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Stragi e segreti, Renzi e lo strano amico americano
Mentre il premier Matteo Renzi lancia l’ennesimo annuncio spot (via il segreto di Stato dai dossier sulle stragi), Paolo Guzzanti precisa: in Italia non c’è nessun “segreto di Stato”, ma solo i faldoni dei servizi già visionati dagli inquirenti e rimasti protetti dal vincolo di segretezza («per desecretare quelli ci vorranno almeno tre anni – dice Guzzanti – perché occorreranno apposite leggi»). Nessun “segreto”, in ogni caso, da portare per la prima volta alla luce. In compenso, “Il Giornale” mette a fuoco lo strano “amico americano” di Renzi, Michael Ledeen, definito «un nome sorprendente e inquietante, certamente non “nuovo”», che Massimo Malpica inserisce nel “cerchio magico” del neo-premier, in qualità di consulente per la politica estera. Oggi esponente dell’influente think-tank neocon “American Enterprise Institute”, già collaboratore delle amministrazioni Reagan e Bush, il 72enne Ledeen sarebbe legato a filo doppio all’Italia dei misteri: dal sequestro Moro al rapimento del generale Dozier, dalla strage di Bologna alla crisi di Sigonella, dall’attentato al Papa al “Nigergate”.Nel lontano 1975, «mentre Renzi nasceva», in Italia Ledeen «ha esordito come intellettuale», in veste di autore delle domande della celebre “Intervista sul fascismo” di Renzo De Felice. Da lì in poi, scrive Malpica, il nome di Ledeen «è finito, di riffa o di raffa, in mezzo a gran parte dei misteri e dei gialli del Bel Paese». L’interessato «talvolta si è chiamato fuori, negando ruoli riferiti da altri, spesso a colpi di querele. Soprattutto, è sempre rimasto in piedi. Tanto in piedi che ora il suo nome viene accostato al nuovo premier italiano». Il tramite, scrive il “Giornale”, sarebbe lo stratega economico della carriera politica di Renzi, Marco Carrai, ma i rapporti risalirebbero al 2007, quando il super-falco della destra Usa dedicò un articolo allo chardonnay siciliano, raccontando di aver scoperto quel vino un paio d’anni prima, a pranzo «col mio amico Matteo Renzi».Un renziano della prima ora, Ledeen, i cui rapporti con politici e intelligence nostrani sono ben più datati. Nel 1984 l’allora capo del Sismi Fulvio Martini raccontò ai membri del Copaco di aver detto all’ambasciatore americano a Roma, Maxwell Raab, che Ledeen «non deve più tornare in Italia», dandogli di fatto dell’«indesiderabile». Ledeen annunciò querele contro lo 007. Martini confermerà tutto 15 anni dopo, di fronte alla commissione Stragi: «Avevo chiesto all’ambasciata americana di non far entrare Mike Ledeen in Italia: era un tizio che lavorava ai margini della Cia». E perché Ledeen non era gradito? Ancora Martini: «Intanto quando Ledeen veniva in Italia andava direttamente dal presidente della Repubblica, che aveva conosciuto quando era ministro dell’interno. E la cosa non mi piaceva. Secondo, perché Ledeen aveva avuto da uno dei miei predecessori 100mila dollari per fare conferenze sul terrorismo, che erano assolutamente rubati. E poi lavorava a margine della Cia, e la cosa non mi piaceva».Il presidente “amico” era Francesco Cossiga, che per la verità al Colle sarebbe arrivato solo nel 1985, un anno dopo lo “sgradimento” di Ledeen espresso da Martini. Ma durante il sequestro Moro, secondo il consulente di Cossiga nei giorni del rapimento, Stefano Silvestri, Ledeen, definito «un pataccaro d’alto bordo», propose «a Cossiga e ai servizi» di «effettuare simulazioni, usando materiali preparati dall’esperto di terrorismo Walter Laqueur». «Detti parere negativo – spiega Silvestri – ma seppi in seguito che era riuscito a piazzare qualcuno dei suoi giochi». Forse, aggiunge il “Giornale”, si trattava dei corsi antiterrorismo organizzati per la nostra intelligence tra ‘80 e ‘81, per i quali Ledeen sostiene di non essere mai stato pagato. «Secondo il faccendiere Francesco Pazienza – continua Malpica – Ledeen più che un consulente era organico al Sismi guidato da Giuseppe Santovito, e il suo nome in codice sarebbe stato “Z3”, un dettaglio che l’interessato nega».Di certo il neocon che ora sussurra consigli a Matteo (al “Sole 24 Ore”, Ledeen ha spiegato che a Renzi parla «delle cose che forse mi illudo di conoscere, Medio Oriente, Russia, chi sale e chi scende nella politica Usa»), negli anni ‘80 era in buoni rapporti anche con Craxi. La notte della crisi di Sigonella, ricorda il “Giornale”, fu proprio lui a fare da interprete («manipolando qualche risposta, confesserà lui stesso nel 1994») al telefono tra Reagan alla Casa Bianca e il premier socialista all’Hotel Raphael, mentre i terroristi della Achille Lauro erano contesi tra Delta Force e carabinieri. Amicizia, quella con Bettino, che non impedirà a Ledeen di invitare negli Usa, nel 1995, proprio Antonio Di Pietro, per tenere un discorso all’“American Enterprise Institute”: «Venne a cena da me», confermò Ledeen al “Corriere della Sera” nel 2010.A metà anni 2000, Mike Ledeen è di nuovo nella bufera per il Nigergate: secondo i giornalisti Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, della “Repubblica”, l’intelligence militare italiana avrebbe consegnato alla Cia falsi documenti per “dimostrare” l’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Documenti che sarebbero stati utilizzati dal presidente George W. Bush come prova dei tentativi del dittatore iracheno di procurarsi armamenti nucleari, causa scatenante la seconda Guerra del Golfo. Michael Ledeen ha negato di avere avuto un ruolo nell’operazione. A sua volta, l’allora presidente del Copaco, Enzo Bianco, negò l’esistenza di rapporti dei servizi italiani con il politologo americano, anche se a proposito dei suoi rapporti con politici italiani aggiunse: «Se fossi ministro, non lo inviterei a pranzo». Conclude Malpica: «Renzi, già da presidente della Provincia di Firenze, non ha seguito il consiglio».Mentre il premier Matteo Renzi lancia l’ennesimo annuncio spot (via il segreto di Stato dai dossier sulle stragi), Paolo Guzzanti precisa: in Italia non c’è nessun “segreto di Stato”, ma solo i faldoni dei servizi già visionati dagli inquirenti e rimasti protetti dal vincolo di segretezza («per desecretare quelli ci vorranno almeno tre anni – dice Guzzanti – perché occorreranno apposite leggi»). Nessun “segreto”, in ogni caso, da portare per la prima volta alla luce. In compenso, “Il Giornale” mette a fuoco lo strano “amico americano” di Renzi, Michael Ledeen, definito «un nome sorprendente e inquietante, certamente non “nuovo”», che Massimo Malpica inserisce nel “cerchio magico” del neo-premier, in qualità di consulente per la politica estera. Oggi esponente dell’influente think-tank neocon “American Enterprise Institute”, già collaboratore delle amministrazioni Reagan e Bush, il 72enne Ledeen sarebbe legato a filo doppio all’Italia dei misteri: dal sequestro Moro al rapimento del generale Dozier, dalla strage di Bologna alla crisi di Sigonella, dall’attentato al Papa al “Nigergate”.
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Si scrive Renzi, ma si legge Blair (cioè Jp Morgan)
Una cena per decidere, una per confermare le decisioni. Primo giugno 2012, primo aprile 2014. Due protagonisti sempre presenti: il presidente del consiglio Matteo Renzi e l’ex premier britannico Tony Blair. Un terzo (presente con suoi rappresentanti) è l’organizzatore, il vero beneficiario dei frutti degli incontri: la banca d’affari Jp Morgan. «Renzi – scrive il quotidiano britannico “Daily Mirror” – è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma delle Province, del Senato, del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia, del Consiglio dei ministri, riforma elettorale. Protesta Franco Fracassi: «Sta per essere stravolta la Costituzione italiana, quella votata dopo la vittoria sul fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, quella pensata per impedire una futura svolta autoritaria nel paese. Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi. Così ha suggerito la Jp Morgan», che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici.La prima cena, a Palazzo Corsini a Firenze, la banca d’affari statunitense l’ha organizzata il 1° giugno 2012, ricorda Fracassi su “Popoff”: Renzi allora era solo sindaco, ma Jamie Dimon – il patron della Jp Morgan – aveva intuito che sarebbe presto arrivato a Palazzo Chigi. Secondo appuntamento, sempre con Blair, il 1° aprile 2014 a Londra. L’indomani, in un’intervista a “Repubblica”, Tony Blair ufficializza il suo endorsement per il neo-premier: «I momenti di grande crisi sono anche momenti di grande opportunità», ovvero perfetti per «realizzare un programma ambizioso come quello delineato dal nuovo premier italiano». L’amico Matteo? «Comprende perfettamente la sfida che ha di fronte: se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito». Per questo, «c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia». La crisi? «Può