Archivio del Tag ‘Patrizia Scanu’
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Magaldi: diventi progressista, o “morirà” anche Zingaretti
Povero Nicola Zingaretti: è stato eletto segretario di un partito di zombie. Ce l’ha, un piano per l’Italia? Perché finora non è pervenuto nemmeno un indizio. L’unica cosa che sappiamo è che Zingaretti, almeno, è un leader: non carismatico, ma corretto. Buon presidente della Regione Lazio. Umanamente schietto e leale, diversissimo dal “finto buono” Walter Veltroni e dai suoi troppi epigoni, fino al velenoso Renzi. Meglio del surreale Martina, comunque, e dell’impalpabile Giachetti. Se non altro, Zingaretti è un politico capace anche di vincerle, le maratone. Così almeno lo vede Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, che all’amletico neo-segretario domanda: è sicuro di sapere cosa vuol fare, da grande? Delle due, l’una: o trasforma il Pd in un soggetto progressista, post-keynesiano, o finirà prestissimo come tutte le altre dimenticabili meteore della “ditta”. Se non trova il coraggio della sincerità, insiste Magaldi, Zingaretti sarà travolto, già a partire dalle europee di maggio. «Cari italiani – dovrebbe dire – sappiate che vi abbiamo preso in giro per 25 anni. Ci siamo detti “di sinistra”, ma abbiamo applicato soltanto l’agenda economica del neoliberismo mercantile e finanziario, arrivando allo “Stato minimo” auspicato dai grandi privatizzatori». Come si esce dall’incubo? Riscoprendo Keynes, assicura Magaldi: «Il capitalismo è indispensabile ma va coinugato con lo Stato, in Italia e in Europa. Sarebbe la rivoluzione progressista che cambierebbe tutto: che ne pensa, Zingaretti?».Ce lo faccia sapere alla svelta, dice il presidente del Movimento Roosevelt, perché il tempo stringe: se il nuovo leader del Pd non si sbriga a chiarire che l’Italia non può restare sottomessa agli oligarchi Ue, anche il presidente del Lazio – pur dignitoso, come dirigente – durerà lo spazio di un mattino. E’ fondamentale il coraggio di una rottura con gli ultimi 25 anni del centrosinistra, dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’equivoco dei “nostri” al governo, da Prodi in poi, è finito meno di un anno fa con il boom dei 5 Stelle e l’exploit della Lega. Indietro non si torna: e se ora gli italiani sono scontenti anche dei gialloverdi perché a loro volta poco coraggiosi con Bruxelles, figurarsi che futuro avrebbe un remake del Pd in versione-stuoino. Di tutto, ci ha regalato quel partito: dal velleitarismo parolaio di Veltroni ai grotteschi mormorii di Bersani, prono al pareggio di bilancio in Costituzione imposto dal governo Monti. A seguire, nel museo degli orrori, i maggiordomi Letta e Gentiloni, intervallati dal fanfarone inconcludente Renzi, tutto chiacchiere e inchini alla Merkel. Ma peggio: nel Pd, aggiunge Magadi, ha imperversato un figuro come Padoan, anti-keynesiano da giovane (quand’era marxista) e poi anche da ministro, ormai convertito a suon di poltrone – come tanti altri – al neo-feudalesimo ordoliberista che ha materialmente fabbricato la rovina dell’Italia, col prezioso contributo del servizievole centrosinistra.Se la sente, Zingaretti, di affrontare l’operazione-verità? Magaldi la considera l’unica vera chance, per veder tornare in pista il Pd. E’ proprio così difficile, diventare progressisti? Forse a provarci è il sindaco di Milano, Beppe Sala: a patto che non si fermi alle manifestazioni pro-migranti. Magaldi lo invita al convegno del 3 maggio a Milano, in cui il Movimento Roosevelt affronterà un impegnativo confronto con tre giganti: Carlo Rosselli, profetico fautore del socialismo liberale; Olof Palme, visionario artefice del miglior welfare europeo; e Thomas Sankara, rivoluzionario proto-sovranista panafricano. Tre massoni progressisti: il primo assassinato dai fascisti, il secondo dai poteri oscuri della futura Ue e il terzo dall’imperialismo coloniale occidentale. Rosselli e Palme conciliavano socialismo e capitalismo, mentre il comunista Sankara voleva un’Africa libera e autonoma, sostenibile, senza migranti in fuga. Pietre miliari, da cui dovrebbe partire oggi qualsiasi movimento politico progressista. Ci pensi, Zingaretti. E soprattutto, insiste Magaldi, abbia il coraggio di gettare a mare gli ultimi due decenni del finto (e defunto) centrosinistra, che di progressista – nei fatti – non ha mai avuto nulla. Faccia tabula rasa, Zingaretti, e cominci a scrivere una storia nuova, sincera, di cui l’Italia ha disperatamente bisogno.Un primo banco di prova? L’obbrobriosa regionalizzazione della scuola. E’ stata proposta in Lombardia e Veneto, ma non da Salvini: dal governo Gentiloni. «Se ne leggessero il testo – dice Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt – i padri costituenti si rivolterebbero nella tomba». Motivo: programmi solo locali, gestiti da dirigenti di nomina regionale. Un progetto-vergogna, «in perfetta linea con la “Buona Scuola” di Renzi, a sua volta erede della scuola-azienda delle ministre Moratti e Gelmini». Rischio immediato: scuole di serie B, per formare ragazzi rassegnati a lavori precari, degradanti e sottopagati, con buona pace dell’istruzione pubblica garantita dall’unità nazionale come fabbrica di pari opportunità per tutti. Come la vede, Zingaretti, la faccenda? E soprattutto, andrà oltre le solite ciance sull’Europa? «L’Italia – dice Magaldi – ha una grande possibilità: può esercitare una vera leadership, sia in Europa che nel Mediterraneo: a Bruxelles chiedendo una Costituzione europea finalmente democratica, come quella che sarebbe piaciuta a Olof Palme, e in Africa lanciando una partnership strategica che consenta agli africani di rendersi autonomi, come voleva Sankara». Certo, il Pd resta un partito-zombie: sta a Zingaretti resuscitarlo, se vuole.Povero Nicola Zingaretti: è stato eletto segretario di un partito di zombie. Ce l’ha, un piano per l’Italia? Perché finora non è pervenuto nemmeno un indizio. L’unica cosa che sappiamo è che Zingaretti, almeno, è un leader: non carismatico, ma corretto. Buon presidente della Regione Lazio. Umanamente schietto e leale, diversissimo dal “finto buono” Walter Veltroni e dai suoi troppi epigoni, fino al velenoso Renzi. Meglio del surreale Martina, comunque, e dell’impalpabile Giachetti. Se non altro, Zingaretti è un politico capace anche di vincerle, le maratone. Così almeno lo vede Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, che all’amletico neo-segretario domanda: è sicuro di sapere cosa vuol fare, da grande? Delle due, l’una: o trasforma il Pd in un soggetto progressista, post-keynesiano, o finirà prestissimo come tutte le altre dimenticabili meteore della “ditta”. Se non trova il coraggio della sincerità, insiste Magaldi, Zingaretti sarà travolto, già a partire dalle europee di maggio. «Cari italiani – dovrebbe dire – sappiate che vi abbiamo preso in giro per 25 anni. Ci siamo detti “di sinistra”, ma abbiamo applicato soltanto l’agenda economica del neoliberismo mercantile e finanziario, arrivando allo “Stato minimo” auspicato dai grandi privatizzatori». Come si esce dall’incubo? Riscoprendo Keynes, assicura Magaldi: «Il capitalismo è indispensabile ma va coinugato con lo Stato, in Italia e in Europa. Sarebbe la rivoluzione progressista che cambierebbe tutto: che ne pensa, Zingaretti?».
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La scuola sacrifica la storia? Sforna cittadini senza memoria
Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.In più, la riforma ha fatto ulteriori “regali” agli studenti delle superiori: ha tolto un’ora alla disciplina nel biennio, aggiungendole però anche la geografia nell’orario ridotto (si tratta di quell’ibrido sconcertante che si chiama “geostoria”); ha rimodulato la distribuzione del programma di storia in modo che, invece di cominciare dalla metà del Trecento, in terza si cominci da Carlo Magno (cinque secoli prima); ha creato classi di 27-30 alunni. Risultato: il Novecento resta per forza fuori dalle scuole italiane, se non trattato di corsa e solo fino ad una sintesi estrema della Seconda Guerra Mondiale; il numero eccessivo di alunni impedisce sia di verificare oralmente la loro conoscenza in modo adeguato sia di proporre qualunque approfondimento; l’insegnamento di questa fondamentale materia si è ridotto a poche nozioni, prive di ogni inquadramento critico o di ogni valenza educativa. Poche informazioni, da mandare a memoria con fastidio e senza comprenderle, dato anche il progressivo e inesorabile scadimento dei manuali scolastici e dato il buco nero di conoscenze alle spalle.Perciò non stupisce che gli studenti italiani non scelgano il tema di storia all’esame di Stato. Soltanto che il ministro, invece di toglierlo dalla prova conclusiva, sancendo così la definitiva marginalità della storia nel curriculum formativo degli studenti italiani, dovrebbe chiedersi perché il tema di storia ha così poco appeal. E se fosse saggio, correrebbe ai ripari. Un’intera generazione di studenti che non conosce la storia se non in modo superficiale, e che ignora tutte le vicende salienti del Novecento, è pronto per qualunque regime che si fondi sull’ignoranza della gente. Che lo abbiano fatto apposta, dopo quello che abbiamo letto nel libro “Massoni” di Gioele Magaldi, può apparire tutt’altro che un’idea stravagante. E’ un pezzo della strategia neoliberista di impoverire e depotenziare la scuola pubblica, fondamentale organo costituzionale, secondo la definizione del padre costituente Piero Calamandrei. Per questo, tornare ad un insegnamento vivo, approfondito, critico della storia è fondamentale. Si tratta di una delle principali proposte del Movimento Roosevelt per una scuola davvero democratica.(Patrizia Scanu, “Senza storia non c’è memoria, salviamo l’insegnamento della storia”, dal blog del Movimento Roosevelt del 20 gennaio 2019).Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.
