Archivio del Tag ‘profughi’
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Migranti, ora basta. Il super-potere: ci costano troppo
Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».Al netto della retorica, fa notare Camarota in premessa, il motto elettorale “America First” di Donald Trump coincide perfettamente con la storica posizione della democratica Barbara Jordan, icona dei diritti civili statunitensi e già stratega di Bill Clinton: «Nel dibattito sull’immigrazione c’è un solo tema fondamentale, ed è il benessere del popolo americano». Ovvero: «Gestire l’immigrazione in modo che serva l’interesse nazionale». Cosa che, secondo l’analista di “Foreign Affairs”, negli ultimi 50 anni non è avvenuta. Solo che «il dibattito sull’argomento è stato smorzato». Manipolazione politico-mediatica: «I decisori politici e gli opinionisti di entrambi i partiti hanno teso a sovrastimare i benefici e a sottovalutare o ignorare i costi dell’immigrazione», scrive Camarota. Trump ha sfruttato elettoralmente il disagio per l’immigrazione irregolare? Vero, ma il disastro non l’ha creato lui, ammette l’analista: negli Usa ci sono troppi immigrati irregolari e non. «Gli Stati Uniti attualmente garantiscono ogni anno un milione di permessi legali di residenza permanente agli immigrati (o “carta verde”), il che significa che possono rimanere fino a quando desiderano e diventano cittadini dopo cinque anni, o tre se sono sposati con un cittadino statunitense. Annualmente arrivano anche circa 700.000 visitatori a lungo termine, soprattutto lavoratori ospiti e studenti stranieri».Un così grande afflusso annuale, agiunge Camarota, si somma nel tempo: nel 2015 i dati del Census Bureau indicano che nel paese vivevano 43,3 milioni di immigrati – il doppio del numero del 1990. «I dati del censimento comprendono circa 10 milioni di immigranti clandestini, mentre circa un altro milione di persone non viene conteggiato». In più, ci sono gli effetti dello “ius soli”: «Contrariamente alla maggior parte dei paesi, gli Stati Uniti concedono la cittadinanza a chiunque nasca su suolo americano, inclusi i figli dei turisti o degli immigrati clandestini, per cui i dati sopra riportati non comprendono nessuno dei bambini di immigrati nati negli Stati Uniti». I sostenitori dell’immigrazione sostengono che l’America è una “nazione di immigrati”, e certamente «l’immigrazione ha svolto un ruolo importante nella storia americana». Tuttavia, osserva Camarota, «gli immigrati attualmente rappresentano il 13,5% della popolazione totale statunitense, la percentuale più alta in oltre 100 anni». Il Census Bureau prevede che entro il 2025 la percentuale di immigrati nella popolazione raggiungerà il 15%, superando il record del 14,8%, raggiunto nel 1890. «Senza una modifica della politica, questa percentuale continuerà ad aumentare per tutto il ventunesimo secolo».Conteggiando gli immigrati e i loro discendenti, il Pew Research Center stima che dal 1965, anno in cui gli Stati Uniti liberalizzarono le proprie leggi, l’immigrazione ha aggiunto 72 milioni di persone nel paese, «un numero maggiore della popolazione attuale della Francia». Tenuto conto di questi numeri, scrive Camarota, è sorprendente che i funzionari pubblici «si siano concentrati quasi esclusivamente sugli 11-12 milioni di immigrati clandestini del paese, che rappresentano solo un quarto della popolazione totale degli immigrati». L’immigrazione legale, infatti, «ha un impatto molto più grande sugli Stati Uniti». Ma i leader del paese «raramente si sono posti le grandi domande». Per esempio: qual è la capacità di assorbimento delle scuole e delle infrastrutture nazionali? Come se la caveranno gli americani meno qualificati nel mercato del lavoro, in concorrenza con gli immigrati? Oppure, forse la più importante: quanti immigrati gli Stati Uniti sono in grado di assimilare nella propria cultura? «Trump non sempre ha approcciato queste domande con attenzione, o con molta sensibilità, ma va a suo merito averle almeno sollevate».Secondo gli integrazionisti, visto che l’America riuscì ad assorbire l’ultima grande ondata del passato, quella dal 1880 al 1920, tutti gli immigrati si assimileranno, oggi e domani. Ma le condizioni di ieri non sono quelle attuali, obietta Camarota: negli ultimi decenni «la crescita marcata delle enclave di immigrati ha probabilmente rallentato il ritmo di assimilazione», e oggi «la moderna economia americana ha meno buoni posti di lavoro per i lavoratori non qualificati». Ecco perché «gli immigrati non migliorano nel tempo la loro situazione economica», come invece facevano in passato. Ma è cambiato anche l’atteggiamento degli americani verso gli immigrati, che ieri erano competamente soli, mentre oggi – grazie al web e alla telefonia mobile – sono in contatto permanente con la terra d’origine. «In passato c’era un consenso più vasto sulla desiderabilità dell’assimilazione», sostiene Camarota. Il giudice della Corte Suprema di Giustizia Louis Brandeis, figlio di immigrati ebrei, in un discorso sul “vero americanismo” nel 1915 dichiarò che gli immigrati, oltre a imparare l’inglese, dovevano «essere portati in completa armonia con i nostri ideali e le nostre aspirazioni». Oggi non è più così: il forte accento sull’assimilazione «è stato sostituito con il multiculturalismo, che sostiene che non esiste una singola cultura americana, che gli immigrati e i loro discendenti dovrebbero mantenere la loro identità, e che il paese dovrebbe adattarsi alla cultura dei nuovi arrivati anziché il contrario».Per Camarota, l’istruzione bilingue, i distretti legislativi disegnati lungo linee etniche e le schede elettorali in lingua straniera «incoraggiano gli immigrati a considerarsi separati dalla società e bisognosi di un trattamento speciale a causa dell’ostilità degli americani comuni». Per John Fonte, studioso dell’Hudson Institute, queste politiche – che spingono gli immigrati a mantenere la loro lingua e cultura – rendono meno probabile la loro assimilazione sociale. Un recente sondaggio “Associated Press”, aggiunge Camarota, ha scoperto che la maggior parte degli americani pensa ancora che il proprio paese dovrebbe avere una cultura fondamentale che gli immigrati adottino. Ma il tipo di assimilazione finora tentato «non ha più il sostegno dell’elite», osserva l’analista. Come sottolinea lo psicologo politico Stanley Renshon, molte organizzazioni incentrate sugli immigrati oggi aiutano gli immigrati a imparare l’inglese, ma lavorano duramente anche per rafforzare i legami con il vecchio paese. E questo evidenzia anche l’altra area di contesa nel dibattito sull’immigrazione, cioè il suo impatto economico e fiscale: «Molte famiglie immigrate prosperano negli Stati Uniti, ma una grande parte non ci riesce, aggiungendosi in modo significativo ai problemi sociali già esistenti».Numeri preoccupanti: «Quasi un terzo di tutti i bambini americani che vivono in povertà oggi hanno un padre immigrato, e gli immigrati e i loro figli rappresentano quasi un terzo dei residenti Usa senza un’assicurazione sanitaria», rileva “Foreign Affaris”. Nonostante alcune restrizioni alla capacità dei nuovi immigrati di utilizzare programmi di assistenza basati sul reddito, circa il 51% delle famiglie immigrate usa il sistema previdenziale, rispetto al 30% delle famiglie native. Delle famiglie con figli, i due terzi rientrano in programmi di assistenza alimentare. «Tagliare fuori gli immigrati da questi programmi sarebbe sciocco e politicamente impossibile – ragiona Camarota – ma è giusto mettere in discussione un sistema che accoglie immigrati così poveri da non poter nutrire i propri figli». La maggior parte degli immigrati arriva negli Stati Uniti per lavorare. «Ma poiché il sistema legale dell’immigrazione statunitense privilegia le relazioni familiari sulle competenze professionali – e poiché il governo ha generalmente tollerato l’immigrazione clandestina – gran parte degli immigrati non è qualificata. Infatti, metà degli immigrati adulti negli Stati Uniti non hanno alcuna istruzione oltre la scuola superiore. Questi lavoratori hanno generalmente guadagni bassi, il che significa che si appoggiano alla previdenza sociale anche se stanno lavorando».Recenti studi statistici dimostrano che gli immigrati e le loro famiglie «utilizzano servizi pubblici per un valore notevolmente più alto di quante tasse pagano», con un “drenaggio fiscale” di quasi 300 miliardi di dollari l’anno. Attualmente, il bilancio fiscale è pesantemente negativo. Enorme, poi, l’impatto sul mercato del lavoro. Uno dei principali economisti statunitensi dell’immigrazione, George Borjas di Harvard, ha recentemente scritto sul “New York Times” che, aumentando l’offerta di lavoratori, l’immigrazione riduce i salari per alcuni americani: sono immigrati «un terzo dei lavoratori edili». Sicché, «i perdenti dell’immigrazione sono gli americani meno istruiti, molti dei quali neri e ispanici, che lavorano in queste occupazioni». E se il multiculturalismo assicura che i migranti risolveranno il problema demografico dei paesi occidentali, la cui popolazione invecchia, l’economista Carl Schmertmann ha mostrato più di due decenni fa che «l’afflusso costante di immigrati, anche in età relativamente giovane, non necessariamente ringiovanisce una popolazione a bassa fertilità».Nel 2015, scrive Camarota, l’età media di un immigrato era di 40 anni, contro i 36 per i nativi. E il tasso di fertilità globale degli Stati Uniti, inclusi gli immigrati, è di 1,82 bambini per donna, che scende solo a 1,75 quando gli immigrati vengono esclusi