Archivio del Tag ‘raid’
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Aspettando i missili intelligenti, da Damasco alla val Susa
L’ultimo giorno del mese di agosto del 2013 ci sveglia con un’impressione che sa già di settembre. L’aria è tersa e il cielo blu come solo in certe giornate di vento forte, ma si avverte appena un po’ di brezza. Una lunga nuvola, bianca, si solleva dai pascoli più alti e verticali a far da collana alle cime del Massiccio d’Ambin, prologo delle Alpi francesi. Ma se si abbassa lo sguardo al piano stradale sembrerebbe piena estate: molte saracinesche ancora abbassate, qualche turista mattiniero sorseggia lentamente un cappuccino per portarsi oltralpe l’aroma del caffé italiano… Alle nostre latitudini fa così tutti gli anni: i primi temporali si sono portati via il “caldo africano” (un’ondata che quest’anno è stata breve ma particolarmente intensa). Ma l’Africa incombe. Il suo nord tumultuoso, la tormentata terra di tutti e di nessuno che una volta chiamavamo medio oriente ribolle di giovani che danno vita a primavere ormai ricorrenti anche se i vecchi tentano di congelarli in un inverno arido come il deserto che li circonda. Un inverno innaturale, ardente, e le cui fiamme paiono divampare per un turno stabilito dal dio dei piromani, mandando in cenere – una dopo l’altra – le culle della civiltà euromediterranea. Oggi tocca alla Siria.
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Siria, come regalare il Medio Oriente a sauditi e terroristi
E’ il 1990 quando la giovane kuwaitiana Nayirah racconta di aver aver visto i soldati iracheni «strappare i bambini dalle incubatrici per lasciarli morire sul pavimento». Indignazione mondiale, rafforzata dalla conferma di Amnesty International. Quanto basta a George Bush per scatenare la prima guerra contro Saddam. Poi, a cose fatte, si scopre che quella testimonianza era falsa, inventata di sana pianta: i soldati iracheni non avevano mai allungato le mani sui neonati. Peggio: la giovane “testimone” Nayirah al-Sabah era in realtà la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano, e aveva «recitato un pezzo preparato dalla società di comunicazione Hill & Knowlton, ingaggiata dall’emirato per favorire la liberazione del paese». Ancor più celebre, ricorda il condirettore di “Geopolitica”, Daniele Scalea, è il caso delle “armi di distruzione di massa” attribuite all’Iraq, cioè il casus belli la seconda Guerra del Golfo, nel 2003. Un copione che ricorda quello di oggi a Damasco: gli ispettori Onu che non trovano prove di responsabilità e Washington che punta sull’uso unilaterale della forza.
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Fisk: bugiardi stragisti siamo noi, e il vero bersaglio è l’Iran
«Prima che la più stupida guerra occidentale nella storia del mondo moderno abbia inizio – avverte Robert Fisk – potrebbe essere bene dire che i missili cruise, che fiduciosamente ci attendiamo che si scaglino su una delle città più antiche dell’umanità, non hanno assolutamente nulla a che fare con la Siria: sono destinati a danneggiare l’Iran». Per lo storico inviato britannico, i missili in partenza «sono destinati a colpire la repubblica islamica, ora che ha un nuovo e brillante presidente – a differenza di quel picchiatello di Mahmoud Ahmadinejad – proprio nel momento in cui potrebbe essere appena più stabile». Spiegazione: «L’Iran è il nemico di Israele», quindi è «“naturalmente” nemico dell’America: perciò si sparano i missili contro l’unico alleato arabo dell’Iran». Perché il raid proprio adesso? Perché «lo spietato esercito di Bashar al-Assad potrebbe essere proprio in procinto di vincere contro i ribelli che noi segretamente armiamo».
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Così Obama disonora la memoria di Martin Luther King
Le differenze tra Martin Luther King e Barack Obama non potrebbero essere più evidenti: «L’unica cosa che hanno in comune è il colore della pelle», sentenzia Tony Cartalucci, anche se «i canali d’informazione occidentali sono riusciti a tracciare delle linee di congiunzione tra queste due figure diametralmente opposte». Con la sua apparizione al Memoriale di Lincoln, secondo l’Associated Press l’attuale presidente Usa «era certo di rappresentare la realizzazione del sogno di centinaia di migliaia di persone che manifestarono lì nel lontano 1963», perché Obama «incarna il sogno e la lotta di King». Solo perché è nero, obietta Cartalucci, «o perché interpreta davvero quegli ideali di giustizia, uguaglianza e pace per cui Martin Luther King Jr. si è battuto durante tutta la sua vita e per i quali è morto?». Risposta: «Non esiste modo peggiore di offendere la memoria di Martin Luther King di quello di paragonarlo al presidente Obama, servo di un meccanismo che produce le più gravi disuguaglianze e ingiustizie sulla Terra, alimentato proprio da quegli “interessi corporativi” tanto avversati da King in tutta la sua vita e a causa dei quali probabilmente fu ucciso».