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Scanu: l’informazione sporca è complice dei vaccini sporchi
Ci sono tanti modi per mentire: produrre dati falsi, interpretare in modo tendenzioso quelli disponibili. Ingigantire fatti irrilevanti o, al contrario, sminuire dati importanti. E magari omettere informazioni indispensabili. Nella stampa italiana, scrive Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, non è raro imbattersi in questo tipo di disinformazione. Un caso esemplare? I vaccini imposti. Magari “sporchi” e inefficaci (come denunciato dall’ordine dei biologi) oppure pericolosi, tali da creare problemi al 40% dei bambini vaccinati (come riscontrato dalla Regione Puglia). Due notizie devastanti, capaci di demolire la certezza “teologica” sui vaccini sicuri. Qualcuno ne ha parlato, sui grandi media? Giornalisti non pervenuti: silenti, distratti, reticenti. Spesso ripiegano sull’autocensura, «come compromesso accettabile per tutelare la carriera, la vita familiare o la propria incolumità personale». Quanto siano micidiali, le “fake news” ufficiali che ci mettono tutti in pericolo, lo si era già visto con la Lorenzin: nessuna testata andò a controllare se fosse vera la notizia dei 270 bambini inglesi morti per morbillo nel 2013 (non lo era: non ne morì nessuno).L’aver lasciato circolare una menzogna così grave, e su una questione così delicata per la tutela dei cittadini più indifesi, «rimarrà nella storia nazionale come un atto vergognoso e imperdonabile, un vero e proprio tradimento», scrive Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt. Il tema è sempre più scottante, dopo il patto per frenare la ricerca scientifica scritto da Roberto Burioni e firmato da Grillo, Renzi e Mentana. Un gruppo di medici, oggi, ricorre la magistratura per diffidare lo stesso Burioni dal diffondere notizie false, sui vaccini. Ma non è che i telegiornali strombazzino l’evento: silenziarono addirittura l’annuncio ufficiale della commissione difesa, che a inizio anno parlò di 7.000 militari italiani (di cui 1.000 già morti) colpiti da malattie gravissime, al 50% imputabili proprio alle vaccinazioni somministrate. «Il fatto stesso di aver tenuto all’oscuro i cittadini dei contenuti più scottanti di un fondamentale atto parlamentare – osserva Patrizia Scanu – appare una manipolazione della verità di dimensione inaudita», anche perché «l’omissione è una menzogna non meno grave della produzione di dati falsi», visto che i suoi effetti sono identici, ovvero: «Impedire la formazione di un’opinione fondata».Nelle ultime settimane, poi, «siamo giunti all’apoteosi della menzogna». Omertà assoluta sulla “farmacovigilanza attiva” promossa dalla Puglia: anziché limitarsi ad attendere eventuali ricoveri, la Regione ha attentamente controllato, giorno per giorno, i bambini vaccinati. Risultato increscioso: problemi per 4 piccoli su 10. Senza la sorveglianza attiva, infatti, solo una minima parte degli effetti indesiderati finisce nelle statistiche, che quindi sono inattendibili. Su “Quotidiano Sanità”, Silvio Tafuri scrive che in Italia – su 7 milioni di bambini vaccinati – si sono riscontrate 900 problematicità, ma soltanto 56 “eventi avversi gravi”. Ben diverso lo scenario illuminato dalla Puglia: su 1.672 soggetti inclusi nel progetto di vigilanza attiva, sono ben 656 le segnalazioni di eventi avversi, esattamente il 39,23% del totale. «Ma non ci avevano detto a reti unificate che erano uno su un milione? O addirittura, come aveva affermato Alberto Villani, presidente dell’Associazione italiana di pediatria, 3 o 4 negli ultimi vent’anni?». Pallottoliere alla mano, la Puglia costringe a cambiare le statistiche: estendendo la vigilanza attiva, i casi critici sarebbero 392.300 su ogni milione, cioè 4 bambini su 10. Allora – conclude Parizia Scanu – era fondata eccome, la preoccupazione dei genitori “somari e ignoranti”.Quanti casi verrebbero fuori, se la vaccinovigilanza attiva venisse condotta in tutte le Asl d’Italia? E quali sorprese avremmo se si analizzassero gli effetti indesiderati di tutti i vaccini? E se si prolungasse oltre i 12 mesi di questo studio? E se si studiassero gli effetti a lungo termine? Si scopre poi che gli effetti avversi sono correlati alla somministrazione contemporanea di due vaccini virali, quadrivalente Mprv (morbillo, parotite, rosolia e varicella) e l’Hav (epatite A). E la stragrande maggioranza dei casi riguarda bambini di età inferiore ai due anni. «E se avesse avuto ragione quel pazzo di Andrew Wakefield a suggerire di non vaccinare contro morbillo, parotite e rosolia prima dei due anni, per ridurre gli effetti avversi? E se non fossero poi così dementi i genitori a chiedere che non vengano iniettati troppi vaccini contemporaneamente, specie antivirali?». E poi: qualcuno, nel report della regione Puglia, commenta questi sconvolgenti risultati? «No, assolutamente. Va tutto bene, madama la marchesa». Domande obbligatorie, che i media non si pongono: quanti sono i danneggiati gravi che non guariscono, moltiplicati per tutte le dosi di tutti i vaccini di tutti i bambini italiani? Sono di più o di meno dei danneggiati dalle malattie per le quali si vaccina?Come si fa a dire che “questo vaccino è assolutamente sicuro”, a fronte di questi dati? E le autorità sanitarie? Hanno commentato? Nessuno lo ha fatto, scrive Patrizia Scanu: lo ha scoperto un gruppo di genitori del Moige, ascoltati dalla commissione sanità in Senato il 20 novembre scorso. «Poi, come sempre, è calato il silenzio». Stessa coltre di nebbia sulla notizia, ancora più sconvolgente, diffusa da un unico giornale (il quotidiano romano “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis) riguardo alle contro-analisi commissionate ai biologi italiani dal Corvelva, associazione veneta di genitori contrari all’obbligo vaccinale. Immediati gli strepiti delle “vestali della scienza”, che gridano alla bufala e tacciano di ignoranza i laboratori coinvolti. “Repubblica” parla addirittura di 130 scienziati, pezzi grossi delle università italiane, edi ben 15 istituzioni straniere, senza però elencarne i nomi. «Il tono come sempre è sprezzante – annota Scanu – e mira a screditare i dati di Corvelva», A difendere le analisi indipendenti, oltre al presidente dei biologi Vincenzo D’Anna, provvede la dottoressa Loretta Bolgan, laureatasi ad Harvard, ma al mainstream non basta.Perché tanta sdegnosa riprovazione? «Perché dal laboratorio – risponde Patrizia Scanu – vengono fuori risultati agghiaccianti, benché del tutto provvisori, e soprattutto perché la notizia è trapelata, rompendo la spirale del silenzio». Alcuni campioni di “vaccini sicuri” sono risultati infarciti di antibiotici, diserbanti, erbicidi, acaricidi e metaboliti della morfina. Sono state rilevate sequenze di Dna umano (feti) e non umano (virus e retrovirus nocivi, batteri, vermi). L’Aifa si difende: i vaccini, dice, sono sottoposti ad analisi incrociate – delle aziende produttrici, e di laboratori accreditati. Benissimo, risponde D’Anna: allora esibitele, queste analisi: se sono davvero così rassicuranti, perché non mostrarle? Servirebbe a zittire, a ragion veduta, i genitori del Corvelva. Che – essendo ben informati – sono perfettamente al corrente dello scandalo emerso negli Stati Uniti, a proposito di mancanza totale di trasparenza, proprio sui vaccini. L’avvocato Robert Kennedy junior, rampollo della nota famiglia, ha scoperto che – nel suo grande paese – da ormai 32 anni nessuno esegue più controlli autonomi sulla sicurezza dei vaccini.Ovvero: «Nessuno controlla, in modo indipendente dalle aziende, la sicurezza dei preparati vaccinali, mentre per tutti gli altri farmaci i controlli sono molto stretti e vincolanti». Nel solo 2016, le segnalazioni di danni da vaccino negli Usa sono state 59.711 (con ben 432 morti). Visto che ma manca la vigilanza attiva (e quindi ufficialmente i problema tocca solo l’1% dei vaccinati), secondo Kennedy i bambini realmente danneggiati potrebbero essere quasi 6 milioni in un solo anno, con ben 43.200 bambini morti a causa del vaccino. Possibile? Teoricamente, la notizia è enorme: perché la stampa non si incarica di verificarla? Riguardo all’obbligo vaccinale, insiste Patrizia Scanu, «non siamo di fronte a una questione scientifica, ma a una questione politica, etico-giuridica e di libertà dell’informazione». Ovvero: «Non si può obbligare nessuno a un trattamento medico non necessario alla sopravvivenza, perché il corpo è inviolabile». Né si può «limitare l’esercizio di un diritto civile come il diritto all’istruzione, per costringere a compiere un’azione contraria alla propria volontà e di dubbia sicurezza per la propria incolumità».E’ insopportabile e pericoloso, aggiunge la segretaria del Movimento Roosevelt, che la stampa «continui a fare propaganda, anziché informazione, e a nascondere informazioni determinanti per la pubblica opinione». Le autorità sanitarie? Devono garantire con ogni trasparenza possibile la salute dei cittadini: non possono trattenere o manipolare informazioni così rilevanti quando è in gioco il benessere fisico dei più indifesi. «Senza trasparenza non c’è democrazia». Libertà di espressione, di critica, di informazione: qui manca tutto. «Se non altro, le analisi del Corvelva hanno il merito di aver rotto il muro di fallacie propagandistiche e di affermazioni dogmatiche (e dogmaticamente false) con le quali si è finora impedito un dibattito serio sulle vaccinazioni obbligatorie». Espellere dall’ordine i medici scomodi disonora la scienza e svilisce la democrazia. Occorre alzare lo sguardo, insiste Patrizia Scanu: «Il problema – gravissimo e gravemente minaccioso per tutti noi – è quello dell’informazione manipolata, non la falsa e artificiosa contrapposizione tra “pro-vax” e “no-vax”».Ci sono tanti modi per mentire: produrre dati falsi, interpretare in modo tendenzioso quelli disponibili. Ingigantire fatti irrilevanti o, al contrario, sminuire dati importanti. E magari omettere informazioni indispensabili. Nella stampa italiana, scrive Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, non è raro imbattersi in questo tipo di disinformazione. Un caso esemplare? I vaccini imposti. Magari “sporchi” e inefficaci (come denunciato dall’ordine dei biologi) oppure pericolosi, tali da creare problemi al 40% dei bambini vaccinati (come riscontrato dalla Regione Puglia). Due notizie devastanti, capaci di demolire la certezza “teologica” sui vaccini sicuri. Qualcuno ne ha parlato, sui grandi media? Giornalisti non pervenuti: silenti, distratti, reticenti. Spesso ripiegano sull’autocensura, «come compromesso accettabile per tutelare la carriera, la vita familiare o la propria incolumità personale». Quanto siano micidiali, le “fake news” ufficiali che ci mettono tutti in pericolo, lo si era già visto con la Lorenzin: nessuna testata andò a controllare se fosse vera la notizia dei 270 bambini inglesi morti per morbillo nel 2013 (non lo era: non ne morì nessuno).