dal conteggio. «In altre parole, gli immigrati aumentano il tasso di fertilità di appena il 4%». L’ultimo argomento a favore degli immigrati si concentra sui benefici per i profughi più poveri, diretti nel Primo Mondo. «Ma, data la portata della povertà del Terzo Mondo, l’immigrazione di massa non è la forma migliore di soccorso umanitario: più di tre miliardi di persone nel mondo vivono in povertà, guadagnando meno di 2,50 dollari al giorno», riferisce “Foreign Affaris”. «Anche se l’immigrazione legale triplicasse a tre milioni di persone all’anno, gli Stati Uniti farebbero comunque entrare solo l’un per cento dei poveri del mondo ogni decennio. Al contrario – avverte Camarota – l’assistenza allo sviluppo potrebbe aiutare molte altre persone nei paesi a basso reddito».L’ultima volta che gli Usa limitarono l’immigrazione fu a metà degli anni ’90, con Barbara Jordan. «Clinton inizialmente sembrava approvare le raccomandazioni, ma poi cambiò inclinazione dopo la morte della Jordan e il vento politico mutò direzione. Il tentativo di abbassare il livello di immigrazione è stato sconfitto nel Congresso dalla stessa strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che hanno dominato il dibattito pubblico sull’immigrazione da allora fino all’era Trump». Con l’elezione di “The Donald”, potrebbe essere possibile un compromesso politico negli Stati Uniti? L’analista di “Foreign Affaris”, voce ufficiale del Council on Foreign Relations, avanza possibili soluzioni alternative. Per esempio, legalizzare «alcuni immigrati clandestini», in cambio però «di una politica più restrittiva su chi entra». Inoltre, «dare precedenza all’immigrazione qualificata», istruita, più facile da assimilare. Realisticamente, in ogni caso, l’immigrazione rimarrà controversa: «Per il futuro prevedibile, il numero di persone che vorranno venire nei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, sarà molto più grande di quello che questi paesi sono disposti ad accettare o in grado di permettersi».Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».
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Migranti: diritti umani a pedaggio, il cinismo dei buonisti
La situazione dei migranti nel Mediterraneo diventa ogni giorno più paradossale. Tre anni fa i barconi carichi di migranti arrivavano fino alle nostre coste, e i pescatori locali uscivano in mare per andarli a prendere e portarli a riva. Poi le navi hanno iniziato a salvarli in mezzo al mare. I barconi lanciavano un messaggio di Sos dal mare aperto, e le navi delle Ong gli andavano incontro per recuperarli. Ultimamente le navi hanno iniziato a spingersi sempre più avanti, fino ad arrivare a prelevarli quando ancora si trovano nelle acque libiche. Mancava solo di stabilire un regolare collegamento di traghetti fra la costa libica e quella italiana, e il paradosso era completato. Ma a questo punto qualcuno lancia l’allarme, insospettito da questa eccessiva premurosità nell’andarsi a cercare il naufrago a tutti i costi. Il procuratore di Catania Zuccaro accusa le Ong di essere finanziate direttamente dai trafficanti. Apriti cielo! Insorgono i buonisti, dicendo che «non si può criticare chi salva delle vite in mare», e questo sdegno sproporzionato non fa che aumentare i sospetti che dietro a questi salvataggi ci sia un business estremamente lucroso.Però i migranti che arrivano da noi stanno diventando troppi, e il governo rischia un contraccolpo di tipo politico. A questo punto interviene Minniti, che cerca di mettere un freno alla situazione. Le navi delle Ong non potranno più andare a “ritirare” i migranti nelle acque della Libia, e non potranno più trasbordare il prezioso carico su altre navi di passaggio. Insomma, il business dei taxi del mare sembra improvvisamente destinato a finire. Ed ecco che nuovamente insorge il buonismo, questa volta nella figura del ministro Delrio, che protesta nel nome dei soliti “motivi umanitari”. Evidentemente, il buon Delrio rappresenta un ampio numero di cooperative rosse che vedono improvvisamente diminuire il quantitativo di merce umana su cui guadagnare 35 euro al giorno puliti puliti. A tutto questo si aggiunga che negli ultimi giorni le Ong stanno progressivamente rinunciando al loro compito di “salvatori di vite umane”.La scusa è quella che “ormai la situazione è troppo pericolosa”, ma è chiaro che il motivo debba essere un altro. Altrimenti, potrebbero semplicemente rimettersi ad aspettare i naufraghi in mezzo al mare, e continuare a svolgere tranquillamente il loro compito umanitario. Tutta questa faccenda dei migranti mette ancora una volta in luce la grande ipocrisia e il grande cinismo del mondo occidentale: andiamo in Africa a colonizzare, a uccidere e derubare, portando via tutte le ricchezze di quel continente e riducendo il suo popolo alla fame. E poi, quando questi scappano per venire a cercare un pezzo di pane, noi li trasformiamo in merce di scambio, e utilizziamo la scusa del “dovere umanitario” per mettere in piedi un meccanismo di supporto economico che permette alle cooperative legate ai partiti di guadagnare cifre spaventose. E poi se qualcuno improvvisamente ci toglie il giocattolo, allora ci mettiamo tutti a urlare scandalizzati in nome dei diritti umani.(Massimo Mazzucco, “Migranti, è solo una questione di soldi”, dal blog “Luogo Comune” del 14 agosto 2017).La situazione dei migranti nel Mediterraneo diventa ogni giorno più paradossale. Tre anni fa i barconi carichi di migranti arrivavano fino alle nostre coste, e i pescatori locali uscivano in mare per andarli a prendere e portarli a riva. Poi le navi hanno iniziato a salvarli in mezzo al mare. I barconi lanciavano un messaggio di Sos dal mare aperto, e le navi delle Ong gli andavano incontro per recuperarli. Ultimamente le navi hanno iniziato a spingersi sempre più avanti, fino ad arrivare a prelevarli quando ancora si trovano nelle acque libiche. Mancava solo di stabilire un regolare collegamento di traghetti fra la costa libica e quella italiana, e il paradosso era completato. Ma a questo punto qualcuno lancia l’allarme, insospettito da questa eccessiva premurosità nell’andarsi a cercare il naufrago a tutti i costi. Il procuratore di Catania Zuccaro accusa le Ong di essere finanziate direttamente dai trafficanti. Apriti cielo! Insorgono i buonisti, dicendo che «non si può criticare chi salva delle vite in mare», e questo sdegno sproporzionato non fa che aumentare i sospetti che dietro a questi salvataggi ci sia un business estremamente lucroso.
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Al funerale di Kohl i becchini di quest’Europa germanizzata
Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.Fu dalla riunificazione a tappe forzate che alla fine emerse evidente la nuova pesante centralità della Germania. Tornata grande – con il marco al centro del mercato europeo – così tanto da dover accettare, sul tavolo della trattativa con l’Unione europea che appena nasceva, come contrappeso l’avvio dell’integrazione europea e dell’adozione dell’euro. Questa «epoca delle promesse» ieri è stata ricordata non a caso da un personale politico che – senza confronto col nuovo Corbyn – più vintage non si può: c’erano infatti in mezzo a tanti incredibili leader attuali, come l’ex monarchico berlusconiano Tajani, diventato chissà come presidente dell’Europarlamento, Bill Clinton, Romano Prodi e perfino Silvio Berlusconi. Tutti a contendersi le spoglie del «dopo-Muro» che fu. Ma non c’è più il dopo-Muro di una volta. Da quel crollo inziale, precipitò l’Unione sovietica che con Michail Gorbaciov proponeva la «casa comune europea», un’idea straordinaria fatta a pezzi dai leader occidentali che preferirono la sua caduta e l’avvento a Mosca di Boris Eltsin, piuttosto che corrispondere positivamente.Adesso, al contrario, è tornata la guerra fredda ai confini della Russia-nazione, con l’incendio in Ucraina, nel Donbass, e con gli eserciti atlantici dislocati tutti sulla frontiera russa. Mentre la guerra calda infuria nell’inferno mediorientale e l’Africa torna a vocazione post-coloniale. E soprattutto l’erede di Kohl, Angela Merkel, pur avendo sviluppato le tematiche democristiane della Cdu in chiave socialdemocratico-cristiana, si muove proprio al contrario del grande padre Kohl che l’ha introdotta nel partito e nel potere. Lo ha affermato con durezza il nuovo leader della Spd Martin Schulz, quando all’ultimo congresso straordinario della Spd di pochi giorni fa, ha così accusato l’ex ragazza dell’est «mutti»: «L’idea dell’ex cancelliere Helmuth Kohl era quella della Germania europea, non dell’Europa germanizzata». Un attacco frontale che fotografa lo stato delle cose. Con una Germania che, dopo la Brexit, si candida apertamente a guidare i destini d’Europa, surrogata dalla Francia di Macron che annuncia nuova grandeur.Insomma la Grande Germania è tornata, si sceglie i profughi, privilegia le sue banche, decide sanzioni, marginalizza le aree da escludere come la Grecia, guida i rapporti con l’Asia, fa guerre a destra e a manca, ingloba truppe dell’est nella Bundeshweher. Subalterni i restanti 26 paesi europei. Mentre quelli dell’Est, a proposito della Cortina di ferro, diventati appendice di Berlino e della Nato, vanno per proprio conto a destra, cancellando diritti umani e democrazia. Mentre solo in Europa di muri ne sono stati eretti almeno altri dieci. No, non c’è più il dopo-Muro di una volta.(Tommaso Di Francesco, “L’addio a Kohl e il dopo-Muro di una volta”, dal “Manifesto” del 2 luglio 2017).Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.