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Missili? No, grazie. L’opinione pubblica boccia la guerra
La rottura ormai consumata tra governi e governati dell’Occidente non potrebbe essere più netta di così: dopo sette giorni di intensissima indignazione mondiale a comando – con ogni tipo di media – per “l’esecrabile infamia” attribuita a Bashar el Assad, le percentuali di cittadini contrari all’intervento militare punitivo in Siria non sono cambiate: negli Stati Uniti i contrari sono il 70% (Pew research) e in Francia il 59% (Ifop). I dati italiani e inglesi non sono stati divulgati. L’assalto dei presidenti-sceriffi al necessario consenso delle rispettive opinioni pubbliche è fallito. L’opzione militare diventa politicamente impraticabile, oltre che strategicamente pericolosa, tatticamente inutile, umanamente crudele e giuridicamente precipitosa e infondata. La credibilità degli apparati di comunicazione e costruzione del consenso dei governi occidentali è ormai vicina allo zero.
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Meyssan: ma gli occidentali sono pronti a colpire Damasco?
Chi ha usato le armi chimiche alla periferia di Damasco il 21 agosto 2013? Riuniti in emergenza all’Onu su richiesta degli occidentali, racconta il giornalista francese Thierry Meyssan, gli ambasciatori sono rimasti sorpresi nel vedere il loro collega russo presentar loro delle foto satellitari che mostrano il tiro di due obici alle ore 01:35 del mattino, dalla zona ribelle di Duma verso le zone ribelli colpite dai gas, cioè Jobar e l’area compresa tra Arbin e Zamalka, in orari coincidenti con la strage. Le foto, aggiunge Meyssan, non ci consentono di sapere se quei cannoni fossero stati dotati di proiettili chimici, ma lasciano pensare che la “Brigata dell’Islam” che occupa Duma abbia preso ben tre piccioni con una fava: rimuovere il sostegno dei suoi rivali in seno all’opposizione, far accusare la Siria di aver fatto ricorso alle armi chimiche e interrompere l’offensiva dell’esercito siriano volta a liberare la capitale.
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Pentagono 2011: un bel massacro, poi l’attacco alla Siria
«Niente raid aerei, a meno che i media non si interessino ad un massacro, come fu a Bengasi per la Libia». Era solo il 2011, ma i cialtroni stragisti della “guerra umanitaria”, a porte chiuse, parlavano così. Volevano il massacro? Eccolo: è la carneficina dei bambini soffocati dai gas tossici, sparati non si sa ancora da chi ma più che sufficienti a invadere i media di immagini spaventose. Quelli che oggi fingono di commuoversi per quei bambini sono gli stessi che, già due anni fa, avevano accuratamente pianificato l’invasione della Siria, “scudo” occidentale dell’Iran e, probabilmente, ultimo baluardo del mondo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale. «Per tutti quelli che sono rimasti scioccati dallo “sviluppo degli eventi” in Siria – scrive Tyler Durden – ecco il resoconto completo di come tutto è stato orchestrato nel 2011», e poi divulgato l’anno seguente da WikiLeaks. Sul blog “Zero Hedge”, Durden pubblica il report di una riunione strategica di due anni fa, nella quale al Pentagono si lascia intendere che forze Usa sono già “sul terreno”, per destabilizzare il regime di Assad e trasformare la Siria in un mattatoio. Obiettivo: preparare lo scenario che, due anni dopo, renderà “inevitabile” quello che l’ipocrisia dei media chiama ancora “intervento umanitario”.