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Patrizia Scanu: smettiamo di avere paura, l’Italia risorgerà
Qualunque cambiamento a livello politico e sociale passa attraverso un cambiamento di livello della coscienza, perché la realtà che viviamo rispecchia i nostri pensieri e le nostre aspettative. Ne sono profondamente convinta. Nessuno schiavo è più impotente di chi si sente schiavo nell’animo. E anche se Marx non sarebbe d’accordo, perfino i sistemi economici rispecchiano uno stato globale della coscienza. Al Movimento Roosevelt sono arrivata attraverso il tema della scuola, partecipando con una relazione al convegno “Le forme della democrazia”. Ma la spinta mi è venuta dalla lettura del libro di Gioele Magaldi “Massoni: società a responsabilità illimitata”. Fu una vera rivelazione. Pur avendo studiato storia, solo leggendo quel libro vidi molti tasselli andare a posto e cominciai a capire che cosa fosse successo davvero nel mondo negli ultimi decenni. Perché ho deciso di candidarmi alla segreteria generale del Movimento Roosevelt? Mi hanno convinta l’entusiasmo che mi hanno mostrato gli amici rooseveltiani e la constatazione che il momento storico che viviamo richiede il massimo sforzo da parte di tutte le persone non soddisfatte del clima pesante e post-democratico che ci opprime. Se non si impegna chi ha maturato qualche consapevolezza, chi lo deve fare?Generare disgusto e disaffezione verso la politica per indebolire la democrazia era uno degli obiettivi del gruppo oligarchico che nel 1975 produsse “The crisis of democracy”, scritto da Michel Crozier, Samuel P. Huntington, e Joji Watanuki per la Trilateral Commission e che potremmo definire come il manuale per la transizione dalla democrazia all’oligarchia tecnocratica. Bisogna assolutamente invertire la rotta. Però l’aria sta cambiando: sta finendo un mondo, anche se le transizioni non sono mai indolori. Occorrerà il contributo di tutti, ed io ho deciso di non tirarmi indietro, proprio in quanto donna. C’è bisogno di un riequilibrio fra maschile e femminile. Il Movimento Roosevelt è un metapartito, ovvero un soggetto politico del tutto originale, nel quale si confrontano e dialogano laicamente persone di ogni credo religioso e politico, accomunate dalla convinzione che le etichette di destra, sinistra e centro siano ormai sorpassate dagli eventi. Quello che conta è la comune visione progressista della società, fondata sulla democrazia sostanziale, sulla Costituzione del ’48, deturpata da successive e indebite cessioni di sovranità a danno del popolo, sui diritti civili e sociali, sulla partecipazione popolare e sulla valorizzazione delle ricchezze culturali, ambientali, produttive di questo meraviglioso paese.La linea di demarcazione passa ormai fra chi difende la democrazia e i diritti e chi ci ha imposto questo modello economico predatorio neoliberista, di stampo feudale, che drena continuamente ricchezza dai poveri ai ricchi. Perciò mi sono impegnata a favorire il dialogo, a cui ci hanno disabituati la prevaricazione cialtrona e l’insulto sguaiato di vent’anni di mala politica; a sviluppare nel movimento la formazione degli iscritti; a diffondere, in forma divulgativa, la conoscenza sulla realtà economica e politica, camuffata quotidianamente dai media asserviti; a riorganizzare il movimento e a radicarlo a livello territoriale; a dialogare con altri soggetti politici orientati allo stesso fine di superare questa fase storica e di istituire una Terza Repubblica, si spera migliore della seconda, caratterizzata dal tradimento eversivo della casta. Benché il Movimento Roosevelt sia un laboratorio di idee politiche e di iniziative sociali, contribuirà, con le sue proposte e con alcuni iscritti, a costituire con altri soggetti un partito nuovo, di cui ora si sente il bisogno.Come si può vincere il “piano nero” del neoliberismo che toglie diritti, serenità, benessere e futuro ai tanti a favore di pochi? Il primo passo è la conoscenza. La gente è stata narcotizzata da decenni di informazione di regime, pilotata per nascondere quello che conta e per mostrare quello che fa comodo a chi tiene in mano il potere reale. Le battaglie più importanti si giocano sull’informazione e sulla scuola. Non è un caso che proprio su questi due ambiti si siano accaniti i poteri sovranazionali e oligarchici che hanno pianificato l’asservimento dell’Italia. Il fatto che in Europa si continui a presentare le cosiddette “fake news” come una priorità politica, dopo decenni di mostruose menzogne raccontate dai vertici istituzionali nazionali ed europei, la dice lunga sul nervosismo di chi teme un’informazione libera e critica. La scuola è stata impoverita, snaturata e ridotta a centro di formazione per il mondo del lavoro, priva ormai quasi del tutto del potere emancipante che il sapere dovrebbe avere in base alla Costituzione. Quindi la cancellazione della Buona Scuola e delle riforme neoliberiste diventa una priorità assoluta. Ma poi bisogna rendersi conto che il potere esercitato abusivamente su di noi per tanto tempo si regge sulla paura. Bisogna smettere di avere paura, per non farsi manipolare ogni giorno.Dobbiamo renderci conto, ciascuno di noi e tutti insieme, che chi ci ha ridotti così ha potere solo perché noi glielo abbiamo permesso. Dobbiamo smettere di credere alle bugie depressive che ci hanno raccontato. Non siamo condannati alla precarietà, alla povertà, alla svendita dei nostri beni più preziosi, alla corruzione, alle mafie, alla crisi perpetua. L’Italia è una terra benedetta dalla natura, dal clima e dalla storia. Arrivò ad essere nel 1991 la quarta potenza industriale del mondo e poteva diventare la seconda economia europea. E’ stata svenduta per ragioni inconfessabili da una classe politica ed economica che meriterebbe un processo per alto tradimento per la sofferenza e il dolore che ha prodotto consapevolmente e intenzionalmente, come spiega con cognizione di causa Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni”. Non c’è nulla di cui avere paura. Ci serve invece alimentare la speranza e riprenderci ciò che ci è stato rubato. Ma questa è responsabilità di ciascuno di noi, per quello che può fare. Nel Movimento Roosevelt vorrei un concentrato di persone piene di idee e di voglia di futuro – e tanti, tanti giovani. Questo è un appello rivolto a tutti, ma proprio tutti i cittadini italiani che vogliono sentirsi orgogliosi del loro paese. Più numerosi saremo, più sarà realizzabile il progetto di riprendersi la democrazia.(Patrizia Scanu, dichiarazioni rilasciate a Enzo Di Frenna per l’intervista “La rivoluzione politica e pedagogica di Patrizia Scanu con il Movimento Roosevelt”, pubblicata sul blog dello stesso Di Frenna il 9 luglio 2018. Eletta segretaria generale del movimento presieduto da Gioele Magaldi, Patrizia Scanu è insegnante, psicologa e ricercatrice nei territori di confine fra le discipline, tra scienza e spiritualità. Laureata in filosofia, lettere classiche e psicologia clinica, ha insegnato filosofia e storia, lettere, latino, greco, pedagogia; ora insegna scienze umane, ovvero psicologia, sociologia, antropologia culturale, etologia, statistica e metodologia della ricerca. Esperta in Fiori di Bach e consulente del Bach Centre di Wallingford, Regno Unito, ha inoltre conseguito un diploma in Gestalt Counselling. Dichiara: «Ci vuole una grande presunzione per poter insegnare, ma è così che si comincia ad imparare; quando sei costretto a farti capire, devi sforzarti prima di capire tu: così scopri quanto sia immensa la tua ignoranza». E aggiunge: «Per me, che in fondo mi sento un po’ guerriera, insegnare è combattere una strenua battaglia contro l’ignoranza: la mia, intanto, e poi quella dei miei giovani pupilli. La conoscenza, per me, è il bene e il potere più grande. Come diceva Socrate, nella testimonianza di Platone, una vita senza farsi domande non è degna di essere vissuta»).Qualunque cambiamento a livello politico e sociale passa attraverso un cambiamento di livello della coscienza, perché la realtà che viviamo rispecchia i nostri pensieri e le nostre aspettative. Ne sono profondamente convinta. Nessuno schiavo è più impotente di chi si sente schiavo nell’animo. E anche se Marx non sarebbe d’accordo, perfino i sistemi economici rispecchiano uno stato globale della coscienza. Al Movimento Roosevelt sono arrivata attraverso il tema della scuola, partecipando con una relazione al convegno “Le forme della democrazia”. Ma la spinta mi è venuta dalla lettura del libro di Gioele Magaldi “Massoni: società a responsabilità illimitata”. Fu una vera rivelazione. Pur avendo studiato storia, solo leggendo quel libro vidi molti tasselli andare a posto e cominciai a capire che cosa fosse successo davvero nel mondo negli ultimi decenni. Perché ho deciso di candidarmi alla segreteria generale del Movimento Roosevelt? Mi hanno convinta l’entusiasmo che mi hanno mostrato gli amici rooseveltiani e la constatazione che il momento storico che viviamo richiede il massimo sforzo da parte di tutte le persone non soddisfatte del clima pesante e post-democratico che ci opprime. Se non si impegna chi ha maturato qualche consapevolezza, chi lo deve fare?