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Il vero Brzezinski, grande architetto del terrorismo moderno
Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».Dopo che un colpo di stato in Afghanistan, nel 1973, aveva istituito un nuovo governo laico favorevole ai sovietici, gli Usa si impegnarono a rovesciarlo con una serie di tentativi di colpi di Stato «tramite i paesi lacché dell’America, il Pakistan e l’Iran (che a quel tempo era sotto il controllo dello Shah, sostenuto dagli Usa», scrive “The AntiMedia” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Nel luglio 1979 Brzezinski autorizzò ufficialmente il sostegno ai ribelli mujaheddin in Afghanistan, tramite il programma della Cia denominato “Operazione Ciclone”. «Molti oggi difendono la decisione dell’America di armare i mujaheddin in Afghanistan, perché credono che fosse necessario per difendere il paese, e l’intera regione, dall’aggressione sovietica. Tuttavia le stesse affermazioni di Brzesinski contraddicono in pieno questa giustificazione». In un’intervista del 1998, Brzezinski ammise che, nel condurre questa operazione, l’amministrazione Carter stava «consapevolmente aumentando la probabilità» che i sovietici intervenissero militarmente. In altre parole, Brzezinski suggerisce che gli Usa «avessero iniziato ad armare le fazioni islamiste già prima dell’invasione sovietica».Brzezinski disse poi: «Pentirci di cosa? Quella operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana e volete che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine afghano scrissi al presidente Carter: ora abbiamo l’opportunità di dare all’Urss il suo Vietnam». Questa affermazione, annota “The AntiMedia”, andava al di là del semplice vanto di avere istigato una guerra e il collasso definitivo dell’Unione Sovietica. Nelle sue memorie, intitolate “From the Shadows“, Robert Gates – ex direttore della Cia sotto Ronald Reagan e George W. Bush, nonché segretario alla difesa sia sotto Bush junior che sotto Obama – confermò direttamente che quella operazione segreta iniziò sei mesi prima dell’invasione sovietica, proprio con l’intento di attirare i russi in un pantano in stile vietnamita. «Brzezinski sapeva esattamente cosa stava facendo. I sovietici si impantanarono in Afghanistan per circa dieci anni, combattendo contro una riserva interminabile di armi fornite dagli americani e di combattenti addestrati dagli americani. A quel tempo i media si spinsero al punto di elogiare Osama Bin Laden – una delle figure più influenti dell’operazione segreta di Brzezinski. Sappiamo tutti come è andata a finire».Perfino dopo la piena consapevolezza di ciò che era diventata la sua creazione finanziata dalla Cia, nel 1998 Brzezinski fece queste dichiarazioni ai suoi intervistatori: «Cos’è più importante per la storia del mondo? I Talebani o il crollo dell’impero sovietico? Un po’ di musulmani scalmanati o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?». L’intervistatore, allora, si rifiutò di lasciar passare questa risposta come se nulla fosse, e ribatté: «Un po’ di musulmani scalmanati? Ma è stato detto e ripetuto che il fondamentalismo islamico rappresenta una minaccia per il mondo moderno». Brzezinski troncò questa affermazione dicendo: «Nonsense!». Cose di questo genere, osserva il blog, «succedevano quando i giornalisti facevano ancora domande pressanti ai funzionari di governo, cosa che oggi accade assai di rado». Di fatto, il sostegno di Brzezinski a questi elementi radicali portò direttamente alla formazione di Al-Qaeda, che letteralmente significa “la base”, perché era in effetti la base da cui si lanciava la controffensiva contro l’invasione sovietica che si stava anticipando. «Ciò portò anche alla creazione dei Talebani, la mortale creatura che oggi sta combattendo una battaglia all’ultimo sangue contro le forze Nato».Inoltre, nonostante le affermazioni di Brzezinski, che cerca di far passare l’idea di una sconfitta definitiva dell’impero russo, «la verità è che, per Brzezinski, la guerra fredda non è mai terminata», sottolinea “The AntiMedia”. «Sebbene sia stato critico riguardo all’invasione dell’Iraq nel 2003, Brzezinski ha mantenuto un forte controllo sulla politica estera americana fino al momento della sua morte: non è una coincidenza che, in Siria, l’amministrazione Obama abbia adottato una strategia del tipo “pantano afghano” contro un altro alleato della Russia: il regime di Assad». Un comunicato divulgato da Wikileaks, datato dicembre 2006 e firmato da William Roebuck, a quel tempo incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Damasco, allude esplicitamente alla possibilità concreta di scommettere su «una crescente presenza di estremisti islamisti». Un po’ come con l’Operazione Ciclone in Afghanistan, sotto Barack Obama «la Cia ha speso circa un miliardo di dollari all’anno per addestrare i ribelli siriani, affinché si impegnassero in tattiche terroristiche». E la maggioranza di questi ribelli «condivide l’ideologia fondamentalista dell’Isis e ha l’obiettivo esplicito di stabilire la legge della Sharia in Siria».Proprio come in Afghanistan, la guerra in Siria ha coinvolto formalmente la Russia nel 2015, e l’eredità di Brzezinski è stata mantenuta viva attraverso gli “avvertimenti” di Obama al presidente russo Vladimir Putin, che avrebbe spinto la Russia verso un altro pantano in stile afghano. «Da chi può aver acquisito, Obama, queste tecniche “alla Brzezinski”, gettando la Siria nell’orrore di sei anni di guerra e di nuovo trascinando una grossa potenza nucleare in un conflitto pieno di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità?». Ecco la risposta: «Le ha acquisite da Brzezinski stesso». Secondo Obama, Brzezinski è stato un suo mentore personale, un «amico eccezionale», dal quale ha imparato moltissimo. «Alla luce di questo, c’è forse da sorprendersi che siano sorti così tanti conflitti dal nulla durante la presidenza Obama?». Un’azione a tutto campo, dal Medio Oriente all’Ucraina: il 7 febbraio 2014, la “Bbc” ha pubblicato la trascrizione dell’intercettazione telefonica di una conversazione tra l’assistente segretaria di Stato, Victoria Nuland, e l’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Pyatt. In quella conversazione, i due alti funzionari «stavano discutendo su chi avrebbero voluto piazzare al governo ucraino dopo il colpo di Stato che aveva cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovych».Ed ecco che Brzezinski stesso, nel suo libro del 1998, “La Grande Scacchiera”, sosteneva la necessità di prendere il controllo dell’Ucraina, dicendo che era «uno spazio nuovo e importante sulla scacchiera euroasiatica, un perno geopolitico, perché la sua stessa esistenza come nazione indipendente implicava che la Russia cessasse di essere un impero euroasiatico». Brzezinski ammoniva contro l’eventualità di permettere alla Russia di prendere il controllo dell’Ucraina, perché «la Russia si riprenderebbe automaticamente i mezzi per tornare ad essere un potente Stato imperiale, con influenze sia in Europa che in Asia». Dopo Obama, Donald Trump è salito in carica con tutta un’altra mentalità, con l’idea di lavorare con la Russia e con il governo siriano per combattere l’Isis. «Non c’è da sorprendersi che Brzezinski non abbia sostenuto la campagna di Trump per la presidenza, e abbia ritenuto che le idee di Trump sulla politica estera mancassero di coerenza», aggiunge “The AntiMedia”. Poi, forse, qualche ripensamento in extremis: l’anno scorso, Brzezinski è sembrato aver cambiato posizione sulla “geopolitica del terrore”, iniziando a sostenere una redistribuzione del potere globale, alla luce del fatto che gli Usa non sono più la grande potenza imperiale di un tempo.Tuttavia, Brzezinski sembrava ancora ritenere che, senza il ruolo-guida dell’America, il risultato sarebbe stato solo «il caos globale». Pare perciò improbabile che il suo cambiamento di posizione fosse fondato su un cambiamento reale e significativo sullo scacchiere geopolitico. «La stessa esistenza della Cia è fondata sull’idea di una minaccia russa, come è stato evidenziato dall’aggressione decisa da parte della stessa Cia contro l’amministrazione Trump non appena si è delineata una possibile distensione con l’ex Unione Sovietica», conclude “The AntiMedia”. «Brzezinski è morto nella tranquillità del suo letto di ospedale, a differenza di milioni di civili sfollati e assassinati, risucchiati nel suo contorto gioco di scacchi geopolitico, fatto di sangue e follia. La sua eredità è la militanza jihadista, la formazione di Al-Quaeda, il più devastante attacco su suolo americano che sia mai stato fatto da un’entità straniera nella storia recente, e la demonizzazione della Russia come eterno avversario, con il quale la pace non si può e non si deve fare».Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».