dargli l’opportunità per compiere quei cambiamenti che sono necessari al paese, ma che finora non sono mai stati fatti per le resistenze di lobby e interessi speciali».Secondo Blair, Renzi deve ridurre il deficit, fare «le riforme necessarie per cambiare politica economica» e rilanciare la crescita, «non solo per generare occupazione ma anche per portare più denaro nelle finanze pubbliche». Per fare tutto questo, dice Blair, non serve la contrapposizione destra-sinistra, «bensì quella tra giusto e sbagliato, fra ciò che funziona e ciò che non funziona». E avverte: «Se la riduzione del deficit è troppo veloce, la crescita non riparte. Ma se non si fanno le necessarie riforme, il deficit non si riduce. E mi sembra che questo Renzi lo abbia capito benissimo». In un’altra intervista, rilasciata al “Times”, sempre Blair, annuncia: «Il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, neanche è cominciato. Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare riforme significative». Parola di Tony Blair, pagato milioni di dollari l’anno per fare da consulente a una delle più importanti banche d’affari del mondo, seconda solo alla Goldman Sachs.Proprio la Jp Morgan, continua Fracassi, è stata formalmente denunciata dalla Casa Bianca come «responsabile della crisi dei subprime» che ha poi scatenato la crisi economica mondiale. «Le banche d’affari – chiarisce l’economista statunitense Joseph Stiglitz – si servono di consulenti come la massoneria si serve dei propri membri». Funziona così: «I consulenti oliano gli ingranaggi della politica, avvicinano i politici che contano alle banche giuste e promuovono presso di loro politiche compiacenti a quelle indicate dalle banche». Sono loro, le super-banche, a dettare la linea ai politici “compiacenti”. E la linea della Jp Morgan, datata 28 maggio 2013, è tristemente nota: nel documento di sedici pagine dal titolo “Aggiustamenti nell’area euro”, la superpotenza finanziaria di Dimon sostiene che dietro la crisi europea ci sono «limiti di natura politica», perché «i sistemi politici dei paesi del Sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».Per la Jp Morgan, il problema – in Italia – è rappresentato dalla Costituzione antifascista, che mostra «una forte influenza delle idee socialiste», riflettendo «la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». Il governo è «debole» nei confronti del Parlamento e delle Regioni, e sconta come un handicap le «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori». L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro? Questo non piace, alla Jp Morgan, che denuncia come un problema anche «il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi». Il gioco è chiaro: la nostra Costituzione, spiega un economista come Emiliano Brancaccio, è temuta dal grande capitale, perché contiene «norme che vincolano la tutela della proprietà privata, che può essere espropriata per fini di pubblica utilità». Con una Costituzione come la nostra, dunque, «il soggetto straniero che viene ad acquisire capitale nazionale spesso a prezzi stracciati non è totalmente tutelato perché potrebbe essere espropriato». Sicché, «dietro la parolina magica “modernizzazione”, spesso pronunciata da Jp Morgan, c’è dunque la tutela degli interessi di chi vuole venire a fare shopping a buon mercato in Italia e in altri paesi periferici dell’Unione Europea». Niente paura: ora se ne occuperà Renzi, l’amico di Tony Blair, cavallo di Troia della Jp Morgan.Una cena per decidere, una per confermare le decisioni. Primo giugno 2012, primo aprile 2014. Due protagonisti sempre presenti: il presidente del consiglio Matteo Renzi e l’ex premier britannico Tony Blair. Un terzo (presente con suoi rappresentanti) è l’organizzatore, il vero beneficiario dei frutti degli incontri: la banca d’affari Jp Morgan. «Renzi – scrive il quotidiano britannico “Daily Mirror” – è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma delle Province, del Senato, del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia, del Consiglio dei ministri, riforma elettorale. Protesta Franco Fracassi: «Sta per essere stravolta la Costituzione italiana, quella votata dopo la vittoria sul fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, quella pensata per impedire una futura svolta autoritaria nel paese. Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi. Così ha suggerito la Jp Morgan», che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici.
