Archivio del Tag ‘Piero Chiambretti’
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Torino, il Salone della Censura anticipa il governo Pd-M5S?
Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.Torino è sempre tristemente bella, misteriosamente inerte, lievemente depressiva. Ha inanellato un piccolo record italiano di sciagure altamente evocative, dalla tragedia del Grande Torino al rogo del cinema Statuto, fino alla carneficina in piazza San Carlo scatenata dal panico tra la folla che assisteva, dal maxischermo, a una partita della squadra bianconera (ancora lei). A due passi dall’ex cinema, nell’omonima piazza, torreggia il lugubre monumento che commemora i lavoratori caduti nell’800 al cantiere del Traforo del Fréjus voluto da Cavour. Il Fréjus esiste ancora, ci passa il velocissimo Tgv francese sulla linea valsusina Torino-Modane, ma forse i torinesi se ne dimenticano. Non sanno che esiste già, una Torino-Lione, e che l’Italia ha appena speso quasi mezzo miliardo di euro per ammodernare quel traforo, rendendolo perfettamente adatto al transito dei treni con a bordo i Tir e i grandi container navali? Dove hanno la testa, i torinesi, quando si lasciano trasformare in docile gregge (sotto la guida carismatica delle “madamine” di Chiamparino) da chi ha tutta l’aria di volersi aggrappare, come un parassita senza speranza, al miraggio miliardario dell’inutile ferrovia-doppione in valle di Susa? E’ lontanamente immaginabile che qualcosa del genere possa accadere nella vicinissima Milano, che dopo l’Expo è balzata al secondo posto (dietro a Roma) tra le mete turistiche italiane?A illuminare indirettamente il male oscuro di Torino ha provveduto, di recente, un giornalista di razza come Gigi Moncalvo, autore di saggi esplosivi (“Agnelli segreti” e “I lupi e gli agnelli”) subito spariti, misteriosamente, dalle librerie. In due diverse puntate della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, una sugli Agnelli e l’altra sui Caracciolo, Moncalvo si domanda come sia possibile che la grande stampa italiana ignori completamente le notizie-bomba che provengono dalla collina torinese, dove gli eredi dell’Avvocato si lacerano in guerre all’ultimo sangue per contendersi il tesoro dell’ex patron della Fiat: miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano (nonostante i fiumi di denaro statale concessi per la cassa integrazione). C’è anche il forziere – 9 miliardi in lingotti d’oro – custodito nel blindatissimo Freeport di Ginevra, insieme ai “risparmi” – dice sempre Moncalvo – dei migliori galantuomini del pianeta, narcos sudamericani e oligarchi russi. Possibile che nessuno ne parli? Ebbene sì: solo in Italia il kolossal tratto dal romanzo “The silence of the lambs” uscì col titolo taroccato (il silenzio degli innocenti, anziché degli agnelli) per un riflesso di autocensura preventiva, nel timore che la parola proibita – agnelli – potesse turbare la quiete sabauda della real casa.E se ora Torino fa notizia come sempre, cioè con qualcosa di sgradevole (il conformismo da parata, in salsa “antifascista”, per mettere al bando un editore che lo Stato considera perfettamente legale), c’è chi si mette addirittura in sospetto: vuoi vedere che dietro la manfrina anti-Salvini, inscenata da Chiamparino in tandem con la sindachessa pentastellata Chiara Appendino, si nascondono i prodromi della prossima, possibile manovra di palazzo per “sposare” i 5 Stelle con l’incolore Pd di Zingaretti? Non che ne manchino le premesse, dopo le entrate a gamba tesa di Roberto Fico sui migranti, l’allineamento di Giulia Grillo sul decreto Lorenzin (obbligo vaccinale), quindi la genuflessione di Di Maio alla Merkel e, soprattutto, la clamorosa cacciata di Armando Siri dal governo Conte. In compenso, Salvini – nel mirino – risponde da par suo, aprendo la più tragicomica caccia alle streghe della storia, quella contro i negozi di cannabis “light”. Con buona pace delle speranze dell’Italia gialloverde, morte e sepolte dopo la resa a Bruxelles. Nel 2008, Veltroni scelse proprio Torino per lanciare il formidabile Pd, il partito che avrebbe sorretto il governo Monti e varato la legge Fornero e il pareggio di bilancio in Costituzione. Sarà ancora l’ambigua e depressa Torino, capitale della censura, a inaugurare l’ennesima non-svolta concepita per consegnare il paese all’orizzonte dell’austerity eterna?(Giorgio Cattaneo, “Fatale Torino, capitale della censura: il bavaglio a CasaPound (contro Salvini) prepara un’intesa di governo tra Pd e 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 12 maggio 2019).Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.