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Per l’Occidente, i criminali sono sempre e soltanto gli altri
Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?Per decenni, almeno fino al collasso dell’Urss, pregiati e stimati leader politici occidentali, italiani, francesi, tedeschi, appartenenti all’area della sinistra europea sono stati comunisti – alcuni ancora lo sono – senza che li si considerasse né criminali né folli. La Corea del Nord è circondata da paesi ostili, alcuni nucleari; e anche quelli che nucleari non sono, come la Corea del Sud, è come se lo fossero, perché sono di fatto un protettorato della più grande potenza atomica del mondo. È così strano, così criminale, così folle che la Corea del Nord voglia farsi un armamento nucleare peraltro minimo e ridicolmente inefficiente, come deterrente per non essere spazzata dalla faccia della terra dal primo che abbia la voglia di farlo? Il venezuelano Maduro, eletto democraticamente, è quotidianamente sotto il fuoco incrociato delle democrazie occidentali; non, come si afferma, per i suoi eccessi nella repressione degli oppositori (altri paesi nostri alleati fanno ben di peggio) ma perché è erede dello chavismo che è stato il tentativo, per qualche tempo riuscito, di sottrarre i paesi del Sud America, più efficacemente di quanto non avesse fatto Fidel, al soffocante abbraccio dell’“amico americano”.Putin è un autocrate criminale, responsabile insieme a Eltsin e al molto venerato Gorbačëv del genocidio ceceno; fa sparire in un modo o nell’altro i suoi oppositori, ma non è affatto un folle. La sua politica di appeasement con i Talebani afghani, che l’Isis lo combattono, lo dimostra. Perché se l’Isis sfonda in Afghanistan poi può dilagare in Turkmenistan, Tagikistan, e altri paesi con forti componenti musulmane che potrebbero diventare un serio pericolo per Mosca. Erdogan è effettivamente il peggiore di tutti. Come scrive Colombo, «il numero delle persone arrestate e tuttora detenute è troppo alto per essere compatibile con una pur crudele normalità». Peccato che Erdogan sia un nostro alleato e membro della Nato. Fra gli “imperatori folli” Colombo non inserisce, pudicamente, il generale Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, che per giunta – e a differenza di Erdogan – non è stato democraticamente eletto, ma è autore di un colpo di Stato in cui ha messo in galera tutti i dirigenti dei Fratelli Musulmani vincitori delle prime elezioni libere in Egitto, ne ha ammazzati per ora circa 2.500 e ne ha fatti sparire 4.000 di cui ci siamo accorti solo quando è stato ritrovato il cadavere del ricercatore dilettante Giulio Regeni (diciamolo: non si va nell’Egitto di al-Sīsī a fare un’inchiesta sui “sindacati indipendenti”). Ma l’Egitto è da moltissimi anni un alleato degli americani che lo foraggiano e lo armano, e tanto più lo è ora al-Sīsī che l’imprudente Matteo Renzi, con la sua solita impudente leggerezza si è spinto a definire «un grande statista».I leader delle democrazie occidentali non sono folli. Si chiamino Bush padre, Bush figlio, Clinton, Obama, Hollande, Sarkozy, si presentano bene, ingiacchettati e incravattati. Sanno stare in società. Hanno modi gentili. Sono affidabili. Però da vent’anni a questa parte, perlomeno dall’attacco alla Serbia del 1999, si sono resi responsabili di cinque guerre di aggressione (Afghanistan, Iraq, Somalia e Libia più l’intromissione, con i russi e i turchi, nella guerra civile siriana) che hanno causato, direttamente o indirettamente, più di un milione di morti civili e altri ne continuano a causare, insieme a migrazioni bibliche. Non sono folli. Sono semplicemente dei criminali, o se si preferisce, dei terroristi di Stato. È la solita storia. Noi siamo il Bene per definizione; gli altri, di conseguenza, il Male. I nostri sono eserciti regolari, quelli degli altri sono “orde”. I nostri nemici non appartengono mai alla categoria dello iustus hostis, ma sono sempre dei terroristi. Quando li facciamo prigionieri non gli riconosciamo lo status di “prigionieri di guerra” e li trattiamo come criminali (vedi Guantánamo e Abu Ghraib). Forse dovremmo smetterla con questo doppiopesismo ipocrita e un tantino ripugnante. A mio avviso il vero folle è chi considera tutti gli altri “folli”.(Massimo Fini, “Per l’Occidente i criminali sono sempre gli altri”, dal “Fatto Quotidiano” del 15 maggio 2017).Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?
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Migranti, Erri De Luca: sinistra morta, 5 Stelle invotabili
Migranti: in Europa siamo di fronte ad un’emergenza da fronteggiare? Non si può usare il termine emergenza per un fenomeno che dura in continuità da venti anni. Emergenza è un terremoto, un’alluvione, una siccità. Qui si tratta di incompetenza, di volontario affidamento dei flussi migratori ai trafficanti, di passiva gestione di chi comunque arriva. Nel caso dei flussi migratori registriamo una percezione ingigantita che istiga l’allarme di invasione. È vero il contrario, le poche decine di migliaia di nuovi arrivi non compensano l’esodo di italiani verso residenze all’estero. Passivo è anche il saldo tra nascite e decessi, in parte compensato dalla natalità dei nuovi arrivi. L’Italia è un paese in via di disabitazione. Una percezione sobria della realtà dovrebbe rallegrarsi del rabbocco di nuovi residenti. Si sparge invece artificialmente l’allarme per giustificare la parola emergenza, che a sua volta giustifica assegnazioni senza gara di appalti e di denaro pubblico a imprenditori legati ai partiti.L’Italia e i paesi di confine sud si sono danneggiati da soli firmando il trattato di Dublino, che assegna al paese di primo arrivo l’intero onere di identificazione e trattenimento. Il governo d’Europa invece lascia che i flussi migratori se la sbrighino da soli. Ogni tanto l’Europa impone il blocco alle frontiere, sospendendo il trattato di Schengen. Va sospeso invece quello di Dublino. La polemica sulle Ong generata dalle frasi del grillino Luigi Di Maio? Un atto di autolesionismo politico e morale: se c’è un calcolo nel ripetere a pappagallo la diffamazione contro i salvatori di vite umane in mare, è calcolo sbagliato. Potrà incassare qualche voto, ma produce di più un’emorragia di consensi. Con questa posizione sono diventati non più votabili per chi era uscito dall’astensionismo. Il Movimento aveva raccolto quell’area di astenuti, che ora ha restituito al vento.Quali le responsabilità della politica? Di infischiarsene, di lasciare che l’economia selvaggia lucri sulla vita, il lavoro, il bisogno di chi ha solo la forza e la gioventù come merce di scambio. Il recente ignobile decreto Minniti toglie al richiedente asilo il diritto di appello in caso di prima sentenza di respingimento della sua domanda. A chi ha perso tutto quello che si può perdere nella vita, viene tolto anche il ricorso in appello. È un provvedimento incostituzionale e il ministro lo sa, ma che importa? Basta sbattere sul tavolo di una perpetua campagna elettorale l’accanimento contro il più debole. Il decreto è stato preceduto dal ridicolo e certamente costoso accordo con un caporione libico, uno fra i tanti, per trattenere i profughi più a lungo. E in tutto questo, la sinistra dov’è, esiste ancora? E’ stata amputata dopo lunga cancrena. Come gli arti amputati, ogni tanto continua a far male in assenza.Il centrosinistra ha introdotto i campi di detenzione abusiva per stranieri colpevoli di viaggio non autorizzato. Ha esordito con il governo Prodi-Veltroni affondando il barcone albanese Kater i Rades nella Pasqua del ‘97 per imporre un blocco navale illegale. Invece l’accoglienza economica esiste, eccome: manodopera sottopagata, senza limiti di orario di lavoro, sistemata in alloggi degradati. Succedeva già a Torino negli anni ‘60 e ‘70, gli operai meridionali vivevano in soffitte, dividendosi in due la stessa branda, secondo i turni di lavoro in fabbrica. Il sistema economico tende a ridurre al minimo il costo della manodopera e la nuova disponibilità di stranieri senza diritti sindacali è la pacchia del profitto. L’accoglienza economica avviene sopra e sotto banco. Nella questione dei flussi migratori è in discussione la semplice appartenenza alla specie umana e alla civiltà del Mediterraneo.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Io sto con le Ong, e il M5S è diventato invotabile”, pubblicata da “Micromega” il 17 maggio 2017).Migranti: in Europa siamo di fronte ad un’emergenza da fronteggiare? Non si può usare il termine emergenza per un fenomeno che dura in continuità da venti anni. Emergenza è un terremoto, un’alluvione, una siccità. Qui si tratta di incompetenza, di volontario affidamento dei flussi migratori ai trafficanti, di passiva gestione di chi comunque arriva. Nel caso dei flussi migratori registriamo una percezione ingigantita che istiga l’allarme di invasione. È vero il contrario, le poche decine di migliaia di nuovi arrivi non compensano l’esodo di italiani verso residenze all’estero. Passivo è anche il saldo tra nascite e decessi, in parte compensato dalla natalità dei nuovi arrivi. L’Italia è un paese in via di disabitazione. Una percezione sobria della realtà dovrebbe rallegrarsi del rabbocco di nuovi residenti. Si sparge invece artificialmente l’allarme per giustificare la parola emergenza, che a sua volta giustifica assegnazioni senza gara di appalti e di denaro pubblico a imprenditori legati ai partiti.