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Renzi, svolta autoritaria in vista della macelleria 2015
Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione economica così drammatica, dia invece la priorità alla riforma del Senato e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».Quel premier, aggiunge Della Luna nel suo blog, «non sarà un ragazzotto inoffensivo», ma un uomo degli interessi finanziari, dei poteri forti, un delegato della Troika, che «macellerà l’Italia come la Troika ha macellato la Grecia, senza però che la Troika debba metterci la faccia», quindi scaricando sugli italiani la responsabilità di ciò che essa farà a loro. «Il peggioramento economico arriverà l’anno prossimo, con le decine di miliardi che annualmente l’Italia dovrà togliere ai contribuenti per l’abbattimento forzoso del debito pubblico (Fiscal Compact) in un trend già di avvitamento fiscale pluriennale». Prevedibilmente, continua l’avvocato Della Luna, l’Italia dovrà allora invocare l’aiuto, il bail-out, della Troika, accettare le sue “cure” e quindi reprimere l’ampio scontento popolare che, a quel punto, scoppierà. E allora «servirà una mano dura, un governo autoritario con poteri forti. Ecco a che cosa servono la riforma elettorale e del Senato. Ecco perché per questo governo sono prioritarie e vengono prima dei problemi economici».In una situazione come la nostra, in cui l’Italia è indebitata sempre più – e il debito pubblico è denominato in euro, cioè «in una moneta praticamente straniera e tutta sbilanciata su poteri esterni alla repubblica» – avremmo bisogno di tutt’altro. Per esempio, di una riforma sovranista «che prevenisse da altre sospensioni della democrazia come quelle imposte ben tre volte dai manovratori del rating e dello spread attraverso Napolitano». E invece, arriva esattamente l’opposto. «Riflettete bene: sotto la pelle d’agnello di Renzi e dei suoi ragazzi un po’ ingenui, con le loro riforme, e con l’aiuto di un Berlusconi sempre più condizionabile giudiziariamente, stanno istituendo una nuova architettura costituzionale», in cui il capo del partito di maggioranza relativa – magari eletto solo da qualche milione di italiani – si prende praticamente tutto. Con le “riforme” imposte da Renzi, infatti, il segretario del partito si sceglie i candidati che gli vanno bene, e col voto di meno di un terzo degli elettori si prende la maggioranza assoluta nell’unica camera legislativa, blindando a priori la fiducia al proprio governo.Sempre il premier, con un pugno di voti, designerebbe anche il presidente della Repubblica (che a sua volta nominerebbe buona parte del Senato), ma anche «il presidente dell’unica camera legislativa, i giudici costituzionali, i membri laici del Csm e altre cariche di garanzia». Il neo-premier potrebbe anche revocare a piacimento i ministri e lasciare senza rappresentanza parlamentare partiti che raccolgono milioni di voti, ponendosi quindi «al di sopra di ogni controllo». La giustificazione, continua Della Luna, è che i tempi richiedono un premier forte e decisioni rapide. «E’ una giustificazione bugiarda perché queste esigenze di efficienza-rapidità e insieme di democraticità-legalità sarebbero molto facilmente soddisfatte senza rinunciare alle garanzie e alla rappresentatività vera del corpo elettorale: basta mantenere, accanto a una Camera dei deputati eletta con un sistema maggioritario e con sbarramenti, un Senato elettivo, riformato in modo che sia l’organo della rappresentanza fedele dell’elettorato e delle garanzie».Per Della Luna, il Senato ideale potrebbe essere eletto con sistema proporzionale su base regionale e rinnovato per la metà ogni 3 anni. Non dovrebbe poter essere sciolto, non parteciperebbe alla normale attività legislativa e non voterebbe la fiducia (queste funzioni spetterebbero alla sola Camera dei deputati), salvo «un diritto di veto che può esercitare con maggioranza dei 3/5 dei membri su proposta di 1/3 di essi». Il nuovo Senato democratico, in compenso, avrebbe «competenza legislativa esclusiva per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sulla cittadinanza, leggi elettorali, ratifica di trattati limitanti la sovranità nazionale, messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, decisioni su eleggibilità e decadenza di deputati e senatori, commissioni d’inchiesta, nomina del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, dei membri laici del Csm, dei capi di tutte le istituzioni di garanzia». Un tale sistema bicamerale, conclude Della Luna, sarebbe «così semplice e chiaro, lineare ed efficace nell’assicurare tutte le funzioni, l’efficienza e le garanzie, che il fatto stesso che non sia nemmeno proposto prova il pericoloso obiettivo del governo in carica e la corresponsabilità di chi lo sostiene in qualsiasi modo».Che c’azzeccano il Senato e l’Italicum con la crisi economica? Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione così drammatica, dia invece la priorità alla riforma di Palazzo Madama e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».
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L’ex militante: da oggi il Pd è un avversario politico
Dalle 17 di oggi, giovedì 13 febbraio 2014, dopo una vita passata a sinistra, con anni di militanza e di impegno civile, considero il Partito Democratico un avversario politico. Per i seguenti motivi. Per aver tradito lo spirito delle primarie, con un governo di larghe intese. Per aver fatto una campagna elettorale negli ultimi mesi senza un contenuto, riducendosi solo alla “smacchiatura del giaguaro” e riducendosi smacchiati. Per aver tradito Prodi, votato per acclamazione la sera e tradito con 101 grandi elettori il giorno dopo in Parlamento. Per non aver mai chiarito perché e percome questo poteva essere accaduto. Per aver cinchischiato per mesi in assenza di un congresso, che poteva chiarire le posizioni di tutti.Per aver permesso delle primarie di partito aperte a non iscritti: non si è mai visto che un partito, che è circoscritto dal fatto che ci sono degli iscritti, possa permettere che dei non iscritti votino un segretario. Per aver approvato poi definitivamente che una persona non eletta in Parlamento, non votata da nessuno, con doppio incarico (sindaco di Firenze e segretario di partito) possa, dopo aver colloquiato col presidente della Repubblica, farsi dare mandato da un partito per diventare presidente del Consiglio senza nessun mandato chiaro degli elettori, trasformando questa operazione in un golpe bianco.Infine, non considerando che, come non c’erano prima, i numeri non ci sono adesso. Questo governo sarà ostaggio del Nuovo Centrodestra di Alfano e preluderà, alle prossime elezioni – come e quando ci saranno – a un’ennesima vittoria (o candidatura) dell’imperituro Berlusconi. Questo è inammissibile. Da oggi, il Pd è un avversario politico.(Alessandro Lanzani, “Da oggi il Pd è per me un avversario politico”, video-editoriale pubblicato su YouTube e ripreso il 16 febbraio 2014 dal blog di Debora Billi).Dalle 17 di oggi, giovedì 13 febbraio 2014, dopo una vita passata a sinistra, con anni di militanza e di impegno civile, considero il Partito Democratico un avversario politico. Per i seguenti motivi. Per aver tradito lo spirito delle primarie, con un governo di larghe intese. Per aver fatto una campagna elettorale negli ultimi mesi senza un contenuto, riducendosi solo alla “smacchiatura del giaguaro” e riducendosi smacchiati. Per aver tradito Prodi, votato per acclamazione la sera e tradito con 101 grandi elettori il giorno dopo in Parlamento. Per non aver mai chiarito perché e percome questo poteva essere accaduto. Per aver cinchischiato per mesi in assenza di un congresso, che poteva chiarire le posizioni di tutti.
