrita perfetto si può dire la verità e difendere gli interessi dei poveri e dei deboli solo stando volutamente all’opposizione; quando si entra nella stanza dei bottoni, invece, bisogna assorbire concetti come “responsabilità” e “moderazione”, termini orwelliani che indicano la disponibilità a garantire continuità sostanziale con il passato fingendo di cambiare tutto solo in superficie. L’eterno risorgere del Gattopardo, insomma. Il Movimento 5 Stelle adesso mostra senza pudori il suo vero volto, passando all’incasso dopo avere per anni fatto diligentemente il “lavoro sporco”.Il sistema massonico dominante, quello che controlla giornali come l’“Economist” o il “Financial Times”, comincia guardacaso a tessere le lodi dei “grillini”, finalmente pronti all’ingresso nelle stanze del potere previa avvenuta maturazione, constatata direttamente dai soliti infallibili incappucciati muniti di grembiule (ovvero, manifesta disponibilità nel servire gli interessi dell’Alta Massoneria e dell’Alta Finanza). Da un lato i seguaci del guru Casaleggio negano la tessera ai “massoni paesani” iscritti in qualche innocua loggetta di provincia composta magari perlopiù da tromboni retorici e demodé; dall’altro però non si fanno scrupolo nel vezzeggiare, blandire e baciare l’anello dei massoni che non fanno folklore ma contano per davvero, “iniziati” potenti come quelli che hanno recentemente chiamato a rapporto quel damerino di Luigi Di Maio per istruirlo a dovere e, magari, cominciare a “levigarne la pietra grezza” in vista di una ventilata e prossima ascesa nell’empireo del potere, sorretta dall’occhio benevolo del “Grande Architetto” dall’accento inglese (per cogliere l’invadenza anglosassone nella storia recente italiana leggere “Il Golpe Inglese” e “Colonia Italia”).Questa doppia morale suscita effettivamente schifo e ribrezzo, facendo tornare alla mente esempi del passato non proprio edificanti. Tutti sanno, ad esempio, che in apparenza tanto il fascismo di Mussolini quanto il nazismo di Hitler perseguitarono la massoneria. Pochi sanno invece come tanto il fascismo quanto il nazismo ricevettero cospicui aiuti finanziari da importantissime centrali massoniche sovranazionali, vere levatrici di due fenomeni politici passati alla storia come sublimazione stessa dell’infamia e della vergogna imperitura (vedi, tra gli altri, Antony C. Sutton, “Wall Street and the rise of Hitler”). Oggi il copione si ripropone, validando una volta ancora quella nota profezia di Karl Marx secondo la quale “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Duri, puri e intransigenti con i massoni da dopolavoro ferroviario; servizievoli, carini e accorti con i massoni di spessore. Sinceri complimenti.Noi del “Moralista”, a differenza di tanti altri, non possiamo dirci stupiti della parabola assunta dal Movimento 5 Stelle, avendo compreso con discreto anticipo sia il ruolo di Casaleggio che quello di Luigi Di Maio, vero politicante da batteria cresciuto rapidamente con gli estrogeni. La nuova linea del Movimento 5 Stelle prevede quindi la difesa dell’euro e la richiesta di più flessibilità all’Europa, elevando perfino il premier inglese Cameron a modello da imitare. Stiamo parlando dello stesso Cameron che in patria distrugge il welfare dei suoi cittadini e all’estero combina guai ammazzando a piacimento dittatori sgraditi, alla Gheddafi, in compagnia di altri sanguinari personaggi come Hillary Clinton e Nicolas Sarkozy. In conclusione: il Movimento 5 Stelle, a furia di “progredire”, è diventato identico al Pd (manca solo che dicano che “ci vuole rigore ma anche la crescita”). La teoria darwiniana sul miglioramento e sull’evoluzione della specie è quindi oggi definitivamente smentita nei fatti. E anche le teorie “spenceriane”, quelle che innalzano il “progresso” a “signore della Storia”, non si sentono tanto bene.(Francesco Maria Toscano, “A furia di evolversi il M5S è diventato identico al Pd, lo strano caso del dottor Di Maio”, dal blog “Il Moralista” del 24 marzo 2016).Quanto sono lontani i tempi in cui Beppe Grillo, in maniera sibillina, spiegava come il governo Letta fosse condizionato fin dalla nascita da “manine straniere”. E come sono lontani i tempi in cui il M5S – da bravo scolaretto – si limitava a recitare il ruolo di “sfogatoio” buono per assorbire e paralizzare il dissenso delle tante vittime di un sistema politico tradizionale violento, nazistoide e perverso. Oggi le cose sono cambiate. E come insegna il manuale dell’ipocrita perfetto si può dire la verità e difendere gli interessi dei poveri e dei deboli solo stando volutamente all’opposizione; quando si entra nella stanza dei bottoni, invece, bisogna assorbire concetti come “responsabilità” e “moderazione”, termini orwelliani che indicano la disponibilità a garantire continuità sostanziale con il passato fingendo di cambiare tutto solo in superficie. L’eterno risorgere del Gattopardo, insomma. Il Movimento 5 Stelle adesso mostra senza pudori il suo vero volto, passando all’incasso dopo avere per anni fatto diligentemente il “lavoro sporco”.