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Kill the Children, la grande ipocrisia dei signori della guerra
In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l’Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children. Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che – oltre ad essere il figlio dell’oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti – ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group. Ora, The Carlyle Group non è un’azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell’Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori Cia ed ex presidenti Usa come George Bush padre e l’ex primo ministro britannico John Major. Nel 2008-2016 il suo direttore dei servizi finanziari globali è stato un pezzo grosso di Wall Street, Olivier Sarkozy, fratellastro dell’ex presidente francese Nicolas, mentre fra gli amministratori di Carlyle c’è anche il numero uno della General Motors, Dan Akerson.Insomma, parliamo di un architrave del capitalismo globalizzato, che gestisce “asset” per centinaia di miliardi dollari, di quel capitalismo al centro delle rapine finanziarie, delle guerre mediorientali e di un’altra serie di fenomeni che potremmo ribattezzare “Kill The Children”. Vediamo così adesso i bambini fuggiti da una casa perduta per via di una bomba aeronautica o di una bomba finanziaria ricollegata a imprese partecipate da Carlyle, mentre sono raccolti in mare da un’azienda dell’assistenza che incrocia la sua orbita con la Carlyle, e magari fornirà loro farmaci e cibo di aziende partecipate da Carlyle. Il capitalismo è tentacolare, apre e chiude cicli, è completo, e si fa anche bello, con tanto di riviste patinate e siti cinguettanti che vantano i buoni rapporti dei pezzi grossi del non profit con le multinazionali quotate nelle grandi borse del generoso Occidente.Nel 2014, l’ex primo ministro britannico Tony Blair fu insignito di un premio istituito dall’influente ramo statunitense di Save the Children, il Global Legacy Award, durante una cena di gala a New York. Proprio lui, Blair, non esattamente il salvatore dei bambini iracheni e afghani. L’industria della filantropia compie gesti buoni. Ma la muovono salotti esclusivi che incrociano le loro strategie con quelle dei padroni della geopolitica, cioè i signori delle guerre e delle ondate di profughi. Nella statistica delle singole vite salvate, che fanno un bel rumore, scompaiono le masse sommerse e silenziate dai grandi media, a loro volta pilotati dagli stessi salotti.(Pino Cabras, “Kill the Children”, da “Megachip” del 3 maggio 2017).In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l’Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children. Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che – oltre ad essere il figlio dell’oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti – ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group. Ora, The Carlyle Group non è un’azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell’Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori Cia ed ex presidenti Usa come George Bush padre e l’ex primo ministro britannico John Major. Nel 2008-2016 il suo direttore dei servizi finanziari globali è stato un pezzo grosso di Wall Street, Olivier Sarkozy, fratellastro dell’ex presidente francese Nicolas, mentre fra gli amministratori di Carlyle c’è anche il numero uno della General Motors, Dan Akerson.
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Harry Potter all’Eliseo: partiti (e cittadini) non servono più
Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.E’ la fotografia – inquietante – che ormai scattano, sul fronte web, gli analisti più critici e pessimisti, allarmati da quello che appare uno scenario quotidiano di guerra, alimentato da crisi continue (economiche, finanziarie, climatiche, demografiche) e devastazioni sempre più dirompenti, di cui l’esodo biblico dei migranti sembra solo la vetta di un iceberg che persino gli osservatori meglio documentati faticano a misurare per intero, data la sua imponderabile vastità, in continua evoluzione. Un terremoto costante, senza più argini da parte di alcuna istituzione: il diritto internazionale sembra un residuato archeologico, smarrito nel feroce caos quotidiano, tra proiezioni, statistiche e “fake news” televisive, dove nessuno sembra in grado allungare davvero lo sguardo nemmeno sul semestre seguente, nell’unica certezza che il potere – quello dei veri decisori – sia lontanissimo, irraggiungibile e neppure coeso, ma dilaniato al suo interno da scontri durissimi. Guerre segrete senza quartiere, di cui al pubblico, qualche volta, può arrivare soltanto l’eco. Nonostante questo, si recita – ancora – lo spettacolo delle elezioni, la democrazia rappresentativa, che sa ancora generare fenomeni di auto-ipnosi fino alla tifoseria, dalla Brexit al referendum italiano, dal voto per la Casa Bianca a quello per la presidenza francese.I soliti esperti si affrettano a dichiarare chiusa la partita, in Francia, con la scontata vittoria di Macron, mentre altri osservatori – come il direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo – preferiscono la prudenza: messi insieme, i due candidati antisistema (Le Pen e Mélenchon) sono il “primo partito” francese, e non è detto che i grandi sconfitti del primo turno riescano a far convergere i loro voti sul “maghetto” dei Rothschild. Che cosa poi riuscirebbe davvero a fare la Le Pen, se eletta, non è dato immaginarlo. Se non altro, il suo Front National è un super-partito a tutto tondo, tradizionale, fatto di sezioni e votazioni congressuali. Un “luogo della democrazia” dove il consenso cresce per gradi, confrontando opzioni e programmi. Cioè esattamente quello che è andato scomparendo altrove, dall’ectoplasma post-politico del Pd renziano fino all’estremo esperimento “apartitico” di Macron, che celebra l’estinzione definitiva dell’entità-partito come ponte, teorico e pratico, tra il cittadino e l’istituzione. Sembra il compimento del Vangelo di Lewis Powell, 1971: svuotare la democrazia per demolire la sinistra dei diritti sociali, da cui l’azione della Trilaterale e i cantori della “crisi della democrazia”. Un piano inclinato, inesorabile: la Guerra del Golfo, e l’11 Settembre, il Medio Oriente trasformato in inferno per profughi. Fino alla follia della guerra con la Russia, subita da un’Europa letteralmente frastornata, messa in croce dall’Eurozona.Rassegnatevi: i partiti non servono, non serviranno più. E’ il messaggio che proviene dal mezzo successo francese di Macron. Mettetevi l’anima in pace: è finita per sempre l’epoca delle assemblee, dei delegati. E’ già nella spazzatura della storia, insieme ai sindacati. E in Italia, la presunta alternativa in campo – il Movimento 5 Stelle – è guidato da un leader che licenzia chiunque non gli piaccia. Non è mai stato celebrato un solo congresso. Le periodiche votazioni, che pure avvengono, si svolgono online. E chi partecipa può scegliere solo in base a un menù predefinito, a monte, da un vertice-fantasma che nessuno ha eletto. L’avatar Macron è il futuro che ci aspetta? Certamente sì, scommettono i più esasperati, se i cittadini non si decidono a riappropriarsi della loro sovranità essenziale, fondata sulla partecipazione. Gli strumenti di ieri sono tutti caduti, archiviati, rottamati. Per contro, cresce la frustrazione degli esclusi, che sospettano di essere ormai la grande maggioranza. Un vastissimo popolo, ancora immobile. Strattonato dalle crisi a testata multipla – lavoro, sicurezza – e intimidito ogni giorno da notizie spaventose, attentati, previsioni angoscianti. La scomparsa del futuro è ormai spacciata per normalità. Il calcio tiene ancora banco, più che mai. E nelle tabaccherie furoreggia il Superenalotto. C’è chi sostiene che i grandi decisori siano inquieti, che temano la rabbia dei delusi, elettoralmente espressa dai cosiddetti populismi. Ma basta fare un giro su Facebook, su WhatsApp, per scoprire che non ci sono rivoluzioni culturali in vista.Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo, funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.