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Vedrete, Renzicchio riuscirà a farci rimpiangere Letta
Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.E il fatto che la scure di Sua Maestà si sia abbattuta proprio su Gratteri la dice lunga sul livello di non detto dei patti inconfessabili che Renzi ha voluto o dovuto stringere col partito trasversale del Gattopardo. Se il premier fosse quello che dice di essere, avrebbe dovuto tener duro su Gratteri o mandare tutto a monte. Invece s’è democristianamente genuflesso a baciare la pantofola e ha nominato il ragionier Orlando, ultimamente parcheggiato all’Ambiente («Orlando chi?», avrebbe detto Renzi qualche giorno fa), rinunciando a dare una sterzata alla Giustizia. Complimenti vivissimi a lui e a Giorgio Napolitano, che si conferma il peggior presidente della storia repubblicana: se Scalfaro nel ‘94 usò il potere di nominare i ministri per sbarrare la strada a Previti, lui l’ha usato per fermare un pm competente, efficiente, onesto ed estraneo alle correnti. E non per un’allergia congenita ai Guardasigilli togati: nel 2011 firmò l’incredibile nomina del magistrato forzista Nitto Palma, amico di B. e di Cosentino.Il veto è proprio ad personam contro Gratteri, che la Giustizia minacciava di farla funzionare sul serio, senza più indulti, amnistie, svuota carceri e leggi vergogna. Davvero troppo per lo Stato che tratta con la mafia e per il suo capo. Accettando senza batter ciglio i veti del Colle, della Bce e di Bankitalia, Renzicchio si candida al ruolo di rottamatore autorottamato. Poteva tentare una svolta, costi quel che costi: s’è prontamente fatto fagocitare dalla “palude” che rinfacciava a Letta. Voleva essere il primo premier della Terza Repubblica: sarà il terzo premier a sovranità limitata, circondato da un accrocco di partitocrati di nuova generazione che non danno alcuna garanzia di esser meglio degli antenati. Con due sole eccezioni: il ministro dell’Economia Padoan, finto tecnico che rassicura le autorità europee e mastica politica da una vita, infatti era consigliere di D’Alema (Renzi voleva Delrio, poi anche lì ha alzato bandiera bianca); e l’addetta allo Sviluppo Federica Guidi, che ha soprattutto il merito di essere una turbo berlusconiana e la figlia di papà Guidalberto.Alfano, che Renzi voleva cacciare dal Viminale per l’affare Shalabayeva, resta a pie’ fermo al Viminale. Lupi, che persino il renziano De Luca accusava di farsi gli affari suoi alle Infrastrutture, rimane imbullonato dov’è. Un altro formidabile conflitto d’interessi porta con sé Giuliano Poletti, ras delle coop rosse, al Lavoro. Notevole anche la Pinotti, genovese come Finmeccanica, alla Difesa. La catastrofe Lorenzin farà altri danni alla Salute. Il multiuso Franceschini passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura. La Giannini, segretaria di quel che resta di Scelta civica, va all’Istruzione. Il cerchietto magico renziano si aggiudica gli Esteri con la Mogherini, le Riforme con la Boschi, la Pubblica amministrazione con la Madia (avete capito bene: Madia). Un po’ di fumo negli occhi con la sindaca antimafia Lanzetta alle Regioni, poi due figuranti come Martina all’Agricoltura e il casiniano Galletti che, essendo commercialista, va all’Ambiente. “Ora mi gioco la faccia”, ha detto Renzi. Già fatto.(Marco Travaglio, “Il Renzicchio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.