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Gaza era solo un test: e Hamas ha allontanato la guerra
Finora, gli israeliani hanno “scherzato”: 175 morti e 1.400 feriti, in otto giorni di raid missilistici su Gaza, sono il bilancio di un semplice test per la guerra vera, quella contro l’Iran. La pioggia di missili sui civili palestinesi? Non è stata una rappresaglia, ma un piano calcolato: lo Stato ebraico voleva essere colpito dai razzi di Hamas, per poi poter “rispondere al fuoco” e, soprattutto, valutare l’efficacia del suo nuovo sistema anti-missile. Proprio per questo motivo, lo scontro non è cominciato a Gaza, ma nel cuore dell’Africa, in Sudan: dove – giorni prima – quattro cacciabombardieri israeliani avrebbero distrutto un deposito di missili a medio raggio “Fajr”, di fabbricazione iraniana, destinati ad Hamas. La denuncia proviene dallo stesso governo sudanese, ed è stata poi confermata da fonti ufficiose americane e di Gerusalemme. Obiettivo dei militari israeliani: testare, sulla pelle dei palestinesi, le nuove armi puntate contro l’Iran e le proprie capacità di difesa. Risultato, Israele non è intoccabile: dunque i razzi di Hamas hanno ritardato la “grande guerra”?
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Missili, alba di guerra: Mosca si prepara a difendere la Siria
Missili russi S-300 per difendere la Siria da un attacco occidentale, motivato da ragioni “umanitarie” e giudicato ormai imminente. Se Damasco rappresenta l’anticamera dell’assalto finale all’Iran, da Mosca arriva l’avvertimento più esplicito: giù le mani dalla Siria. Rimasta passiva nella guerra in Iraq e poi nell’operazione che in Libia ha condotto alla caduta di Gheddafi, stavolta la Russia non resterà alla finestra: «Mosca considera un attacco occidentale contro la Siria come una “linea rossa” che non tollererà», riferisce Arutz Sheva sul giornale londinese in lingua araba “Al Quds Al-Arabi”, citando fonti siriane e russe e confermando le notizie delle ultime ore: la marina da guerra di Mosca è già in Siria e sta trasferendo a Damasco importanti installazioni missilistiche contro una eventuale “no fly zone”.
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Israele gela il mondo: la guerra con l’Iran è vicinissima
Tempo scaduto: tra poco parleranno le armi? Contro l’Iran, nel mirino per il suo programma nucleare, potrebbe scatenarsi la “madre di tutte le guerre”, aperta da un raid aereo e missilistico entro pochi mesi se l’Aiea denuncerà la preparazione di bombe atomiche. Esplicito il presidente israeliano, Shimon Peres: conto alla rovescia ormai imminente. E’ la conferma di un pericolo reale, denunciato con insistenza da analisti come il canadese Michel Chossudovsky: «La terza guerra mondiale non è mai stata così vicina». Liquidato Gheddafi e neutralizzato Assad, la Nato è padrona del Mediterraneo e il regime di Teheran appare isolato: mentre l’Unesco pensa di inserire la Palestina nel patrimonio dell’umanità, Israele testa nuovi missili e organizza war games in Sardegna. E anche gli inglesi tifano per la guerra, che Obama sperava di riuscire almeno a rinviare.
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Terrore a Misurata: ribelli a mani nude contro i tank
Una città allo stremo, assediata e terrorizzata da cecchini, carri armati e cannonate, con migliaia di lavoratori stranieri intrappolati al porto e nessuno che intervenga a salvarli. E’ il dramma di Misurata, terza città della Libia, unico caposaldo dell’ovest del paese ancora in mano ai ribelli: che sono pochi e male armati, spesso solo di bombe molotov, con cui sperano di fermare i tank di Gheddafi già penetrati nei quartieri centrali, al riparo dai raid aerei che non li colpiscono per paura di far strage di civili. E’ il drammatico racconto del fotogiornalista Alfredo Bini, che è riuscito a raggiungere Misurata: «La situazione è drammatica e l’impatto sulla popolazione civile è difficile da descrivere».
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Libia, war game: raid franco-inglesi già pronti dal 2010
C’è un dittatore feroce, che regna col terrore su un “paese del sud”. Un giorno il dittatore cede il potere al figlio, e la situazione peggiora ulteriormente. A quel punto, entrano in azione i “buoni”, Francia e Gran Bretagna: che, con mirati raid aerei, intervengono per fermare i tiranni, padre e figlio. Gheddafi? Mubarak? Chi può dirlo. Il “paese del sud” si chiama semplicemente Southland, e figura in una sorta di war game presentato su un sito web dell’aviazione francese, che – si apprende – fin dal 2010 si addestrava, insieme a quella inglese, per un’evenienza del genere. «L’attacco franco-britannico contro la Libia – ne deducono Pino Cabras e Giulietto Chiesa – pare non avesse niente a che fare con operazioni umanitarie di sorta».