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Schiavi comprati e venduti nella Libia “liberata” dagli Usa
La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».Il quotidiano inglese scrive che sebbene «la violenza, l’estorsione e il lavoro in schiavitù» siano stati già in passato una realtà per le persone che transitavano attraverso la Libia, recentemente il commercio degli schiavi è aumentato». E oggi «la compravendita di esseri umani come schiavi viene fatta apertamente, alla luce del sole», scrive Wedler, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «Gli ultimi report sul ‘mercato degli schiavi’ a cui sono sottoposti i migranti si possono aggiungere alla lunga lista di atrocità che avvengono in Libia», afferma Mohammed Abdiker, capo delle operazioni di emergenza dell’Iom, International Office of Migration, un’organizzazione intergovernativa che promuove “migrazioni ordinate e più umane a beneficio di tutti“, secondo il suo stesso sito web. «La situazione è tragica. Più l’Iom si impegna in Libia, più ci rendiamo conto come questo paese sia una valle di lacrime per troppi migranti». Il paese nordafricano viene usato spesso come punto di uscita per i rifugiati che arrivano da altre parti del continente. Ma da quando Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, spiega Abdiker al “Guardian”, «il paese, che è ampio e poco densamente popolato, è piombato nel caos della violenza: e i migranti, che hanno poco denaro e di solito sono privi di documenti, sono particolarmente vulnerabili».Un sopravvissuto del Senegal, proveniente dal Niger, racconta che stava attraversando la Libia insieme a un gruppo di altri migranti, tutti in fuga dai paesi di origine. Avevano pagato un trafficante perché li trasportasse in autobus fino alla costa, dove avrebbero corso il rischio di imbarcarsi per l’Europa. Ma, anziché portarli sulla costa, il trafficante li ha condotti in un’area polverosa presso la cittadina libica di Sabha. Secondo quanto riportato da Livia Manente, la funzionaria dell’Iom che intervista i sopravvissuti, «il loro autista gli ha detto all’improvviso che gli intermediari non gli avevano passato i pagamenti dovuti e ha messo i passeggeri in vendita». Molti altri migranti hanno confermato questa storia, aggiunge la Manente: i profughi descrivono «i vari mercati degli schiavi, indipendenti l’uno dall’altro, e le diverse prigioni private che si trovano in tutta la Libia». Le stesse storie, aggiunge la funzionaria, sono confermate dai migranti che hanno trovato asilo nell’Italia del sud.Il sopravvissuto senegalese ha detto di essere stato portato in una prigione improvvisata che, come nota il “Guardian”, in Libia è cosa comune: «I detenuti all’interno sono costretti a lavorare senza paga, o in cambio di magre razioni di cibo, e i loro carcerieri telefonano regolarmente alle famiglie a casa chiedendo un riscatto. Il suo carceriere chiese 300.000 franchi Cfa (circa 450 euro), poi lo vendette a un’altra prigione più grossa dove la richiesta di riscatto raddoppiò senza spiegazioni». Quando i migranti sono detenuti troppo a lungo senza che il riscatto venga pagato, continua il “Guardian”, vengono portati via e uccisi. «Alcuni deperiscono per la scarsità delle razioni e le condizioni igieniche miserabili, muoiono di fame o di malattie, ma il loro numero complessivo non diminuisce mai», sottolinea il quotidiano britannico. «Se il numero di migranti scende perché qualcuno muore o viene riscattato, i rapitori vanno al mercato e ne comprano degli altri», dice ancora Livia Manente. Le fa eco Giuseppe Loprete, capo della missione Iom in Niger: «È assolutamente chiaro che loro si vedono trattati come schiavi», ha detto.Loprete ha gestito il rimpatrio di 1.500 migranti nei soli primi tre mesi dell’anno, e teme che molte altre storie e incidenti del genere emergeranno man mano che altri migranti torneranno dalle coste libiche: «Le condizioni stanno peggiorando, in Libia: penso che ci possiamo aspettare molti altri casi nei mesi a venire». Ora, conclude Wedler, mentre il governo degli Stati Uniti «sta insistendo nell’idea che un cambio di regime in Siria sia la soluzione giusta per risolvere le molte crisi di quel paese», è ormai sempre più evidente che la cacciata dei dittatori – per quanto detestabili possano essere – non è una soluzione efficace. «Rovesciare Saddam Hussein non ha portato solo alla morte di molti civili e alla radicalizzazione della società, ma anche all’ascesa dell’Isis», sottolinea l’analista. «Mentre la Libia, che un tempo era un modello di stabilità nella regione, continua a precipitare nel baratro in cui l’ha gettata “l’intervento umanitario” dell’Occidente». Un pozzo nero e senza fondo, nel quale «gli esseri umani vengono trascinati nel nuovo mercato della schiavitù, e gli stupri e i rapimenti affliggono la popolazione». Chi preme sulla guerra, conclude Wedler, deve sapere che non farà altro che produrre «ulteriori inimmaginabili sofferenze».La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».
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Clima impazzito: c’è il rischio di mezzo miliardo di profughi
Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.Storicamente, migrazioni di massa collegate alle condizioni climatiche sono molto ben documentate, e quello che viviamo adesso – appunto il milione e trecentomila anime che hanno dovuto lasciare le proprie case – è la manifestazione dei nostri tempi del problema. Durante il secolo 1900-2000 i livelli del mare si sono innalzati di ben dodici centimetri. Le previsioni sono di varie decine di centimetri in questo secolo. Secondo alcuni studi circa 470 milioni di persone perderanno la casa. Alcuni ricorderanno l’uragano Sandy che colpì le coste del New Jersey nel 2012: molte delle case sono state rasate al suolo e mai piu ricostruite. Dopo il tifone Haiyan del 2013 le Filippine hanno messo il divieto di costruire a cinquanta metri dalla costa e hanno forzato l’evacuazione di 80.000 persone. Dopo lo tsunami del 2004, almeno 22.000 case sono state perse e non più ricostruite in zone costiere. A volte la gente via via in modo preventivo, e cioè prima che ci siano i disastri: le città vengono evacuate perché i cambiamenti climatici stanno piano piano portando via coste e case e non si vuole aspettare “il grande evento”.In Louisiana accade lo stesso: qui l’erosione dovuta alle estrazioni di petrolio e di gas ha fatto perdere case, terreni e coste. Il caso più eclatante è quello di Shishmaref in Alaska, città costruita sul ghiaccio e che è destinata a morire. Siamo a 160 miglia dalla Russia, il ghiaccio scompare. Nevica sempre di meno, e sempre più tardi e il ghiaccio si scioglie prima o neanche si forma. L’erosione monta. L’assenza di ghiaccio fa sì che durante le tempeste pezzi interi di costa vengono triturati e finiscono in mare, senza protezione. Una delle case è già crollata in mare nel 2006. Norman era un ragazzino che nel 2007 cadde risucchiato dal ghiaccio di Shishmaref che si scioglieva e morì. Ogni secondo pompiamo in atmosfera 1.200 metri cubi di CO2. Il pianeta si è surriscaldato, in media di un grado centigrado dalla rivoluzione industriale ad oggi, una enormità. L’Artico ha avuto livelli di aumento di temperatura doppi che il resto del pianeta. In Alaska ci sono almeno trentuno villaggi a rischio di scomparire, come Shishmaref: dodici di questi villaggi stanno cercando di capire dove e come evacuare, perché sanno che non c’è speranza.Siamo noi a causare tutto ciò, bruciando fonti fossili a ritmi allarmanti. Se l’obiettivo è di contenere l’aumento della temperatura a due gradi centigradi, una sola cosa si deve fare: non pompare mai più petrolio. Dall’altra parte del mondo, le isole Kiribati, le isole Marshall, le isole Fiji. Lontanissme dall’Alaska ma tutte che rischiano di scomparire. Isle di Jean Charles in Louisiana che pure sprofonda a causa dei cambiamenti climatici. A Miami Beach, Florida, hanno dovuto installare pompe speciali per evitare allagamenti, collegati all’erosione. Non tutte le comunità hanno i soldi per programmare l’evacuazione e la risistemazione delle persone. È costoso, la gente è vulnerabile, è una strada a senso unico.A Shishmaref sanno che non hanno scelta, e cosi la città ha deciso di evacuare prima che il mare porti via tutto. Ma non hanno i soldi. E dove evacueranno? Non si sa, forse verso l’interno. Ma questo significa perdita di identità: la maggior parte delle persone qui vive di pesca e di caccia e di tradizioni Inupiat collegate al mare. Saranno lo stesso popolo? Perché devono evacuare loro, se il loro stile di vita, di indigeni, è molto meno impattante di quello di centinaia di milioni di persone che sprecano, bruciano, e generano molto più inquinamento e emettono molta più CO2 di loro?(Maria Rita D’Orsogna, “Un milione di profughi del clima”, da “Comune-info” del 10 aprile 2017. Fisica e docente all’Università statale della California, la professoressa D’Orsogna cura diversi blog, consapevole dell’importanza dell’informazione indipendente).Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.