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Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia
Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.(Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
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Padoan imposto dalla Troika, con tanti saluti a Renzi
Scusate, ma dov’è la novità del governo Renzi? Vi prego, guardate la lista dei ministri: ci sono diverse giovani comparse (ininfluenti), molti volti notissimi provenienti dal governo uscente (ben nove tra cui Franceschini, Alfano… urca, che rinnovamento!) ed esponenti dell’establishment nazionale (al lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti! Niente male per un premier di dichiarata origine democristiana…) e soprattutto di quello europeista. Se non è una fotocopia del governo Letta che era l’interprete in versione democristiana della linea Monti… Qualcuno crede ancora davvero alla favoletta di Renzi rottamatore? L’ho già scritto e insisto: questo è un continuatore. E’ un garante. Ora c’è la prova. Tra tutte, la nomina che più conta è quella di ministro dell’economia.Pier Carlo Padoan è un economista che ha lavorato per la Banca mondiale, la Commissione europea e la Bce. E’ stato rappresentante del Fmi, poi è sbarcato all’Ocse, dove ricopre l’incarico di economista capo. Serve altro per capire chi sia Padoan e soprattutto quale modello economico intenda perseguire? Il nuovo superministro dell’economia è da sempre un dogmatico, un teorico del rigore, probabilmente della patrimoniale, al punto che persino il Premio Nobel Krugman lo ha definito il “cheerleader” dell’austerità. Se avete gradito Monti e la cura che ha riservato all’Italia, apprezzerete senz’altro Padoan. Da notare che Renzi nemmeno lo conosceva; in queste ore, secondo quanto riporta il Messaggero, gli ha parlato solo al telefono, ma ne é rimasto folgorato; come peraltro gradivano – e lo hanno fatto sapere – Napolitano e la Commissione Europea, il Fondo Monetario, naturalmente la Bce di Mario Draghi.Padoan è uno dei loro. E sono rassicurati dalla sua nomina, anzi entusiasti. Gli italiani non so. Sì, gli italiani sono disorientati, sconcertati, in gran parte già delusi da Renzi per il modo in cui ha conquistato il potere. Nessuno ha spiegato quali siano le vere ragioni che hanno costretto alle dimissioni Letta, senza nemmeno il pretesto di una crisi o di un voto di sfiducia. E non che gli italiani lo amassero particolarmente, ma almeno una ragione plausibile, magari democratica… invece nulla. Si è capito invece benissimo chi ha gradito questo perentorio cambio in corsa: l’establishment europeista di cui i mercati sanno interpretare gli interessi. Letta ne faceva parte, ma la sua appartenenza non è bastata a salvarlo. C’era urgenza. Ma per fare cosa? Qui c’è la chiave della crisi e della folgorante ma ingiustificata ascesa di Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Macché rottamatore, Renzi è il garante e continuatore”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 22 febbraio 2014).Scusate, ma dov’è la novità del governo Renzi? Vi prego, guardate la lista dei ministri: ci sono diverse giovani comparse (ininfluenti), molti volti notissimi provenienti dal governo uscente (ben nove tra cui Franceschini, Alfano… urca, che rinnovamento!) ed esponenti dell’establishment nazionale (al lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti! Niente male per un premier di dichiarata origine democristiana…) e soprattutto di quello europeista. Se non è una fotocopia del governo Letta che era l’interprete in versione democristiana della linea Monti… Qualcuno crede ancora davvero alla favoletta di Renzi rottamatore? L’ho già scritto e insisto: questo è un continuatore. E’ un garante. Ora c’è la prova. Tra tutte, la nomina che più conta è quella di ministro dell’economia.
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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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E ora il manganello di Renzi, l’omino imposto dai mercati