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Nicolai Lilin da Barbareschi: mai detto di essere un criminale
«Non sono mai stato un criminale, non sono (più) un cecchino e non mi ritengo neppure uno scrittore: scrittori sono Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Bulgakov, Primo Levi». Così Nicolai Lilin in prima serata il 5 febbraio negli studi de La7, sotto i riflettori del rutilante circo televisivo di Luca Barbareschi, ha avuto modo di chiarire una volta per tutte la sua identità: «un ragazzo di 29 anni», reduce da un’adolescenza pericolosa vissuta in un ambiente dominato dalla criminalità sovietica, in Transnistria, e poi finito a fare la guerra in Cecenia. Ora è uno scrittore diretto e spontaneo, inevitabilmente autobiografico.
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Bianchi: scommettiamo che Lilin tornerà presto in tv?
«Scommettiamo che Nicolai Lilin tornerà presto in televisione?». Paolo Bianchi, redattore del “Giornale” reduce dal tempestoso contraddittorio con l’autore di “Educazione siberiana”, scrive a “Libre” per precisare: non ha mai citato Nuto Revelli, ma Primo Levi. «Se ho dato dello “sbudellatore” a Lilin è solo perché, avendo letto il suo libro, venduto come autobiografico, ci ho trovato delle scene in cui lui accoltella con violenza i suoi avversari. Se non è vero, allora il libro non è autobiografico. Tertium non datur. Lui, oltretutto, era lì, pagato, per farsi pubblicità. Io ero lì gratis a fare il mio lavoro, che non è quello di pubblico ministero, ma di giornalista».
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Maledizione siberiana: Lilin attaccato al Chiambretti show
Maledizione siberiana. Ovvero: il prezzo (tutto italiano) del successo. Protagonista: Nicolai Lilin, 29 anni, narratore per vocazione e scrittore per l’Einaudi, che ha rapidamente sfondato il tetto delle 50.000 copie vendute con l’opera prima, “Educazione siberiana”, romanzo autobiografico sulla pericolosa adolescenza vissuta nel ghetto criminale di Bender, in Transnistria, al crepuscolo dell’Urss, tra carcere minorile, baby-gang e sbirri del Kgb. Successo fulminante, anche grazie alla generosa presentazione di Roberto Saviano su “Repubblica”, tanto benevola da irritare i detrattori di Saviano
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Nicolai Lilin torna in tv, ospite di “Chiambretti Night”
Nicolai Lilin sarà ospite di Piero Chiambretti martedì 26 gennaio: l’autore di “Educazione siberiana” ha accettato di sedere sulla (scomoda) poltrona di “Chiambretti Night”, in seconda serata su Italia Uno, affrontando l’inevitabile intervista semiseria del più tagliente e imprevedibile showman della televisione italiana. Di origine russa, tatuatore formatosi in Transnistria alla scuola del “tatuaggio criminale siberiano”, Lilin ha trasferito la sua drammatica esperienza, compreso il carcere minorile, nelle pagine del fortunato romanzo d’esordio.
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Veronelli e vino anarchico, il piacere della libertà
Ciccioli, citazioni di Prampolini e Fourier, affettati misti, tortelli di zucca, “Bella ciao” come al cimitero di Bergamo, ma allora era la banda degli Ottoni a Scoppio e stavolta un mandolinista di 84 anni, molto vispo però, e un chitarrista di 75, minestra di trippa (facoltativa), una quantità impressionante di bottiglie di Lambrusco di tutti i tipi (chiaro, scuro e scurissimo: il migliore), anticipazioni, ricordi, guanciale di vitello brasato. Così, a poco più di cinque anni dalla morte, a Gualtieri hanno ricordato Sua Nasità.
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Villaggio: Mike ha abbassato il livello culturale
Mentre si pensa a funerali di Stato nel Duomo di Milano per onorare la memoria di Mike Bongiorno, re dei telequiz e “padre della televisione popolare italiana”, scomparso l’8 settembre all’età di 85 anni dopo una giovinezza avventurosa (nato a New York, partigiano in valle di Susa e finito in carcere a Milano con Indro Montanelli, prima di avviare la sfolgorante carriera televisiva con programmi-culto come “Lascia o raddoppia” e “Rischiatutto”), Paolo Villaggio non si unisce al cordoglio collettivo per la scomparsa del presentatore, sostenetendo che Mike Bongiorno avrebbe abbassato il livello culturale del paese, come ha dichiarato all’agenzia di stampa AdnKronos.