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Magaldi: ma non ha vinto Macron, e il mondo sta rinascendo
Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio di Mosca, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».“The times they are a-changing”, sostiene Magaldi nella sua narrazione a puntate, ogni lunedì ai microfoni di “Colors Radio”. Trump e Putin? Appunto: come ampiamente previsto dal presidente del Movimento Roosevelt, l’istrionico Maverick della Casa Bianca sta facendo piazza pulita degli antichi pregiudizi su cui si è fondato il “partito della guerra”, più mercenario che patriottico. Lo Zar del Cremlino? «Non privo di una sua grandezza», riconobbe Magaldi, quando Putin rifiutò di espellere diplomatici americani dopo la cacciata dei funzionari dell’ambasciata russa disposta da Obama. Tutto sta davvero cambiando, giorno per giorno: e infatti ad essere “en marche”, oggi, non è la Francia imbrigliata da Macron, ma l’Italia di Conte: «Il nostro paese – dice Magaldi – potrà tornare a rivestire il suo storico ruolo di “ponte”, con la Russia ma anche con l’Africa e il Medio Oriente: è tempo infatti che vengano archiviate le storiche clausole segrete, connesse a Yalta e ad altri trattati del dopoguerra, che limitavano la nostra libertà d’azione – trattati comunque aggirati, a suo tempo, dalla politica mediterranea dei Mattei e dei Moro».Lo ricorda Giovanni Fasanella in “Colonia Italia”: le superpotenze ci “affidarono” al controllo britannico, a limitare la nostra sovranità. Ora basta, però: «E’ è venuto il tempo di dare all’Italia piena indipendenza e autonomia politica, consentendole di recitare un ruolo di “cerniera di pace” e prima promotrice di un Piano Marshall per l’Africa», dice Magaldi, che – insieme a Patrizia Scanu, neo-segretaria del Movimento Roosevelt – ne riparlerà in autunno a Milano, in un evento dedicato anche all’eredità politica del leader sovranista africano Thomas Sankara. Grande la confusione, intanto, sotto le stelle: restano le sanzioni contro Mosca innescate dalla crisi ucraina, mentre l’Europa «non si capisce cosa voglia e non esiste come soggetto geopolitico». Iperboli: «Trump accusato in casa di “intelligenza col nemico russo” poi rimprovera la Merkel di eccessiva familiarità e connivenza con alcuni interessi russi». E non mancano intrecci personali: «Il “fratello” Putin e la “sorella” Merkel – ricorda Magaldi – furono iniziati già molti anni fa nella stessa Ur-Lodge», la Golden Eurasia. Massoni, appunto: il problema, insiste Magaldi, non è il grembiulino che indossano, ma l’orientamento politico che promuovono.L’ipocrita massonofobia di Di Maio, estesa alla Lega nel “contratto” di governo? I vertici “gialloverdi”, dice Magaldi, temono che i loro elettori (non informati sulla storia patria) scambino la massoneria per un’associazione a delinquere. Magaldi punta il dito contro Elio Lannutti, esponente 5 Stelle, «in passato protagonista di battaglie meritorie». Ora vorrebbe una legge che vietasse ai massoni l’accesso alle cariche statali, sbarrando loro le porte di polizia e magistratura: «Siamo alla follia liberticida, queste cose le hanno fatte i regimi comunisti e fascisti», protesta Magaldi. E attenzione: il tema massoneria (compresa l’avversione ai “grembiulini”) va maneggiato con cura: «Nel 1800 negli Usa sorse un Anti-Masonic Party fondato però da massoni: spesso le campagne antimassoniche, nella storia, sono state progettate da massoni di altro segno, per colpire circuiti massonici opposti ai loro». Non è il caso dell’Italia, dove secondo Magaldi si sconta una semplice ignoranza della materia: si confonde la libera muratoria democratica degli eredi di Garibaldi, Mazzini e Cavour con la P2 di Gelli, braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, di natura pericolosamente oligarchica e spesso eversiva. In massoneria, ricorda Magaldi, non possono entrare pregiudicati né possono restarvi soggetti che non rispettino la Costituzione e le leggi. «Aiuteremo gli amici “gialloverdi” a chiarirsi le idee, ma se il pregiudizio antimassonico perdurerà – avverte il gran maestro – faremo i nomi dei massoni progressisti, leghisti e penstastellati, che siedono nel governo Conte e nelle altre istituzioni».Comunque, a parte gli ultimi «untori del culturame antimassonico», nella narrazione magaldiana – massonico-progressista, avversa al lungo dominio della supermassoneria neo-aristocratica – all’indomani dei Mondiali di calcio (e del vertice di Helsinki) c’è posto solo per un cauto ma tenace ottimismo nella riscossa democratica di un mondo globalizzato in modo autoritario. Lo si può vedere, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, a partire dalla cruciale trincea italiana. Al netto delle pretattiche, dice Magaldi, vedrete che arriveranno cambiamenti sostanziali: «E’ vero, in molti sono allarmati perché il ministro Tria insiste troppo sul contenimento del debito pubblico, sul rigore dei conti e sulla rassicurazione dei mercati. Ma si tratta di non fare il gioco degli strumentalizzatori, che a suo tempo hanno infierito su Savona per cercare di impedire la nascita del governo “gialloverde”. Quando però arriveranno misure importanti – pronostica Magaldi – allora sarà chiaro quale paradigma economico si adotterà, rispetto all’Europa e alle voci di spesa. Il povero Tria? E’ stato chiamato per un ruolo in copione che è quello del rassicuratore, ma poi le decisioni non saranno nel senso della continuità. Tant’è che proprio alcune esternazioni di Savona fanno capire qual è la vera sceneggiatura», con un’Italia non più prona ai diktat di Bruxelles.Idem sul capitolo vaccini: non brilla per chiarezza, Giulia Grillo, che infatti non ha sconfessato la legge Lorenzin. «E’ però un passo avanti notevolissimo l’aver eliminato l’odiosa costrizione in stile Gestapo che privava i bambini non vaccinati del diritto all’istruzione». Insomma, si respira un’altra aria, pur in un terreno minato da troppi dogmi – che non la scienza non dovrebbero aver nulla a che fare. Può anche funzionare il concetto dell’immunità di gregge (più vaccinati, meno possibilità di contrarre malattie) ma occorrerebbe un’indagine scientifica molto seria su quanti e quali vaccini vadano somministrati, e se l’eccesso di vaccini non produca effetti controproducenti, come nel caso dei vaccini militari cui il Movimento Roosevelt ha dedicato un convegno a Torino con il vicepresidente della commissione difesa. Non possono mancare libertà e confronto critico, aggiunge Magaldi: «Bisogna denunciare ad alta voce, anzitutto sul piano metodologico, che in Italia – durante il clima plumbeo del governo Gentiloni – chiunque della comunuità scientifica osasse discutere l’idea che andassero propinati 12 vaccini veniva escluso, ghettizzato, calunniato e demonizzato (e parlo di medici anche di grande spessore). Chi osava contrapporsi a quel clima veniva emarginato, se non sanzionato. Sono cose da paese del quarto mondo».Libertà scientifica: chi sostiene la bontà dell’attuale sistema vaccinale, insiste Magaldi, abbia il coraggio e l’onestà di confrontarsi con chi è scettico. «E c’è un problema di mancata sperimentazione: di troppi vaccini non si conoscono gli effetti. Sono tanti gli interrogativi, e solo nell’orizzonte del dubbio (in cui dovrebbe essere connaturata la scienza) il problema si può risolvere». Invece, scontiamo «l’indottrinamento disdicevole da parte di divulgatori come Piero Angela, secondo cui la scienza non è democratica e ha sempre ragione». Per Magaldi, sono «vistosi casi di insipienza storica e ignoranza profonda sulla genesi del metodo scientifico, fondato proprio sul dubbio: la scienza moderna, da cui nasce la nostra tecnologia, è fondata sulla messa in discussione del principio di autorità – che appartiene invece al mondo pre-moderno». Una cosa è vera solo perché lo dicono i detentori di quel sapere? Concezione antica: «Nella comunità scientifica moderna ci devono essere posizioni dissonanti: nessuna ipotesi può essere vera a prescindere». Il nostro paese, aggiunge Magaldi, «è ostaggio anche di cattivi divulgatori di un’idea della scienza che è inconsistente e contraria ai principi della contemporaneità». Ma attenzione: neppure questo “muro” dogmatico resisterà per sempre. Verrà il giorno in cui avremo finalmente «un confronto pacato», che riconosca il ruolo storico di alcuni vaccini per la nostra salute ma, al tempo stesso, valuti – seriamente – l’opportunità e la sicurezza di altri vaccini, nient’affatto scontate.«L’affermazione della democrazia – ricorda Magaldi – è coeva dell’affermazione della scienza moderna: è essenziale la libertà nel valutare le opzioni terapeutiche». Vale per tutto: se si applica il “filtro” della democrazia anche al contesto scientifico, finiscono per crollare miti e verità di fede. Lo stesso principio funziona ovunque si guardi, persino nella polveriera del Medio Oriente: «Credo che verrà il tempo per una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese», auspica Magaldi, osservando la scena con lucidità: «In fondo l’estremismo di Hamas e quello di Netanyahu si sostengono a vicenda, sono due facce della stessa medaglia: si reggono sull’ostilità reciproca e quindi hanno bisogno l’uno dell’altro. Non a caso ad essere assassinato fu Yitzhak Rabin, il massone progressista che voleva davvero la pace e quindi uno Stato palestinese». Se la ride, Magaldi, pendando agli amici che il 15 luglio davanti al televisore hanno trepidato per la Croazia per avversione nei confronti di Macron. Il capo dell’Eliseo? «Si è reso odioso: è un cicisbeo politico, continuatore delle politiche di Hollande e rappresentante di questo establishment puzzolente dell’attuale Disunione Europea. Con rara ipocrisia e faccia di bronzo ha detto parole inammissibili nei confronti del governo italiano e dell’Italia, nel corso di questa crisi sui migranti». Ma Macron non è la Francia, così come Bush non era l’America: «Guardiamo con amore a questi paesi – chiosa Magaldi – perché tantissimi francesi (come tantissimi statunitensi) insieme a noi cittadini del mondo – italiani, europei, cinesi, giapponesi – dovranno costruire un pianeta più equo, che abbia come faro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: diritti non solo civili ma, finalmente, anche economici e sociali».Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio moscovita, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».