I mercati avranno il premier che vogliono: giovane, per dare anche visivamente l’impressione che qualcosa sta cambiando (anche Letta è “giovane”, ma purtroppo non lo sembra); veloce, per “fare” le cose più sgradevoli senza che si riesca a capire in tempo di cosa si tratta; disincantato, quindi privo di riguardi istituzionali, costituzionali; ruffiano, per “distrarre” il pubblico con battutine e spiccioli di “cura sociale” (aggiustare qualche scuola, mentre ti levano tutto il resto, professori compresi); esecutore fedele, perché completamente privo di un progetto autonomo (“far ripartire l’Italia” è uno slogan usato da tutti i governi degli ultimi 70 anni; ma anche prima…). È la prima volta che una crisi di governo – tra le più ingiustificate degli ultimi venti anni – non viene accompagnata da violente oscillazioni di Borsa o da rapidi impennamenti dello spread. I mercati apprezzano, Confindustria l’aveva chiesto (“o un cambio di passo o un cambio di governo”). Quindi ai mercati va benissimo così.Cosa rimproveravano a Letta, enfant prodige del Bilderberg? L’eccesso di tatticismo, il rispetto degli equilibri in una maggioranza composita, il subire veti incrociati alla lunga logoranti, un piglio poco arrembante. La lista delle “cose da fare per cambiare il paese” è lunga, dolorisissima, piena di obiettivi alquanto complicati. A cominciare da quelle riforme costituzionali che non riescono ad andare in porto neanche istituendo una “commissione di saggi” apposita. L’immagine della “palude”, evocata da Renzi e non solo, rende fino a un certo punto la sensazione derivante dall’intrico di “resistenze al cambiamento”, della molteplicità di soggetti e forze in qualche modo titolari di un potere “legittimo”, sentito come intangibile o irriducibile. Un reticolo di interessi nati e moltiplicatisi nell’epoca delle “vacche grasse”, tra clientele e rendite di posizione; ma anche di diritti sociali, sindacali, civili in senso stretto, idealmente “garantiti” dalla Costituzione.Tutte forme cresciute intorno alla funzione di “mediazione sociale” di uno Stato obbligato a pacificare il conflitto, assicurare il consenso, “promuovere la partecipazione”. Tutta roba che oggi appare un “ostacolo” alla piena affermazione della centralità dell’impresa nell’epoca della stagnazione perenne, della crisi che non passa, della disoccupazione che cresce, del futuro inesistente. Il governo Renzi nasce per essere il “governo del fare”. Senza discussioni, senza rispetto di procedure e vincoli costituzionali. Senza mediazioni sociali.Gli arresti di Roma e Napoli sono il primo segno dello “stile Renzi”, non l’ultimo atto dell’esecutivo Letta. Il “cambiamento” preteso dal capitale multinazionale e dal suo braccio statuale – l’Unione Europea – è un “dispotismo poco illuminato”, che usa i media come un maganello e il manganello come strumento ordinario di governo.Un governo con queste ambizioni deve partire come un razzo, sparare provvedimenti già pronti ma fermi nei cassetti del Centro Studi di Confindustria o nelle pieghe attuative della “lettera della Bce”, quella dell’agosto 2011. Da qui all’estate ne vedremo di tutti i colori, ce ne faranno sentire di tutti i dolori. Inutile sperare in resistenze parlamentari (se ce ne saranno, rappresenteranno i “poteri clientelari” o mafiosi, non certo i bisogni popolari), in resipiscenze costituzionali, in sensi di colpa “democratici”. Solo la forza e la dimensione dei movimenti di lotta, la loro compattenza unitaria tutta da costruire, potrà costituire un vero intralcio per l’annunciata “marcia trionfale” dell’omino venuto dal nulla. Non sarà facile, lo sappiamo. Ma non è più il tempo della retorica “alternativa”, dei “vendolismi” in salsa arrabbiatissima. Né dei “gesti” occasionali che dovrebbero simboleggiare la radicalità del contrapporsi.Dobbiamo tutti venir fuori dai nostri piccoli rivoli, più o meno conflittuali, e costituire un fiume possente, incontenibile. Ma l’unità non si costruisce “mettendoci d’accordo”, mediando all’infinito le molteplici e giustificate differenze. L’unità si misura con l’avversario comune, con il “cervello politico” da cui discendono le tante politiche di immiserimento con cui ognuno di noi è costretto a confrontarsi. Possiamo riuscirci, se si individua con chiarezza il vero avversario: quella Unione Europea che ha scelto come provvisorio feldmaresciallo l’ex sindaco di Firenze.(Dante Barontini, “Il gerarca dei mercati”, da “Contropiano” del 14 febbraio 2014).I mercati avranno il premier che vogliono: giovane, per dare anche visivamente l’impressione che qualcosa sta cambiando (anche Letta è “giovane”, ma purtroppo non lo sembra); veloce, per “fare” le cose più sgradevoli senza che si riesca a capire in tempo di cosa si tratta; disincantato, quindi privo di riguardi istituzionali, costituzionali; ruffiano, per “distrarre” il pubblico con battutine e spiccioli di “cura sociale” (aggiustare qualche scuola, mentre ti levano tutto il resto, professori compresi); esecutore fedele, perché completamente privo di un progetto autonomo (“far ripartire l’Italia” è uno slogan usato da tutti i governi degli ultimi 70 anni; ma anche prima…). È la prima volta che una crisi di governo – tra le più ingiustificate degli ultimi venti anni – non viene accompagnata da violente oscillazioni di Borsa o da rapidi impennamenti dello spread. I mercati apprezzano, Confindustria l’aveva chiesto (“o un cambio di passo o un cambio di governo”). Quindi ai mercati va benissimo così.