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Bonnal: è un lager digitale. Vale tutto, tranne pensare
«Siamo tutti contenti di perdere il nostro tempo nella rete, di pescare qua e là dei pesci d’oro e delle informazioni, di perdere il tempo che avremmo potuto impiegare coltivando il nostro vero giardino. Ma come nel paese dei balocchi di Pinocchio, c’è un prezzo da pagare. Infatti si vive avvolti nella tela del ragno». Secondo Nicolas Bonnal, la Terra è ormai diventata una sorta di “campo di concentramento elettronico” monitorato su web. Lo scrittore francese cita la Bibbia, il libro di Giobbe: «L’empio si è costruito una casa simile alla tela di un ragno». Accusa: non ci sono più contadini, sono stati intrappolati dai trattati internazionali come il Gatt. «È Carl Schmitt a constatare come il guerrigliero o il resistente perdano tutto il potere dal momento che non è più terrestre ma tecnodipendente». Una resistenza è ancora possibile? «I progressi del totalitarismo elettronico attuale si basano sul web, che rafforza il potere mefitico dei veri cospiratori», accusa Bonnal, in un post su “Defensa” tradotto da “Come Don Chisciotte”. I cospiratori? «Sono le amministrazioni delle democrazie impopolari, le banche, i servizi segreti, la polizia parallela (non quella destinata a proteggervi), oggi diventati onnipresenti».Un analista indipendente come Michael Snyder ricorda che la polizia statunitense ha fermato dei cittadini di ritorno da un breve viaggio in Canada per controllare il contenuto, dopo averlo confiscato, del loro cellulare. «Questa polizia detiene tutti i doveri, tranne quello di poteggervi», scrive Bonnal. «È la polizia messa in piazza all’indomani degli attentati. Domandatevi innanzitutto a chi giova il terrorismo. Aboliscono il cash per ostacolare il terrorismo, e accusano i russi di hackerare le elezioni, avendo così una buona scusa per annullarle davvero». Il progresso tecnologico, continua Bonnal citando Guy Debord, ha permesso la creazione di un “presente informativo permanente” che annega tutta la verità «nell’idiota liquidità visiva». E’ un presente nel quale «la moda stessa, l’abbigliamento o la musica, si è fermata», perché «vuole dimenticare il passato e non sembra credere più in un avvenire». Questo “eterno presente” lo si ottiene «dall’incessante passaggio circolare dell’informazione, il ripetersi in un qualsiasi momento delle stesse inezie, annunciate appassionatamente come si trattasse di notizie importanti; mentre raramente passano, e per brevi momenti, le notizie veramente importanti, che riguardano ciò che cambia realmente».Autodistruzione programma del mondo? «Il problema è che, prima di autodistruggersi, questa macchina mondiale distruggerà noi: come lo scorpione di Orson Welles». Secondo Bonnal, «l’attuale Stato mondiale è ebbro della propria potenza e trasforma la Terra in un campo di concentramento elettronico: ovunque l’abolizione del cash, in Giappone per i suoi Giochi olimpici, a Taiwan, in India e in Europa. Controllo dell’oro e del denaro, controllo del vostro pensiero, censura dell’informazione grazie ai servili canali della disinformazione; tutto diventa possibile, per questo Stato Profondo che è anche uno Stato di superficie, uno Stato dello spettacolo (il presidente turco ha visitato i massoni, i rifugiati di Calais, i resistenti siriani, gli amici del Bilderberg) e una società di facciata. E il pubblico, come nella favola di Platone, se la gode». Anche le fondazioni di Bill Gates festeggiano, come scrive Lucien Cerise: «L’iniziativa comune di un Bill Gates e di un Rockefeller di creare sull’isola norvegese Svalbard una sorta di bunker “arca di Noè” contenente tutti i grani e le sementi del mondo è piuttosto inquietante. Perché lo fanno, cosa stanno combinando? Domande retoriche, il progetto è molto chiaro: si tratta di cominciare a privatizzare tutta la biosfera, cosa che permetterà di controllarla integralmente dopo averla distrutta. Siamo al cuore di Gestell e dell’ingegneria cibernetica, che condivide lo stesso orizzonte: l’automatizzazione completa del globo terrestre»Siamo arrivati ai televisori coreani Samsung «che rivelano i vostri pensieri e i vostri sussurri». Non li comprerete? «Ma “loro” potranno sempre inviare questa neopolizia, questa polizia parallela per controllare il vostro oro, il vostro giardino, il vostro consumo di acqua». Per Debord, la mondializzazione è stata facilitata dalla «pericolosa espansione tecnologica», che è sempre stata al servizio del potere. Lo conferma Paul Virilio. Oggi, “governo” è essenzialmente “controllo”: «La parola viene da rotula, che indica il rotolo, il cilindro in latino», scrive Bonnal. «È stato introdotto in Inghilterra dai terribili normanni conquistatori di Guglielmo. E serve, questo controllo a redigere il “Domesday book”, che calcola la ricchezza di questi poveri anglosassoni gallina per gallina, uovo per uovo». Il problema, per Bonnal è che «ci connettiamo, per lamentarci, invece di organizzarci nelle piazze: e il web, come vi suggerisce il suo nome, ci intrappola più facilmente nella rete. L’informatica ci blocca in casa invece di farci uscire». Poi, ovviamente, «ci sono cretini che scorrazzano per strada sopportando i quaranta gradi (li ho visti a Madrid) per correre dietro a un Pokémon».Non dimentichiamoci, aggiunge Bonnal, che i campioni della mondializzazione si considerano i pensatori globali. Neo-aristocratici, oligarchi. «Esagero? Pensate a come vi tratta il fisco. Pensate a come la polizia elettorale tratta il 96% dei francesi che non vogliono più il socialismo e cerca il proprio candidato con l’aiuto di un motore di ricerca. Guardate come vi tratta la polizia stradale. Pensate come la banca o l’aeroporto vi trattano. Guardate come vi trattano in Germania (in prigione) se siete contrari all’educazione della teoria gender per il vostro bambino. Pensate a come il tribunale vi tratterà se siete europei qui, americani laggiù». Questa civilizzazione, continua Bonnal, «è come il volo terrificante della GermanWings: è guidata da folli suicidi, non si può scendere in corsa e allora si schianterà in volo». Il giovane ribelle Étienne La Boétie, filosofo del ‘500, aveva le idee chiare: «Povera gente insensata, vi lasciate portar via sotto gli occhi tutti i vostri migliori guadagni, permettete che saccheggino i vostri campi, rubino nelle vostre case spogliandole dei vecchi mobili paterni! Vivete in condizione da non poter più vantare di possedere una cosa che sia vostra; e vi sembrerebbe addirittura di ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà dei vostri beni, delle vostre famiglie, delle vostre vite».Mentre noi «lavoriamo per pagare le imposte ai nostri super-Stati, profondi e superficiali», continua Bonnal, «abbiamo dimezzato il numero dei nostri bambini». E attenzione: «E’ la democrazia ad aver realizzato questo miracolo: il numero delle nascite si è dimezzata nella Germania dell’est postcomunisma e nella Spagna postfranchista. Fu Orson Welles a dichiarare in un’intervista che la Spagna tradizionale era stata distrutta dalla democrazia». Alexis de Tocqueville l’aveva chiamato «un potere immenso e tutelare», un potere «assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite». Somiglierebbe all’autorità paterna, se solo avesse lo scopo di «preparare gli uomini alla virilità», e invece «cerca di fissarli irrevocabilmente all’infanzia: ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi». Un potere che «lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore». Provvede alla loro sicurezza e ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, «tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità». A quel punto, «non potrebbe allora togliergli interamente la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso».«Siamo tutti contenti di perdere il nostro tempo nella rete, di pescare qua e là dei pesci d’oro e delle informazioni, di perdere il tempo che avremmo potuto impiegare coltivando il nostro vero giardino. Ma come nel paese dei balocchi di Pinocchio, c’è un prezzo da pagare. Infatti si vive avvolti nella tela del ragno». Secondo Nicolas Bonnal, la Terra è ormai diventata una sorta di “campo di concentramento elettronico” monitorato su web. Lo scrittore francese cita la Bibbia, il libro di Giobbe: «L’empio si è costruito una casa simile alla tela di un ragno». Accusa: non ci sono più contadini, sono stati intrappolati dai trattati internazionali come il Gatt. «È Carl Schmitt a constatare come il guerrigliero o il resistente perdano tutto il potere dal momento che non è più terrestre ma tecnodipendente». Una resistenza è ancora possibile? «I progressi del totalitarismo elettronico attuale si basano sul web, che rafforza il potere mefitico dei veri cospiratori», accusa Bonnal, in un post su “Defensa” tradotto da “Come Don Chisciotte”. I cospiratori? «Sono le amministrazioni delle democrazie impopolari, le banche, i servizi segreti, la polizia parallela (non quella destinata a proteggervi), oggi diventati onnipresenti».