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Arrangiatevi: così la scuola neoliberista tradisce i ragazzi
Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».Si tratta di un dogma che non ammette smentite, scrive Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt: l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia. Pura teologia: «Qualunque fatto che la contraddica – la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita – viene attribuito esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato». Per autoconvalida, quindi, «la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio)». In questo senso, la teoria accademica – una volta nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali – diventa una ideologia totale, cioè «una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica». Mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, «che è incorreggibile e pretende di essere universale e globale». In altre parole, il neoliberismo vorrebbe «dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza».In economia, continua Patrizia Scanu, le ricette neoliberiste sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare “l’inquinamento” dello Stato nel mondo “perfetto” dei mercati. Una visione «discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi». Una concezione che è anche «responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio “La globalizzazione e i suoi oppositori”)». Nella realtà storica del processo di globalizzazione, a questa deformazione si accompagna anche e soprattutto «una visione distorta dell’uomo e della vita». Si tratta di «una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia». Infatti, «in questa visione esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti».L’altro essere umano non è che «una minaccia costante al proprio benessere». Conseguenza: «Il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici». Peggio: «Non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (“trickle down”) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti». Lo Stato che spende per i servizi sociali? «E’ vizioso, e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva». I mercati? «Sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione». Una degradazione infernale della dimensione umana: «La propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica». Una deriva ideologica, ben riassunta dalla famigerata Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie». Tradotto: le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. «Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi».Più che nella sommaria tecnicalità economistica, il neoliberismo si esprime – in termini di devastazione sociale – attraverso il modello umano che sottende, e che guida l’azione politica. «Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato». Questo pensiero egemonico, aggiunge Patrizia Scanu, di fatto «sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal “frame”, dallo schema interpretativo imposto». Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione “capitale umano”. Testualmente: «Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo», scrive Becker. «I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo». Ancora: «Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo».«Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari», ammette Becker, ma aggiunge: le soddisfazioni garantite dai figli sono paragonabili a quelle di altri “beni durevoli”. I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo? «Rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso», sottolinea Patrizia Scanu: «Invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”». Attenzione: «In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi “naturali” del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione». E il guaio è che «non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà “sub specie oeconomica”, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico».E’ vero: «Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività». Oppure, ci diventa familiare «il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali». O ancora, «riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una “neolingua” economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana». E’ diventato tragicamente normale parlare di “dirigenti” scolastici (come in azienda) anziché di presidi, di “debiti e crediti” formativi, di “offerta” formativa, di “successo” formativo, di “piani e pianificazione”, di “innovazione e imprenditorialità”, di “competenze” intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza, ma come strumenti per competere alla pari sul mercato, da “certificare” (altra parola della “neolingua”) e da misurare con “test” oggettivi e standardizzati.Patrizia Scanu ricorda il “Portfolio delle competenze” della ministra Moratti, «fulgido esempio di lessico aziendalista». La Buona Scuola di Renzi? «E’ un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico». E’ una dimensione in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo «infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il Clil (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale». Ormai il mondo del lavoro «entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo». E arriva, con il nuovo esame di Stato, «a valutare l’alunno, al posto del docente, per una parte cospicua del voto finale». E gli enti certificatori esterni, come l’Invalsi (che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente) sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, «costringendolo all’aberrazione del “teaching to test”, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato».La verità, sintetizza Patrizia Scanu, è che «nell’orizzonte ideologico neoliberista non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore». E la standardizzazione «livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali». Da quest’anno, poi, nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) entra una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità”, «tanto per chiarire subito qual è il fine». Obiettivamente, un bambino che cresce “intossicato” da questa visione del mondo «è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita». Ed è pronto a considerare il lavoro una specie di condanna, «anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio». Il bambino si abitua a non fare mai domande, «poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato: ogni conoscenza è misurabile e quantificabile, e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze».In questo modello di scuola, aggiunge Patrizia Scanu, scompare anche l’autonomia didattica del docente, «compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi», fino all’alternanza scuola-lavoro (che sottrae tempo alla didattica) e all’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti. Ci sono i vincoli dell’Invalsi, la valutazione meritocratica (economicistica), i risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi. E ancora: l’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti. Secondo il piano renziano, «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola». Per questo intervengono le risorse private, che «possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo». La scuola è una frontiera mobile, si legge nel documento: «Se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere».Via libera ai fondi privati, visto che lo Stato chiude i rubinetti: ben vengano fondazioni e altri enti per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, privi di “appesantimenti burocratici”. Tanto per essere chiari, osserva Patrizia Scanu: la scuola deve attrezzarsi alla competizione globale «data come indiscutibile», dev’essere in continua sperimentazione «come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali», deve accogliere senza controllo finanziamenti privati «con le relative pressioni esterne», e deve diventare “un investimento collettivo”, trasformandosi in una fondazione. «Ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati. Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione non è la scuola pubblica della Costituzione: non forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro». Quella scuola, scrive Patrizia Scanu, «non colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali». Peggio: «Non rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato. E non educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia».Siamo all’applicazione scolastica dell’ingegneria sociale promossa dagli “stregoni” della Scuola di Chicago: «Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile». La stessa autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, attraverso questa pericolosa “mutazione genetica” diventa «la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando, nella sostanza, privata». Questo, conclude Patrizia Scanu, è un crimine politico: «E’ un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione». Una deriva in apparenza inarrestabile, alla quale – oggi più che mai – è necessario opporre contromisure strategiche.Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».
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Scanu: sovranità svenduta illegalmente all’oligarchia Ue-Bce
Dalle parole di Mattarella, protagonista dello strano veto su Paolo Savona all’economia, fermato sulla soglia di quel ministero “in nome dei mercati”, sembrerebbe che i trattati europei abbiano ridotto a zero la nostra sovranità. Ma è davvero così? Aderendo ai trattati europei – si domanda Patrizia Scanu – abbiamo ridotto a tal punto la nostra sovranità, quantomeno cedendone una parte? E soprattutto: «Se abbiamo ceduto sovranità, era possibile farlo sulla base della nostra Costituzione?». Ovvero: «La classe politica che ha firmato quei trattati era legittimata dalla nostra Costituzione ad una cessione del genere? E se così non fosse, quali sarebbero le conseguenze e le azioni future da compiere?». In prospettiva: «Come si conciliano l’esercizio della sovranità e l’esigenza di costruire quell’Europa dei popoli che è il sogno mai realizzato della mia generazione?», si chiede Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt. «Che nozione di sovranità è adatta ad affrontare le sfide della globalizzazione? In concreto: come ci liberiamo adesso di una menzogna criminale che ci è stata raccontata per decenni?». Il gesto di Mattarella, aggiunge la Scanu, «appare rivelativo di un contenuto non espresso chiaramente per decenni, ma di importanza capitale per tutti noi: si tratta della compatibilità fra la nostra Costituzione (così invisa, per ovvie ragioni, alle élite politico-finanziarie che vorrebbero ridurci a periferia dell’Impero) e i trattati europei».Sovranità? Un concetto complesso, «lungamente dibattuto nella filosofia del diritto, in parallelo al percorso storico che porta alla formazione degli Stati moderni». Intesa come sovranità dello Stato – argomenta Patrizia Scanu – esprime l’idea che lo Stato, inteso come persona giuridica, abbia esclusivo potere nell’ambito del proprio territorio. Uno Stato indipendente da altri poteri esterni, che esercita una supremazia nei confronti dei suoi abitanti. Il filosofo Thomas Hobbes, che pure aveva una visione assolutista del potere statale, lo vedeva comunque originarsi da un “contratto sociale” stretto fra gli uomini: per contenere la violenza insita nella loro natura, gli individui cedono la sovranità allo Stato, sottomettendosi totalmente ad esso. «Nella versione più attuale, che si avvale delle riflessioni successive di Grozio, Althusius, Locke e soprattutto Rousseau, e delle discussioni dei coloni della Nuova Inghilterra fra ‘600 e ‘700 – spiega la professoressa Scanu – la sovranità non solo si origina, ma resta nel popolo, poiché gli esseri umani ne sono titolari a prescindere dall’ordinamento giuridico dello Stato». Si parla perciò di “sovranità popolare”, nel senso che i cittadini – individui liberi e sovrani, portatori di diritti – concordano di delegare allo Stato la sovranità, per far funzionare la società in modo ordinato, restandone però unici titolari.I governanti – almeno nelle democrazie indirette – sono rappresentanti del popolo, scelti ed espressi dalla sovranità popolare e agiscono in nome e per conto del popolo, che li può revocare e sostituire. Come recita l’articolo 1 della Costituzione Italiana, “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ovvero la esercita per lo più nelle modalità della democrazia indiretta e rappresentativa e nella cornice dell’ordinamento giuridico dello Stato. La Costituzione, sottolinea Patrizia Scanu, prevede anche una limitazione alla sovranità. All’articolo 11, dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. La Costituzione dice, insomma, che la sovranità è e resta del popolo, ma che lo Stato può accettare particolari limitazioni alla sovranità all’unico scopo di assicurare la pace e la giustizia a livello internazionale (sentite evidentemente come un bene superiore) e in condizioni di parità con altre nazioni.Ma limitare – a certe condizioni – la propria sovranità vuol dire cederla? No: limitare e cedere non sono ha stessa cosa, come ha rilevato il Gip del tribunale di Cassino, Massimo Lo Mastro, in un decreto emesso in risposta ad una opposizione all’archiviazione di una denuncia dell’avvocato Marco Mori contro Laura Boldrini. «Proprio perché senza sovranità lo Stato non esisterebbe, i limiti della Costituzione in materia di compressione del potere d’imperio dello Stato sono rigorosi». Proprio per questo, scrive Lo Mastro, il legislatore si è occupato di sanzionare penalmente la lesione del potere d’imperio dello Stato: si parla infatti di “delitti contro la personalità giuridica internazionale dello Stato” ove ne risultino integrati gli estremi soggettivi e oggettivi. Sulla base dell’articolo 11 della Costituzione, aggiunge il magistrato, la sovranità non può dunque essere ceduta, ma solo limitata. E anche le mere limitazioni hanno ulteriori “limiti”: «Fermo il divieto assoluto di cessioni, la limitazione della sovranità può avvenire unicamente in condizioni di reciprocità ed al fine esclusivo (ogni altra soluzione è stata espressamente bocciata in seno all’Assemblea Costituente) di promuovere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni».Limitare, precisa il magistrato, significa «circoscrivere un potere entro certi limiti», ovvero «omettere di esercitare il proprio potere d’imperio (che pure deve rimanere intatto) in una determinata materia, oppure di esercitarlo all’interno di certi limiti generalmente riconosciuti dal diritto internazionale ai fini di pace e cooperazione fra le nazioni». Tutto questo, purché il contenimento del proprio potere (che “appartiene al popolo”) sia in