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La Danimarca: basta diktat, referendum per uscire dall’Ue
Un dato al 33% rappresenta un importante cambiamento, che indica una crescente ostilità verso l’Unione Europea, se si fa il confronto con il 25% di coloro che volevano uscire nel 2013. La richiesta di indipendenza dai burocrati europei viene dal Movimento Popolare Contro l’Ue, che preme sul governo affinché si tenga un referendum nel paese. La piattaforma del movimento, politicamente trasversale, sostiene che dopo 40 anni di appartenenza al blocco dei 28 paesi, è tempo di dare alla nuova generazione di danesi la possibilità di esprimere un voto. Il movimento ha dunque lanciato una petizione per costringere il governo a discutere la questione. L’eurodeputata Rina Ronja Kari, iscritta al movimento, ha detto: «Se fate il confronto tra l’Europa di oggi e quella a cui i danesi aderirono 40 anni fa, c’è stato un drastico cambiamento. Siamo passati da un’unione per la cooperazione commerciale a una Unione Europea che interferisce in quasi qualsiasi aspetto della nostra società. Pensiamo quindi che sia giusto chiedersi: è davvero questo ciò che volevamo? O vogliamo piuttosto lasciare l’Unione Europea?”.L’ultimo sondaggio mostra che quelli che manifestano una volontà di rimanere sono al 56%, con l’11% di indecisi; c’è dunque ancora una maggioranza, risicata, che intende restare. Ma il professor Kasper Møller Hansen dice: «Per quanto ci sia ancora una maggioranza favorevole alla permanenza nell’Ue, la voce degli euroscettici ha il vento in poppa». Il movimento, che ha visto il suo sostegno crescere dello 0,9% nelle scorse elezioni per il Parlamento Europeo del maggio 2014, ha guadagnato oltre 1.200 nuovi membri e questo fine settimana terrà il suo più importante congresso di partito da vent’anni a questa parte. Il movimento ha anche visto crescere i propri consensi dopo che lo scorso dicembre è riuscito a far prevalere il “no” in un referendum sull’abolizione delle speciali riserve legali verso l’Unione Europea. Il “no” che ha prevalso in quel referendum ha significato che la Danimarca continuerà a partecipare alle riunioni europee per le politiche di cooperazione solo quando ci sarà un ministro danese dotato di diritto di veto.Dice la europarlamentare: «Ci siamo arrampicati sui lampioni e abbiamo distribuito volantini in tutta la Danimarca. Siamo stati nei media e nei social media come non era mai avvenuto prima, e il nostro furgone pubblicitario ha viaggiato da Bornholm a Skagen. Il risultato di dicembre ha mostrato che quando lavoriamo assieme possiamo opporre resistenza all’Ue». Nonostante goda di crescente sostegno, il partito anti-Bruxelles sta trovando opposizione da parte della classe dirigente del paese. Secondo il portavoce europeo Kenneth Kristensen Berth del Partito Popolare Danese, la richiesta di un referendum sulla permanenza nell’Ue arriva al momento sbagliato: «Avremo un referendum in Gran Bretagna tra qualche mese, che determinerà in modo molto importante quale direzione la cooperazione Ue debba prendere. Dobbiamo aspettare e vedere [come va il voto]». Mentre si alzano queste richieste per un voto in Danimarca, un sondaggio ha indicato che se la Turchia dovesse entrare nell’Unione Europea, un terzo dei britannici sarebbe più propenso a votare per l’uscita dall’Unione. Anche tra coloro che dicono di voler votare affinché la Gran Bretagna rimanga parte dell’Ue, più di un quarto (25,6%) dice che l’entrata della Turchia li renderebbe più propensi a cambiare idea e a votare per l’uscita.(Lizzie Stromme, “Politici danesi chiedono un referendum per uscita da Ue, euroscetticismo in crescita”, articolo pubblicato da “Express” il 14 marzo 2016, tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Un dato al 33% rappresenta un importante cambiamento, che indica una crescente ostilità verso l’Unione Europea, se si fa il confronto con il 25% di coloro che volevano uscire nel 2013. La richiesta di indipendenza dai burocrati europei viene dal Movimento Popolare Contro l’Ue, che preme sul governo affinché si tenga un referendum nel paese. La piattaforma del movimento, politicamente trasversale, sostiene che dopo 40 anni di appartenenza al blocco dei 28 paesi, è tempo di dare alla nuova generazione di danesi la possibilità di esprimere un voto. Il movimento ha dunque lanciato una petizione per costringere il governo a discutere la questione. L’eurodeputata Rina Ronja Kari, iscritta al movimento, ha detto: «Se fate il confronto tra l’Europa di oggi e quella a cui i danesi aderirono 40 anni fa, c’è stato un drastico cambiamento. Siamo passati da un’unione per la cooperazione commerciale a una Unione Europea che interferisce in quasi qualsiasi aspetto della nostra società. Pensiamo quindi che sia giusto chiedersi: è davvero questo ciò che volevamo? O vogliamo piuttosto lasciare l’Unione Europea?”.