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Caro Letta, il dio della sinistra è lo stesso di Berlusconi
Si è chiuso un ventennio, come dice Enrico Letta? Il premier si sbaglia, replica Diego Fusaro, «perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento». Portatrici della stessa visione ultra-capitalistica del mondo, «destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici», dal Fmi alla Bce, «che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare». Ridotte a pura gestione dell’esistente, politica e democrazia «non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato». Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Forse quello del politico Berlusconi, ma «non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta».Fusaro lo chiama, «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd». Un ibrido politico che, «dalla lotta per l’emancipazione di tutti è oggi passato armi e bagagli a difendere le ragioni del capitale finanziario globalizzato». La cultura della sinistra? E’ da tempo «il luogo di riproduzione simbolica del capitale: nichilismo, relativismo, distruzione dei retaggi borghesi». Da Marx alla Dandini, da Gramsci a D’Alema: «La parabola sta tutta qui: farebbe ridere se non facesse piangere», scrive Fusaro su “Lo Spiffero” in un intervento ripreso da “Megachip”. L’eclissi della sinistra, quella vera? «Una tragedia politica e sociale di tipo epocale». Ridotta a «protesi di manipolazione simbolica del consenso e di addomesticamento organizzato del dissenso», la falsa dicotomia tra destra e sinistra – con buona pace di Letta – oggi «occulta il totalitarismo del mercato». La propaganda delle due fazioni non lo nomina neppure più, avendolo ormai metabolizzato «come dato naturale-eterno».Siamo in una gabbia di finzioni: «Si è liberi di scegliere tra gruppi, schieramenti, partiti e fazioni», sapendo però che hanno tutte aderito al dogma, alla «supina adesione all’integralismo economico presentato come destino», come futuro senza alternative al dominio del capitale. «Oggi il monoteismo del mercato risulta letteralmente invisibile nel proliferare ipertrofico delle dicotomie ingannatorie», e può persino spacciarsi come “male minore”, rispetto agli estremismi che hanno popolato il drammatico ‘900. Perversioni politiche: «Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente».Destra e sinistra? Sono entrambe colpevoli di una «adesione cadaverica al nomos dell’economia e all’ordine neoliberale». Letta e Berlusconi? Sono soltanto “maschere di carattere”, per dirla con Marx. «Può darsi che sia finito il ventennio di Berlusconi, ma il suo spirito continua a vivere negli “eroi” del centrosinistra, che di Berlusconi sono da anni i più preziosi alleati». L’unica differenza? Sta nel fatto che i “sinistri” «fanno finta di non essere berlusconiani, disapprovando sempre e solo gli aspetti folkloristici del Cavaliere (Arcore, Olgettina, Ruby)». Di fatto, però, condividono in toto «l’idea perversa della politica come continuazione dell’economia con altri mezzi», nonché «il disinteresse totale e conclamato per la questione sociale e per i diritti degli esclusi dal sistema». Se la sinistra smette di interessarsi a questi temi, conclude Fusaro, allora è meglio «smettere di interessarsi alla sinistra».Si è chiuso un ventennio, come dice Enrico Letta? Il premier si sbaglia, replica Diego Fusaro, «perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento». Portatrici della stessa visione ultra-capitalistica del mondo, «destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici», dal Fmi alla Bce, «che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare». Ridotte a pura gestione dell’esistente, politica e democrazia «non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato». Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Forse quello del politico Berlusconi, ma «non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta».
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Presto sapremo chi è Matteo Renzi e perché ci perseguita
Matteo Renzi, battuto da Bersani come candidato premier, si ripresenta come unico candidato in grado di portare il Pd alla vittoria nelle prossime elezioni. Autorevoli opinionisti, inizialmente ostili, hanno cambiato idea e lo vedono ora come l’estrema possibilità di salvezza di un partito lacerato e perdente: Matteo Renzi, in grado di recuperare voti sul fronte moderato e in effetti assai più gradito agli elettori di destra che di sinistra; una candidatura a premier – in stile Pdl – fatta sul personaggio e non sulla politica. Questa è appunto la domanda: qual è la politica di Matteo Renzi, ovverossia quali sono i valori e gli obiettivi che propone al paese? Domanda cui non è facile dare risposta, data l’evasività di Renzi su questo punto e dato il fatto che il suo programma per le primarie è collocato su un piano quasi esclusivamente efficientista, fatto di ricette come “snellire”, “semplificare”, “ridurre la burocrazia”, e simili.
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Se gli Usa aiutassero Grillo a salvare il paese dei cialtroni
B. prometteva rivoluzione liberale, Stato di diritto, riforma della giustizia, efficientamento del paese, e ha mancato in tutto. Del resto, un paese pervaso storicamente da mentalità non liberali (marxismo, fascismo, cattolicesimo), come poteva divenire liberale? Vediamo che, invece, la partecipazione politica tende a scadere in forme di irrazionalità più rozze, cioè dall’ideologismo al tribalismo incentrato su capi carismatici e affiliazioni identitarie. Un paese storicamente assuefatto a che la legge sia usata dal potere, anche giudiziario, secondo la convenienza di chi ha il potere, ed elusa quando possibile da chi non lo ha, come potrebbe divenire legalitario in virtù di qualche riforma? Un paese storicamente abituato a un potere che si compera il consenso col clientelismo nella spesa pubblica e nel pubblico impiego, come potrebbe divenire efficiente in qualche anno e per azione di forze interne ad esso?