ogni caso rispettoso dei limiti costituzionali. «La cessione di sovranità – chiosa Lo Mastro – comporta invece la consegna ad un terzo di un potere d’imperio proprio di uno Stato che così per definizione perde anche la propria indipendenza». Questo vuol dire che, se cessione di sovranità c’è stata – e c’è stata sicuramente, scrive Patrizia Scanu, visto che se per esempio la Bce è indipendente ed ha sovranità monetaria – significa che noi vi abbiamo rinunciato e abbiamo perso l’indipendenza. Una cessione dunque «non legittima»: chi l’ha permessa «ha commesso un reato». Alla lettera: «Nessun trattato europeo può avere più forza della nostra Costituzione. Un presidente della Repubblica non può subordinare la sovranità popolare ai vincoli di trattati internazionali; semmai deve fare il contrario», scrive la Scanu, visto che «ha giurato di difendere la Costituzione», non i trattati europei.Restando al popolo la sovranità, quei trattati «possono pacificamente essere ridiscussi o rigettati, purché nelle forme previste dalla Costituzione, ovvero se questa è la volontà del popolo, espressa con il voto». Questo, osserva Patrizia Scanu, «vuol dire anche che la via d’uscita da questa situazione intollerabile consiste nel riprendersi la sovranità così malamente compressa e calpestata». In altre parole: «Rivendicare sovranità – prima di tutto, sovranità monetaria – non vuol dire né tornare agli Stati nazionali del periodo pre-bellico né uscire dall’Unione Europea né necessariamente uscire dall’euro. Vuol dire al contrario portare a compimento quel processo di federazione europea che farebbe dell’Europa un contrappeso adeguato al dominio delle grandi potenze, Usa e Cina soprattutto (non certo spettatori disinteressati)». Significa «riprendersi la facoltà di emettere moneta nazionale», magari sotto forma di Stato-note o di crediti fiscali, come spiega da tempo l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt: una misura percorribile anche senza uscire dall’euro. Vuol dire «riportare sotto controllo dei cittadini i poteri extranazionali, non eletti e cooptativi che ci hanno imposto questo ordine neoliberista», in primis la Commissione Europea e la Bce per «riportare in primo piano il benessere e i diritti dei cittadini, invece delle esigenze della finanza internazionale».Insiste Patrizia Scanu: «Non è pensabile una sovranità europea che si costituisca per cessione della sovranità nazionale, come sommatoria di non-Stati, perché senza sovranità popolare non c’è Stato democratico, e se i cittadini di un paese non possono esprimere la loro volontà politica, non siamo più in democrazia». Lo Stato moderno? «E’ entrato in crisi con la globalizzazione, ma non abbiamo ancora inventato una forma politica diversa». I trattati europei? «Sono contratti giuridici fra Stati nazionali, che sono i soggetti contraenti, ciascuno pienamente titolare della propria sovranità: rinunciare ad essa è un suicidio». Impossibile fare scempio in questo modo del vecchio continente: «L’Europa è troppo ricca di storia e di differenze nazionali perché esse possano essere ignorate, ma è anche effettivamente portatrice di una cultura condivisa e di una coscienza comune. Lo scenario attuale è desolante, perché disattende i principi istitutivi dell’Unione Europea». Lo ricorda lo stesso Paolo Savona nel 2015: in teoria, l’Ue aveva formalmente promesso «lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale», senza trascurare «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».La crisi della Grecia – osserva Savona – ha mostrato quanto la realtà sia lontana dalle enunciazioni di principio: «Invece di uscire dal paradosso di un non-Stato europeo formato da non-Stati nazionali si intende approfondire questa strana configurazione istituzionale, perché appare vantaggiosa a pochi paesi capeggiati dalla Germania». Per Patrizia Scanu, «stiamo assistendo a una feroce competizione economica fra gli Stati dell’Unione, a cominciare dal mercantilismo tedesco, a uno spaventoso trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi e dall’economia reale ai mercati finanziari». E abbiamo governi che, uno dopo l’altro, «hanno tradito lettera e sostanza della Costituzione, cedendo progressivamente quote di sovranità per loro indisponibili, rendendoci subalterni a poteri oligarchici, estranei e autoreferenziali che tutto hanno a cuore, fuorché il nostro interesse di cittadini». Prima risposta: «Prendere consapevolezza del colossale inganno perpetrato a nostro danno, con l’illusione del sogno europeo». E quindi, «ridiscutere radicalmente i trattati europei, per rifondare l’Europa su basi autenticamente democratiche». Può sembrare un paradosso, conclude Patrizia Scani, ma «chi critica l’euro e i trattati europei ha l’Europa più a cuore di chi si straccia le vesti di fronte ad ogni ipotesi di cambiamento, come stanno facendo in questi giorni i dirigenti del Pd ormai in pieno stato confusionale, e intanto svende senza contraccambio (almeno per noi) la nostra sovranità nazionale, la nostra economia e il nostro futuro».Dalle parole di Mattarella, protagonista dello strano veto su Paolo Savona all’economia, fermato sulla soglia di quel ministero “in nome dei mercati”, sembrerebbe che i trattati europei abbiano ridotto a zero la nostra sovranità. Ma è davvero così? Aderendo ai trattati europei – si domanda Patrizia Scanu – abbiamo ridotto a tal punto la nostra sovranità, quantomeno cedendone una parte? E soprattutto: «Se abbiamo ceduto sovranità, era possibile farlo sulla base della nostra Costituzione?». Ovvero: «La classe politica che ha firmato quei trattati era legittimata dalla nostra Costituzione ad una cessione del genere? E se così non fosse, quali sarebbero le conseguenze e le azioni future da compiere?». In prospettiva: «Come si conciliano l’esercizio della sovranità e l’esigenza di costruire quell’Europa dei popoli che è il sogno mai realizzato della mia generazione?», si chiede Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt. «Che nozione di sovranità è adatta ad affrontare le sfide della globalizzazione? In concreto: come ci liberiamo adesso di una menzogna criminale che ci è stata raccontata per decenni?». Il gesto di Mattarella, aggiunge la Scanu, «appare rivelativo di un contenuto non espresso chiaramente per decenni, ma di importanza capitale per tutti noi: si tratta della compatibilità fra la nostra Costituzione (così invisa, per ovvie ragioni, alle élite politico-finanziarie che vorrebbero ridurci a periferia dell’Impero) e i trattati europei».
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Petizione: Mattarella si dimetta, non “osi obbedir tacendo”
«Riteniamo che la sua figura sia ampiamente delegittimata rispetto alla carica». Così Gianfranco Carpeoro si rivolge (via Facebook) al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendogli di dimettersi dopo aver bloccato il varo del governo “gialloverde” presieduto da Giuseppe Conte, ponendo il veto su Paolo Savona per il ministero dell’economia. «Non voglio entrare nel dibattito sulla legittimità di tale scelta», premette Carpeoro, ma aggiunge: «Non ho dubbi che, sul piano etico e sul piano della sensibilità democratica, ciò avrebbe già dovuto suggerire a un presidente di alta preparazione costituzionale la doverosa presentazione delle sue dimissioni». E spiega, rivolgendosi al capo dello Stato: «Se entrasse in conflitto anche con la maggioranza del prossimo Parlamento cosa farebbe? Se un governo prossimo futuro entrasse in serio confronto con le burocrazia europea cosa avverrebbe? Un vero e proprio golpe?». Per questo, Carpeoro – al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – chiede apertamente ai lettori di aderire alla raccolta di firme lanciata su “Change.org” da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un dirigente. «L’unica speranza degli italiani – dice – è chiedere con un autentico plebiscito le dimissioni del presidente della Repubblica».Sul più diffuso webmagazine nazionale, “Affari Italiani”, proprio Magaldi esprime un severo giudizio politico su Mattarella, definendolo «paramassone conservatore dalla cifra servizievole e subalterna» rispetto ai poteri super-massonici neo-aristocratici che dominano la governance europea. Tuttavia, il “niet” del Quirinale su Savona ha l’aria di essere un autogoal: «I poteri “marci” che si sono serviti del servizievole Mattarella – dichiara Magaldi – hanno compiuto un clamoroso errore», perché il veto su Savona, che il presidente del Movimento Roosevelt definisce un gesto «anticostituzionale e antidemocratico», ha mostrato a tutti che il “Re” è nudo e senza veli: «Il Re (collettivo) neo-aristocratico, post-democratico, anticostituzionale e “controiniziatico” è finalmente denudato e smascherato». Scacco matto alla democrazia? «No. Era stato fatto Scacco al Re con la candidatura di Paolo Savona al ministero dell’economia». Ma adesso, aggiunge Magaldi, «grazie all’inaudita insipienza arrogante di Sergio Mattarella – ostaggio di pressioni oscure e antidemocratiche – lo Scacco al Re si è tramutato in Scacco Matto a quei poteri marci, neoaristocratici e controiniziatici che tengono in ostaggio l’Italia e l’Europa da troppo tempo, ma che ormai sono “nudi e ben visibili” allo sguardo giustamente indignato dei cittadini».Stiamo assistendo in queste ore ad una crisi politica mai vista, osserva Patrizia Scanu, altro esponente del Movimento Roosevelt: «Un presidente della Repubblica, forzando le sue prerogative istituzionali, non permette la formazione di un un governo che avrebbe la maggioranza parlamentare uscita dalle urne (il primo dopo molti anni) per pregiudizio di tipo politico verso il ministro dell’economia proposto dalla maggioranza». Patrizia Scanu cita Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale: per Onida, sul piano strettamente giuridico, Mattarella può dire “io non firmo”. Di fronte all’inistenza sul nome di Savona, aggiunge Onida, «il capo dello Stato si è opposto per ragioni politiche, non personali». E aggiunge: Mattarella è andato contro l’idea che il nostro sia un sistema parlamentare. Non ha neppure posto obiezioni sul programma di governo: «Si è opposto solo a una persona, temendo che potesse mettere in pericolo la stabilità dei mercati finanziari, e la difesa dei risparmiatori. Così facendo – afferma Onida – si dà ai creditori dello Stato un potere immenso, che va al di là delle obbligazioni di un debitore. Un debitore non può diventare così politicamente asservito da accettare ingerenza sulla maggioranza. In questo caso mi sembra sia andato un po’ troppo oltre».Gli avvenimenti degli ultimi giorni, riassume Gianfranco Carpeoro sulla sua pagina Facebook, richiedono un chiarimento analitico di alcuni aspetti. «Una delle prime preoccupazioni della “sovragestione” reazionaria, oligarchica, familistica e aristocratica», rivela Carpeoro, è stata quella di «ridurre al lumicino l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole». Forse a qualcuno sfugge che il presidente della Repubblica resta in carica 7 anni, contro i 5 del Parlamento che lo elegge. Decisione che nacque nel contesto storico-politico del momento post-bellico, dopo la fine del regime fascista. Obiettivo: sottolineare l’autonomia e l’indipendenza della figura istituzionale più alta. «Si trattò all’epoca di una scelta condivisibile, ma col tempo – secondo Carpeoro – si è rivelata anche come la confessione della debolezza intrinseca della figura presidenziale, sotto il profilo della legittimazione democratica e popolare». Debolezza, aggiunge Carpeoro, che di recente «ha costretto a forzature personali di varia natura dei limiti delle prerogative della carica: forzature proporzionali all’arretramento generale sotto il profilo della credibilità, ma anche della efficacia della politica in generale, tanto del potere legislativo che di quello governativo».Gli ultimi decenni della storia politica dell’Italia, aggiunge Carpeoro, hanno registrato onde di flusso e riflusso tra chi voleva rinchiudere la figura presidenziale in un grigio studio notarile e che invece, nel buio della politica, voleva un cavalleresco baluardo: «Non solo unico garante di legalità e costituzionalità, ma anche garante di buon governo, secondo le varie posizioni politiche e idee che peraltro si fronteggiavano in campagne elettorali feroci e perenni». È in questo contesto, continua Carpeoro, che il nostro presidente della Repubblica si è appena rifiutato di varare un governo «scaturito dalla convergenza di una maggioranza parlamentare emersa dopo le numerose consultazioni». Così facendo, aggiunge, «il presidente si è apertamente messo in dissenso con la maggioranza democratica di un Parlamento, peraltro diverso da quello che, a suo tempo, lo aveva eletto». Il motivo del dissenso, secondo lo stesso presidente? Il timore che la nomina di Paolo Savona, «pur legittima sul piano democratico, avrebbe comportato ripercussioni nei mercati sui risparmi degli italiani». Con «affetto e deferenza», Carpeoro si rivolge direttamente a Mattarella. «Non siamo usi agli insulti e alle polemiche incivili», premette. Ma aggiunge: «Indipendentemente dallo stabilire se sia stato un ricatto dei mercati o una imposizione di altri poteri», sarebbe meglio che si facesse da parte. «Ci ascolti, presidente, si dimetta: non non “osi obbedir tacendo”, si rilegittimi e non si consegni alla storia come un don Abbondio qualunque. Il Griso e i suoi bravi glieli rimandi indietro con le pive nel sacco a don Rodrigo».«Riteniamo che la sua figura sia ampiamente delegittimata rispetto alla carica». Così Gianfranco Carpeoro si rivolge (via Facebook) al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendogli di dimettersi dopo aver bloccato il varo del governo “gialloverde” presieduto da Giuseppe Conte, ponendo il veto su Paolo Savona per il ministero dell’economia. «Non voglio entrare nel dibattito sulla legittimità di tale scelta», premette Carpeoro, ma aggiunge: «Non ho dubbi che, sul piano etico e sul piano della sensibilità democratica, ciò avrebbe già dovuto suggerire a un presidente di alta preparazione costituzionale la doverosa presentazione delle sue dimissioni». E si domanda, rivolgendosi al capo dello Stato: «Se entrasse in conflitto anche con la maggioranza del prossimo Parlamento cosa farebbe? Se un governo prossimo futuro entrasse in serio confronto con le burocrazia europea cosa avverrebbe? Un vero e proprio golpe?». Per questo, Carpeoro – al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – chiede apertamente ai lettori di aderire alla raccolta di firme lanciata su “Change.org” da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un dirigente. «L’unica speranza degli italiani – dice – è chiedere con un autentico plebiscito le dimissioni del presidente della Repubblica».