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Se Trump spegnesse, con un tweet, anche il Sacro Tav
Più inafferrabile del Sacro Graal, più misterioso della Pietra Filosofale, più oscuro dei misteri di Rennes-le-Château su cui Dan Brown ha costruito il “Codice da Vinci”. Il progetto Tav Torino-Lione continua imperterrito la sua corsa ottusa e cieca, lunare, in un’Europa sempre più assurda e sempre più povera, emblema di un Occidente autistico, bellicoso e alle prese con rivolte ormai diffuse, elettorali, dalla Francia di Marine Le Pen alla Brexit, fino all’America di Trump, il presidente che con un tweet, in dieci secondi, ha messo fine persino al supremo tabù, l’intoccabile F-35, l’aereo più pazzo del mondo. Tutto cambia, velocissimamente, tranne una cosa: l’aristotelico Tav della valle di Susa, meno celebre dello stealth della Lockeed-Martin ma altrettanto ridicolo. Il Tav valsusino: “motore immobile”, dimostrazione tolemaica del fatto che, in fondo, la Terra è sempre stata piatta. Non gira attorno al sole, è il contrario. O meglio: può girare quanto vuole, la Terra, ma niente fermerà il sacro mostro ammazza-bilanci e sventra-montagne. Lo sanno tutti, da sempre: quel treno non servirà mai a nessuno, tranne ai Re Mida del denaro pubblico che forse, un giorno, costruiranno la linea ferroviaria più costosa e più inutile della storia dell’umanità.La mitologia del Tav occidentale resiste da decenni, inattaccabile come un dogma, anche se la sua surreale teologia è stata ripetutamente capovolta, relativizzata, rettificata, sminuita. Doveva essere una linea superveloce per passeggeri, con l’avvento dei voli low-cost è diventata una linea medio-veloce per merci, infine solo un tunnel (ma di 50 chilometri) per merci ormai estinte, che non esisteranno più, sulla dimenticata rotta transalpina tra Italia e Francia, nel ventre del Massiccio dell’Ambin gravido d’acque sommerse, rocce di amianto e vene di uranio. Anche i cinesi devastano intere province, ma almeno hanno uno scopo: costruire dighe idroelettriche. Lo scopo del Tav Torino-Lione va invece rintracciato nella metafisica, evidentemente, nella mistica del potere europeo, il potere reale ma impalpabile, fatto di moneta elettronica gestita da terminali alieni, da imperatori alieni come Mario Draghi, a sua volta agli ordini di invisibili Elohim biblici. La religione, appunto: è l’unica categoria che può spiegare, davvero, la natura più intima dell’oscuro potere europeo, da cui promana – anche – l’ostinata superstizione che protegge, ad ogni costo, la grande opera più screditata della storia italiana, bocciata senza appello (devastante, costosa, completamente inutile) da tutti gli esperti indipendenti della penisola, i tecnici, gli specialisti universitari d’ogni ordine e grado.Lo ripete, inutilmente, anche l’autorità elvetica delegata dalla Commissione Europea a monitorare i trasporti transalpini: la valle di Susa dispone già di una ferrovia internazionale Italia-Francia, quella del Fréjus, che è semi-deserta da anni per mancanza di utenza; sulla linea attuale, il traffico merci potrebbe tranquillamente essere incrementato del 900%. Inutile, dunque – per non dire folle, coi tempi che corrono – insistere nell’aprire un secondo traforo, che costerebbe decine di miliardi, a carico di contribuenti stremati dalla crisi. Le autorità svizzere però ragionano, ingenuamente, come Galileo e Copernico, ignorando cioè che l’astrofisica di Roma e Parigi, Bruxelles e Francoforte è ancora e sempre quella di Tolomeo. A motivare così tenacemente i grandi decisori non è scienza, è verità di fede: gli egemoni non si chinano sul volgare cannocchiale per scoprire com’è davvero il cielo, a loro basta e avanza la certezza incrollabile del dogma, che sorregge la visione magica su cui si fonda il presente feudalesimo illuminato, affidato a una schiera di eletti, secondo cui, semplicemente, quella ferrovia della malora si deve fare, punto. Dio lo vuole. E se la plebe protesta, tanto meglio: imparerà, a sue spese, che la voce del padrone non ammette repliche. Gli ordini non si discutono. La legge è una sola, quella dell’obbediente sottomissione.Ingenui come gli svizzeri, anche i valsusini hanno obiettato, appellandosi alla ragione, ancora confidando in Galileo. Promossero studi, scovarono prove, sfilarono in cortei. Brandendo Copernico, nel lontano 2005 si accamparono in massa sui prati destinati al primo cantiere. Intervenne il governo, che li disperse con la forza (spedendoli all’ospedale). Poi cambiò il governo, ma non la teologia: anche per Prodi, come per Berlusconi, la Terra era sempre piatta e assolutamente immobile. Seguirono ancora Berlusconi, poi Monti, poi Letta, poi Renzi. Tutti devoti alla religione di Tolomeo. Nel frattempo, la situazione non fece che peggiorare: fu introdotto stabilmente il germe dell’ostilità, per coltivare con profitto il carburante della rabbia, foriero di nefaste conseguenze – per la plebe, non certo per gli arconti, i re-sacerdoti, i custodi del Sacro Tav. Ogni tanto alla plebe viene concesso qualche effimero sollievo (il voto, persino il referendum), ma l’impianto teologale resta là, granitico, immutabile. E’ sempre lui, il Signore della Banca, a stabilire il prezzo dei sudditi, inclusi i servitori intermedi e le loro precarie carriere.Così, la Talpa tolemaica ancora scava la sua buia galleria – tunnel geognostico, lo chiamano. Fin dove arriverà, nel suo slancio metafisico? Un tempo, l’antica cosmogonia del Tav ne attestava l’origine divina: sarebbe stato il segmento alpino di un Sommo Disegno, chiaramente provvidenziale, destinato a unire l’Atlantico al Mar della Cina: non più semplici sudditi, gli abitanti dell’area interessata dai futuri cantieri, ma entusiasti neo-cittadini, viaggianti, di una nuova repubblica onirica, la Tratta Kiev-Lisbona. Forse c’è stato qualche contrattempo (provvidenziale, anche quello) se oggi il mezzo di trasporto più in voga è diventato il barcone, la scialuppa. Ma guai a sottovalutare il Disegno: la Talpa è inarrestabile, può raggiungere qualsiasi latitudine sotterranea, dal Celeste Impero al Cremlino. Può scavare anche il fondale oceanico e raggiungere le lontane Americhe. Purché non sbuchi, per errore, alla Casa Bianca – a quel punto, forse, con un tweet, persino il Sacro Tav potrebbe fare la fine dell’F-35. Ma l’America è lontana, cantava qualcuno. E, da questa parte dell’Atlantico, nessuno – nemmeno a Roma, tra i più accesi outsider del Parlamento – ha ancora osato sfidare, per davvero, la teologia di Tolomeo e il feudalesimo dei nuovi Elohim, che s’illuminano d’immenso davanti al terminale elettronico che decreta vita e morte, il destino di interi bilanci, la fortuna e la rovina di interi popoli, a lungo illusi da un sogno chiamato democrazia.Più inafferrabile del Sacro Graal, più misterioso della Pietra Filosofale, più oscuro dei misteri di Rennes-le-Château su cui Dan Brown ha costruito il “Codice da Vinci”. Il progetto Tav Torino-Lione continua imperterrito la sua corsa ottusa e cieca, lunare, in un’Europa sempre più assurda e sempre più povera, emblema di un Occidente autistico, bellicoso e alle prese con rivolte ormai diffuse, elettorali, dalla Francia di Marine Le Pen alla Brexit, fino all’America di Trump, il presidente che con un tweet, in dieci secondi, ha messo fine persino al supremo tabù, l’intoccabile F-35, l’aereo più pazzo del mondo. Tutto cambia, velocissimamente, tranne una cosa: l’aristotelico Tav della valle di Susa, meno celebre dello stealth della Lockeed-Martin ma altrettanto ridicolo. Il Tav valsusino: “motore immobile”, dimostrazione tolemaica del fatto che, in fondo, la Terra è sempre stata piatta. Non gira attorno al sole, è il contrario. O meglio: può girare quanto vuole, la Terra, ma niente fermerà il sacro mostro ammazza-bilanci e sventra-montagne. Lo sanno tutti, da sempre: quel treno non servirà mai a nessuno, tranne ai Re Mida del denaro pubblico che forse, un giorno, costruiranno la linea ferroviaria più costosa e più inutile della storia dell’umanità.