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Ragazzi senza futuro, vietato stupirsi se minacciano il prof
Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.Anche se non certo in via esclusiva, molti degli episodi narrati dai media hanno avuto come contesto istituti tecnico-professionali. Può darsi che il rapporto con i docenti sia più difficile nelle famiglie dove l’istruzione gode di minor considerazione o dove il disagio socio-economico si fa sentire di più. Tuttavia, una spiegazione di questo tipo appare assai parziale e soprattutto astratta. Una ragione più immediata del disagio è che, nelle scuole “razionalizzate” (ovvero “amputate”) dalle riforme degli ultimi vent’anni, ci sono troppi alunni per classe, insegnanti molto soli e demotivati, troppo anziani, non abbastanza formati e non abbastanza sostenuti nella fatica di ogni giorno; c’è una pressione costante a nascondere la dispersione scolastica e lo scadimento costante del livello degli apprendimenti dietro al buonismo obbligatorio delle promozioni regalate anche a fronte di gravi lacune; c’è un taglio progressivo e drammatico delle ore di lezione e dei contenuti; c’è la mancanza di un autentico e lungimirante spirito riformatore, che faccia della scuola un luogo di produzione di sapere e di cultura, vero cuore pulsante del paese e oggetto di cura e attenzione da parte delle istituzioni e dei cittadini.Ad un livello più profondo, c’è l’abdicazione dei genitori al loro ruolo educativo e la completa delega alla scuola della responsabilità di dire di no ai pargoli superprotetti e nel contempo la svalutazione e il discredito del ruolo educativo degli insegnanti, ai quali viene riservata la considerazione di cui godono dei proletari sottopagati, invece del prestigio di cui dovrebbero godere dei professionisti ai quali si affida il futuro delle nuove generazioni. Alla scuola si chiede continuamente di sopperire a tutte le lacune e ai mali profondi della società, senza però dotarla di mezzi, di competenze, di prestigio e di considerazione sociale. Se la scuola italiana ha retto tutto sommato miracolosamente fino ad ora, lo si deve allo spirito di abnegazione di quegli insegnanti (non tutti, certamente) che tengono duro nonostante venga scavato loro ogni giorno il terreno sotto i piedi. La fuga dalla responsabilità è il male sociale che ci affligge. A cominciare dal vertice, due decenni di cialtroneria politica, di zuffe mediatiche fondate sulla legge del più forte (quanto a volume di voce, non di argomenti), di demeritocrazia, ovvero di gestione delle cariche pubbliche pressoché totalmente svincolata dal merito, di autoreferenzialità della casta rispetto alle proprie scelte dannose, delle quali di fatto non si assume mai la responsabilità, hanno inciso profondamente sulla coscienza degli italiani.Si è imbarbarito il linguaggio del dibattito pubblico e, per il notissimo principio dell’apprendimento per imitazione, la violenza verbale rappresentata ogni giorno nei media è stata sdoganata. Con quale autorevolezza possono insegnare ai ragazzi il rispetto, l’empatia, il dialogo democratico degli insegnanti continuamente vilipesi e disprezzati sui media come categoria di nullafacenti privilegiati, in una società che offre a tutti i livelli la tracotante indifferenza a questi valori? Come possono far apprezzare lo studio e il sapere, quando ogni giorno i modelli vincenti proposti dagli adulti sembrano prescindere dalla cultura, dalla competenza e dall’impegno? A livello educativo, questa mancanza di responsabilità assume la forma di assenza di autorevolezza. I ragazzi, a tutte le età, hanno un bisogno assoluto di riferimenti autorevoli. Un adulto autorevole sa dare regole e controllare, ma sa anche ascoltare e proteggere quando serve. Sa prendersi la responsabilità di dire di no, senza essere un tiranno. I “no” aiutano a crescere e strutturano una personalità equilibrata, capace di sopportare le inevitabili frustrazioni della vita. Molti genitori (non tutti, per fortuna) non sembrano più in grado di offrire ai propri figli un modello di questo genere. Troppo faticoso, in una società dove il tempo da dedicare ai figli è scarso e dove spesso si è fagocitati dal lavoro e dalle preoccupazioni. È più facile lasciar perdere e salvare la pace familiare.Purtroppo, a volte nemmeno gli insegnanti ci riescono. Insegnare non è un lavoro per tutti e con ragazzi che arrivano da famiglie così permissive o prive di struttura lo è ancora meno. Gli insegnanti tormentati dagli allievi non di rado sono deboli e poco autorevoli. È come se i ragazzi indirettamente chiedessero loro di far sentire da che parte sta il potere nella relazione educativa (che per sua natura deve essere asimmetrica). A casa non lo imparano dagli adulti e di conseguenza non sanno che cosa sia la responsabilità; perciò vanno in escandescenze quando incontrano i primi ostacoli in classe. Per loro l’adulto non ha alcuna autorità; è un fratello maggiore al quale nulla è dovuto. Li conosco, questi genitori: sono quelli che arrivano infastiditi al colloquio con il docente quando il figlio prende un’insufficienza con l’argomento che il pargolo deve avere 6, perché non hanno tempo di occuparsene. Non sempre sono di bassa condizione sociale, anzi… La mancanza di riferimenti autorevoli produce principini narcisisti e onnipotenti, ai quali i genitori, schiacciati dal senso di colpa per la scarsa disponibilità verso i bisogni autentici dei figli, lasciano decidere tutto fin dalla tenera età. Fragili e privi di limiti, questi figli narcisi non vedono più in là dei confini del proprio ego e dei suoi impulsi immediati.E veniamo a loro, ai ragazzi. Questi ragazzi (parlo degli adolescenti, perché ci lavoro insieme da oltre trent’anni) sono in molti casi soli. Passano troppo tempo sui dispositivi digitali (per parecchi lo smartphone è oggetto di un vero attaccamento affettivo) e da un’età troppo precoce, con tutti i danni che ne derivano e che sono stati illustrati molto bene dal neuropsichiatra Manfred Spitzer nel suo libro “Demenza digitale” (Corbaccio): dipendenza, danno da campi elettromagnetici, sottrazione di tempo alla lettura e all’interazione faccia a faccia, danni cognitivi, rischi per la privacy, aumento dell’aggressività (specie per l’utilizzo dei videogiochi) e diminuzione dell’empatia. Spesso le bravate a danno dei docenti raccontate sui giornali sono state pensate nella prospettiva della diffusione sui social network e nelle chat. Sono messe in scena per un pubblico di pari, in cambio di una fragile popolarità che li faccia sentire esistenti. A questi ragazzi la scuola non dice molto e appare per lo più come una spiacevole interruzione delle loro attività digitali. La lettura è attività rara perfino al liceo. Il sapere appreso sui banchi appare vuoto e inutile e si aspettano la promozione per il solo fatto di andare a scuola.Questo non significa che la scuola debba inseguirli sul terreno tecnologico, ma che deve trasmettere e costruire con loro un sapere vitale, in grado di coinvolgerli. Perché possa riuscirci, occorrono insegnanti altamente selezionati e formati, dirigenti all’altezza, un’alleanza educativa con le famiglie, una maggiore considerazione del valore della scuola e del sapere a livello sociale (l’Italia, non dimentichiamolo, ha un numero enorme di analfabeti funzionali, circa il 70% della popolazione adulta), un senso di responsabilità condiviso. E così torniamo all’inizio. Siamo in un circolo vizioso. Questa scuola povera, svuotata, imbelle e irrilevante è il risultato di due decenni di logoramento progressivo e sistematico, ad opera di tutti i governi. Invece di essere riformata, la scuola italiana è stata smantellata. Mentre gli altri comparti della pubblica amministrazione hanno subito tagli lineari del 2%, la scuola si è vista sottrarre il 20% delle risorse. È un miracolo che esista ancora, benché compromessa. Ma non è colpa della scuola se i ragazzi sono violenti e privi di autocontrollo.Semmai, sia l’istruzione pubblica piegata alle esigenze del mercato, per il quale contano più le competenze delle conoscenze e più la ripetizione di nozioni del senso critico, sia l’individualismo sfrenato e l’ignoranza arrogante e soddisfatta di sé diffuse in una società che sta perdendo i valori fondanti della solidarietà, del bene comune, dell’impegno e della cultura sono il frutto malato di quella vera perversione della natura umana che è l’ideologia neoliberista. L’uomo è un essere intimamente sociale e predisposto all’empatia. Quando si insegna per decenni attraverso la parola e l’esempio che l’avversario è un nemico, che per affermare se stessi occorre competere, che i servizi pubblici sono uno spreco, che tutto si misura in termini economici, che con la cultura non si mangia e che i diritti sono sacrificabili sull’altare del profitto; quando si riduce l’istruzione al minimo, si riducono i salari e le tutele e si sdoganano a tutti i livelli la sopraffazione, l’arbitrio, la violazione delle regole, siamo di fronte ad una patologia individuale e sociale.I sociologi la chiamano “anomia”; gli psicologi possono scomodare etichette diagnostiche che vanno dal narcisismo alla psicopatia. Un popolo disgregato, al quale manca il senso di appartenenza ad una comunità, è facilmente manipolabile, oltre che infelice. Divide et impera, dividi e comanda. E così, con gli adulti affannati nella sopravvivenza quotidiana, i figli trattati come polli in batteria a cui dare il meno possibile perché non pensino ad altro che ai propri bisogni immediati e i docenti privati di prestigio e di credibilità, come la cultura di cui sono obsoleti portatori, al posto di una democrazia partecipativa, fondata sulla consapevolezza dei diritti e sulla responsabilità, stiamo imboccando il tunnel di una democratura, fondata sulla rinuncia inconsapevole ai diritti e sull’irresponsabilità. Non credo che se ne possa uscire né cambiando solo la scuola né limitandosi a punire gli studenti violenti. Certo, le azioni penalmente rilevanti vanno sanzionate anche penalmente. La responsabilità si impara pagando il prezzo delle proprie azioni; perciò l’indulgenza zuccherosa dei docenti che lasciano correre è deleteria almeno quanto il lassismo o l’arroganza dei genitori mai cresciuti che ne sono la causa prossima.Per uscire da un degrado così profondo, occorre guarire la malattia che lo ha provocato. Servono un futuro da costruire (questi ragazzi non ce l’hanno), la scoperta di un senso nella vita e un vero salto evolutivo della coscienza. Viviamo in mondo inquinato sul piano fisico da infinite sostanze tossiche, sul piano mentale da pensieri fuorvianti e dalla distrazione di massa, sul piano spirituale dalle catene della dipendenza dall’avere. Ci servono un paradigma diverso da quello neoliberista e un nuovo umanesimo, pragmatico, ma fondato sulla cooperazione e sull’empatia. Non sembra davvero facile, dato il livello del disfacimento sociale, ma nemmeno impossibile. Accanto ad una minoranza di ragazzi violenti e maleducati (ed anche fra loro) ci sono molti coetanei pieni di energie che devono solo trovare uno sbocco costruttivo. A questi uomini di domani servono uno scopo e dei maestri, altrimenti avranno solo dei capi-branco e dei dittatori. Siamo in grado di offrirglieli?(Patrizia Scanu, “Violenza in classe, come ci siamo arrivati?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 aprile 2018).Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.
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Vaccini, strage di militari: la verità della commissione difesa
Uranio impoverito? Pochissime righe sui media mainstream, frettolosamente archiviate. Articoli spesso comparsi solo nella versione web dei quotidiani, con titoli fuorivianti del tipo “oltre mille i marinai malati”. In realtà i militari italiani colpiti da gravi patologie sono almeno 4.000, cui si aggiungono 340 soldati deceduti. E’ il “bollettino di guerra” stilato dalla commissione difesa presiduta dal senatore Gian Pietro Scanu, già sottosegretario alle riforme, non ricandidato dal Pd alle elezioni del 4 marzo. Clamorosa la sua denuncia sulle “strage silenziosa” dei militari italiani, spesso impegnati nelle missioni all’estero. «Particolarmente vergognoso il silenzio dei media sui vaccini somministrati ai militari», afferma Patrizia Scanu, del Movimento Roosevelt. «Insieme all’esposizione all’uranio impoverito, proprio i vaccini rappresentano l’altra sospetta fonte delle gravissime patologie segnalate dal lavoro della commissione». Denuncia confermata da Ivan Catalano, vicepresidente della commissione, deputato eletto coi 5 Stelle e poi passato al gruppo misto, ora impegnato in un confronto pubblico, a Torino, proprio con Patrizia Scanu. Obiettivo: rimediare alle gravi omissioni della stampa su un argomento che investe migliaia di famiglie italiane, a cominciare da quelle dei militari in servizio.Oltre a riconoscere il nesso fra tumori ed esposizione all’uranio impoverito, sottolinea “Blasting News”, la relazione finale della commissione difesa «evidenzia come la pratica vaccinale sia uno dei fattori alla base dei decessi che hanno colpito le truppe italiane». Troppe morti, e troppi giovani soldati alle prese con il cancro: «In particolare, l’attenzione è stata posta sull’esposizione dei militari a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno, sull’uso di munizioni contenenti uranio impoverito, sulla dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti a seguito di esplosione di materiale da guerra e ad eventuali interazioni». L’inchiesta è durata cinque anni e ha visto coinvolti 30 parlamentari italiani, supportati da un team scientifico con il compito di fornire il supporto medico necessario per ricercare le cause che hanno portato alla morte i militari italiani. Un dossier che fa decisamente riflettere, «in quanto proprio le vaccinazioni militari sono state identificate come uno dei fattori che hanno portato all’insorgere di gravi patologie nei militari italiani e ai decessi di alcuni», aggiunge il newsmagazine, segnalando che la relazione integrale è liberamente disponibile sul sito di Catalano.Come già evidenziato nella relazione intermedia del luglio 2017, scrive la commissione, la vaccinazione comporta di rischi precisi: problemi di immunodepressione, iperimmunizzazione, autoimmunità e ipersensibilità. Affermazione che «ha trovato conferma dall’analisi dei documenti pubblici dei vaccini, quali fogli illustrativi e schede tecniche». In particolare, le stesse case farmaceutiche «chiedono l’applicazione di opportune precauzioni all’impiego del vaccino e, tra l’altro, la verifica dello stato di salute del vaccinando». Nel suo documento, la commissione d’inchiesta chiede quindi «l’adozione del principio di precauzione, dal momento che non si può escludere un nesso di casualità fra la profilassi vaccinale, così come è attualmente praticata fra i militari, e le reazioni avverse, denunciate dalle stesse case farmaceutiche». La commissione chiede inoltre vaccini monodose e monovalenti, che siano anche vaccini “puliti” (ossia privi delle sostanze tossiche attualmente utilizzate nella loro produzionei). E inoltre: somministrazione delle vaccinazioni presso la sanità pubblica, con protocolli militari, esami pre-vaccinali e un’attiva sorveglianza post-vaccinale.Di fatto, le raccomandazioni formulate dalla commissione difesa contengono le medesime richieste avanzate dai genitori italiani contrari all’obbligo vaccinale (legge Lorenzin) e favorevoli invece alla libera scelta di vaccinare o meno i propri figli. Dal canto suo, Patrizia Scanu ha seguito da vicino i lavori della commissione, studiando a fondo – più in generale – anche il “terremoto” dell’obbligo vaccinale che ha mandato in crisi i genitori italiani. Per il Movimento Roosevelt, contrario al decreto Lorenzin («metodo inaccettabile, imposizione non motivata da vere emergenze sanitarie»), Patrizia Scanu ha condotto uno studio approfondito e imparziale sulla materia. Conclusione: un conto è consigliare il ricorso ai nuovi vaccini (con tutte le precauzioni del caso) e un altro è obbligarie le famiglie, dato che in Italia non ci sono epidemie preoccupanti. Inaudito, poi, il silenzio dei media sulla catastrofe sanitaria che ha colpito i militari: una reticenza che, secondo Patrizia Scanu, viola l’articolo 21 della Costituzione, che recita: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Serve trasparenza, innanzitutto: a fronte di una situazione così minacciosa per la democrazia, conclude Patrizia Scanu, occorre reagire: «Il popolo italiano è fatto di cittadini, non di sudditi». E i cittadini, compresi i militari e le loro famiglie, «hanno diritto di sapere».(Ivan Catalano esporrà le conclusioni della commissione difesa insieme a Patrizia Scanu in un incontro pubblico promosso a Torino dal Movimento Roosevelt il 24 marzo 2018, nella sala del Comune di Torino in via De Sanctis 12 – Salone 1, blocco A, alle ore 20,30. L’incontro sarà filmato dal video-blog “ByoBlyu” diretto da Claudio Messora).Uranio impoverito? Pochissime righe sui media mainstream, frettolosamente archiviate. Articoli spesso comparsi solo nella versione web dei quotidiani, con titoli fuorivianti del tipo “oltre mille i marinai malati”. In realtà i militari italiani colpiti da gravi patologie sono almeno 4.000, cui si aggiungono 340 soldati deceduti. E’ il “bollettino di guerra” stilato dalla commissione difesa presiduta dal senatore Gian Pietro Scanu, già sottosegretario alle riforme, non ricandidato dal Pd alle elezioni del 4 marzo. Clamorosa la sua denuncia sulle “strage silenziosa” dei militari italiani, spesso impegnati nelle missioni all’estero. «Particolarmente vergognoso il silenzio dei media sui vaccini somministrati ai militari», afferma Patrizia Scanu, del Movimento Roosevelt. «Insieme all’esposizione all’uranio impoverito, proprio i vaccini rappresentano l’altra sospetta fonte delle gravissime patologie segnalate dal lavoro della commissione». Denuncia confermata da Ivan Catalano, vicepresidente della commissione, deputato eletto coi 5 Stelle e poi passato al gruppo misto, ora impegnato in un confronto pubblico, a Torino, proprio con Patrizia Scanu. Obiettivo: rimediare alle gravi omissioni della stampa su un argomento che investe migliaia di famiglie italiane, a cominciare da quelle dei militari in servizio.